Medioevo n. 325, Febbraio 2024

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MEDIOEVO n. 325 FEBBRAIO 2024

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SOMMARIO

Febbraio 2024 ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE Quello vero è uno solo, ma che non se ne parli piú! di Federico Canaccini

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Rivoluzione sistina

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MOSTRE Il re del mondo

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Campania Il doppio volto di un castrum

STORIE MONTERIGGIONI «…come sulla cerchia tonda, Moteriggion di torri si corona…»

di Marco Ambrogi

di Giacomo Baldini e Marco Valenti, con contributi di Cristina Menghini e Carla Palmas 24

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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Tutti i modi per «graffiare» la terra di Sergio G. Grasso 98

IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/13 Beati (quasi tutti) gli ultimi di Corrado Occhipinti Confalonieri

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QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI La leggenda del santo cacciatore di Paolo Pinti 104 LIBRI Rinascimento noir Lo Scaffale

VALDESI La vera storia dei Poveri di Lione testi di Francesca Tasca, Marco Fratini, Daniel Toti, Samuele Tourn Boncoeur e Davide Rosso 59

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COSTUME E SOCIETÀ

Dossier

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MEDIOEVO n. 325 FEBBRAIO 2024

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MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 325 - febbraio 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Marco Ambrogi è direttore dei Musei della Diocesi di Teggiano-Policastro. Giacomo Baldini è direttore dei Musei Civici di Colle di Val d’Elsa e coordinatore del progetto del MAMMuseo Archeologico di Monteriggioni. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Marco Fratini è storico dell’arte e bibliotecario presso la Fondazione Centro culturale valdese. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Cristina Menghini è assegnista di ricerca presso la cattedra di archeologia medievale dell’Università degli Studi di Siena. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Carla Palmas è iscritta al dottorato di ricerca nazionale in Heritage Science-Sapienza Università di Roma. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Davide Rosso è direttore della Fondazione Centro culturale valdese. Francesca Tasca è dottoressa di ricerca in storia della Chiesa medievale e dei movimenti ereticali presso l’Università di Padova. Daniel Toti è dottore di ricerca in storia, cultura e teorie della società e delle istituzioni presso l’Università degli Studi di Milano. Samuele Tourn Boncoeur è conservatore presso la Fondazione Centro culturale valdese. Marco Valenti è professore ordinario di archeologia medievale presso l’Università degli Studi di Siena. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 46/47, 80/81, 86/87 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 5, 48, 98; Electa/Antonio Quattrone: p. 49; Album/ Prisma: p. 50; Art Media/Heritage-Images: pp. 52/53; Darchivio/opale.photo: p. 84 (basso); Album/Fine Art Images: pp. 100/101 (alto); Album/Collection JeanVigne/ Kharbine-Tapabor: pp. 101, 102 (basso), 103; Album/ Kurwenal/Prisma: p. 102 (alto) – Cortesia Maria Chiara Salvanelli-Press Office & Communication: pp. 6-8 – Cortesia Alambret Communication: pp. 10-13 – Fabio Muzzi: pp. 24/25, 26/27, 43 – Società Monteriggioni AD 1213 srl: pp. 26, 28, 36/37; Marzia Verdicchio: pp. 37 (alto e destra), 42; Marzia Verdicchio; Stefano Ricci: p. 39 – Michele Bassi/LIAAM-Laboratorio di informatica applicata all’archeologia medievale-Università degli Studi di Siena: pp. 28/29 – da: Monteriggioni prima del Castello. Una comunità etrusca in Valdelsa, 2019: p. 30 (sinistra) – Cristina Menghini: pp. 30 (destra), 31 – Luca Betti: pp. 32-33 – Stefano Bertoldi/LIAAM-Laboratorio di informatica applicata all’archeologia medievaleUniversità degli Studi di Siena: pp. 34 (alto), 38, 40/41 – Simone Boni, Studio InkLink Firenze: p. 34 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 35, 59, 60-61, 63, 64-79, 80, 104-106 – Carla Palmas: pp. 40, 41 (alto) – Doc. red.: pp. 50/51, 54-55, 56, 85, 99, 100/101 (centro) – Nicoletta Favout: p. 82 – Daniele Vola: p. 83 – Davide Rosso: p. 84 (alto) – Marco Ambrogi: pp. 88 (basso), 89, 90-91, 92, 93 (basso), 94-97 – Stefano Mammini: p. 109 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 27, 88.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina veduta del Castello di Monteriggioni (Siena), chiuso nella sua «corona» di mura, intervallate da torri.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente viaggi

Sulle orme di Dante

medioevo nascosto

Il millennio di Monfalcone

dossier

Firenze: gli Statuti della Repubblica


LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

FEBBRAIO

Quello vero è uno solo, ma che non se ne parli piú!

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ispettando le prescrizioni del Libro dell’Esodo, dopo quaranta giorni dalla nascita, anche Gesú, come tutti i maschi primogeniti, fu presentato al Tempio per riscattarlo con un’offerta in denaro: la Sacra Famiglia si recò a Gerusalemme dove, come riferisce l’evangelista Luca, incontrò i profeti Anna e Simeone. Non era però questo il primo atto ufficiale a cui il bambino partecipava: otto giorni dopo essere venuto al mondo, infatti, Gesú era entrato giuridicamente a far parte del popolo ebraico tramite il rito del Berit Milah, cioé la circoncisione. Come tutti i neonati ebrei, anche il figlio di Dio fu circonciso dinnanzi a parenti e amici da un mohel, un medico specializzato che rimosse il prepuzio, una delle rarissime reliquie del corpo di Gesú rimaste sulla terra dopo la sua Resurrezione: in un Vangelo apocrifo, infatti, si narra che il prepuzio sarebbe stato custodito da Maria e successivamente affidato alla Maddalena. Superati i primi secoli della storia della Chiesa, il Santo Prepuzio apparve per la prima volta ai tempi di Carlo Magno, il quale, dopo averlo ricevuto in dono da un angelo mentre pregava ad Aquisgrana, lo offrí a Leone III: la reliquia fu posta nel Sancta Sanctorum della basilica lateranense assieme ad altri resti miracolosi. A seguito delle crociate, il mercato delle reliquie raggiunse il suo apice e in piú luoghi comparvero diversi Santi Prepuzi: Baldovino di Boulogne (1058-1118) – fratello di Goffredo di Buglione – ne donò uno che ad Anversa stillò tre gocce di sangue, macchiando il telo dell’altare mentre il vescovo di Cambrai stava officiando. Per conservare il prepuzio e il tessuto con questo inedito sangue di Cristo, fu edificata una chiesa, che divenne méta di processioni e pellegrinaggi. Ben presto iniziarono ad apparire reliquie analoghe a Santiago di Compostella, Besançon, Metz, Hildesheim e in molti altri luoghi, raggiungendo il numero considerevole di ben 14 Santi Prepuzi! Nel 1421, Enrico V – il campione di Azincourt – non ebbe remore a impossessarsene di uno per usarlo come rimedio per l’infertilità della moglie, Caterina di Valois. E miracolosamente, dopo aver celebrato un rito non meglio identificato, nacque un erede, maschio per giunta! Il Santo Prepuzio originale, cioè quello custodito in Laterano, riapparve in età moderna nel borgo di Calcata

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Circoncisione di Cristo, pittura murale. XVII sec. (?). Cahors, cattedrale di S. Stefano, cappella della Notre-Dame. (Viterbo): secondo la tradizione vi sarebbe stato portato da un lanzichenecco, che aveva trafugato la cassetta che lo custodiva – ignorandone il contenuto – durante il Sacco di Roma del 1527. Con la Rivoluzione Francese e la conseguente opera di scristianizzazione del Paese transalpino, quello di Calcata rimase l’unico Prepuzio, finché, nel 1856, dopo l’abbattimento di un muro nell’abbazia di Charroux, venne alla luce un nuovo concorrente: la Chiesa post-rivoluzionaria prese però subito le distanze. Nel XIX secolo non era plausibile che una reliquia avesse un doppione e per questo il Vaticano iniziò a ignorare il controverso reperto: nel 1900 la Congregazione per la Dottrina della Fede minacciò la scomunica per chi avesse toccato l’argomento, e Pio XII rafforzò la misura, dichiarando «vitandi» («da evitare», qualifica che nel diritto canonico si applica a chi venga colpito dalla scomunica maggiore, n.d.r.) quanti ne avessero parlato. Il Concilio Vaticano II soppresse la festività dal calendario liturgico e infine, nel 1983, la reliquia di Calcata venne misteriosamente trafugata e, da allora, mai piú ritrovata.

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il medioevo in

rima

agina

Rivoluzione sistina MOSTRE • Salito al soglio di

Pietro nel 1585, Sisto V volle ridisegnare il volto di Roma, avviando un vasto e ambizioso programma di rinnovamento urbanistico. Ora raccontato e documentato dall’esposizione allestita a Montalto delle Marche

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ra il 1585 e il 1590, Roma assunse un nuovo volto: in quel quinquennio, infatti, si mise mano alla complessa renovatio urbis promossa dal papa marchigiano Sisto V (al secolo, Felice Peretti; 1520 o 15211590), un’operazione che elesse la Città Eterna a modello di riferimento per il rinnovamento urbanistico attuato nei secoli successivi in varie capitali europee. Reso possibile grazie alla competenza dell’architetto Domenico Fontana e di una folta schiera di pittori, scultori, stuccatori, richiamati a Roma da tutte le città d’Italia, il progetto interessò la costruzione di alcuni capisaldi della centralità direttiva – Villa Montalto, il Palazzo Lateranense, il Palazzo del Quirinale, il Palazzo Nuovo Vaticano, la Biblioteca Vaticana – e dell’idea religiosa del pontefice – Cappella Sistina, Cupola di S. Pietro, S. Girolamo degli Schiavoni –, oltre che vie di passaggio, come la via Felice e la strada di San Giovanni, e spazi urbani articolati intorno agli obelischi, alle colonne, alle fontane. Infine, le decorazioni pittoriche delle decine di migliaia di metri quadrati delle nuove pareti e delle nuove volte in cui trascrivere le pagine mirabolanti della «Bibbia sistina». Questa strarodinaria vicenda viene ora ripercorsa e documentata dalla mostra «La nascita di una metropoli: Roma al tempo di Sisto V», allestita a Montalto delle Marche (Ascoli Pice-

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L’architetto Domenico Fontana (1543-1607), primo artefice del progetto di rinnovamento urbanisitico di Roma voluto da papa Sisto V, ritratto sul frontespizio dell’opera Della trasportatione dell’obelisco Vaticano et delle fabriche di nostro signore papa Sisto V fatte dal cavallier D. F. architetto di Sua Santità, pubblicata a Roma nel 1590. febbraio

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no), negli spazi di Palazzo Paradisi, e articolata in quattro sezioni tematiche. La prima, dedicata piú in generale alla celebrazione delle imprese sistine, prende le mosse dal raro testo a stampa del 1591 in cui Baldo Catani descrisse la pompa funebre e gli apparati effimeri predisposti in occasione della traslazione della salma di Sisto V, offrendo una sintesi delle operazioni urbanistiche realizzate a Roma durante gli anni del pontificato sistino rappresentate nel catafalco funebre fatto predisporre in quella occasione dal cardinale Alessandro di Montalto.

Un complesso grandioso La seconda sezione si sofferma invece sulla residenza romana del pontefice, Villa Montalto. Distrutta sul finire del XIX secolo per fare spazio alla costruzione della Stazione Termini, la villa che Sisto V, prima ancora di salire al soglio di Pietro, aveva fatto realizzare per sé e per la propria famiglia rappresentava una summa delle ambizioni del pontefice. Attraverso descrizioni e fotografie d’epoca riprese prima della demolizione saranno mostrati gli edifici, le fontane, i giardini che circondavano la residenza formando un complesso edilizio

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di straordinaria grandezza. Inoltre, in ricordo dei fastosi cicli pittorici delle sale interne che celebravano la figura del pontefice e le sue imprese, sono presentati in mostra per la prima volta due affreschi che facevano parte della decorazione del salone centrale della Villa Montalto, strappati in occasione della demolizione dell’edificio e recentemente recuperati presso una collezione privata romana. La terza sezione analizza le basiliche di S. Pietro, di S. Giovanni in Laterano e di S. Maria Maggiore, che furono oggetto di una significativa operazione di restyling. A testimonianza, viene esposto per la prima volta il modello realizzato dal pittore Ferraú Fenzoni per una delle scene affrescate sulle pareti della Scala Santa, impresa pittorica di grande impegno diretta da Cesare Nebbia e Giovanni Guerra. I due busti reliquiario dei santi Pietro e Paolo fatti esporre da Sisto V nel Sancta Santorum, dispersi in età napoleonica, sono invece documentati attraverso due inediti dipinti conservati presso la Pinacoteca Civica di Treia, che testimoniano la predilezione espressa da Sisto V per la opulenza degli arredi liturgici valorizzati da smalti e pietre preziose, confermata anche dalla scelta di donare alla città di Montalto il reliquiario

Giardino dell’Ill. mo Card. Montalto, calcografia di Gottfredus de Scaichi. 1600 circa. Salisburgo, Biblioteca Universitaria.

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Raffigurazioni allegoriche della Giustizia e della Gratitudine, rispettivamente attribuite a Paris Nogari (detto Paris Romano) e a un pittore romano della seconda metà del XVI sec., da Villa Peretti.

già appartenuto al cardinale Barbo, esposto anch’esso a Palazzo Paradisi, insieme a un raffinato paramento donato dal pontefice alla sua città. Dalla Biblioteca Comunale R. Spezioli di Fermo giungono invece preziose incisioni che illustrano il sacello di Sisto V in S. Maria Maggiore realizzate nel 1621 e tratte dal testo di Paolo De Angelis Basilicae S.Mariae Maioris, dato alle stampe a Roma presso Bartolomeo Zanetti.

Simbolo della cristianità Infine, l’ultima sezione approfondisce i rinnovamenti urbanistici attuati da Sisto V, tra cui la costruzione di ampie vie rettilinee, di obelischi destinati a segnalare i luoghi piú significativi dell’Urbe e il restauro delle colonne centenarie di Traiano e di Marco Aurelio per riconvertirle a simboli della vittoria del cristianesimo sul paganesimo. In esposizione, una grande pianta di Roma mette in evidenza i molteplici luoghi nei quali l’intervento sistino ha inciso in modo determinante nella definizione di una nuova città destinata a divenire il simbolo stesso della

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DOVE E QUANDO

«La nascita di una metropoli: Roma al tempo di Sisto V» Montalto delle Marche (AP), Palazzo Paradisi fino al 31 marzo Info tel. 0736 828015; @visitmontaltomarche cristianità. Inoltre, una serie di stampe sei e settecentesche illustrano i luoghi della città eterna piú fortemente caratterizzati dalla volontà di Sisto V di affermare il nuovo ruolo dell’Urbe. Del percorso espositivo della mostra inoltre costituiranno parte integrante le sezioni dedicate al reliquiario di Montalto e alle medaglie sistine già allestite all’interno di Palazzo Paradisi. Si aggiunge a supporto un filmato realizzato attraverso l’uso di droni e di altri accorgimenti tecnici che aiuta nella difficile restituzione della complessità dei molti interventi urbanistici ed edilizi. (red.) febbraio

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ANTE PRIMA

Il re del mondo MOSTRE • Nella seconda metà del Trecento l’impero

mongolo arrivò a controllare quasi per intero il continente asiatico e le sue mire espansionistiche misero in allarme l’Occidente. Un’ascesa che per alcuni decenni parve inarrestabile e alla cui origine vi furono le imprese di Gengis Khan, ora protagonista della rassegna allestita nel castello dei duchi di Bretagna a Nantes, in Francia

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Particolare di una daga in bronzo, dalla regione di Bayankhongor. 2500-1800 a.C. Mongolia, Collezione Erdennechuluun Purevjav & Nemekhbayar Nadpurev.

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ra il 1253 e il 1254 il frate francescano ed esploratore fiammingo Guglielmo di Rubruck compí un lungo viaggio in Asia, del quale scrisse un mirabile resoconto, tuttora considerato fra i capolavori della letteratura geografica medievale. Fra le mete toccate da Guglielmo vi fu la Mongolia, che dovette particolarmente impressionarlo, se in uno dei passi del suo racconto si può leggere: «Mi sembrò di essere davvero entrato in un altro mondo». Parole significative, inserite fra le citazioni che corredano il percorso espositivo della mostra «Gengis Khan. Come i Mongoli hanno cambiato il mondo», in corso fino al prossimo 5 maggio a Nantes, nei suggestivi spazi del castello dei duchi di Bretagna. Si tratta della prima esposizione mai dedicata dalla Francia a uno dei piú grandi condottieri di ogni tempo, per la quale sono giunti in Europa molti tesori provenienti dalle collezioni nazionali della Mongolia – in gran parte mai esposti in Occidente –, ai quali si aggiungono gli oggetti concessi in prestito da musei francesi ed europei, tra cui il

Musée Guimet, il Louvre, il Musée de Sèvres, la Bibliothèque Nationale de France, gli Archives Nationales de France, il Musée de Limoges, il Musée des Arts Décoratifs, il Musée de Cluny, i Musei di Berlino e Zurigo. Una selezione di prim’ordine, dunque, attraverso la quale vengono ricostruite la parabola di Gengis Khan e la storia del grande impero di cui fu artefice.

L’unificazione delle tribú Tutto ebbe inizio quando il khan Temujin, mantenendo il controllo sui clan assoggettati dal padre e avvalendosi dell’appoggio materno e della potente tribú a cui apparteneva la moglie Börte, riuscí a operare un’unificazione tra le tribú mongole. Consolidato il proprio potere, fu in grado di assoggettare tutte le popolazioni dell’alta Mongolia e all’assemblea (quriltai) del 1206 venne proclamato khaqan, cioè «supremo khan» dei Mongoli e dei loro alleati. Assunse poi il titolo onorifico con il quale è piú noto, Gengis Khan, che, secondo un’ipotesi non da tutti accolta, significherebbe «Imperatore degli oceani» od «oceanico». Fu l’inizio di un’espansione senza precedenti: dalle steppe della Mongolia all’estremo Sud della Cina, dall’Oceano Pacifico ai confini del Medio Oriente, Gengis febbraio

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In alto particolare di un bracciale in oro e lega di rame decorato con l’immagine di una fenice. XIII-XIV sec. Karakorum, Museo. A destra ritratto di Gengis Khan. Ulan Bator, Museo Nazionale.

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ANTE PRIMA Un Mongolo con il suo cavallo, dall’originale pittura su carta di Zhao Mengfu (XIV sec.), conservata nel Museo del Palazzo di Taipei. Qui sotto leone buddista in ceramica Qingbai, da Karakorum. XIV sec. Karakorum, Museo. Khan e il suo esercito avviarono la costituzione di un impero che, al suo apogeo e nell’arco di tre generazioni, giunse a controllare oltre il 22% delle terre del pianeta.

La pax mongolica Piú tardi, il nipote di Gengis Khan, Kubilai, gran khan dei Mongoli, divenne anche imperatore della Cina e fondò la dinastia Yuan, stabilendo la sua capitale a Dadu (l’attuale Pechino). Dopo anni di conquiste e spedizioni militari, l’instaurarsi della cosiddetta pax mongolica favorí lo sviluppo di proficue relazioni commerciali, scientifiche e artistiche tra l’Oriente e l’Occidente. Al di là del loro pregio, i materiali selezionati per la mostra di Nantes sono lo strumento scelto per

A sinistra elmo in ferro e cuoio. XIII-XIV sec. Mongolia, Collezione Erdennechuluun Purevjav & Nemekhbayar Nadpurev. A destra spada in bronzo con terminazione in forma di cervide. 2500-1800 a.C. Mongolia, Collezione Erdennechuluun Purevjav & Nemekhbayar Nadpurev.

DOVE E QUANDO

«Gengis Khan. Come i Mongoli hanno cambiato il mondo» Nantes, Château des ducs de Bretagne-Musée d’histoire de Nantes fino al 5 maggio Info www.chateaunantes.fr

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In alto Kubilai Khan a caccia, dipinto su seta, copia dall’originale (XIV sec.) del Museo del Palazzo di Taipei. A destra ritratto di Gengis Khan dipinto su seta, copia dall’originale (XIV sec.) del Museo del Palazzo di Taipei. veicolare risposte convincenti ad alcuni dei maggiori interrogativi che, da sempre, sono sorti all’indomani degli eventi di cui Gengis Khan e il popolo mongolo si resero protagonisti. Molti dei quali condizionati dalla percezione che si ebbe all’epoca delle loro imprese, prima fra tutte la vulgata – suggerita dalle cronache del tempo – secondo la quale le genti della steppa non sarebbero state altro che barbari sanguinari. Una visione oggi superata e alla quale si oppone proprio l’idea sintetizzata dal sottotitolo dell’esposizione, cioè quella che l’affacciarsi dei Mongoli alla ribalta della storia abbia contribuito a «cambiare il mondo», grazie agli apporti di una cultura tutt’altro che rozza. In questo senso, uno dei meriti principali del progetto

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espositivo realizzato a Nantes è il superamento dei due ostacoli principali che si sono frapposti ai tentativi di scrivere la storia dell’impero mongolo: l’immagine del guerriero brutale e sanguinario, alimentata da una storiografia ostile e dal cinema, e quella del nomade pacifico nella sua immutabile steppa, veicolata dal turismo contemporaneo.

La testimonianza di Marco Polo La realtà storica è ben diversa e assai piú complessa e, grazie al contributo di studi e riletture recenti, vengono sottolineate le interazioni dell’impero mongolo con le altre potenze dell’epoca, in particolare con il regno di Francia. Del resto, fu proprio un Europeo, Marco Polo a sintetizzare con efficacia il significato dell’incontro

fra l’Occidente e l’Oriente, e dunque anche con la Mongolia, scrivendo un’opera, Il Milione, che godette di una straordinaria diffusione in tutto il Vecchio Continente. Merita infine d’essere segnalato che l’esposizione è accompagnata da una ricca programmazione culturale, ideata allo scopo di far scoprire la Mongolia contemporanea. Vi sono dunque in calendario eventi legati al cinema, alla musica contemporanea e tradizionale, alla narrazione, alla danza contemporanea, alla cultura popolare, ai giochi tradizionali mongoli, alle tradizioni culinarie, alla calligrafia, alla storia, alla letteratura e alla fotografia. E, dopo Nantes, la mostra verrà presentata anche a Ulan Bator, capitale della repubblica mongola. (red.)

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AGENDA DEL MESE

Mostre VENEZIA ARTE RITROVATA. RITORNI IN LAGUNA Museo di Palazzo Grimani fino al 25 febbraio

Arte Ritrovata. Ritorni in Laguna documenta vicende di recupero e restituzione di beni culturali, al fine di sottolineare la virtuosa collaborazione tra il Comando Carabinieri TPC e gli istituti del Ministero della Cultura che si adoperano per identificare, salvaguardare e valorizzare le opere sottratte al patrimonio, in particolare nel territorio della città metropolitana di Venezia. L’esposizione illustra diverse casistiche di reato – dalla falsificazione all’esportazione illecita, dagli scavi clandestini alle frodi – e presenta dunque un insieme diversificato di oggetti, da reperti archeologici di varie epoche e provenienze a opere pittoriche di età moderna, attribuite ad artisti di primaria importanza come, tra gli altri, Giandomenico Tiepolo. Ai pezzi originali sono affiancati una serie di falsi, in un allestimento che stimola il confronto e la curiosità, invitando a osservare quanto mostrato immedesimandosi con le figure professionali che ne hanno permesso il recupero, ritrovando cosí, come il titolo della mostra vuole

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a cura di Stefano Mammini

esprimere, il legame con testimonianze millenarie del nostro patrimonio culturale. info tel. 041 2411507; e-mail: drm-ven.grimani@cultura.gov.it; www.polomusealeveneto. beniculturali.it; Facebook: @palazzogrimani; X: @PalazzoGrimani; Instagram: @museopalazzogrimani VERBANIA VERONESE SUL LAGO MAGGIORE. STORIA DI UNA COLLEZIONE Museo del Paesaggio fino al 25 febbraio

d’arte alle pareti sono caratterizzati da un forte gusto neorinascimentale. Nel 1977 la Villa viene destinata alla Regione Piemonte. Cristina Moro nel 2014 ritrova due opere di soggetto allegorico attribuite alla «Scuola di Veronese» che a un piú attento esame si mostrano riconducibili alla mano del maestro stesso. E proprio da qui parte la mostra. info tel. 0323 502254; e-mail: segreteria@museodelpaesaggio.it; www.museodelpaesaggio.it LECCO IL MISTERO DEL PADRE. IL SEGNO DI MICHELANGELO Palazzo delle Paure fino al 3 marzo

Protagonisti dell’evento espositivo sono il disegno del Sacrificio di Isacco, realizzato da Michelangelo Buonarroti intorno al 1530, il dipinto di Giuseppe Vermiglio Sacrificio di Isacco e le copie in bronzo delle due formelle a rilievo create nel 1401 da Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti del medesimo soggetto. Le opere sono state scelte per riflettere il tema della centralità della paternità di Dio Sono riuniti nel Palazzo Viani Dugnani di Verbania due capolavori cinquecenteschi di Paolo Veronese – una coppia di importanti Allegorie –, arricchiti dalla storia del loro ritrovamento e dalla descrizione del loro luogo di provenienza: Villa San Remigio, di proprietà del Marchese Silvio della Valle di Casanova e di sua moglie Sophie Browne. Il complesso comprende un ampio giardino disposto su terrazze e una villa su due piani. Il piano rialzato dell’abitazione richiama una dimora signorile del Cinquecento: gli ambienti interni, gli arredi e le opere

nel Natale. Una riflessione che ha preso spunto da un soggetto – il Sacrificio di Isacco (Genesi 22) – che fa da ponte di collegamento tra il mistero del Natale e il mistero

della Pasqua: Gesú Cristo che nasce a Betlemme è il nuovo Isacco. Anche in termini artistici la vicenda di Abramo e di suo figlio Isacco è occasione pressoché unica di raffigurare un evento «contro natura» – il padre che accetta di sacrificare il figlio per volere di Dio – scongiurato dall’intervento di Dio stesso solo un istante prima della catastrofe. I drammi del padre e quello del figlio nell’interpretazione artistica si traducono in un groviglio di emozioni fortissime che si dipanano con i tempi dati dalla narrazione biblica. info tel. 0341 286729; e-mail: palazzopaure@comune.lecco.it FIRENZE PIER FRANCESCO FOSCHI (1502-1567) PITTORE FIORENTINO Galleria dell’Accademia fino al 10 marzo

La fortunata carriera di Pier Francesco Foschi (1502-1567) – allievo di Andrea del Sarto, che collaborò anche con Pontormo – si svolse nei decenni centrali del Cinquecento e viene ora ripercorsa dalla prima rassegna monografica dedicata all’artista. L’esposizione riunisce una quarantina di opere autografe, tra dipinti e disegni, tra cui la pala d’altare, la Sacra Famiglia con San Giovannino (1526-1530), già presente nelle collezioni della Galleria dell’Accademia di Firenze, un dipinto cruciale per capire la sua produzione giovanile e come ha fatto propri gli insegnamenti di Andrea del Sarto. Il percorso espositivo si articola in cinque sezioni, che approfondiscono i principali aspetti della sua prolifica attività, a partire proprio dalla febbraio

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astronomica. Sostenuto e pubblicato nel 1623 dall’Accademia dei Lincei, il Saggiatore fu offerto come dono augurale al neoeletto pontefice Urbano VIII e nella dedica degli accademici al pontefice si legge: «[Galileo Galilei] scopritore, non di nuove Terre; ma di non piú vedute parti del Cielo (...) di quegli splendori celesti, che maggior maraviglia sogliono apportare». Il libro nacque dalla disputa sull’origine delle comete tra Galileo e il gesuita Orazio Grassi: nell’opera venivano confutati radicalmente, in pagine destinate a rimanere memorabili, i fondamenti della filosofia scolastica sui quali

formazione presso Andrea del Sarto fino alle commissioni di grandi pale d’altare e ai numerosi ritratti, genere in cui ottenne notevole successo. Troviamo un importante nucleo di studi giovanili tratti da modelli del maestro, insieme ad accostamenti tra alcuni originali di Andrea del Sarto e le repliche che Foschi realizzò, confronti che fanno comprendere meglio la sua personalissima declinazione della maniera sartesca. L’esposizione propone anche dipinti destinati alla devozione privata di soggetto mariano, insieme a rare e preziose opere legate ai temi del Vecchio Testamento, in cui si evidenzia l’influenza del Pontormo. Per l’occasione saranno finanziati importanti restauri di alcuni dipinti del pittore fiorentino come quelli

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febbraio

nella basilica di Santo Spirito a Firenze e nella Propositura dei Ss. Antonio e Jacopo a Fivizzano. info www.galleriaaccademiafirenze. it

FIRENZE SPLENDORI CELESTI. L’OSSERVAZIONE DEL CIELO DA GALILEO ALLE ONDE GRAVITAZIONALI Complesso di S. Maria Novella, ex dormitorio fino al 17 marzo

Organizzata in occasione dei 400 anni dalla pubblicazione del Saggiatore di Galileo – opera che ha posto i fondamenti del moderno concetto di scienza, basato sull’osservazione e sulla sperimentazione – la mostra illustra le scoperte dello scienziato toscano e le nuove frontiere della ricerca

poggiavano le argomentazioni del gesuita, a cui Galileo contrappose la propria concezione di una natura organizzata sulla base di rigorosi princípi matematici che non ammettono eccezioni. Gli «splendori celesti» sono le

comete e, per estensione, i nuovi mondi che il cannocchiale di Galileo permise di vedere per la prima volta nella storia dell’umanità: le montagne della Luna, le macchie solari, le fasi di Venere, i satelliti di Giove e le infinite stelle della Via Lattea. Un nuovo sguardo sull’universo destinato a cambiare radicalmente la concezione cosmologica geocentrica a favore dell’ipotesi copernicana. info tel. 055 2989851; www.museogalileo.it; Facebook: @museogalileo; Instagram: @museogalileo BOLOGNA LIPPO DI DALMASIO E LE ARTI A BOLOGNA TRA TRE E QUATTROCENTO Museo Civico Medievale, Sale del Lapidario fino al 17 marzo

Il piú celebrato dei pittori bolognesi del tardo Medioevo, Lippo di Dalmasio viene per la prima volta scelto come protagonista di una rassegna monografica. Figlio del pittore Dalmasio (1315 circa-1374 circa) e nipote del noto artista Simone di Filippo Benvenuti, detto Simone dei Crocifissi (1330 circa–1399), Lippo appartenne alla prestigiosa famiglia ghibellina degli Scannabecchi. Come il padre, fu a lungo attivo in Toscana, a Pistoia, dove è probabile abbia intrapreso la sua attività, ottenendo le prime importanti commissioni. Attraverso l’esposizione di una quarantina

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di opere, tra dipinti, sculture e manoscritti miniati, la mostra intende ripercorrere, facendo riferimento al contesto artistico cittadino, l’attività di questo maestro su cui «grava» lo stereotipo di «pittore cristiano e devoto della Madre di Dio» nato in età di Controriforma, in parte giustificato dalla sopravvivenza di molte sue opere raffiguranti la Madonna con il Bambino. La mostra si articola in tre sezioni: Tra Bologna e Pistoia: i rapporti con l’arte toscana, Bologna 1390 e Un pittore per la città 1400-1410 verso il tardogotico. Oltre ai dipinti e agli affreschi di Lippo di Dalmasio (alcuni inediti) sono esposte in mostra anche opere di alcuni degli artisti piú rinomati a lui contemporanei – Simone dei Crocifissi, Jacopo di Paolo, Nicolò di Giacomo, Giovanni di Fra Silvestro, Don Simone Camaldolese, Lorenzo Monaco, Jacobello e Pierpaolo Dalle Masegne –, prestati per l’occasione da vari musei, biblioteche, chiese italiane e collezioni private. info tel. 051 2193923; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/ arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @ museiarteanticabologna; Twitter: @MuseiCiviciBolo CUNEO LORENZO LOTTO E PELLEGRINO TIBALDI. CAPOLAVORI DALLA SANTA CASA DI LORETO Complesso Monumentale di S. Francesco fino al 17 marzo

Il progetto espositivo è imperniato sui sette dipinti di Lorenzo Lotto che costituiscono il cosiddetto «ciclo lauretano» del pittore, disposti quando egli era ancora in vita presso la Cappella del Coro della chiesa

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di S. Maria di Loreto, e su due affreschi strappati e portati su tela di Pellegrino Tibaldi, originariamente realizzati per la Cappella di S. Giovanni della stessa chiesa lauretana. Tutte le nove opere provengono dal Museo Pontificio Santa Casa di Loreto. La mostra intende proporsi come occasione per indicare nuovi percorsi di ricerca in merito alle possibili reciproche influenze tra Lotto e Tibaldi, due artisti di differente cultura, visto il pur breve periodo condiviso dai due nel cantiere lauretano, indagato solo di recente. Se il rapporto Lotto-Tibaldi dà modo di raccontare un momento fondamentale della storia del Santuario di Loreto e insieme della storia dell’arte italiana, all’interno della mostra è altrettanto importante il richiamo alla presenza ancora oggi rilevante in Piemonte di manufatti testimonianti una diffusa, secolare e, in certi casi, artisticamente rilevante devozione mariano-lauretana. Una sezione propone infatti una mappatura territoriale dei manufatti piú significativi con l’indicazione di un itinerario utile per i visitatori che vorranno integrare e

approfondire l’esperienza vissuta in mostra. info www.fondazionecrc.it BERGAMO LE MURA NELLA STORIA. TESORI DI UNA CITTÀ-FORTEZZA DEL RINASCIMENTO Museo del Cinquecento, Palazzo del Podestà fino al 17 marzo

come espressione della cultura architettonica rinascimentale delle «fortezze alla moderna» e ancora di conoscere l’organizzazione militare della città e del suo territorio, avamposto occidentale della terraferma veneziana. L’ultima sezione conduce il visitatore nel cantiere delle Mura: qui i protagonisti sono ingegneri e architetti militari, tagliapietre e spezzamonti, marangoni e ferlinanti, maestranze piú o meno professionalizzate, uomini e donne che con opera e ingegno, scienza e prassi, tecnologia e lavoro hanno dato vita in poco meno di trent’anni (1561-1588) a questo gioiello dell’architettura militare rinascimentale. info https://museodellestorie. bergamo.it LEIDA L’ANNO MILLE Rijksmuseum van Oudheden fino al 17 marzo

Il periodo compreso tra il 900 e il 1100 è spesso percepito

Allestita in Palazzo del Podestà come ideale prosecuzione del Museo del Cinquecento, la mostra ripercorre in quattro sezioni la storia della progettazione e realizzazione della fortezza di Bergamo. Il percorso permette non solo di comprendere la storia della fortezza nella geografia piú ampia del sistema difensivo territoriale della Repubblica di Venezia, ma anche di leggere le Mura febbraio

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come un’epoca in cui non si registrarono eventi di particolare importanza, ma cosí non fu per il territorio che oggi è conosciuto come Paesi Bassi: per quelle regioni, infatti, fu una stagione di grandi cambiamenti nel paesaggio, nell’architettura, nel clima, nella lingua e nella società. La mostra allestita a Leida propone dunque un viaggio nel tempo attraverso il paesaggio di questo mondo medievale, con l’anno 1000 come destinazione finale. Un percorso che permette di scoprire lo svolgersi della vita quotidiana attraverso contesti di grande importanza – come la residenza imperiale di Nimega o la cattedrale di Utrecht – e materiali di pregio, come i manufatti preziosi provenienti da Maastricht. La selezione degli oggetti esposti comprende oltre quattrocento reperti archeologici, manufatti e manoscritti provenienti da collezioni olandesi e straniere. info www.rmo.nl.

proprio grazie agli studi condotti in occasione dell’evento. info www.visitfeltre.com MONTALTO DELLE MARCHE (AP) LA NASCITA DI UNA METROPOLI: ROMA AL TEMPO DI SISTO V Palazzo Paradisi fino al 31 marzo

Il progetto espositivo ripercorre

progetto interessò la costruzione di alcuni capisaldi della centralità direttiva – Villa Montalto, il Palazzo Lateranense, il Palazzo del Quirinale, il Palazzo Nuovo Vaticano, la Biblioteca Vaticana – e dell’idea religiosa del pontefice – Cappella Sistina, Cupola di San Pietro, San Girolamo degli Schiavoni –, oltre che vie di passaggio,

Negli spazi del Museo della Città sono riuniti per l’occasione 15 disegni autografi di Leonardo da Vinci del Codice Atlantico dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano e il Codice sul Volo degli Uccelli dalla Biblioteca Reale di Torino. Opere affiancate da disegni e dipinti leonardeschi che testimoniano la ricezione

come la via Felice e la strada di San Giovanni, e spazi urbani articolati intorno agli obelischi, alle colonne, alle fontane. Infine, le decorazioni pittoriche delle decine di migliaia di metri quadrati delle nuove pareti e delle nuove volte in cui trascrivere le pagine mirabolanti della «Bibbia sistina». info tel. 0736 828015; @visitmontaltomarche

e la diffusione di temi del genio vinciano. Nella mente di Leonardo bellezza e invenzione costituiscono un binomio indissolubile, cosí come l’intento della rappresentazione è inscindibile dal processo della conoscenza. La mostra vuole offrire quindi l’occasione di immergersi nella mente dell’artista approfondendo il suo rapporto tra il disegno e la pittura, che considera una scienza naturale. Rispetto ai suoi contemporanei, infatti, il costante e minuzioso studio del vero non si limita a esercizi teorici di riproduzione,

FELTRE DI LAME E DI SPADE. MAESTRI SPADAI A FELTRE TRA IL XV ED IL XVII SECOLO Museo Civico Archeologico fino al 31 marzo

La mostra offre uno spaccato sul mondo degli spadai feltrini e sull’eccellenza di produzioni che li resero celebri in tutta Europa. L’esposizione rende visibili al pubblico una decina di pezzi di assoluto interesse – da una trecentesca basilarda a lame, spade, stiletti ed armi in asta – il cui valore e la cui importanza sono stati riportati alla luce

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febbraio

la complessa operazione di renovatio urbis sviluppata dal papa marchigiano Sisto V in soli cinque anni di pontificato, operazione che elesse la Città Eterna a modello di riferimento per il rinnovamento urbanistico attuato nei secoli successivi in varie capitali europee. Dal 1585 al 1590, infatti, fu avviata un’intensa attività di costruzione che cambiò indelebilmente il volto di Roma. Reso possibile grazie alla competenza dell’architetto Domenico Fontana e di una folta schiera di pittori, scultori, stuccatori, richiamati a Roma da tutte le città d’Italia, il

LIVORNO LEONARDO DA VINCI. BELLEZZA E INVENZIONE Museo della Città fino al 1° aprile

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AGENDA DEL MESE

ma è il risultato diretto di una miracolosa investigazione della natura. info tel. 0586 824551; e-mail: museodellacitta@comune.livorno.it; www.museodellacittalivorno.it VENEZIA RESTITUZIONI. LA MADONNA SORLINI DI GIOVANNI BELLINI IN MOSTRA PRIMA DEL RESTAURO Gallerie dell’Accademia fino al 7 aprile

Opera icona della prima maturità artistica di Giovanni Bellini e proprietà della Fondazione Luciano Sorlini di Calvagese della Riviera (Brescia), la Madonna in adorazione del Bambino dormiente sarà oggetto di un intervento di restauro affidato a Giulio Bono e patrocinato da Banca Intesa Sanpaolo nell’ambito del programma Restituzioni. E prima dell’inizio dei lavori viene eccezionalmente esposta nelle Gallerie dell’Accademia, che conservano numerose opere del pittore veneziano. La «Madonna Sorlini» è indicata dalla storiografia critica come

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centrale all’interno del catalogo dell’autore, sempre presente nei principali cataloghi ragionati dell’opera belliniana del 1974, 1992 e

1997. Il soggetto è quello maggiormente affrontato dall’autore, considerato tra i maggiori interpreti del tema della Madonna con il Bambino. La figura appare saldamente ancorata nella composizione, mentre lo sguardo rivolto all’Infante tradisce la consapevolezza della Passione futura, confermata dagli elementi iconografici a corollario della composizione: il panneggio in cui è avvolto il bambino, trattato come un sudario, e il manto rosso, all’epoca colore del lutto. L’originalità del dipinto è stata sancita da Roberto Longhi, che ne parla nel suo Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946) citandola per la prima volta come «Madonna in rosso». Venne poi chiamata «Madonna Sorlini» dopo che, nel 2004, l’imprenditore e collezionista bresciano Luciano

Sorlini la acquisí. Contestualmente alla scelta, venne istituita la Fondazione Luciano Sorlini, ente predisposto a custodire la propria straordinaria collezione. info tel. 041 5222247 oppure 2413942; e-mail: ga-ave@cultura.gov.it; https://gallerieaccademia.it PADOVA LO SCATTO DI GIOTTO. LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI NELLA FOTOGRAFIA TRA ‘800 E ‘900 Museo Eremitani fino al 7 aprile

La Cappella degli Scrovegni è stata fra i primi monumenti italiani riprodotti in fotografia in modo sistematico e puntuale. Carlo Naya, uno dei pionieri italiani della fotografia, immortala gli affreschi in alcuni scatti già nell’estate del 1863, a meno di venticinque anni dall’invenzione ufficiale di questa tecnologia, e piú avanti realizza una intera campagna fotografica del monumento a scopo conservativo prima dei restauri di Guglielmo Botti, realizzati fra il 1869 e il 1871. Il percorso espositivo de «Lo scatto di Giotto» parte da riproduzioni di grande fascino e si apre in uno scenario in bianco e nero creato dalle lastre fotografiche realizzate da Luigi Borlinetto a partire dal 1883 e conservate dalla Biblioteca Civica di Padova. La mostra si affaccia poi al Novecento attraverso le campagne fotografiche Alinari e di Domenico Anderson, il cui valore si intreccia con quello dell’editoria d’arte e di divulgazione. Proprio grazie alle campagne della Casa Editrice Alinari di Firenze le immagini della Cappella degli Scrovegni vengono inserite nei cataloghi d’arte a partire dal 1906. Qui il febbraio

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capolavoro di Giotto viene presentato nella sua straordinarietà per la prima volta quale ciclo narrativo completo, ma non solo: da questo momento in poi si

sorpassa l’idea dell’esclusività nella riproduzione degli affreschi della Cappella e viene esplicitamente specificato nei verbali delle adunanze della città di Padova che lasciar circolare l’opera di Giotto attraverso la fotografia avrebbe consentito di diffondere nel mondo il valore della sua arte e non avrebbe mai potuto provocare una riduzione dei visitatori. Da quel momento in poi, grazie ai cataloghi Alinari, la Cappella degli Scrovegni sarà conosciuta in tutto il mondo, giacché le pubblicazioni avevano edizioni anche in lingua francese e inglese. info tel. 049 8204551 FANO PIETRO PERUGINO A FANO. PRIMUS PICTOR IN ORBE Museo del Palazzo Malatestiano fino al 7 aprile

Torna a Fano, dopo un importante intervento di restauro, la Pala di Durante dipinta da Pietro Perugino, opera identitaria per la città marchigiana, tanto da essere conosciuta anche come Pala di Fano. «Primus pictor in orbe» («Primo pittore al

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febbraio

mondo»): cosí viene definito Perugino nel contratto del 1488 che lo portava a lavorare a Fano dove avrebbe realizzato due opere eminenti: la Madonna con il bambino in trono e i santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e la Maddalena, detta Pala di Durante, e l’Annunciazione. La Pala di Durante, dipinta a olio su tavola, fu eseguita per l’altare maggiore della chiesa di S. Maria Nuova di San Lazzaro e fu realizzata a piú riprese, tra il 1488 e il 1497. È cosí definita dal nome che compare nell’iscrizione sul piedistallo ai piedi della

della vita della Vergine, alla cui realizzazione o perlomeno progettazione grafica, alcuni storici dell’arte ritengono che abbia collaborato il piú geniale allievo di Perugino e futuro protagonista della scena artistica, Raffaello Sanzio, allora appena quattordicenne. info tel. 0721 887.845-847; e-mail: museocivico@ comune.fano.pu.it; museocivico.comune.fano.pu.it FORLÍ PRERAFFAELLITI. RINASCIMENTO MODERNO Musei San Domenico fino al 30 giugno

Tra gli anni Quaranta

disegni, stampe, fotografie, mobili, ceramiche, opere in vetro e metallo, tessuti, medaglie, libri illustrati, manoscritti e gioielli – l’eposizione forlivese racconta questa storia, affiancando per la prima volta, grazie ai generosi prestiti concessi dai musei europei, in particolare inglesi e italiani, nonché americani, una consistente rappresentanza di modelli italiani, tra cui opere di antichi maestri, alle opere britanniche; ma anche opere di artisti italiani della fine dell’Ottocento ispirate ai precursori britannici. info www.mostremuseisandomenico.it

TORINO Vergine: Durante di Giovanni Vianuti, che nel 1485 fece un lascito ai frati Minori Osservanti, il cui convento venne piú tardi trasferito nell’attuale sede della chiesa di S. Maria Nuova. Il pannello principale raffigura la Madonna con il Bambino seduta su un alto trono con ai lati i santi. Il gruppo è disposto all’ombra di un chiostro rinascimentale, aperto sullo sfondo verso un luminoso paesaggio collinare. A completamento della pala, una lunetta con Cristo in Pietà tra i dolenti e santi Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea e una predella con cinque Storie

dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, l’arte storica italiana, dal Medioevo al Rinascimento, ha un forte impatto sulla cultura visiva britannica, in particolare sui preraffaelliti. Questo movimento artistico, nato nell’Inghilterra vittoriana di metà Ottocento a opera di alcuni artisti ribelli – William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti – aveva lo scopo di rinnovare la pittura inglese, considerata in declino a causa delle norme eccessivamente formali e severe imposte dalla Royal Academy. Attraverso circa 300 opere – dipinti, sculture,

TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Oggetto della mostra, terzo esito del ciclo espositivo «Frontiere liquide e mondi in connessione», sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di duemila anni di storia.

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AGENDA DEL MESE Fra i materiali riuniti per l’occasione si possono ammirare splendide sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it

FIRENZE PULCHERRIMA TESTIMONIA. TESORI NASCOSTI NELL’ARCIDIOCESI DI FIRENZE Basilica di S. Lorenzo, Salone di Donatello fino all’8 settembre

Le oltre duecento opere selezionate per la mostra sono una significativa sintesi dell’immenso patrimonio artistico conservato e custodito nel territorio della diocesi che si estende dalle pendici dell’Appennino toscoemiliano fino a lambire la provincia di Siena. Il progetto espositivo è nato da un importante lavoro di inventariazione e catalogazione

avviato nell’ottobre del 2009 che si è concluso dopo dieci anni, nel dicembre del 2019. La ricognizione, che ha portato alla compilazione di oltre 271 000 schede, è stata possibile grazie a una parte

dei fondi 8xmille che la diocesi ha destinato a questo scopo. Si possono dunque ammirare autentici capolavori, provenienti dalla città, frutto di ricche committenze, ma anche di oggetti piú semplici, realizzati per piccole parrocchie di campagna. Opere quindi molto diverse fra loro, non solo per qualità artistica, ma anche per tecniche di esecuzione e materiali utilizzati: dipinti su tavola e su tela, crocifissi, statue, oreficerie, reliquari, arredi e paramenti, tabernacoli, libri e codici, fino a umili rosari. info www.diocesifirenze.it

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. X edizione Roma – Teatro Argentina

fino al 14 aprile info www.teatrodiroma.net

«L

uce sull’Archeologia» torna per la decima edizione sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma. Dal 14 gennaio al 14 aprile l’appuntamento con la rassegna di storia e arte si rinnova con sette incontri la domenica mattina alle ore 11,00, introdotti da Massimiliano Ghilardi e riuniti dal titolo «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà». Sette appuntamenti per approfondire il rapporto dei Romani con la terra e la natura, quando, alla fine dell’età repubblicana, ragioni storico-politiche e culturali determinano la trasformazione della mentalità e del costume delle élites, che prediligono sempre piú una vita lontano dalla città e dal centro del potere. «Luce sull’Archeologia» è un progetto del Teatro di Roma a cura di Catia Fauci, in collaborazione con la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, con il contributo dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, di «Archeo» e della società Dialogues Raccontare L’arte, arricchito dagli interventi di storia dell’arte di Claudio Strinati e dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner. Questa decima edizione aggiunge ai sette incontri un nuovo contributo per una prospettiva multifocale, dal titolo «La parola oltre il sipario», un momento di riflessione e approfondimento del tema da un punto di vista letterario, teatrale, giornalistico e con rimandi al tempo presente. Ecco il calendario dei prossimi appuntamenti. 11 febbraio Ivano Dionigi, Università di Bologna, Lucrezio: un rivoluzionario a Roma; Francesco Sirano, Direttore del Parco Archeologico di Ercolano, Elogio del tempo perso: la Villa dei Papiri di Ercolano; Dacia Maraini, scrittrice, L’ozio della lettura con lo sguardo contemporaneo. 25 febbraio Alberta Campitelli, storica dell’arte e dei giardini, L’eredità del passato nelle ville romane tra Rinascimento e Barocco: modelli e stili di vita; Tiziana Maffei, Direttore della Reggia di Caserta, Dal piacere al potere: l’evoluzione dei giardini alla Reggia di Caserta; Lina Bolzoni, Scuola Normale Superiore di Pisa, L’ozio creativo della lettura e della conversazione.

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GLI ARGOMENTI

• Venezia, padrona del mondo • Marco, mercante, esploratore e scrittore • L’incontro con Gregorio X • Alla scoperta del Catai • Gli animali del Milione • I grandi viaggiatori

A sinistra miniatura raffigurante navi mercantili simili a quelle descritte da Marco Polo, da un’edizione de Li Livres du Graunt Caam, traduzione in antico francese del Milione. 1400 circa. Oxford, Bodleian Library. Nella pagina accanto statua in legno policromo dorato tradizionalmente identificata con Marco Polo che tiene un melograno, simbolo di ricchezza e prosperità. Copia ottocentesca dell’effigie del Veneziano venerata nel Tempio dei Cinquecento Dèi di Canton, in Cina. Venezia, Museo Correr.

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l 9 gennaio del 1324, dopo aver dettato le ultime volontà al sacerdote Giovanni Giustinian, Marco Polo si spegneva a Venezia, nella casa di famiglia. Si chiudeva cosí la vicenda terrena di uno dei massimi protagonisti dell’età di Mezzo e della storia di ogni tempo, al quale, nel 700° anniversario della scomparsa, dedichiamo il nuovo Dossier di «Medioevo». Oltre cinquant’anni prima, poco piú che diciottenne, Marco era partito con il padre Niccolò e lo zio Matteo per un viaggio alla volta dell’Oriente, destinato a trasformarsi in un’esperienza straordinaria: il giovane Veneziano, infatti, si spinse fino al Catai (l’odierna Cina) e il suo soggiorno in quelle terre si protrasse ben piú a lungo di quanto aveva probabilmente immaginato, concludendosi solo nel 1295, con il ritorno nella natía Venezia. Qualche tempo dopo, cadde prigioniero dei Genovesi – probabilmente all’indomani della sconfitta patita dalla Serenissima a Curzola, nel 1298 – e, rinchiuso in Palazzo San Giorgio, decise di dettare il resoconto del suo viaggio in Asia a Rustichello da Pisa, che con lui divideva la cella. L’esito di quell’impresa si trasformò in uno dei primi bestseller della storia, Il Milione, un’opera che ancora oggi affascina e sorprende per la sua modernità, soprattutto grazie alle molteplici notazioni di carattere etnografico. Dell’intera vicenda dà dunque conto questo nuovo Dossier, che ricostruisce la biografia del grande viaggiatore ed esploratore, inserendola nel contesto politico, sociale ed economico del tempo, con ampi richiami, naturalmente, alle peculiarità della cultura mongola e di quella cinese.

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«…come sulla cerchia tonda, Moteriggion di torri si corona…» di Giacomo Baldini e Marco Valenti, con contributi di Cristina Menghini e Carla Palmas

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Un circuito monumentale e paesaggistico, scelto come luogo di identificazione universale contro il rischio di una commercializzazione senza senso: il Castello di Monteriggioni e il meraviglioso – quanto sconosciuto – complesso di Abbadia Isola raccontano oggi una storia millenaria. Un viaggio nel tempo reso ancora piú vivo grazie alla recente inaugurazione di un nuovo museo…

Veduta a volo d’uccello di Monteriggioni (Siena), con l’inconfondibile «corona» delle sue mura, intervallate da torri.

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l castello di Monteriggioni va senza dubbio annoverato nel pantheon delle icone della Toscana. Soprattutto con l’avvento dei droni, la sua immagine, sia di giorno sia in notturna, viene continuamente diffusa in sequenze spettacolari ed evocative: da simbolo della civiltà comunale a fortezza inespugnabile che governa un verde paesaggio ordinato, da castello da fiaba sino alla fortezza di Morgoth del Signore degli Anelli. Sembra che la sua cinta abbia ispirato anche la corona che cinge la testa dell’Italia nella serie filatelica emessa dalle Poste Italiane dal 1953 agli inizi degli anni Ottanta, poi ripresa per la coniazione delle monete da 50 e 100 lire. Con certezza, invece, è stata scelta dal presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen nel 2021 come simbolo della Festa d’Europa. Ma Monteriggioni, che purtroppo continua spesso a essere definito borgo – talvolta con l’aggiunta di «murato» – non è solo il Castello. Da tempo, infatti, il suo territorio è oggetto di particolare attenzione nella conservazione, nella valorizzazione e nella narrazione della propria storia; in questo senso la cura dell’Amministrazione Comunale è rivolta a tre «luoghi»: il Castello, la Via Francigena – itinerario d’Europa dal 2004 – e Abbadia Isola. Essi compongono un circuito monumentale e paesaggistico, oggetto di politiche volutamente fondate sull’identità nel senso piú positivo del termine ed espressa sulla base di un patrimonio culturale plasmato attivamente. Si tratta di una scelta senza compromessi, che ha visto curare il mantenimento dei percorsi di pellegrinaggio, il restauro e il mantenimento del decoro del Castello, impedendone la trasformazione in un grande «emporio» (come spesso accade in molti centri storici), la creazione di un polo culturale assai atti-

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storie monteriggioni

vo ad Abbadia Isola, museo di se stesso ma anche «contenitore» del MAM-Museo Archeologico Monteriggioni. In queste pagine ci concentreremo sui due poli monumentali principali, posti peraltro a breve distanza l’uno dall’altro (4 chilometri circa), un vero e proprio concentrato di storia e di storie, oltre che percorso culturale di qualità; sulla Francigena sono già stati versati fiumi di parole e non occorre aggiungerne.

Anno Domini 1213

La fondazione del castello di Monteriggioni fece seguito all’ordinanza emanata dal podestà senese Guelfo da Porcari nel marzo 1213 e i lavori, finanziati dalla stessa Siena, dovettero durare circa un quinquennio, dal 1214 al 1219. Fu una novità nella politica espansionistico-difensiva della Repubblica, poiché in precedenza essa aveva optato per l’acquisto di castelli esistenti.

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La zona scelta non sembra aver accolto in precedenza un insediamento stabile o per lo meno di discreto tasso demografico; come ricorda Paolo Cammarosano, grande storico che ha molto studiato questo territorio, conosciamo solo per il 1126 la presenza di una piccola azienda rurale (masia de Monteregioni) oggetto di acquisto da parte di un monaco dell’Abbazia di Isola. Monteriggioni aveva un ruolo strategico importante, poiché assicurava il controllo delle estese valli dell’Elsa e dello Staggia in direzione dell’acerrima rivale di Siena: Firenze. Le mura di forma circolare ricalcarono il profilo naturale della collina. Vi si aprivano due porte principali, dette di Ponente e di Levante – oggi chiamate Porta San Giovanni e Porta Romea –, costruite progressivamente nei decenni, dotate di ponte levatoio e con saracinesche azionate tramite carrucole; esistevano due ulteriori e piú

piccole porte, una tamponata e l’altra interrata, molto probabilmente coeve alle principali. Il castello era inoltre circondato da carbonaie, cioè da fossati riempiti di materiale combustibile a cui si poteva dare fuoco in caso di pericolo. La viabilità interna, sulla quale si affacciavano le abitazioni, era affidata, allora come oggi, a un asse stradale principale che lo attraversa da est a ovest e da una via secondaria parallela alle mura orientali, ma altrettanto doveva accadere per quelle occidentali. Tra le vie laterali e la fortificazione erano stati febbraio

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ricavati orti e altri spazi agricoli. Di alcuni edifici, sebbene rimaneggiati dall’opera del tempo, si evince ancora la caratteristica delle case a schiera, mentre per altri, quando l’intonaco cade, si intravedono componenti trecentesche connotate da archi in cotto stampato.

In bilico tra Siena e Firenze

Il castello di Monteriggioni fu costantemente oggetto di scontri nella prima e nella seconda metà del XIII secolo, e assediato da Firenze ancora nel 1526; tra il 1552 e il

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In alto un’altra suggestiva veduta aerea del castello di Monteriggioni, che permette di coglierne la trama urbanistica. Nella pagina accanto la lapide del 1213 che celebra la decisione di Siena di fondare il castello di Monteriggioni; vengono citati Guelfo di Ermanno di Paganello da Porcari, podestà di Siena, Arlotto da Pisa, giudice oculato, Ildebrando di Usimbardo, camerario di Siena. Monteriggioni, Porta Romea.

Emilia-Romagna

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Lazio

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storie monteriggioni Veduta aerea di Abbadia Isola. Il complesso si trova a circa 4 km da Monteriggioni e la sua fondazione, nell’anno 1001, si deve ad Ava dei Lambardi di Staggia. In basso ancora una veduta che evidenzia l’inconfondibile profilo di Monteriggioni.

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rie, facile bersaglio per le artiglierie; azioni che si completarono con la loro cimatura. Pervenuta in possesso dei Medici di Firenze, nei secoli successivi la fortezza fu ceduta a varie famiglie che si alternarono nel tempo: i Golia di Siena, poi i Batta, i Fabbroni, i Daddi, gli Accarigi, che ne cedettero il vitalizio alla famiglia Griccioli. Ebbe cosí inizio una vicenda comune a tanti contesti una volta luoghi centrali nello scacchiere politico toscano. Monteriggioni, infatti, non continuò a essere la possente fortificazione capace di impressionare per secoli viaggiatori ed eserciti; neppure proponeva lo skyline e il profilo urbano che oggi possiamo ammirare. Ebbe inizio un lento declino, dovuto anche alle vicende economiche dell’area.

La rinascita

1554 si trovò al centro della cosiddetta «guerra di Siena», combattuta per il controllo della Repubblica di Siena – un episodio importante nell’ambito delle guerre d’Italia franco-spagnole –, quando venne ceduto a tradimento, senza alcun combattimento, al marchese di Marignano dal capitano Bernardino Zeti, fuoriuscito fiorentino. Decenni segnati da interventi invasivi sulla struttura originaria furono quelli compresi tra il XV e il XVI secolo, quando le nuove esigenze difensive, collegate all’introduzione massiccia della polvere da sparo, portarono alla realizzazione di bocche da fuoco per l’artiglieria, all’edificazione di un massiccio rivellino esterno alla porta di Ponente e all’interramento di parte della cinta muraria; infine si decise di abbattere e rasare le alte torri origina-

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In un suo contributo accolto nella Miscellanea Storica della Valdelsa, pubblicata nel 1907, Giorgio Piranesi, oltre a una citazione delle sue vicende storiche, descriveva con tono misto tra lo spirito romantico e quello del viaggiatore settecentesco impegnato nel Grand Tour il castello, il suo stato di conservazione e ciò che restava dell’antica possenza del fortilizio, reso famoso da Dante nel XXXI canto dell’Inferno (vv. 40-45), nel quale paragona i Giganti della Fossa di Cocito alle sue torri: «Però che come sulla cerchia tonda / Monteriggion di torri si corona, / cosí [‘n] la proda che ‘l pozzo circonda / torregiavan di mezza la persona / li orribili giganti, cui minaccia / Giove dal cielo ancora quando tona». Scrisse Piranesi: «Oltrepassata di breve tratto la rocca de’ Franzesi (la Rocca di Staggia, n.d.r.) l’attenzione del viaggiatore si volge a una bruna muraglia, intramezzata da massiccie torri, ergentesi, sempre a destra, sopra un umile colle isolato, dietro la quale spunta appena, quasi vergognoso, un modesto campanile di villaggio. È quanto rimane di

Monteriggioni, l’antico Mons regionis, che dovrebbe, secondo alcuni, il proprio nome all’essere stato dai senesi edificato e munito a guardia della loro regione occidentale; curiosa e ingenua etimologia!». «Anch’oggi Monteriggioni conserva, irretite d’edera, e l’antica cerchia e le due porte castellane e le quattordici torri, benchè quest’ultime, poco piú poco meno, non piú alte del muro al quale il tempo, inesorabile livellatore, le ha ormai pareggiate; anch’oggi, come testé vedemmo, apparisce non trascurabile rudere al colto viandante». «(...) il suo interno racchiude una dozzina appena di rustiche dimore e pochi olivi, meschino avanzo dell’antica possanza. Ma quand’anche l’ultima pietra della sua cerchia, l’ultimo tegolo delle sue case, non fossero ormai che polvere trasportata dal vento, rimarrebbe il canto del Poeta a disputarne la memoria all’oblio». «Il tempo, inesorabile livellatore» aveva svolto il suo lavoro, trasformando il castello in un villaggio rurale scarsamente popolato, ai cui piedi si stagliava, come oggi, una delle colonne stradali volute nel 1840 da Leopoldo II di Lorena (vedi box a p. 35). Ma la mano dell’uomo e, lo si può dire, l’orgoglio per il proprio passato, oltre che il grande revival del Medioevo, che caratterizzò a partire dalla metà del XIX secolo il restauro di tante architetture, vide, sul finire del primo ventennio del Novecento, la restituzione a Monteriggioni di molte delle sue torri. Tutte le foto rintracciabili mostrano il Castello almeno sino al 1924 (Archivio Alinari) con le torri assenti o ancora cimate; lo stesso compare in una cartolina che è stata spedita nel 1928; mentre nel 1933, in una pubblicazione sulla rivista Studi Etruschi riguardante una tomba a camera rinvenuta a poca distanza da Monteriggioni, l’articolo si apre con una foto del Castello con le

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storie monteriggioni ceramiche medievali dal castello

Frammenti di vita quotidiana Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dell’attuale millennio, durante lavori di ristrutturazione di un edificio nei pressi di piazza 1° Maggio, al Castello di Monteriggioni furono rinvenuti materiali ceramici frammentari bassomedievali. Purtroppo, dalle poche notizie tramandate, non è ben chiaro se il lotto conservato rappresenti l’effettiva totalità di quanto rinvenuto o sia la parte residuale di un contesto piú consistente, come sembrerebbero testimoniare le fratture recenti di molti frammenti. Comunque sia, dopo un sopralluogo del personale dell’allora Soprintendenza Archeologica della Toscana, i pezzi oggi disponibili furono

torri ricostruite. In definitiva, tali restauri, pur non ripristinando l’altezza originaria, avvennero almeno tra il 1929 e il 1932, creando la ben nota immagine odierna.

In loco quid dicitur Insula

Dalle mura risulta ben visibile il complesso monumentale di Abbadia Isola, la cui storia, sebbene piú antica, si intrecciò di continuo con quella di Monteriggioni. Isola venne fondata nell’anno 1001 da Ava, vedova di Ildebrando, della compagine signorile detta – dagli storici – Lambardi di Staggia; l’abbazia sorse «in loco quid dicitur Insula» e fu dotata di un patrimonio terriero cospicuo. I monaci erano stati mandati in un fazzoletto di terra su un lago paludoso, le cui acque lambivano le pendici del colle di Monteriggioni e del Montemaggio. Dovevano bonificare e colonizzare il territorio, percorso frequentemente da mercanti e

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In alto la genealogia e le proprietà dei Lambardi di Staggia riportate su una pergamena miniata redatta tra 1140 e 1160. A destra boccali in maiolica arcaica con decorazione geometrica provenienti dal Castello di Monteriggioni.

depositati presso i locali dell’attuale Ufficio turistico; dopo molti anni, la Monteriggioni AD 1213 procedette al loro restauro per una prima valorizzazione nel circuito didattico Monteriggioni in Arme, azione che, a breve, troverà la sua definitiva conclusione nell’esposizione all’interno del MAMMuseo Archeologico di Monteriggioni. ll prezioso gruppo di ceramiche racconta una vera e propria «anatomia di un istante», ovvero uno spaccato di storia domestica inquadrabile tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo. Un corredo riccamente articolato che abbraccia ogni aspetto della quotidianità: dal vasellame funzionale alla preparazione dei cibi, alle suppellettili riccamente decorate per la mensa conviviale. Gli strumenti da cucina (si riconoscono olle, tegami e coperchi) rappresentano la dotazione base documentata anche in altri contesti domestici dello stesso periodo cronologico. Tutte le olle appartengono alla medesima tipologia, definita «ad febbraio

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Altre ceramiche dal Castello di Monteriggioni. Dall’alto, «misurini» o tazze ansate in maiolica arcaica; rinfrescatoi in maiolica arcaica blu e boccale in zaffera a rilievo; grandi ciotole in maiolica arcaica con decorazioni floreali e geometriche.

arpione» dagli studiosi, una produzione tipica del centro urbano senese, ma che poi ebbe fortuna in tutta l’area meridionale della Toscana. Anche il tegame, con pareti alte ed estroflesse, riflette la moda senese; quest’ultimo, oltre all’impiego in cucina, poteva essere destinato direttamente al servizio in tavola come piatto da portata (lo dimostrano alcune raffigurazioni pittoriche trecentesche). Infine il coperchio, caratterizzato da un’ansa a nastro sormontante e piccoli fori di sfiato, era utilizzato alternativamente in combinazione con le olle e i tegami. Circa la mis en place, il corredo recuperato si distingue per la grande varietà qualitativa, tipologica e dimensionale. Forme aperte e chiuse in maiolica arcaica sono protagoniste del gruppo degli oggetti rivestiti, e riflettono pienamente il carattere e il gusto del repertorio trecentesco e dei primi decenni del Quattrocento delle produzioni urbane senesi. Sui boccali, completi di triloba e ansa a nastro o doppio bastoncello, campeggiano decorazioni in stile geometrico e vegetale. Le ciotole, di grandi dimensioni, con orlo arrotondato a fascia e corpo tronco-conico, presentano le classiche decorazioni floreali: un fiore centrale a quattro petali (variamente disegnato) alternati ad altrettanti segmenti decorativi di stampo geometrico o vegetale. A questa classe sono riferibili alcuni «misurini» (o tazze ansate), caratterizzati da disegni resi in maniera approssimativa e poco elegante, che richiamano le produzioni urbane senesi dell’area di San Marco (Convento del Carmine). Completano il corredo da mensa alcuni oggetti in zaffera a rilievo e in maiolica blu. Questi ultimi si distinguono per il rivestimento e per il tipo di

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impasto, che rimanda specificatamente all’area di Montelupo. Di grande interesse sono i due rinfrescatoi e i due boccali in zaffera a rilievo, indicatori non solo di un accesso diversificato alle merci, ma anche riflesso di una disponibilità economica sopra la media, come documentano anche le fonti scritte, poiché la zaffera veniva venduta a circa il doppio rispetto agli altri prodotti rivestiti. È possibile che questo insieme di ceramiche da mensa fosse conservato «a vista» degli ospiti, all’interno di scaffalature e/o in armadietti ricavati entro delle nicchie, a dimostrazione dello status sociale del nucleo familiare. Cristina Menghini

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storie monteriggioni

L’interno della chiesa di Abbadia Isola. Nel fondo del presbiterio sull’altare si trova la tavola di Sano di Pietro (1476). Nella pagina accanto la facciata della chiesa di Abbadia Isola vista dall’arco di ingresso ricavato nelle mura.

pellegrini. Iniziò cosí la storia di Isola, quella abbaziale, anche se dall’itinerario dell’arcivescovo di Canterbury Sigerico lungo la via Francigena, sappiamo che qui, tra gli anni 990-994, esisteva già un insediamento indicato come XVI submansio (cioè tappa) da Roma, denominato Borgonovo. Nel tempo, grazie ad acquisti e donazioni, l’abbazia benedettina aveva accumulato un notevole patrimonio fondiario, comprendente anche diversi castelli, come

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quello di Staggia già intorno alla metà dell’XI secolo. Molte notizie sono cosí desumibili dal centinaio di pezzi sopravvissuti dell’archivio monastico originario, considerati una delle consistenze documentarie di maggior rilievo per l’area senese e la Valdelsa.

I Lambardi di Staggia

Tra i documenti piú studiati, spicca una splendida pergamena miniata redatta tra 1140 e 1160 (vedi foto a p. 30): si tratta di una ricognizione patrimoniale nella quale i monaci, avendone necessità, tentarono di ricostruire le vicende, la consistenza e la provenienza del patrimonio, fornendo anche molte notizie sul gruppo familiare dei fondatori. La pergamena raffigura cosí la genea-

logia dei Lambardi e tutti i beni ceduti e pur con semplificazioni – tratta 11 generazioni con l’intenzione di solennizzare la dinastia, dettagliando sostanzialmente solo le ultime 5 – risulta molto interessante per comprendere figure egemoni e di rilievo nello scacchiere delle élite toscane. In alto è raffigurato Ildebrando, vestito di rosso, con i suoi lunghi capelli e la folta barba; in posizione dominante nell’albero genealogico, era al centro dei due figli, uno con lo stesso nome e l’altro chiamato Teuzo-Tegrim. Ildebrando, doveva essere nato intorno al 930, risultava in età virile nel 953 e morto già nel 994. Dietro di lui si leggono poi i nomi dei suoi antenati; nomi longobardi: Rodulfiatus, Odalberto, Gisalprando e, infine, il quadrisavolo e capostipite Reifredo, che doveva essere nato nel decennio tra gli anni 770 e 780. La famiglia faceva parte di un’aristocrazia militare con notevoli proprietà rurali, accumulate per tutta la durata del regno italico, poi trasformate in castelli dai quali gestivano la terra e gli uomini; intendeva arrivare nella cerchia dei grandi del regno (Ildebrando fu confermato nei suoi beni dai re Berengario e Adalberto nel 953, fece inoltre ingresso nella cerchia dei protetti del marchese Oberto) anche tramite la politica matrimoniale e tentando di acquisire un potere pubblico: volevano essere nobili, non solo di fatto ma anche di diritto. Tuttavia, non ebbero mai un titolo ufficiale e anche la consolidata vulgata che localmente indica Ava – la fondatrice di Isola – come «contessa» è senz’altro da rifiutare: era figlia del conte Zenobio, forse proveniente dalla zona di Firenze/ Fiesole e attestato come già defunto nel 977, ma nessun documento prova la trasmissione del titolo paterno. Non ebbero successo nel loro intento e la discendenza maschile progressivamente si estinse. Cosí febbraio

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gran parte del patrimonio dei Lambardi fu nelle mani di Isola, che si rafforzò ulteriormente, sottraendosi alle ingerenze della diocesi volterrana alla quale apparteneva.

L’arrivo dei Soarzi

Ma all’inizio del XII secolo entrarono nuovamente in conflitto con il vescovo di Volterra per la nomina dell’abate, legandosi in un rapporto privilegiato con un nuovo gruppo emergente dell’élite locale; era la famiglia di milites dei Soarzi da Talciona – divisi in tre rami agnatici uniti palesemente dalla gestione di possessi e poteri comuni – emersi dall’éntourage dei Lambardi, che tentarono quasi subito di liberarsi dei monaci, appropriandosi di terre, diritti e contadini. La loro intenzione di sottomettere il monastero al proprio controllo condusse all’estensione di una sorta di protettorato di Siena su Isola; una posizione nuova, che portò comunque a notevoli ingerenze da parte della città. Sono infatti gli anni in cui si registrarono numerosi mutamenti. Gli stessi documenti conservati dai monaci ci mostrano in precedenza un microcosmo raccolto sotto l’egida di Isola e dei suoi signori, con scarsi rapporti con il mondo urbano; ora, invece, le aperture risultano piú significative, poiché il territorio dell’abbazia diviene oggetto dell’espansione senese. Da lí a poco iniziarono anche i primi interventi di Siena in funzione antifiorentina e i monaci decisero di dotarsi di una struttura difensiva: alla metà del secolo erano già state erette mura di cinta. Mentre avvenivano questi fatti, il grande prestigio raggiunto dal monastero aveva portato alla decisione di edificare una nuova chiesa abbaziale. I lavori, iniziati tra il 1139 e il 1154 durante il governo dell’abate Bernardo, si conclusero sotto l’abate Ugo, con consacrazione il 4 gennaio 1173 e l’aggiunta di un nuovo

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patrono, san Cirino, le cui ceneri vennero traslate da Staggia il 31 luglio 1198. La chiesa sorge su un nucleo piú antico, risalente all’XI secolo. Fu costruita con un impianto a tre navate, scandite da colonne e pilastri, con cripta e terminazione triabsidata. In origine veniva completata da un tiburio ottagonale, oggi scomparso. La facciata era caratterizzata da un doppio portale affiancato da due semicolonne, poi sostituito da un semplice portale architravato. Ma la guerra che pochi anni dopo oppose Senesi e Fiorentini causò enormi danni all’abbazia, di cui vennero meno il potere ecclesiale – il comune di Siena nominò autonomamente il rettore della chiesa di Strove – e quello temporale: dovette concedere al popolo di Borgonuovo, il dí 11 dicembre 1256, di poter eleggere a rettore o sindaco persona di loro soddisfazione e non piú indicata dall’abate.

Dal 1220 al 1270 gli effetti prodotti dall’alterno confronto che vedeva impegnate le due città avevano iniziato a farsi sentire sempre di piú. Questa zona, tormentata geopoliticamente, vide tracciare al suo interno il confine stabile tra Siena e Firenze, che, come conseguenza, mandò in frantumi l’unità dell’area di riferimento fondiario, religioso e civile dell’abbazia: terre e castelli si ripartirono all’interno delle due circoscrizioni cittadine. Insorsero inoltre considerevoli problemi di ingerenza portati dalla famiglia dei Franzesi, nuovi padroni di Staggia, filofiorentini, che vi avevano realizzato una vera e propria signoria territoriale: iniziarono le usurpazioni di beni e di proprietà di Isola. Nel 1361 la loro fortuna ebbe fine, ma Staggia, ormai in mano di Firenze, divenne base strategica per eventuali scorrerie contro Siena e il suo territorio, del quale l’abbazia di Isola faceva parte. Sappiamo che ancora non era


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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto veduta aerea della chiesa di Abbadia Isola. In basso disegno ricostruttivo dell’aspetto che Abbadia Isola doveva avere nel XIII sec. (ricostruzione di Simone Boni, Studio InkLink Firenze). Nella pagina accanto la colonna lorenese oggi collocata di fronte alla sede del Comune di Monteriggioni.

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stata ultimata la secolare opera di bonifica del territorio, in particolare per i perigli continui; per esempio, nel 1322, l’abate fu costretto a scrivere una petizione al Comune di Siena per la purgazione della fossa o emissario del Padule detto di Canneto, il cui deposito infestava l’aria. L’abbazia fu poi inserita dai Senesi nel sistema di castelli posti ai confini del contado e perciò venne fortificata nel 1376, soprattutto per essere difesa dalle compagnie di ventura che scorrazzavano per le campagne. Grazie alle nuove fortificazioni, delle quali restano ampi tratti di mura e una torre – ambedue in attesa di restauro –, il monastero visse un periodo di notevole sicurezza e ciò portò a nuovi investimenti come quelli del 13951400, quando a Taddeo di Bartolo venne commissionato un affresco; il 1° settembre 1401 venne concesso il titolo di pieve, che comportò il trasferimento anche del fonte

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Le colonne lorenesi

Pietra e ghisa per indicare la retta via Le colonne lorenesi, dette «leopoldine», sono delle strutture commissionate nel 1840 all’architetto Alessandro Manetti dal granduca di Toscana Leopoldo II di Lorena. Punteggiavano il paesaggio con il loro carattere distintivo, indicando le direzioni delle principali strade di transito. Testimoniano l’importanza storica e l’organizzazione logistica di queste vie di comunicazione; soprattutto la creazione di un sistema di segnalazione stradale efficace e facilmente riconoscibile, oltre all’attenzione dedicata all’infrastruttura viaria. Tra il 1824 e il 1859, erano stati infatti portati a compimento circa 3000 nuovi chilometri di strade, ponendo la Toscana e la qualità della sua viabilità ai primi posti in Europa. Il viaggiatore poteva andare incontro a errori di percorso e quindi, nei punti nodali, venne ideato e posto tale sistema di orientamento. Detenevano anche un ruolo simbolico di legame tra le comunità toscane. Facevano parte di quegli interventi (si pensi, tra i tanti, al Catasto Leopoldino) intrapresi dai Lorena per modernizzare e migliorare il territorio toscano nel XVIII e nel XIX secolo. Di tali colonne indicatorie, in gran parte scomparse, restano solo 19 esemplari in tutta la regione, ben 5 delle quali in area senese e, tra di esse, una si conserva nel territorio di Monteriggioni. Fra i piú interessanti architetti neoclassici toscani e non solo, il fiorentino Alessandro Manetti (1787-1865) fu l’ideatore della loro struttura classica: un pilastro sormontato da un globo di ferro con speronatura o pungiglione. Tali opere si identificarono cosí tanto con il loro realizzatore che sono anche conosciute dagli esperti e dagli addetti ai lavori come «Colonne del Manetti». battesimale, a scapito della vicina pieve di S. Maria a Castello. Nel 1446, il deciso peggioramento della situazione economica e una diminuzione numerica dei monaci, spinsero infine papa Eugenio IV a unire il monastero di Isola a quello di S. Eugenio presso Siena. Anche per Isola ebbe inizio una storia simile a quella di Monterig-

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Probabilmente realizzate in loco su disegno preordinato e con misure standard, le colonne erano caratterizzate dall’accostamento di parti in pietra (in area senese sono realizzate nel piú resistente travertino) e parti in ghisa standardizzate, realizzate per fusione in stampo presso la fonderia statale di Follonica. L’articolazione del manufatto è caratterizzata dalla profonda indipendenza dal lessico degli ordini classici e dalla presenza di forme curve e linee tese; nella prima metà del XIX secolo queste caratteristiche erano proprie di episodiche e limitate esperienze «d’avanguardia». Nel concreto, consistono in una base a pianta triangolare equilatera con gli angoli smussati, collegata al fusto monolitico attraverso una modanatura ornata in ghisa. Il grande capitello è anticipato da una seconda fascia in ghisa con elementi modulari decorati. I lati del capitello, anch’esso triangolare, ospitano le lapidi direzionali con una freccia e il nome del luogo verso il quale ci si stava dirigendo, scolpito a mano con il carattere Bodoni, dal nome del tipografo piemontese Giovan Battista Bodoni (1740-1813). L’indicatore termina in alto con una sfera in ghisa provvista di puntale. Con la loro presenza imponente, le colonne lorenesi costituiscono un patrimonio architettonico di notevole importanza per la Toscana, richiamando l’attenzione sulla storia e sull’evoluzione del paesaggio. Oggi rappresentano una parte della nostra storia e identità territoriale; sono cosí peculiari che, tramite un interessante slittamento semantico, questi luoghi sono diventati essi stessi toponimi significativi, degni di essere a loro volta segnalati. Marco Valenti

gioni, con il complesso che, nel tempo, si trasformò in un contesto rurale, caratterizzato dalla presenza di attività artigianali; sinché il Comune, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, lo acquistò, dando avvio a restauri non continuativi, con cambi di progettazione, che, comunque, non sono mai caduti nella tentazione

di cedere l’immobile in vantaggiose operazioni economiche per le casse pubbliche: per esempio, trasformarlo, come spesso avviene, in un relais di lusso e attrattivo. Oggi Abbadia Isola, dopo gli ultimi decisivi restauri, costituisce il polo monumentale e culturale di questo territorio. Marco Valenti

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In basso la vetrina dedicata alla Tomba dei Calisna Sepu. Abbadia Isola, MAM-Museo Archeologico di Monteriggioni.

In alto unguentari in ceramica etrusco-corinzia dalla Tomba 1/2010 in podere MalabarbaMilanese. Abbadia Isola, MAM-Museo Archeologico di Monteriggioni. Sulle due pagine la musealizzazione del sepolcreto medievale nel chiostro di Abbadia Isola.

La parola al MAM

Oggi è possibile raggiungere Abbadia Isola in molti modi: percorrendo la vecchia strada che collegava Siena a Colle di Val d’Elsa, beccheggiando su un percorso tortuoso che scende dalla Montagnola, oppure attraverso la «nuova» arteria autostradale (inaugurata nel 1964), identificata dalla sigla RA 03, ma per tutti, piú semplicemente, l’«Autopalio». Molti preferiscono ancora percorrere il vecchio tracciato della Francigena, già solcato da migliaia di pellegrini e reso celebre da Sigerico. Ma tutti restano sbalorditi appena varcano l’arco di età moderna aperto nelle mura che proteggono il complesso abbazia-

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le: la facciata della chiesa dei Ss. Salvatore e Cirino, segnata dal tempo e dai diversi stili, spinge a entrare: l’oscurità dell’impianto romanico con aula divisa in tre navate è squarciata dall’oro della pala d’altare dipinta nel 1476 da Sano di Pietro posta nel presbiterio, accessibile da una scala, sotto al quale si apre la cripta. Al centro dell’abside della navata destra si trova l’urna di san Cirino, un manufatto in marmo di età romana riutilizzato nel 1198 per accogliere le reliquie del santo martire. Questa è la prima testimonianza che rivela l’antichità del luogo. In pochi, infatti, mentre camminano tra i campi protetti dai girasoli o rincorrono

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il cimitero nel chiostro di abbadia isola

Semplici fosse come ultima dimora Nel chiostro di Abbadia Isola, durante i restauri del 2000 e del 2003, è stato individuato un cimitero medievale, oggi valorizzato dalla scelta di permetterne la visione grazie alla corpetura con una lastra vitrea. Allo stato delle indagini non abbiamo tracce dell’area identificata per le sepolture fin dal momento della costruzione e consacrazione del complesso. Il sepolcreto noto – solo in parte scavato – si trova all’interno del chiostro, adiacente al muro della chiesa. Pur nella difficoltà di definizione, dovuta ai numerosi interventi successivi e alla povertà dei corredi, si riconoscono due fasi: della piú antica, attiva a partire dalla prima metà del XII secolo, restano poche tracce. Le sepolture, piuttosto semplici, sono realizzate in fosse terragne rivestite da pietre di reimpiego, che conferiscono alle tombe l’aspetto di cassoni litici. Sono gli anni in cui il monastero di Abbadia Isola si trovava sotto l’egemonia di uno dei gruppi parentali minori legati alla dinastia dei Lambardi, la famiglia dei Soarzi, che risiedeva nel castello di Staggia, una struttura all’epoca molto diversa da quella che possiamo ammirare oggi. La seconda fase si può collocare fra la seconda metà del XIII e gli inizi XIV secolo. In questo periodo è documentato il reimpiego dei cassoni litici precedenti, in parte modificati mediante l’uso del laterizio, oltre alla costruzione di nuovi cassoni con l’esclusivo utilizzo del laterizio e alla realizzazione di sepolture in semplici fosse terragne. Queste diverse forme di tumulazione non dipendono esclusivamente dall’impoverimento progressivo del gruppo comitale o

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da scelte di tipo religioso, ma, molto piú semplicemente, potrebbero essere state dettate da problemi di spazio, da attribuire alla crescita demografica della comunità, oppure dalla marcata volontà di essere deposti «a contatto» della chiesa abbaziale. Dato l’alto tenore di alcuni oggetti (anelli) e dai resti sfarzosi dei vestiti (di cui si sono conservate le guarnizioni), è plausibile ritenere che la seconda fase cimiteriale sia da mettere in relazione alla presenza della famiglia dei Franzesi. Nelle indagini del 2023, finalizzate all’allestimento del percorso museale, sono state individuate nuove strutture, solo in parte identificate negli interventi precedenti. Tra queste merita particolare attenzione la tomba piú orientale: la fossa terragna è rivestita interamente da laterizi di recupero, superiormente definiti da un coronamento di mattoni medievali. Si tratta di alcuni bipedali romani (59 x 59 cm), messi in opera verticalmente, quasi a regolarizzare il paramento murario, rivestendo tutta la fossa con mattoni della stessa misura caratterizzati da segni produttivi, che conferiscono anche un carattere decorativo alle pareti. Il ricorrere di questi elementi, oltre a segnalare una ricercatezza non casuale, suggerisce la presenza nei pressi dell’abbazia di un edificio di età romana di una certa importanza (una villa o una fattoria, se non una struttura legata al cursus publicus), che ancora deve essere individuato, ma al quale potrebbero essere riferite le numerose sepolture di età romana trovate nell’area. Giacomo Baldini febbraio

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In questa pagina ricostruzione su manichino della donna individuata nel cimitero del chiostro di Abbadia Isola e fasi della ricostruzione facciale. Nella pagina accanto fotocomposizione degli scavi 2000, 2003 e 2023 del cimitero individuato nel chiostro di Abbadia Isola.

i filari dei vigneti che accompagnano fino al Chianti, sospettano che questo territorio, miraggio del Medioevo, nasconda una storia molto piú antica, che ha inizio in epoca preistorica. In realtà, proprio leggendo i diari degli antichi viaggiatori, si scopre che nel 1698, nei pressi dell’abbazia, fu rinvenuta una tomba a camera con iscrizioni dipinte e che, tra il 1892 e il 1906, la tenuta del Casone, che si estende fuori dall’abbazia, fu interessata da scavi sistematici. Anzi, proprio qui, a ridosso dell’attuale Autopalio, il 7 dicembre 1893 fu rinvenuta la Tomba dei Calisna Sepu, un ricchissimo sepolcro etrusco inviolato (ancora oggi il piú importante del Volterrano), al cui interno furono sepolti 105 membri della famiglia.

Dalla preistoria al Medioevo e... oltre

Sebbene fosse nata già allora l’idea di un museo e nonostante il meritorio sforzo di raccontare questa lunga storia in mostre temporanee allestite proprio nei locali dell’abbazia (l’ultima si è svolta tra il 2018 e il 2019), solo da pochi mesi (luglio 2023) il complesso di Abbadia Isola ospita un museo permanente, il MAM-Museo Archeologico di Monteriggioni, che non ha solo la funzione di narrare le vicende di una porzione della Valdelsa dalla preistoria fino al Medioevo attraverso la cultura materiale, ma ha soprattutto l’ambizione di creare un nuovo polo culturale in rapporto dialettico con il Castello che, dall’alto, domina la piana. Per questo, partendo dal complesso abba-

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La signora di Abbadia Isola

Nell’aldilà con la campanella Lo scavo archeologico del sepolcreto scoperto nel chiostro di Abbadia Isola (vedi box alla pagina precedente) ha restituito le ossa relative a 13 individui deposti in giacitura primaria: 4 bambini, 1 individuo subadulto e 8 adulti. Mentre 5 scheletri giacevano in semplici fosse terragne, gli altri 8 erano contenuti in grandi «casse litiche», tutte orientate nord-ovest/sud-est con la testa in direzione nord-ovest. Tra esse spicca la sepoltura di una giovane donna, adagiata in una grande cassa in pietra secondo l’orientamento della chiesa. L’importanza della deposizione è data, oltre che dal recupero quasi completo delle ossa del corpo, dagli oggetti di corredo: nell’anulare della mano destra della donna era presente un anello a fascetta in lega di rame e sulla parte posteriore uno spillo di piccole dimensioni, con la punta acuminata, che lo rende adatto a indumenti o velo. L’abito della donna, probabilmente in lino, era tessuto con trama «a tela». In prossimità del torace, vicino agli arti superiori, sono stati rinvenuti numerosi anellini in bronzo, 29 a destra e 29 a sinistra, che, inseriti nella veste, ne garantivano l’apertura, come possiamo dedurre dai resti di filo rimasti. Sul davanti erano presenti tre bottoncini a capocchia sferica in lega di rame, funzionali alla chiusura del vestito e, nella parte inferiore, una campanella, dalla forte valenza apotropaica, elemento piuttosto comune nelle sepolture di donne e bambini. Grazie al sapiente lavoro di Stefano Ricci (esperto ricostruttore del Laboratorio di Antropologia presso il Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena), è stato possibile esporre nel percorso di visita del MAMMuseo Archeologico Monteriggioni una fedele restituzione della donna, a cui è stato ridato un volto attraverso la ricostruzione facciale. Questa tecnica permette di restituire i lineamenti di un volto sulla base della morfologia cranica. La metodologia applicata in questo caso ha impiegato sia l’utilizzo di spessori muscolari ottenuti da tomografie di individui attuali, sia la modellazione di ogni singolo muscolo direttamente sul cranio. La ricostruzione viene effettuata con materiale finemente modellabile (plastilina). Per ottenere il risultato finale si realizza una replica in resina del modello in plastilina, che una volta caratterizzato in base al sesso e all’età di morte dell’individuo è pronto per essere esposto. Arké-Archeologia sperimentale ha poi ricostruito l’abito e montato il volto sul corpo. Marco Valenti

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storie monteriggioni gli anelli dei franzesi

Opere di artigiani esperti Per cronologia e per ricchezza mostrata, le sepolture piú tarde presenti nel cimitero del chiostro di Abbadia Isola sembrano appartenere alla famiglia dei Franzesi. Lo scavo del sepolcreto ha permesso di recuperare tre anelli in oro: due, in particolare, sono tra loro molto simili, per la presenza di pietre incastonate a notte. La pietra di colore celeste può essere identificata come acquamarina, tipica degli anelli nuziali, mentre l’altra, di colore rosso, potrebbe essere un’ametista: entrambe simbolo di fortuna e felicità. Il terzo, rinvenuto nell’anulare destro di un inumato (probabilmente una donna), è un anello in oro con una sferetta rialzata, molto pregiato. Un quarto esemplare in argento finemente decorato, presenta un castone a forma di ottagono. Limitandoci a un’area prossima a ziale, è stato creato un viaggio nel tempo che conduce il visitatore dal Medioevo fino alle prime forme di occupazione del territorio. Il percorso museale inizia dalla Tinaia, dove, grazie ai reperti trovati nel Castello di Staggia e nel sepolcreto del chiostro del monastero (visibile grazie a un’installazione in vetro; vedi box a p. 38), viene presentata l’abbazia, fondata dai Lambardi e patronato dei Soarzi prima e dei Franzesi poi: proprio una delle nobildonne Franzesi, sepolta in una tomba nel chiostro, è stata ricostruita con la veste e gli ornamenti seguendo in maniera filologica gli elementi ritrovati nello scavo, che sono esposti in vetrina (vedi box a p. 39). Salendo al primo piano del complesso, nella Sala Sigerico, è raccontato il popolamento della Piana del Casone e del Montemaggio, dall’età romana fino alla preistoria: tra i numerosi contesti sepolcrali, ampio risalto è dato, anche grazie all’allestimento di un’ampia vetrina con una rico-

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Monteriggioni, un anello simile a quelli trovati ad Abbadia Isola, in argento e con un castone molto meno elevato, proviene da una sepoltura a Stribugliano (Grosseto), datato tra la seconda metà del XIII e inizio XIV secolo. Molto affine è anche un esemplare conservato in una collezione privata custodita al Victoria and Albert Museum di Londra. Datato al 1250-1300 e riferibile a una manifattura tipicamente francese, l’anello rappresenta il confronto piú vicino per quanto

In alto gli anelli dei Franzesi messi a confronto con l’anello esposto al Victoria and Albert Museum di Londra (nella pagina accanto, in alto). A destra la Rocca di Staggia (Poggibonsi, Siena), cosí come si presenta oggi nella ristrutturazione effettuata dai Franzesi.

struzione di grandi dimensioni, alla Tomba dei Calisna Sepu, trovata intatta nel 1893 e i cui corredi sono andati dispersi tra diversi musei europei fin dal 1902. Non solo necropoli, ma anche vita quotidiana, come quella che si svolgeva a Campassini, sede tra la fine dell’VIII e gli inizi del VI secolo a.C. di un villaggio etrusco «di frontiera» a presidio del territorio.

Un museo per tutti

Il racconto è reso comprensibile grazie alle ricostruzioni, ai semplici pannelli di infografica (dai quali, tramite QR-code dedicati, è possibile accedere a livelli di approfondimento maggiore) e a due totem multimediali, dedicati al Medioevo e all’antichità, con video, ricofebbraio

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I Franzesi di Staggia

Ascesa e caduta di una signoria

riguarda l’elemento vegetale che sorregge il castone. Gli anelli e gli altri oggetti rinvenuti nel sepolcreto sono il prodotto di artigiani esperti, sicuramente in grado di realizzare pezzi in materiale prezioso molto pregiati, attività che garantiva agli orefici un ruolo di alto livello nella società del tempo. Le tecniche principali erano la fusione e la martellatura; i monili in oro venivano realizzati mediante doratura. Esistono numerose fonti per la conoscenza delle tecniche storiche dell’oreficeria, come il manuale di Teofilo del 1122 e la piú recente opera di Biringuccio del 1540. Carla Palmas

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Potenti finanzieri e magnati di origine fiorentina protagonisti di un’esperienza politico-economica in Francia alla corte di Filippo il Bello – legatasi poi all’ambito senese –, i Franzesi avevano iniziato a costituire un solido e articolato dominio di terre e castelli esteso sino alla valle dell’Ombrone senese e al Valdarno di Sopra. Musciatto ottenne l’investitura dei diritti imperiali su Poggibonsi e Fucecchio; acquistata Staggia, Albizzo ebbe dall’imperatore Alberto I d’Asburgo, nel 1298, la facoltà di ricostruire il castello e l’autorizzazione all’esercizio dei diritti inerenti a esso come dipendente dell’impero. Il castello di Staggia fu quindi riedificato nello spazio di quattro anni; nelle sue nuove forme, si proponeva come espressione tangibile dei Franzesi nella loro veste di rappresentanti dell’impero e sotto la sua protezione. All’iniziale successo della scalata tentata dalla famiglia, seguí l’improvvisa rovina – di cui fu senza dubbio causa principale il fallimento della compagnia senese dei Buonsignori –, che costrinse Niccolò a ricomporre gli interessi dei fratelli in un unico patrimonio e Staggia, di cui divenne signore, fu eletta sua residenza. Il rapporto di Niccolò con il castello si caratterizza come una vera e propria signoria territoriale; era conscio di uno status che gli permetteva di agire da dominus. Nonostante la sua posizione di debitore, Firenze non poteva fare altro che riconoscerlo come signore feudale. Alcuni esempi ben illustrano questo comportamento e quindi la sua gestione della zona come una signoria territoriale. Nel 1345 il fiorentino Bindo di Simone Gherardi, garantito da una sentenza, inviò un suo emissario a Staggia per reclamare i crediti detenuti dalla sua famiglia nei confronti dei Franzesi e questo venne aggredito. Nello stesso anno un messo di Bindo si era recato al castello di Montedomenichi dove viveva il figlio primogenito di Niccolò; si ripetè l’aggressione con l’aiuto di uomini armati dipendenti di Niccolò e tutti provenienti da Staggia. Al tempo stesso, nel 1341, dietro richiesta della signoria di Firenze, inviò da Staggia 40 fanti in aiuto dell’esercito cittadino. La politica di Niccolò fu comunque molto intelligente e abile; ne è prova la scelta di Staggia come sede per la firma di un’alleanza che vedeva riuniti nella chiesa di S. Maria i rappresentanti di Firenze, Arezzo, Siena e Cortona. Nel 1361 Staggia venne ceduta dai suoi eredi a Firenze ed entrava finalmente nel dominio della città, trasformandosi da centro autonomo e importante a centro periferico di uno Stato ben piú ampio. Marco Valenti

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storie monteriggioni L’allestimento della sezione dedicata al Medioevo nel MAM-Museo Archeologico di Monteriggioni, Sala La Tinaia. Nella pagina accanto un’immagine dall’alto della cerimonia di chiusura della festa Monteriggioni di torri si corona.

Da leggere AA.VV., 1001-2001. Mille anni di Abbadia a Isola: tra storia e progetto, Atti della Giornata di studi (Abbadia a Isola, 3 febbraio 2001), Società Storica della Valdelsa, Castelfiorentino 2002 (Biblioteca della «Miscellanea Storica della Valdelsa», 18) AA.VV., MaM-Museo Archeologico di Monteriggioni. Guida al museo/Guide to the museum, Betti editrice, Siena 2023 Valeria Acconcia, Paesaggi etruschi in terra di Siena. L’agro tra Volterra e Chiusi dall’età del Ferro all’età romana, Archaeopress, Oxford 2012 Giacomo Baldini, Pierluigi Giroldini, Enrico Maria Giuffrè, Matteo Milletti, Andrea Zifferero (a cura di), Monteriggioni prima del Castello. Una comunità etrusca in Valdelsa, catalogo della mostra (Monteriggioni 2018-2019), Pacini Editore, Ospedaletto 2019 Duccio Balestracci (a cura di), Monteriggioniottocento 1214-2014, Atti del convegno (Abbadia a Isola 17 ottobre 2014), Betti Editrice, Siena 2015 Paolo Cammarosano, «La nobiltà del Senese dal secolo VIII

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agli inizi del secolo XII», in AA.VV., I ceti dirigenti in Toscana nell’età precomunale, Atti del I Convegno del Comitato di Studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana (Firenze, 2 dicembre 1978), Pacini Editore, Pisa; pp. 223-256 Paolo Cammarosano, Abbadia a Isola. Un monastero toscano nell’età romanica. Con una edizione dei documenti (9531215), Società Storica della Valdelsa, Castelfiorentino 1993 (Biblioteca della «Miscellanea Storica della Valdelsa», 12) Paolo Cammarosano, Monteriggioni. Storia Architettura Paesaggio, Electa, Milano 1983 Wilhelm Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana medievale, Studi diplomatici, archeologici, genealogici, giuridici e sociali, Siena 1989 Ettore Pellegrini (a cura di), Fortificare con arte. Torri, casseri e fortezze nell’Alta Val d’Elsa, Betti editrice, Siena 2017 Giorgio Piranesi, «Da Monteriggioni a Peschiera. Terre e castelli in Dante», in Miscellanea Storica della Valdelsa, XV (1907), 2 (42); pp. 88-107

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Monteriggioni di torri si corona

Una grande festa medievale Monteriggioni è un territorio che si racconta, costruendo la narrazione attraverso il contributo di tutte le sue componenti sociali, cercando peraltro la sostenibilità del turismo e non un turismo mordi e fuggi che spesso rischia di usurare sia i paesaggi sia i monumenti; piuttosto un turismo partecipativo, sostenibile ed etico. In questa direzione si pone anche Monteriggioni di torri si corona, la festa medievale che, dopo ben trenta edizioni, rappresenta una vera e propria tradizione consolidata nonché un elemento costitutivo dell’identità monteriggionese. È la piú longeva in Italia, facendo da apripista, nel tempo, a una miriade di feste medievali non solo in Toscana, ma nell’intera Penisola. Se alcune di queste non vanno oltre a un generico Medioevo improvvisato e privo di effettivi contenuti, quella di Monteriggioni vuole invece basarsi su buone pratiche e su buone ricostruzioni di ambientazione, con attenzione e cura. Si svolge nella prima metà di luglio e, lo sottolineiamo subito, non è una rievocazione o un atto ricostruttivo. Si tratta invece di un’iniziativa particolare fatta di tre componenti specifiche: le associazioni del territorio, il gruppo storico e culturale de L’Agresto, gli artisti. Questo mix, pur con momenti rievocativi, costituisce in realtà un vero e proprio atto di «Medioevo immaginifico», mettendo in scena giorni di festa, di fiera e di mercato nella Monteriggioni del XIII e XIV secolo, con alcuni compromessi dovuti alla necessità di fare spettacolo mischiati alle taverne – dove le associazioni si sforzano di mettere in tavola ricettari medievali ed essere vestiti filologicamente – e alla presenza di un vasto stuolo di ricostruttori impegnati nei mestieri del tempo.

Dove e quando MAM-Museo Archeologico di Monteriggioni Monteriggioni, Complesso monumentale di Abbadia Isola piazza Gino Strada, n. 5 Orario gli orari variano stagionalmente e sono consultabili sul sito www.monteriggioniturismo.it Info tel. 0577 304834; e-mail: info@monteriggioniturismo.it; Facebook MAM-Museo archeologico di Monteriggioni

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Monteriggioni di torri si corona è dunque un «prodotto» popolare fatto di tradizione e cultura, volto al divertimento del pubblico, donando spensieratezza. Non c’è la pretesa di una preparazione ricostruttiva che tenda alla perfezione; c’è invece la voglia di fare bene mantenendo livelli di attendibilità. Dopo la pausa forzata del periodo epidemico, si è deciso di affidare la realizzazione del manifesto della festa a grandi autori. Il manifesto del 2023, per esempio, ha visto all’opera uno dei grandi maestri italiani dell’illustrazione: Milo Manara. Autore che ha proseguito la sua collaborazione con Monteriggioni presentando ad Abbadia Isola, nello scorso mese di novembre, la sua versione a fumetti del capolavoro di Umberto Eco Il nome della rosa. Marco Valenti

struzioni interrogabili e repliche in 3D dei pezzi in mostra o di oggetti provenienti da Monteriggioni, ma conservati in altri istituti. Alla fine della visita, protetti dalla mole gentile del Montemaggio, sacrario dei 19 martiri della libertà, uccisi dalla ferocia fascista il 28 marzo 1944, non possono non rimbalzare nella memoria le parole di Italo Calvino che, ne Le città invisibili, scrive: «Guardatevi dal dir loro che talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza

essersi conosciute, incomunicabili tra loro. Alle volte anche i nomi degli abitanti restano uguali, e l’accento delle voci, e perfino i lineamenti delle facce; ma gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei. È vano chiedersi se essi sono migliori o peggiori degli antichi, dato che non esiste tra loro alcun rapporto». Questa, forse, è l’essenza ultima del MAM, il Museo Archeologico di Monteriggioni. Giacomo Baldini

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il trecentonovelle di franco sacchetti/13

Beati (quasi tutti) gli ultimi di Corrado Occhipinti Confalonieri

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Pistoia, Ospedale del Ceppo. Vestire gli ignudi, pannello del fregio in terracotta dipinta e invetriata con le Sette Opere di Misericordia. 1526-1528. Commissionata a Giovanni Della Robbia, l’opera vide anche la partecipazione di Santi Buglioni, e, per l’ultima formella, di Filippo Lorenzo Paladini.

Persone di umili condizioni, relegate ai margini della società, oppure colpite da gravi menomazioni, animano piú di un episodio del Trecentonovelle. E mentre nei loro confronti Franco Sacchetti mostra una sostanziale indulgenza, si fa invece severo e inflessibile con chi sfrutta le proprie sventure per ingannare il prossimo MEDIOEVO

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il trecentonovelle di franco sacchetti/13

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ella sua opera I poveri nel Medioevo (1978; tradotto per la prima volta in Italia nel 1982) lo storico francese Michel Mollat (1911-1996) definí povero «colui che in modo permanente o temporaneo si trova in una condizione di debolezza, di dipendenza, di umiliazione contraddistinta dalla mancanza (...) degli strumenti di potenza e considerazione sociale». Il Trecentonovelle di Franco Sacchetti ci permette di conoscere piú da vicino il mondo dei pauperes del XIV secolo, riservandoci non poche sorprese. Nella novella CXXXV, Bertino da Castelfalfi (borgo vicino a Volterra) è «uomo di bonissima condizione e asgiato contadino e, secondo suo pari, ricco di bestiame». Nel 1391, durante la guerra dei Fiorentini contro Gian Galeazzo Visconti (signore di Milano dal 1385 al 1402), Bertino aveva portato «suoi casci [formaggi] freschi, fatti di pochi dí, a vendere al mercato a Santo Miniato». Si trat-

ta di San Miniato al Tedesco (oggi San Miniato), nel territorio di Pisa. Mentre Bertino si trova con i suoi formaggi in piazza, gli si avvicina «uno saccardo [soldato addetto ai rifornimenti] infermo con uno pezzo di pane in mano» che gli chiede un po’ di formaggio come companatico. Bertino gli risponde «To’ [prendi] ciò che tu vuogli». Il povero soldato si schernisce, non vuole approfittare della generosa offerta, ma Bertino, che aveva «molto grosso il dito grosso della mano ritta [il pollice della mano destra]», insiste e «lo saccardo, togliendo il cascio, si puose ivi a sedere; e pigliandone un pezzo lo mangiò con quello cotanto pane che avea». Il saccardo è imbarazzato: «Gnaffe [Sulla mia fede], buon uomo io non ho alcuno denaio da darti, e non ho piú pane». Bertino ha pietà di quel pover’uomo caduto in disgrazia, lo invita alla taverna, dove «mangiò quanto li piacque e del pane e del cascio di Bertino; e del vino che BerMiniatura raffigurante la lavorazione del formaggio, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto un cavaliere armato e vestito di corazza, particolare del ciclo affrescato Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339.

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tino fece venire, bevé quanto gli fu di piacere». Dopo aver fatto questa elemosina, il generoso contadino saluta il soldato: «Va’ che sie benedetto». Nel Medioevo gli atti di carità erano un dovere di ogni bravo cristiano perché permettevano di accelerare il tempo di permanenza in purgatorio prima di assurgere in paradiso. Qualche tempo dopo, «certa gente d’arme de nimici, cavalcando verso Castelfalfi, se ne menorono molto bestiame minuto [pecore o capre] del detto Bertino. E avendolo menato, feciono loro aviso [pensarono] che colui di cui egli era andrebbe per riscattarlo; e missono certo aguato. E cosí venne lor fatto; che andando Bertino co’ suoi fiorini, da costoro fu preso e menato a Casole [Casole d’Elsa, presso Volterra], su quel di Volterra; e là fu nelle gambe sconciamente inferriato [messo ai ferri in modo molto doloroso]. E cosí stando un giorno co’ ferri in gamba al sole, lo saccardo, a cui elli avea dato il cascio, passando dove Bertino assai tapino si stava, cominciò a figurare [riconoscere] il detto Bertino» dal grosso pollice della mano destra.

Un’evasione per sdebitarsi

Il contadino invece non si ricorda subito del soldato, perché «guerito e ben in arnese», che insiste: «Raccordati [Ti ricordi] del cascio che mi desti a Santo Miniato?», finalmente Bertino si rammenta : «Figliuolo mio, io ti conosco ora». Il saccardo si offre di aiutare l’amico prigioniero: «Non voglia Dio che io non te ne rendi guidardone [ricompensa]; farai com’io ti dirò: io ti recherò domattina una lima sorda [che non fa rumore] con che tu segherai cotesti ferri; e menerò colui che t’ha preso altrove, e io tornerò per te e accompagnerotti insino a casa tua». Bertino è commosso dalla generosità del soldato: «Figliuolo, io terrò sempre la vita per te». La mattina seguente il soldato porta «la lima a Bertino e menò alla taverna chi ’l tenea preso; e quando fu bene avinazzato lo condusse a giucare; ed essendo aviluppato nel giuoco, il saccardo lo lasciò e tornò a Bertino, il quale s’era spastoiato [liberatesi le gambe] e condusselo a Castelfalfi e mai non lo abandonò. Dove il detto Bertino gli volle dare de’ suoi fiorini, e nessuno volle torre [il saccardo non ne accettò nessuno]; e tornossene [partí]». Com’è sua abitudine, Sacchetti trae una morale da questa novella: «Quanta virtú ebbe questo saccardo, e quanta remunerazione usò in un piccolo benefizio ricevuto, è cosa maravigliosa a udire. Io per me credo, se fusse stato de’ maggiori Romani, serebbe degno di memoria. E però [perciò] non si può errare a servire [a essere generosi verso gli altri], e sia l’uomo minimo quanto vuole; però che [poiché] Isopo [Esopo, mitico favolista greco] ci ammaestra nella sua favola, quando il leone ebbe bisogno del ratto, dicendo: Tu, qui summa potes, ne despice parva potenti [Tu, che puoi fare cose grandi, non disprezzare chi può farne di piccole]». Rientrano nella vasta categoria dei pauperes anche

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il trecentonovelle di franco sacchetti/13

le persone con disabilità. Un podestà amico di Sacchetti (CXLI) si trova alla fine del suo mandato: da lí a un mese verrà sostituito da un altro, «il quale in tutto era sordo». Come abbiamo già piú volte ricordato, il podestà medievale era un forestiero esperto di diritto che veniva chiamato a esercitare la magistratura in un’altra città per un anno, al fine di garantire imparzialità nelle decisioni. Il nuovo podestà è talmente sordo «che quando la campana grossissima delle tre sonava per Firenze, li vicini veggendo che costui non l’udiva e perché non fosse preso dalla famiglia [sbirri], gli accennavano, alzando le dita all’aria, che se n’andasse a casa». I gendarmi, infatti, mettevano agli arresti coloro che, privi di autorizzazione, andavano in giro per la città dopo l’ora del coprifuoco segnalata dalla campana.

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In alto un’altra miniatura tratta da un’edizione del Tacuinum Sanitatis raffigurante due uomini che raccolgono fichi. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. A destra, sulle due pagine Palazzo Pretorio, olio su tela di Federico Zandomeneghi. 1865. Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna. Il dipinto immagina una scena di vita quotidiana all’interno dell’edificio fiorentino noto anche come Palazzo del Bargello, oggi sede dell’omonimo Museo Nazionale.

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Il podestà amico di Sacchetti si trova a gestire una delle sue ultime liti, quella di una donna che sostiene alla sbarra: «Messer lo Podestà, io vegno a Dio e a voi, però che [poiché] un mio vicino m’ha fatto col torto una grande cattività; però che [poiché] per un mio chiasso [vicolo] dirieto egli è entrato e hammi guasta e rotta una mia ficaia [pianta di fico] che io avea ne l’orto; e però vi prego che, com’egli me l’ha fatto col torto, che voi me lo rifacciate col diritto e con la ragione». Il discorso della donna è infarcito di metafore sessuali, perché Sacchetti gioca sul modo di parlare degli ignoranti: «Il Podestà, udendo costei, avea voglia di ridere e pur si ritenea». La donna è accompagnata dal fratello e aggiunge: «E questo mio fratello dee avere da lui danari di quattro opere [giornate di lavoro] e la menda [il difetto] d’uno asino che gli guastò [rovinò]». Il podestà domanda all’uomo se quanto affermato dalla sorella corrisponde al vero: «Messer lo Podestà, io non odo ben lume [io non sento bene]; questa mia sirocchia v’ha detto come sta la cosa».

Un dibattimento dai toni grotteschi

Il magistrato fa convocare per la mattina seguente «colui che dovea aver guastato la ficaia» e chiede alla donna che cosa pretenda per lei e anche per il fratello, poiché era «un sordacchione balordo». Il podestà chiede al chiamato in causa se le accuse della donna siano vere, ma costui «agirando gli orecchi» risponde: «Messer lo Podestà, io non odo bene». Un messo ripete la domanda del podestà all’accusato, gridandogli nelle orecchie, ma questi si limita a dire: «Io non so a quello io debbo rispondere». La donna è irritata: «E’ si mostra delle cento miglia [Finge di non capire]; egli ha ben del sordo, ma egli ode ben quando vuole udire». Il podestà decide di affidare la controversia a un paciere di fiducia della querelante e del querelato, perché erano parenti. Quando il podestà impone all’arbitro di risolvere la controversia entro tre giorni, pena un’ammenda di venticinque lire, rimane sbigottito dalla sua mancanza di reazione: «Questo albitro stava come un uomo di legno; e brievemente, se le parte aveano mal udire, l’albitro era quasi sordo affatto [era quasi del tutto sordo]». Il tribunale è gremito di abitanti del paese che sghignazzano e il podestà prende in mano la grottesca situazione: «Buona donna, e’ non ci è niuno che oda altro che tu; e io a te dico che voglio dare sentenza sopra questa questione». La donna appare tutta contenta, pensa di «aver ragione della sua ficaia», ma il suo entusiasmo svanisce subito: «La sentenza che io do è questa: che veggendo che l’uno e l’altro di questi che hanno la questione son sordi, e l’arbitro che avete eletto è anco sordo, e io non saprei né intendervi né favellare per cenni; considerando che ’l nuovo Podestà ci fia di qui a un mese, a lui lascio la vostra questione». I presenti intuiscono il motivo della decisione: «Essendo coloro tutti e tre sordi, aspettassino il Podestà sor-

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il trecentonovelle di franco sacchetti/13

do; ed elli, come pratico de’ costumi de’ sordi, terminerebbe quella questione sordamente, come tra sordi si dovea terminare». In questa novella Sacchetti utilizza la sordità per raccontare una situazione ambigua e paradossale, carica di comicità e di doppi sensi; il finale lascia intendere che il nuovo podestà, anch’egli sordo, equivocherà il reale motivo della lite.

Le avventure di un ex barbiere

La categoria di pauperes piú presente nel Trecentonovelle è quella dei ciechi, considerati i piú meritevoli di elemosina, in quanto fortemente limitati nella loro attività lavorativa. A Orvieto (CXCVIII) vive Cola «ed era stato barbiere. Avendo circa anni trenta, perde la luce; e non possendo vivere, ché povera persona era, piú col guadagno né di quella arte [mestiere] né d’alcuna altra,

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convenne che si desse a domandare la limosina; e avea preso per uso alla chiesa maggiore d’Orvieto fare ogni mattina in sino a terza [fino alle nove del mattino] la sua dimora; e quivi gli era fatto per l’amor di Dio, da’ piú della terra [dalla maggior parte dei cittadini], carità». In breve tempo, l’ex barbiere riesce a racimolare cento fiorini che cela sotto i vestiti in un borsello. Un giorno Cola pensa di nascondere i fiorini sotto la pavimentazione della chiesa: «E cosí, come avea pensato, fece, non credendo che alcuno fosse nella chiesa rimaso che ’l vedesse. Era per aventura rimaso nella chiesa uno Iuccio pezzicheruolo [pizzicagnolo, rivenditore di salumi e formaggi] che adorava dinanzi a santo Giovanni Boccadoro». Il pizzicagnolo prega davanti a san Giovanni Crisostomo, ma Sacchetti allude alla cupidigia di denaro, in quanto Crisostomo significa «bocca d’ofebbraio

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La parabola dei ciechi, tempera su tela di Pieter Bruegel il Vecchio. 1568. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte.

chiede a un suo figliolo di nove anni di accompagnarlo in chiesa e di osservare attentamente «tutti uomeni e donne che passeranno, e terrai a mente se niuno vi passa che mi guardi piú che gli altri, o che rida, o che faccia alcuno atto verso di me, e tieni a mente chi egli è». Il fanciullo prende molto seriamente il compito affidatogli dal padre e nota che «questo Iuccio, passando, avea affisato e sorriso inverso il cieco padre». Questo particolare dimostra come i disabili non fossero sistematicamente sbeffeggiati nel Medioevo, in quanto fra tutte le persone che entrano in chiesa soltanto una lo fa.

Fiorini che vanno e che vengono

ro». Iuccio si accorge che Cola nasconde le monete sotto una mattonella e «aspettò tanto che Cola si fusse partito, e subito andò nel luogo (...) e guardando vide un mattone fuori di forma mosso dagli altri; e con uno coltello quasi come una lieva levatolo suso, vide il borsello; e subito se lo recò in mano e racconciò il mattone come prima e con li detti denari se n’andò a casa sua, per animo [con intenzione] di non manifestarli mai [di nasconderli]». Dopo tre giorni, Cola vuole scoprire se il denaro si trova ancora dove lo aveva nascosto, ma si accorge che il gruzzolo è scomparso. Torna a casa pieno di malinconia, ma «gli venne un pensiero acuto, come a’ piú de’ ciechi interviene». In questo passaggio, Sacchetti sottolinea come la maggior parte dei ciechi compensi la mancanza della luce esteriore con il lume della ragione, una diversa abilità. La mattina seguente Cola

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Cola intuisce cosí che il pizzicagnolo gli ha rubato il denaro ed escogita un piano per riprendersi il maltolto, lo va a trovare e gli dice: «Frate mio io vegno a te e con gran fidanza e con grande amore: come tu sai, egli è buon tempo che io perdei il vedere, ed essendo in povero stato con gran famiglia, m’è stato forza di vivere di lemosina; e per grazia di Dio e per bontà e di te e degli altri Orvietani, io mi trovo avere fiorini duecento, de’ quali fiorini cento ho in un luogo a mia petizione [a mia disposizione], e gli altri ho dati in serbanza a piú miei parenti, che in otto dí gli averò. E pertanto, se tu vedessi modo di pigliare questi duecento fiorini e farmi per amore di messer Domenedio quella parte di guadagno che ti paia conveniente per sostenere e me e’ miei figliuoli, io ne serei molto contento, però che [poiché] in questa terra non è alcuno in cui piú mi fidassi, e non voglio che di ciò si faccia alcuna scrittura, e che niente se ne dica e che niente se ne sappia. Sí che io ti priego caramente, che che partito tu pigli [qualunque decisione tu prenda], che di ciò che io t’ho detto mai per te non se ne dica alcuna cosa; però che [in quanto] tu sai che, come si sapesse che io avesse questi danari, tutte le limosine che mi sono date mancherebbono». In questo passaggio notiamo la scaltrezza e l’astuzia di Cecco che si preoccupa di perdere la sua fonte di reddito se si sapesse quanto ha già accumulato. Iuccio pensa di poter guadagnare anche il denaro che Cecco ha affidato ai suoi parenti: prende tempo con l’ex barbiere per andare a riporre il borsello con i cento fiorini sotto il mattone della chiesa, in quanto pensa che sia quella la liquidità a cui l’amico faceva riferimento; subito dopo, Cola si reca in chiesa, sposta il mattone e si riprende il denaro rubato. Il giorno seguente, Iuccio svela il suo investimento a Cola per mettere a reddito i presunti duecento fiorini: vuole acquistare all’ingrosso carne salata e caciocavallo per le truppe di messer Gomez, nipote del cardinale Egidio Albornoz, vicario del papa in Italia centrale. Cola appare entusiasta: «Io voglio andare oggi per fiorini cento e forse anco per gli altri e recherottegli».

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il trecentonovelle di franco sacchetti/13 Trascorso qualche giorno, Cola si presenta tutto mesto a Iuccio: «dov’io avea riposti cento fiorini non gli ci truovo, ché mi sono stati furati [rubati]; e quelli mei parenti dov’io avea in serbanza gli altri cento in piú partite [in somme divise fra varie persone], chi mi dice non gli ha e chi peggio; sí che io non ho altro che strignere le pugna, tanto dolore ho». Il pizzicagnolo ha quasi portato a termine il suo investimento ed è disperato, perché non sa come uscirne, e Cola gli risponde: «E’ me ne pesa quanto puote per te, ma per me me ne duole molto piú forte, ché rimango in forma che mal potrò vivere e converràmi ricominciare a fare capital nuovo; ma, se Dio mi fa grazia che mai io abbia piú nulla, io non gli ficcherò per le buche né ad alcuna persona, se fosse [anche se fosse] mio padre; gli fiderò o darò in serbanza [li darò in banca per investimento o per risparmio]». Iuccio cerca almeno di convincere l’ex barbiere a recuperare i cento fiorini dai parenti, ma Cola appare irremovibile: «Iuccio mio, se io volesse appalesare [rendere noto a tutti, facendo causa ai miei parenti] i fiorini cento de’ parenti miei, io me ne richiamerei e serebbemi fatto ragione, ma io non gli voglio far palesi [vedere], perché se io averei perduto le lemosine, come si sapesse. E pertanto io gli fo perduti, se già Iddio non gli spirasse [ispirasse i parenti a restituirmeli], sí che da me non isperare alcuna cosa, poiché la fortuna ha cosí disposto. Come che io rimanga, io per me, veggendo la tua buona disposizione, la quale era di farmi ricco, reputo d’averlo ricevuto e d’avere in borsa fiorini duecento, come se tu l’avessi fatto, però che da te non è mancato. Una cosa farò, che io farò far l’arte [fare incantesimi] a un mio amico, se nulla mi potesse dir di chi fosse stato [a rubare i cento fiorini]; e se ventura ce ne venisse, io tornerò da te». Dopo aver ascoltato il ragionamento del finto amico, Iuccio appare rassegnato: «Or ecco, va’ e ingegnati con ogni modo, se puoi rinvenire e riavere il tuo; e se ti venisse ben fatto, tu sai dov’io sto, se niente ti bisogna; datti pace il piú che tu puoi e vatti con Dio».

La cecità non ostacola l’arguzia

Sacchetti sintetizza la morale del racconto: «E non è perciò da maravigliare, però ch’e’ ciechi sono di molto piú sottile intendimento che gli altri; ché la luce il piú delle volte, mirando or una cosa or un’altra, occupa l’intelletto dentro». Porta come esempio due amici che mentre stanno discutendo vengono distratti dal passaggio di una donna: «Di cosa stavo parlando?» chiede l’uno all’altro: «E questo è solo che quel vedere occupò lo ’ntelletto in altro [distraesse il pensiero]; di che la lingua, la quale era mossa dallo ’ntelletto, non poté seguire il corso suo. E però fu che [Per evitare questo] Democrito [filosofo materialista del V secolo a.C.] si cavò gli occhi per avere piú sottili intendimenti». Non tutti i ciechi però utilizzano le loro capacità per tutelare in modo lecito i propri diritti. Minonna Brunelleschi (XCI) «in molte cose passava gli aluminati [i vedenti] per tale che niuno suo vicino era che, se aveva a

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Sulle due pagine tavole tratte dallo Specchio umano di Domenico Lenzi, oggi piú noto come Libro del Biadaiolo, poiché il suo autore era un mercante di biade. XIV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. In alto, i cittadini di Firenze danno accoglienza ai poveri cacciati da Siena durante la carestia del 1328-1330 e li sfamano; nella pagina accanto, il mercato del grano di Orsanmichele in grande agitazione a causa della carestia: si vedono persone discutere animatamente, altri piangono e si dolgono, mentre sulla folla incombono uomini armati di lancia e scudo accorsi a sedare il tumulto.

mettere cannella [attrezzo per spillare il vino dalla botte] in botte di vino non mandasse per lo Minonna che la mettesse; e io [Sacchetti] piú volte il vidi che mai non versava goccciola di vino, giucava a zara [gioco d’azzardo ai dadi] e andava solo senza niuna guida». Una sera Minonna guida due complici a rubare le pesche dagli alberi di un vicino: «Questa è ben gran cosa, che gli aluminati sogliono guidar e’ ciechi e questo cieco vuol guidar gli aluminati» commenta sarcastico uno dei due ladri. La mattina seguente «Minonna ed ellino se ne vanno a Firenze e questi due non potendosi tenere che la detta novella non divolgassino» la notizia del singolare furto perviene alle orecchie del vicino derubato, Giovanni Manfredi, che la notte successiva decide di vendicarsi febbraio

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il trecentonovelle di franco sacchetti/13 Ancora una miniatura tratta da un’edizione del Tacuinum Sanitatis raffigurante la raccolta dell’aglio. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

rubando e recidendo i cavoli nell’orto del ladro delle sue pesche. Quando Minonna apprende la notizia del danno, va su tutte le furie: «Comincia a soffiare che parea un porco fedito, con un naso scrignuto [ricurvo] e con un leggio [una gobba grande come un leggio] di drieto per ispalle, che parea un dalfino quando sopra il mare si getta soffiando a indovinare tempesta».

L’aglio rubato

Una sera, aiutato da due complici, il furibondo cieco va nell’orto di Manfredi, «di smisurata bellezza», strappa le teste d’aglio e ripianta solo il gambo. Qualche giorno dopo Giovanni Manfredi e Minonna si incontrano alla colonna detta Croce del Trebbio, presso S. Maria Novella a Firenze. Manfredi si lamenta che le sue piante d’aglio sono tutte appassite e Minonna finge di cascare dalle nuvole: «Saranno forsi bruciolati [guastati dai bruchi]». Giovanni «comprende troppo bene che ’l Minonna

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abbia fatto qualche cosa; ed entrato ne l’orto, tira uno aglio, tirane due, e’ poté assai tirare che trovasse il capo a niuno». I due vanno avanti a reciproche accuse e vengono alle mani: «Aveano centocinquant’anni tra amendue, e l’uno era cieco, e l’altro avea gli occhi arrovesciati che pareano foderati di scarlatto [rossi come se fossero foderati di stoffa scarlatta]. La gente fu su [La gente si precipitò addosso a loro, li divise] feciono fare la pace; al Minonna rimasono gli agli» all’altro «i cavoli (...) e mai non si vollono bene, e sempre borbottavano (...) niuno per amendarsi [scusarsi]; aveano i pié nella fossa e imbolavano [rubavano] agli e cavoli: averebbono ben tolto altro, perché cane che lecchi cenere, non gli fidar farina». Il proverbio allude al fatto che chi ruba poco è sempre pronto e ben disposto a rubare di piú. Un’avidità e una slealtà paragonabili a quelle di Minonna Brunelleschi segnano anche la novella CXCVIII, in cui tre ciechi decidono di mettersi in società per dividersi i guadagni dalle elemosine. Non fidandosi l’uno dell’altro, alla prima incomprensione finiscono per azzuffarsi a suon di bastonate, in una sorta di comica mosca cieca. Da queste novelle possiamo trarre alcune considerazioni. In una società come quella medievale, in cui erano tutti credenti, compiere gesti di carità era importante per applicare il Vangelo, come insegnava Cristo, ultimo fra gli ultimi. L’elemosina a chi non poteva lavorare era anche un modo importante per far circolare la moneta e contribuire al progresso della società, come ha sostenuto lo storico dell’economia Carlo M. Cipolla (1922-2000). Nel racconto di Cola da Orvieto, vediamo che in breve tempo l’ex barbiere riesce a mettere da parte un capitale notevole grazie alla generosità dei suoi concittadini. Sacchetti mostra una calorosa simpatia verso gli ultimi, come il soldato in disgrazia e il contadino benefattore, cosí come nei confronti dell’ingegno che mostra il mendicante Cola per tutelare i suoi interessi. Quando però si accorge che gli ultimi si dimostrano avidi e scorretti sfruttando la propria disabilità, come la compagnia dei tre sordi e Minonna Brunelleschi, allora lo scrittore affila la penna e li punge sul vivo con la sua feroce ironia, perché li paragona a comuni disonesti, che incarnano il male della societas.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Il potere febbraio

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testi di Francesca Tasca, Marco Fratini, Daniel Toti, Samuele Tourn Boncoeur e Davide Rosso

Nel 1174, Valdo, un ricco e stimato cittadino di Lione decide di rinunciare a tutte le proprie sostanze per darsi alla predicazione. A 850 anni dall’evento che ne segnò la nascita, il movimento valdese celebra la ricorrenza e, in esclusiva per i nostri lettori, si racconta...

VALDESI

LA VERA STORIA DEI POVERI DI LIONE Valdo di Lione ritratto in una delle statue che compongono il monumento alla Riforma protestante realizzato da Ernst Rietschel a Worms. 1868.


Dossier

LE PRIME GENERAZIONI VALDESI di Francesca Tasca

N

ell’anno 1174 Valdo, ricchissimo cittadino di Lione, decise di liberarsi di tutti i propri beni e di lasciare la famiglia per intraprendere una vita di predicazione itinerante in totale povertà, sul modello apostolico. In breve tempo raccolse intorno a sé uomini e donne, prevalentemente di condizione laicale, che ne imitarono la scelta esistenziale: andare

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per il mondo a due a due a predicare in volgare il Vangelo. Per il proprio sostentamento essi mendicavano e si affidavano all’altrui generosità, confidando convintamente nell’indicazione paolina secondo cui «chi annuncia il Vangelo del solo Vangelo viva». Si astenevano quindi dallo svolgere qualunque altro tipo di attività che non fosse la predicazione a tempo pieno.

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Inevitabile fu l’intervento delle autorità ecclesiastiche, volto a normare, depotenziare e contenere tale dirompente iniziativa, che minacciava la struttura gerarchica della società cristiana, fondata invece sulla nitida distinzione tra clero e laicato, soprattutto per quanto riguardava il possesso e la proclamazione della Parola. Ma come scaturí in Valdo l’iniziativa di spogliazione pauperistica e di libera predicazione

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evangelica a partire dalle piazze, le strade e i vicoli di Lione?

Una città fiorente

Quando Valdo si rese protagonista dell’eclatante spogliazione pauperistica, molte città dell’Europa occidentale stavano vivendo una progressiva ripresa dei commerci e, soprattutto, del flusso monetario. La fondazione di nuovi centri abitati, o il risorgere di città fondate secoli prima, coincise con una rinnovata

Rue maudite (la via maledetta), la strada di Lione in cui avrebbe abitato Valdo e dunque cosí denominata a seguito della condanna ereticale; oggi si chiama rue de la Poulaillerie. Da un facsimile del Plan Scenographique de la Ville de Lyon au XVI siècle. 1872-1876. Nella pagina accanto alcune delle pagine di apertura del Liber Antiheresis di Durando de Osca, che riporta la professione di fede e il proposito di vita di Valdo e dei suoi fratres. 1180 circa. Madrid, Biblioteca Nacional.

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Dossier importanza del denaro: il «fluido veloce» in grado di garantire la circolazione del «fiume delle merci». Lasciatasi alle spalle la decadenza del sistema monetario romano prima e di quello carolingio poi, era infine tornata la liquidità.

I poteri dell’arcivescovo

Anche Lione partecipò alla generale ripresa. Tuttavia, rispetto ad altre coeve realtà urbane, nella città francese la ricchezza era ancora in larga misura nelle mani dei numerosi enti religiosi locali: la consueta signoria fondiaria era esercitata dalle istituzioni ecclesiastiche, culminanti nella figura dell’arcivescovo, il quale, in piú, deteneva anche la signoria bannale (ossia l’esercizio della giustizia, innanzi tutto, ma anche altri privilegi, come la riscossione di pedaggi e il diritto di battere moneta). L’arcivescovo costituiva a Lione la sintesi del potere: non solo religioso, bensí anche economico, giudiziario, politico e amministrativo. Una situazione che l’imperatore Federico Barbarossa aveva formalmente riconosciuto con la Bolla d’Oro del 18 novembre 1157 concessa all’arcivescovo Eraclio di Montboissier (1153-1163). Prima della conversione religiosa, Valdo aveva verosimilmente avuto legami con il potere ecclesiastico in generale e con quello arcivescovile in particolare. Le differenti fonti, pur nella loro ineliminabile diversità, ci descrivono infatti Valdo come un cittadino molto abbiente e famoso, un esponente in vista nella realtà lionese, con un patrimonio notevole, sostanziato di beni tanto mobili quanto immobili, forse anche implicato in attività di prestito a usura: avrebbe disposto di una ricchezza che, in parte di tipo fondiaria e in parte mone-

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taria, in parte «antica» e in parte «nuova», rifletteva il profilo della Lione di quegli anni, in bilico tra nuova economia urbana e radicate eredità feudali-ecclesiastiche. Si può ipotizzare che Valdo, con un profilo economico di spicco, in un centro urbano con una consistenza demografica stimata intorno ai 10-12 000 abitanti, fosse in una qualche misura coinvolto nel sistema di entrature e relazioni vi-

gente nella realtà lionese del suo tempo, al cui vertice si ergeva l’arcivescovo, vero signore della città. È inevitabile interrogarsi sulle possibili ragioni all’origine della radicale conversione di Valdo. Che cosa spinse l’eminente cittadino a farsi predicatore mendicante? Nell’età del risveglio monetario il pauperismo volontario si potrebbe configurare come una forma di risposta compensatoria.

Restituzione grafica del sigillo dell’arcivescovo di Lione Giovanni Bellemani. Nel 1182 cacciò Valdo da Lione e, nel 1184, partecipò all’incontro di Verona con papa Lucio III e l’imperatore Federico Barbarossa, a seguito del quale venne emanata la prima formale condanna per eresia dei Poveri di Lione. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Tuttavia, se non può certo disgiungersi dal rapporto con il denaro, la vicenda religiosa di Valdo di Lione non può nemmeno a questo essere limitata. Non sono molte le fonti dei secoli XII e XIII che ci informano su Valdo di Lione. Per di piú sono quasi tutte prodotte da avversari. Nonostante le deformazioni denigratorie, in esse è tuttavia ancora riconoscibile il cuore dell’iniziativa religiosa di Valdo: la volontà di rinnovare la missione apostolica attraverso la libera predicazione itinerante per il mondo. La povertà totale si configura come aspetto inevitabile nella scelta dell’imitazione apostolica: un suo intrinseco attributo. Le fonti di cui disponiamo offrono motivazioni della conversione fra loro molto diverse. Il Liber Visionum, prodotto all’interno della potentissima abbazia cisterciense di Clairvaux, attribuisce il repentino cambiamento a una terrificante visione dell’aldilà, che avrebbe tanto scosso il ricco cittadino di Lione al punto da ridursi a mendicare porta a porta. L’anonimo Chronicon di Laon indica invece come causa scatenante l’ascolto della celebre leggenda di sant’Alessio, cantata da un giullare sulla pubblica piazza.

Sete di verità

Il Tractatus dell’inquisitore domenicano Stefano di Borbone narra dell’intensa lettura individuale della Bibbia, la cui traduzione dal latino in volgare Valdo, desiderofebbraio

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so di comprendere meglio e piú a fondo, aveva appositamente commissionato. L’anonimo Inquisitore di Passau riferisce invece dello shock per aver assistito alla morte improvvisa di un altro notabile di Lione. Non potremo mai sapere quale tra le diverse versioni corrisponda all’autentica prima scintilla della conversione di Valdo. Del resto, sia che si voglia considerarla un processo che si dispiega nel tempo o un evento condensato in un singolo istante, ogni conversione religiosa ha a che fare con le piú oscure e insondabili profondità dell’animo umano e, dunque, le sue ragioni restano irriducibilmente inconoscibili.

Contro i dualisti

Vi è poi il Liber Antiheresis, che, composto da Durando de Osca, discepolo di Valdo, offre un punto di vista particolarmente prezioso. Databile entro i primissimi anni del Duecento, è una sorta di pratico compendio di riferimenti biblici da utilizzarsi per rispondere ai dualisti (i cosiddetti catari, ossia «puri»), al tempo diffusi e attivi in Francia meridionale. Attestati dalla metà dell’XI secolo fino ai primi decenni del XIV secolo, questi professavano una teologia dualista di probabile origine balcanica, imperniata sulla lotta tra il Principio dello Spirito e il Principio della Materia. Essi erano riconoscibili per pratiche improntate al disprezzo del corpo e al distacco dal mondo, volte a pervenire alla liberazione dal ciclo delle reincarnazioni. Prima della repressione armata, con la sanguinosa campagna militare del 1209-1229 (la cosiddetta «crociata contro gli Albigesi»), la Chiesa cattolica, per contrapporsi ai dualisti, aveva tentato la strategia della persuasione attraverso pubbliche dispute. Alla presenza del popolo e di una giuria, ci si affrontava con autorità scritturali e rispondendo alle con-

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futazioni altrui. Al termine della disputa era previsto un verdetto di vittoria e di sconfitta. Nella situazione di fluidità propria della fase tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, le parti coinvolte potevano essere, a geometria variabile, cattolici, valdesi (Pauperes de Lugduno) e dualisti. Durando de Osca afferma che Valdo sarebbe stato provvidenzialmente suscitato proprio per combattere i diffusi errori dualisti. Gesú Cristo stesso avrebbe scelto e chiamato Valdo, cosí come un tempo aveva scelto e chiamato pescatori analfabeti per la missione apostolica, e lo avrebbe

Valdo in un fotogramma dal film in bianco e nero del regista Nino Martinengo, Valdesi. Un popolo di martiri (1924). La censura fascista ritirò il film dalla circolazione perché avrebbe proposto contenuti sovversivi e vilipendio alla religione di Stato. Torre Pellice, Fondazione Centro Culturale Valdese.

inviato affinché, per mezzo suo e dei suoi compagni, si opponesse agli errori dilaganti, cosa che gli esponenti delle istituzioni ecclesiastiche non facevano. Dunque, secondo le parole di Durando de Osca, l’elezione di Valdo di Lione si poneva in continuità con l’elezione apostolica dei

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Nella pagina accanto pagina miniata recante una vignetta in cui il re di Inghilterra Enrico II Plantageneto dà indicazioni a Walter Map, membro di spicco della sua corte, che riferisce dell’incontro a Roma nel 1179 con una delegazione valdese. 1290 circa. New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and Manuscript Library. A destra capolettera miniato raffigurante papa Alessandro III affiancato da Federico Barbarossa e sua moglie, da un’edizione della Conquête de Constantinople di Goffrédo di Villehardouin. 1330 circa. Oxford, Bodleian Library. Sia il pontefice che l’imperatore intersecarono le vicende di Valdo di Lione.

primi tempi della predicazione cristiana: Valdo, nuovo apostolo, suscitato da Gesú Cristo per combattere i catari attraverso la predicazione in povertà.

I rapporti con le istituzioni ecclesiastiche

Secondo il Chronicon di Laon, Valdo si sarebbe recato a Roma nel 1179, in occasione del III Concilio Lateranense, e lí avrebbe incontrato papa Alessandro III. Tra i due vi sarebbe stato un abbraccio. Tuttavia, la richiesta di libera predicazione sarebbe stata respinta. Anche l’inglese Walter Map era presente al medesimo Concilio quando una delegazione di Valdesi si presentò chiedendo il diritto

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di predicare. L’incontro, riportato nel celebre De nugis curialium, è tra le piú precoci testimonianze sulle prime generazioni valdesi. Map riferisce che, per ottenere l’autorizzazione a predicare, la delegazione valdese presentò al papa un testo in lingua francese contenente i Salmi e molti libri di entrambi i Testamenti. La delegazione venne però liquidata dopo un rapidissimo esame che ne ridicolizzò l’impreparazione teologica. Tuttavia, descrivendo i valdesi mentre si allontanano dalla curia romana derisi e sconfitti, Walter Map evidenzia indiscutibili aspetti apostolici, percepiti come minacciosi: «Costoro non hanno dimora fissa in nessun luogo, camminano a due a due, a piedi

nudi, vestiti di lana, non possiedono nulla, tengono tutto in comune come gli apostoli, nudi imitando Cristo nudo. Ora cominciano a muoversi in maniera davvero umile, poiché non possono allungare il piede; ma se li lasciassimo entrare, saremmo scacciati». Appare evidente la paura dell’alto prelato inglese nel vedere persone che osano infrangere il confine tra chierici e laici. A Lione, probabilmente nel 1180, al tempo dell’arcivescovo Guiscardo, venne raggiunto un accordo tra Valdo e le gerarchie ecclesiastiche: il propositum di vita religiosa che ne risultò – unicamente conservato in un manoscritto della Biblioteca National di Madrid – fa riferimento al solo pauperismo

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radicale. Non vi è alcun minimo cenno alla predicazione. Si trattò, tuttavia, di un compromesso assai precario: una breve battuta d’arresto di circa due anni. Ripresa la predicazione, il nuovo arcivescovo, Giovanni Bellemani, cacciò Valdo e i suoi da Lione.

Una divisione netta

Se il pauperismo era accettato nel mondo urbano come condizione di marginalità, la contestazione dell’ordinamento vigente non poteva invece essere accolta, generando cosí l’espulsione inappellabile. La pericolosità della proposta di Valdo non consisteva infatti nel contestare il denaro e le ricchezze, bensí nel mettere in discussione attraverso la propria scelta esistenziale la struttura stessa della società cristiana, la sua organizzazione gerarchica e la marcata divisione tra chierici e laici. Si spiega cosí la definitiva condanna formulata contro i Poveri di Lione, nel 1184, a Verona, con la decretale Ad abolendam emanata da papa Lucio III, in sintonia con l’imperatore Federico Barbarossa. Lo stesso arcivescovo lionese Giovanni Bellemani si trovava per l’occasione a Verona nell’autunno del 1184: fu uno di quei «molti arcivescovi e principi che dai diversi territori dell’Impero si riunirono contro gli eretici». Ancora vivente Valdo, il movimento aveva già evidenziato al proprio interno pluralità: nel 1205 il piacentino Giovanni di Ronco aveva capeggiato lo scisma dei Poveri lombardi. Le fratture si acuirono con il venir meno dell’iniziatore lionese. Dopo la morte

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Nella pagina accanto incipit del Rescriptum di Bergamo, resoconto dell’incontro svoltosi nel maggio 1218 tra delegati dei fratres Ytalici e dei fratres Ultramontani. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. In basso rovescio del grosso d’argento da sei denari di età federiciana con un profilo della città di Bergamo come doveva apparire al tempo dell’incontro del maggio 1218.

di Valdo, avvenuta probabilmente nel 1207, una parte dei Pauperes rientrò nell’alveo della Chiesa di Roma, dando vita a due gruppi che Innocenzo III riconobbe e autorizzò: i Poveri cattolici (1208) e i Poveri riconciliati (1210). Tra quanti erano rimasti all’esterno del perimetro cattolico non mancarono divergenze. Nel maggio 1218 sei delegati dei fratres Ytalici e sei delegati dei fratres Ultramontani – due gruppi che si riferi-

vano entrambi, ma in modi diversi, all’iniziativa religiosa di Valdo di Lione –, si incontrarono nei pressi di Bergamo, nel tentativo (fallito) di conciliare le differenti tendenze. Il resoconto dell’incontro, redatto in forma di lettera-verbale, è fortuitamente sopravvissuto all’interno della documentazione inquisitoriale di area tedesca ed è noto come «Rescriptum di Bergamo». Nel prezioso documento vengono affrontati nove diversi nuclei di carattere dottrinale e organizzativo. In particolare, si riportano le parole stesse di Valdo, secondo il quale non è consentito lavorare, né avere alcuna figura direttiva. Due aspetti distintivi, posti tra i primi punti di una discussione che porterà, a un solo decennio dalla morte di Valdo, a significative metamorfosi. Attraverso il Rescriptum di Bergamo è possibile quindi assistere ai primi mutamenti della specifica intuizione religiosa e degli originari intendimenti di Valdo: modifiche connesse al cruciale passaggio successivo alla morte dell’iniziatore, ma anche all’espansione del movimento e, insieme, al progressivo dispiegarsi dell’azione repressiva cattolica. Una capacità di adattamento, insieme alla resistenza, caratterizzante tutta la storia valdese. E che ne consentirà la sopravvivenza nei secoli. Segnaliamo che sugli argomenti qui affrontati è di prossima pubblicazione il primo tomo dedicato al periodo medievale di una nuova Storia dei valdesi in quattro volumi, a cura della Società di studi valdesi, per i tipi dell’editrice Claudiana.

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Dossier

VALDO DOPO VALDO: LA COSTRUZIONE DI UNA STORIA MEMORIA E OBLIO DI UN ERETICO MEDIEVALE

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A destra pagine del Liber electorum, redatto in Italia tra gli anni Trenta e Quaranta del XIV sec., nella versione in latino, in cui Valdo è citato come «Petrus, ut audivi, sed a quadam regione dicebatur Waldis». Cambridge, Cambridge University Library.

di Marco Fratini, Daniel Toti e Samuele Tourn Boncoeur

I

l movimento valdese, originato da Valdo di Lione, presto si diffuse in varie parti d’Europa prevalentemente in forma clandestina per sfuggire alle persecuzioni, e provvide a forme di organizzazione in grado di assicurare i collegamenti fra le comunità. A partire dal XIII secolo, dopo la morte di Valdo, si imposero due visioni opposte: gli avversari ne evidenziarono il ruolo di fondatore di un’eresia recente, con lo scopo di screditare il movimento ancora esistente; dall’altro lato, i valdesi, nel richiamarsi all’eredità apostolica, tesero progressivamente a sfumare l’importanza del loro predecessore, fino a dimenticarne l’esistenza per alcuni secoli.

La donazione di Costantino a papa Silvestro, particolare del ciclo affrescato con la Leggenda di Costantino e San Silvestro. 1243-1254. Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati, oratorio di S. Silvestro. L’imperatore conferisce al pontefice la tiara, aggiungendo cosí al potere spirituale anche quello politico.

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Con lo sviluppo della Riforma del XVI secolo, i protestanti fecero ricorso ai valdesi e al loro fondatore per legittimare la propria antichità da opporre alla successione apostolica della Chiesa di Roma. Da qui derivò un’ampia produzione di opere storiche su fronti contrapposti. Seguendo questa tendenza, presto anche i valdesi sentirono la necessità di costruire un’immagine del proprio passato: in questo processo, Valdo assunse varie funzioni e sfaccettature. Alla fine dell’Ottocento, un approccio scientifico ai documenti restituí a Valdo una centralità rispetto alle origini del movimento, facendo cadere i miti elaborati nei secoli precedenti e aprendo la strada a una successiva riflessione sulla sua scelta e il suo messaggio. Soltanto da un secolo e mezzo, infatti, dal momento in cui lo studio della storia si è affermato come disciplina autonoma, Valdo è riconosciuto all’origine dei valdesi. Accusati dai rappresentanti cattolico-romani di costituire una

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Dossier pericolosa novità rispetto alla secolare – e per questo «autentica» – tradizione della Chiesa di Roma, i valdesi medievali forgiarono un passato che, ridimensionando la figura del fondatore Valdo, consentisse loro un collegamento diretto con l’età degli Apostoli e della Chiesa primitiva. Si vennero a formare cosí alcune leggende sulle origini valdesi, storie fondanti e legittimanti, tramandate dalla storiografia nella duplice distinzione di mito apostolico e mito silvestrino. L’uno ricondurrebbe la nascita del movimento agli anni immediatamente successivi alla morte di Gesú; l’altro ne ricollocherebbe gli esordi nel IV secolo d.C., quando papa Silvestro, accettando i possedimenti e il potere temporale che sarebbero stati concessi dall’imperatore Costantino, tradí la via della povertà mantenuta dalla Chiesa sino a quel momento. È lo scritto di un inquisitore anonimo della diocesi di Passau (Baviera), composto tra il 1260 e il 1270, a rivelarci che tra i valdesi erano in uso entrambe le trasposizioni del mito.

Oltre ai barba, guide spirituali del movimento, furono soprattutto le credenti donne a farsi portavoce di tali leggende: nel 1335, a Giaveno (Alpi occidentali), Peroneta, detta Bruna, riferí all’inquisitore Alberto de Castellario un racconto secondo cui i valdesi sarebbero i successori dei quattro Apostoli, custodi degli autentici libri di Cristo, che, alla morte del Messia, furono costretti dagli altri a vivere in clandestinità. Quasi due secoli piú tardi, nel Delfinato, un’altra fedele, di nome Peironeta de Beauregard, confessò di fronte all’inquisizione di aver ascoltato dai barba la variante silvestrina della leggenda, probabilmente tratta da una versione di un testo valdese conosciuto come Liber electorum.

Il rifiuto di Silvestro

Scritto di origine valdese redatto in Italia tra gli anni Trenta e Quaranta del XIV secolo, il Liber electorum riporta una delle versioni piú celebri del rifiuto della donazione di Costantino. Il testo propone la versione secondo cui un ignoto

compagno di Silvestro decise di non accettare i beni e il potere offerti dall’imperatore. Da quel momento la Chiesa si divise in due parti: la parte piú piccola, da cui discesero i valdesi, proseguí sulla strada della vera fede, a differenza di quella piú grande, che si lasciò corrompere dalle ricchezze. Dopo decenni di oblio, nel testo ricompare la figura di Valdo. Il termine con cui si era soliti identificare quest’ultimo nelle fonti, tuttavia, da nome diventa cognome: stando al resoconto latino del Liber electorum, cresciuta l’iniquità della chiesa nei secoli successivi alla donazione, un Petrus, di una regione detta Waldis, avrebbe ripristinato l’antica purezza di fede intorno al XII secolo. Nel processo di rielaborazione del patrimonio mitico valdese, dunque, l’antico fondatore eponimo divenne un semplice, seppur significativo, restauratore di una presunta fede preesistente. L’aggiunta del nome Pietro lasciava trasparire l’intenzione di legittimare il passato del movimento valdese sulla base di una nuova – e Bibbia stampata nel 1535 grazie al contributo dei valdesi. Tradotta da Pierre Robert, detto Olivetano († 1538), fu la prima traduzione francese riformata basata sui testi originali. Torre Pellice, Biblioteca valdese. Nella pagina accanto, in alto James Ussher (1581-1656), primate della Chiesa d’Irlanda, ritratto da William Marshall (in Ussher, A body of divinitie, or, the summe and substance of Christian religion catechistically propounded, 1647).

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concorrenziale – tradizione petrina. Come in un gioco di specchi, il «Pietro» valdese avrebbe dovuto fare da contraltare a san Pietro, primo pontefice romano. Nella dinamica di contrapposizione con la Chiesa di Roma, «Pietro Valdo» assunse nei tardi secoli medievali attributi e forme diverse.

Tra Valdo e gli Apostoli

Come i valdesi medievali, nel Cinquecento gli autori della Riforma protestante furono costretti a ribattere alle accuse di novitas – attributo infamante degli eretici sin dai tempi di Tertulliano nel II secolo d.C. – mosse dalla propaganda cattolica della Controriforma. Le diverse anime del protestantesimo trovarono negli antichi seguaci di Valdo il modello a cui ancorarsi per dimostrare la costante presenza

A destra il riformatore ginevrino Théodore de Bèze (1519-1605), ritratto da Hendrick Hondius I, in Jacob Verheiden, Præstantium aliquot theologorum, qui romanum antichristum præcipuè oppugnarunt, effigies, Den Haag-Arnhem, Hendrick Hondius I-J. Janssen, 1602-1604.

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Dossier Jean Léger (1615-1670), pastore valdese esule nei Paesi Bassi, in un ritratto di Johann van Munickhuysen [?], in Léger, Histoire générale des églises évangelique des vallées de Piémont ou vaudoises, Leida 1669. Torre Pellice, Biblioteca della Società di studi valdesi.

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nei secoli di testimoni della vera fede e rispondere alle calunnie degli avversari. Il momento di svolta in questo processo di invenzione della memoria è rappresentato dall’opera di Mattia Flacio Illirico (1520-1575), teologo e professore luterano di origine croata, formatosi a stretto contatto con Lutero e Melantone. Nel suo Catalogus Testium Veritatis del 1556, per la cui composizione si serví di un certo numero di preziosi manoscritti, l’Illirico dedicò ampio spazio ai valdesi medievali. Per quanto egli apparisse sicuro nel collocare la loro genesi ai tempi di Valdo di Lione, l’inserimento nell’opera del lungo brano tratto dalla summa medievale dell’Anonimo di Passau contribuí a diffondere i miti sulle origini valdesi tra le Chiese protestanti. L’influenza del volume dell’Illirico in ambito riformato durò per secoli: tra i diversi autori, vi furo-

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Immagine simbolica dei valdesi in chiave apocalittica, sull’antiporta di Jean Léger, Histoire generale des Eglises Evangeliques des Vallees de Piémont ou Vaudoises..., Leida, Jean Le Carpentier, 1669. Torre Pellice, Biblioteca della Società di studi valdesi. Nella pagina accanto, in basso Valerio Grosso, Carta delle tre valli di Piemonte, contenuta nel libro di Jean Léger. Torre Pellice, Biblioteca della Società di studi valdesi.

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Dossier no coloro che accettarono Valdo come fondatore del movimento e chi, al contrario, si limitò a citare la sezione sulle origini apostoliche sminuendo il ruolo del cittadino di Lione. Tra le piú importanti personalità convinte che gli abitanti delle Valli valdesi avessero conservato da tempo immemore le verità della fede vi furono Pierre Robert, detto Olivetano († 1538), autore della prima traduzione francese riformata della Bibbia sui testi originali nel 1535 e Théodore de Bèze (1519-1605), successore di Calvino a Ginevra («sono stati chiamati in questo modo, a causa della loro dimora nelle Valli (...), dove si sono ritirati da molto tempo: (...) sono i resti della pura chiesa cristiana»). Essi, tuttavia, maturarono tale convinzione non sulla base del Catalogus, ma attraverso il confronto con gli stessi valdesi che, passati alla Riforma nel 1532, avevano portato con sé le proprie antiche leggende.

Nascita di un «popolo»

I miti sulle origini elaborati dai valdesi a partire dalla prima metà del Duecento, facendo leva su temi come la purezza di una Chiesa da sempre alternativa a quella cattolico-romana, non si rivelarono soltanto uno strumento a sostegno della causa protestante, ma consentirono agli stessi valdesi un ingresso meno travagliato nella Riforma. Nella lettera dei barba Georges Morel e Pierre Masson al riformatore Ecolampadio, che prelude al «sinodo» di Chanforan del 1532, i due predicatori valdesi si riferivano a «un certo popolo bisognoso e piccolo, il quale (...) come spesso narrano i nostri, dal tempo degli Apostoli» è sopravvissuto. Una Confessione di Fede valdese della metà del Cinquecento, successiva all’ingresso nella Riforma, riporta il medesimo concetto: «Questa religione, da noi professata (...) è la religione dei nostri padri, dei nostri antenati, degli antenati dei no-

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stri antenati, di altri piú anziani dei nostri predecessori, e dei santi martiri, confessori, profeti, e degli Apostoli». I valdesi si trasformano, dunque, ma i loro miti permangono. Testimone del mutamento degli uni e della persistenza degli altri è il ministro di Angrogna (Valli valdesi), di natali francesi, Étienne Noël, che nella Histoire des persécutions (1562) si fece promotore dell’idea

che i valdesi «hanno da sempre perseverato in questa dottrina di salute [salvezza]» e che «il popolo valdese dall’inizio si ritirò all’interno delle alte montagne del Piemonte». In quel periodo, grazie anche all’opera di Noël, si assistette a un importante mutamento: l’appellativo «valdesi», dall’essere rifiutato dagli appartenenti al movimento per esser loro attribuito da polemifebbraio

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Samuel Morland (1625-1695), ritratto da Peter Lily, in Samuel Morland, The History of the Evangelical Churches of the Valleys of Piemont, Londra 1658. Torre Pellice, Biblioteca della Società di studi valdesi. In missione su incarico di Oliver Cromwell e in stretti rapporti con Ussher, Morland depositò una parte dei manoscritti valdesi medievali presso la Cambridge University Library.

sti e inquisitori e per il suo carattere denigratorio, collegato al mondo stregonesco, entrò a far parte del patrimonio identitario dei fedeli delle Valli. A partire da quegli anni, essi cominciarono ad autoproclamarsi orgogliosamente popolo valdese. In un vivace contesto di dibattito nel quale le motivazioni apologetiche avevano ancora ragione sui progressi della critica storico-filolo-

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gica, non tutti i polemisti riformati si mostrarono concordi con l’utilizzo disinvolto dei riferimenti ai miti sulle origini dei valdesi.

Una storia da aggiornare L’importanza della questione valdese nell’ambito delle controversie confessionali è evidente dai continui richiami dei Sinodi delle Chiese riformate del Delfinato a

produrre un’aggiornata Histoire des vaudois. Dopo alterne vicende, vide la luce quella pubblicata nel 1618 a Ginevra dal pastore francese JeanPaul Perrin. Anch’egli, che ebbe a disposizione numerosi manoscritti medievali, tra cui molti rinvenuti nelle Valli, fece cominciare la propria narrazione da «Pietro Valdo» e dalla sua coraggiosa opposizione alle corruzioni della Chiesa di Roma. Perrin seguí nella sostanza il racconto della conversione del lionese riportato da Mattia Flacio Illirico, a cui già si erano ispirati sia il pastore valdese Scipione Lentolo (1525-1599) nella sua Historia delle grandi et crudeli persecutioni, iniziata nel 1561, sia l’inglese John Foxe (1516-1587) che, nella seconda edizione degli Actes and Monuments (1570), colloca gli esordi dei Poveri di Lione intorno al 1160 a partire da «un certo Valdus». Nel mondo britannico del XVII secolo l’interesse per i valdesi si collocava in un quadro di aspettative politico-religiose e progetti di costruzione del passato nazionale e di affermazione della Chiesa d’Inghilterra. La precoce fortuna di Perrin è testimoniata dalle due edizioni inglesi del 1624. Da un lato, la pretesa purezza dei valdesi fu utilizzata in numerose interpretazioni dell’Apocalisse per dimostrare la sopravvivenza, nonostante le persecuzioni, del cristianesimo primitivo contro la corruzione della Chiesa di Roma; dall’altro, la necessità di prove documentarie della loro anticipazione della Riforma portò a cercare nuo-

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Dossier Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), vescovo di Meaux e precettore di Luigi di Borbone, in un ritratto di Pierre Mignard, inciso da François de Poilly I. 1681 circa.

nodo delle Valli valdesi di scrivere una continuazione del libro di Jean-Paul Perrin, Gilles declinò in maniera originale la genesi dei valdesi. Se l’indicazione «les églises vaudoise, commencant des l’an 1160 de nostre Seigneur» presente nel titolo della sua Histoire ecclésiastique des Églises vaudoises è di per sé indicativa del suo pensiero, allo stesso tempo l’autore afferma che Valdo e i Poveri di Lione scelsero le Valli «per aver riconosciuto gli [abitanti] originari non lontani dai loro sentimenti e dalla conoscenza sulla religione». Parrebbe un tentativo di coniugare le esigenze della critica storica con le necessità apologetiche. Da parte cattolica non si fece attendere la risposta di Marco Aurelio Rorengo († 1676), priore di Luserna, il quale, in un’opera del 1649, si premurò di puntualizzare che gli antichi abitanti delle valli Piemontesi «erano Cattolici, e nissuno prova il contrario».

Venuti dalle Valli ve fonti. In questo contesto spicca la figura dell’arcivescovo irlandese James Ussher, il quale, grazie alla propria rete di conoscenze erudite, riutilizzò alcuni dei manoscritti medievali consultati da Perrin e da lui datati erroneamente intorno al 1100, al fine di dimostrare che i valdesi esistevano prima di Valdo.

Ricostruzioni ambigue

La tesi secondo cui il movimento valdese costituí l’anello di congiunzione ideale tra l’età apostolica e la Riforma non poteva non tener conto dell’esperienza di Valdo di Lione. Che la data di conversione del Lionese costituisse un problema di rilievo per i polemisti riformati risulta infatti evidente dalle

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opere dei primi storiografi valdesi. L’Historia breve de gl’affari de i Valdesi del pastore Gerolamo Miolo, composta intorno al 1587 e diffusa per tre secoli in versione manoscritta, comincia asserendo che, «secondo gl’habitatori delle Valli», la pura dottrina venne lí predicata da tempo «immemoriale et come di padre a figliuolo». Successivamente, in relazione al periodo in cui i valdesi si ritirarono nelle predette valli, si specificava che fu a partire dalla «persecutione et dispersione de i Lionisti et di Pietro Valdo». Una simile ambiguità è attestata anche nel piú corposo volume pubblicato nel 1644 dal pastore Pierre Gilles (1571-1646), nativo di Torre Pellice. Incaricato dal si-

Il pastore Jean Léger (1615-1670) fu il piú significativo assertore della genesi apostolica dei valdesi. Strenuo difensore della causa dei propri confratelli nei tempi duri delle persecuzioni che lo costrinsero all’esilio nei Paesi Bassi, egli sviluppò alcune idee già esplicitate, tra gli altri, da Théodore de Bèze. Nella Histoire générale des églises évangelique des vallées de Piémont ou vaudoises, pubblicata dal Léger nel 1669, indiscusse protagoniste erano le Valli valdesi, dalle quali deriverebbe l’appellativo con cui si faceva da sempre riferimento ai suoi abitanti. I valdesi non presero dunque da Valdo le loro origini e neppure il proprio nome, bensí dal luogo (vallis), dove avevano preservato l’autentica fede del Cristo febbraio

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sin dai tempi degli Apostoli, «senza interruzioni e senza necessità di riforma» (come espresso sin dal titolo). Il primo capitolo del volume, di stampo etnico-geografico, è infatti dedicato alla descrizione delle Valli piemontesi, che furono per loro natura il territorio ideale per accogliere dai tempi piú remoti i veri cristiani. I significati profondi dell’opera di Jean Léger sono iconograficamente esplicitati nell’antiporta dell’opera, dove, alla pulsione identitaria e alla carica apologetica, si accompagna la simbologia apocalittica di cui si nutriva la propaganda riformata. L’influenza della costruzione identitaria proposta da Jean Léger si sarebbe riverberata nei secoli a venire, a partire dal contesto valligiano. Nel mondo anglicano essa si diffuse sia in Gran Bretagna (dove già da tempo si era sedimentata una visione idealizzata dei valdesi e delle Valli, grazie anche alla diffusione del libro di Samuel Morland del 1658), sia nelle colonie americane del Sei-Settecento e, piú tardi, fra i viaggiatori inglesi dell’Ottocento.

Il canonico inglese William Stephen Gilly (1789-1855), benefattore della Chiesa valdese. Torre Pellice, Museo valdese.

I miti sulle origini

Nel 1686, la pubblicazione della Histoire des variations des églises protestantes di Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), vescovo di Meaux e precettore di Luigi di Borbone, primogenito del re di Francia, rappresentò un ulteriore momento di svolta nell’ambito della polemistica cattolica. Controversista tra i piú temuti, Bossuet inferse un duro colpo alla pretesa riformata di annoverare i valdesi tra i propri illustri predecessori. Nel contesto di un rinnovato approccio critico all’analisi di testi e manoscritti, il teologo francese non solo dimostrò che la genesi del movimento non poteva essere anteriore a Valdo, ma si premurò al contempo di rigettare con decisione l’autenticità di tali miti, bollandoli come favolistici. Egli negò l’i-

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dea riformata di fare dei valdesi gli anticipatori della fede protestante e sostenne che i Poveri di Lione, nei primi anni della loro formazione, non furono in disaccordo con la Chiesa romana, se non per l’opposizione all’autorità di mediazione dei sacerdoti peccatori. Secondo il prelato cattolico, «i cristiani vogliono vedere una successione nelle loro dottrine e nelle loro chiese. I protestanti si richiamano ai valdesi, i valdesi a un presunto compagno di Silvestro. Entrambe [le ricostruzioni] sono fantasiose».

Il prestigio di Bossuet e l’influenza del suo pensiero sono evidenti nell’opera di uno tra i suoi piú acerrimi detrattori: il pastore ugonotto Jacques Basnage (16531723). Costui, pur non ritenendo inverosimile l’ipotesi che i valdesi potessero vantare natali piú antichi, ammise la fragilità di tali argomentazioni: «Affinché non si possano contestare le fondamenta della presente storia, mi sono accontentato di farli nascere da Valdo di Lione». I secoli successivi videro i piú im-

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Dossier portanti esponenti dell’erudizione europea allinearsi alle posizioni di Bossuet; ciononostante, persistettero ambienti riformati in cui si continuò a sostenere la tesi etimologico-geografica di Jean Léger.

La visita di Paolo

La tesi di Jean Léger sull’origine apostolica dei valdesi si impose al punto da essere ripresa dalla storiografia posteriore, sino alla metà del XIX secolo. A essa fece riferimento, in epoca tardo-settecentesca, Jacques Brez (1771-1798), pastore, naturalista e storico valdese e autore di una Histoire des Vaudois, nel 1796, tradotta in seguito anche in tedesco; Brez riconobbe la Chiesa delle Valli valdesi quale diretta erede di quella apostolica, accennando alla possibilità che lo stesso Apostolo Paolo avesse visitato le Valli mentre si recava in Spagna; i valdesi avrebbero quindi conservato il Vangelo nella sua primitiva purezza. Il mito dell’origine apostolica venne esposto dallo storico illuminista con un distacco tipico dell’atmosfera razionalistica e antidogmatica del tempo, mentre assai diversi furono gli accenni usati dagli autori ottocenteschi Antoine Monastier e Alexis Muston, esponenti di una Chiesa valdese che, dalla strenua difesa dei propri diritti, era passata a una fase di espansionismo missionario: il mito dell’origine apostolica della Chiesa delle Valli poteva servire a quest’ultima a coagulare intorno a sé i gruppi sparsi dell’evangelismo italiano. Già in precedenza, negli anni Venti e Trenta, era scoppiata in Inghilterra una vera e propria «mania filo-valdese» e numerosi viaggiatori si recarono nelle Valli valdesi alla ricerca di una religiosità autentica e antica, seguendo il mito storiografico della continuità apostolica che vedeva i valdesi come «fossili viventi» della Chiesa primitiva. A

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divulgare tale mito al largo pubblico britannico fu in particolare William Stephen Gilly (1789-1855), canonico inglese, benefattore della Chiesa valdese e autore, nel 1823, di un’opera, Narrative of an excursion to the mountains of Piedmont, che fu un vero e proprio best seller, in cui raccontava la sua esperienza alle Valli descrivendo quella valdese come la «Chiesa madre di tutte le comunità Protestanti in Europa». Intorno alla metà dell’Otto-

cento, anche nell’ambito di studi di storia ecclesiastica e del pensiero teologico, si fece strada un approccio positivistico e non piú confessionale alla ricostruzione del passato, in cui la lettura critica dei documenti si impose rispetto alla tradizione interpretativa apologetica. In Germania alcuni teologi e storici protestanti (fra gli altri Joannes Jacobus Herzog, August Wilhelm Dieckhoff, Wilhelm Preger, Karl Müller, Karl Schmidt) analizzarono le fonti sulle origini valdesi, restituendo una centralità alla figura di Valdo come fondatore del movimento considerandolo

ancora come proto-protestante e precursore della Riforma. Ormai riconosciuto come iniziatore – personaggio storicamente documentato e non piú solo come mitico antenato –, Valdo entrò di diritto nelle genealogie dei personaggi illustri del protestantesimo, fino ad assumere un volto: nel 1868, lo scultore tedesco Ernst Rietschel lo raffigurò fra i precursori di Lutero sul monumento alla Riforma a Worms. In ambito valdese la ricezione del nuovo approccio positivistico si deve a Emilio Comba (18391904), pastore e storico valdese, professore alla Facoltà valdese di Teologia, autore di numerose opere dedicate alla storia valdese, anche a carattere divulgativo, a partire dagli anni Ottanta. Fu infatti lui a discostarsi definitivamente da una tradizione che era ancora fortemente radicata pochi anni prima e di cui Comba individuò correttamente la responsabilità del pastore seicentesco Jean Léger. Le tesi di Comba suscitarono inizialmente vivaci discussioni e non furono unanimemente accolte con favore, affermandosi però, nei decenni successivi, in modo completo. Nel 1974, per la prima volta, la scelta compiuta da Valdo di Lione, considerato come fondatore, divenne motivo di celebrazione, assumendo una dignità pari ad altri momenti storici fino ad allora predominanti nell’autorappresentazione storica dei valdesi. Da quel momento, acquisito il ruolo di Valdo, alcuni valori attribuitigli saranno recuperati in relazione all’attualità: dalla predicazione alla povertà, dall’opposizione al potere al pacifismo. I temi affrontati in queste pagine sono esposti nella mostra «Valdo e i valdesi fra storia e mito», in programma a Torre Pellice, dal 10 febbraio al 30 settembre 2024. Info: www.fondazionevaldese.org». febbraio

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Pietro Valdo, incisione su rame. Ante 1893. Il volto è ispirato alla scultura realizzata per il monumento a Lutero, inaugurato a Worms nel 1868 (vedi foto a p. 59). L’incisione, pubblicata nel 1893 nel volume di Emilio Comba Storia de’ Valdesi, si deve a Edward Whymper (1840-1911), famoso alpinista e disegnatore inglese, noto in particolare per aver raggiunto per primo la vetta del Cervino, il quale realizzò anche altre vedute delle Valli valdesi. Nella pagina accanto Emilio Comba (1839-1904), pastore e storico valdese, professore alla Facoltà valdese di teologia. Torre Pellice, Archivio Fotografico Valdese.

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VALDESI IN MOVIMENTO di Davide Rosso

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e celebrazioni organizzate dalla Chiesa valdese per gli 850 anni dalla conversione di Valdo hanno un sottotitolo significativo: «Valdesi in movimento». Guardando soprattutto all’epoca medievale, il termine «movimento», affiancato a «valdesi», può essere inteso infatti almeno da due punti di vista: intanto, all’epoca, i valdesi non erano ancora Chiesa, ma appunto «movimento», che cerca di vivere il cristianesimo migliorando la comunità a cui si appartiene e che i membri vedono allontanarsi dalla Parola biblica; movimento, poi, può rimandare anche all’essere sul territorio dei valdesi, allo spostarsi di alcuni di essi e al modo di esercitare il loro ruolo da parte dei loro predicatori itineranti, con un «movimento» che si diffonde cosí in Europa dalla Francia all’Italia dall’Austria alla Boemia alla Germania. Quello valdese è stato quindi un «movimento in movimento», che nei secoli è stato perseguitato e «rinchiuso» nel ghetto alpino delle Valli valdesi a sud-ovest di Torino, ma che comunque ha mantenuto la sua capacità di «spostarsi» e di far rete in Europa. Lavorando su questo concetto, e provando a farlo «vivere», la Fondazione Ccv (Centro culturale valdese) sta organizzando per questa primavera e poi per la fine di settembre del 2024 due viaggi, uno in Francia e un secondo in Austria e Cechia, con l’intento di far comprendere anche quanto i luoghi portino con sé in termini di significato e di comprensione-spiegazione della storia. Leggere lo spazio è importante, forse piú che percorrerlo. Le tracce che vediamo intorno a noi sono segni che vanno interpretati e non calpestati, che vanno fatti emerge-

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re dall’oblio a cui hanno portato il tempo e, spesso, la scelta di altri uomini o collettività. Camminare sulle strade europee può significare guardare cosa c’è al di là, sconfinare, essere curiosi per evitare di rimanere «senza sapere».

Un esilio forzato

Qualche tempo fa, mi è stato proposto, per una conferenza che dovevo tenere a Mérindol in Francia, in occasione di una settimana di studi sui valdesi, un titolo composto da due termini importanti: «memoria» e «movimento». Nel mio intervento ho provato quindi a ripercorrere la narrazione fatta nel tempo degli 850 anni di storia dei valdesi, partendo dal titolo «Memoria di un popolo in movimento». Fin da subito, è emerso come il riferimento per l’idea di «movimento dei valdesi» sia stato spesso il testo biblico. Si è parlato dell’Israel des Alpes (a usare questa definizione è stato per esempio nell’Ottocento lo storico Alexis Muston) e prima, temporalmente, «dell’esilio forzato» di biblica memoria (quelli del 1686 o del 1698 con i valdesi espulsi dalle Valli del Pellice, della Germanasca e del Chisone; ma anche quello del periodo medievale quando le persone sono state costrette per

Sulle due pagine immagini della cattedrale di Saint-Jean, a Lione. A destra, una veduta della facciata; in alto, Valdo raffigurato in un doccione di scarico delle acque con la testa vuota, come un pazzo, mentre predica verso il cielo, invece di prostrarsi davanti a Dio.

motivi economici a spostarsi verso la Francia del Sud e la Calabria). L’esilio nei racconti sui valdesi a cominciare dal Cinquecento, cosí come quello biblico babilonese, è fisico e spirituale: è la Parola scacciata dalla Chiesa corrotta. L’esilio fisico viene narrato attraverso le migrazioni, lo spostamento delle persone; il racconto acquista un significato tangibile ed emozionale. Il suo movimento va dalle Valli verso il Luberon, la Calabria, per motivi febbraio

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economici e di persecuzioni; dalle Valli e dall’Italia verso l’Europa e verso il mondo per altri motivi (i valdesi nei secoli emigrano per studio, per necessità economica, per affari, per andare nelle missioni…). Si può dire che il muoversi dei valdesi è caratterizzato anche dal suo essere identitario; dall’appartenenza religiosa; dalla conservazione della lingua; dall’essere fatto spesso in gruppo; dall’essere in rete. Nel Medioevo i predicatori sono

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il link che unisce le comunità, che porta loro le notizie, ma che le fa anche sentire parte di un percorso comune e quindi non isolate dal resto del movimento.

Tracce di un’identità

Per tutto quanto detto, se proviamo a leggere la storia migratoria dei valdesi secondo alcune delle parole chiave indicate da uno storico come Gabriel Audisio, che si è occupato molto delle «migrazioni valdesi»

(si veda per esempio il suo Le migrazioni dalle valli in età moderna, Lar editore nel 2018, o Migranti valdesi: Delfinato, Piemonte, Provenza (14601560) - Migrants vaudois: Dauphiné, Piémont, Provence, Claudiana 2011), vediamo che parlare di integrazione dei valdesi nei luoghi di arrivo è difficile. Anche dopo «l’assimilazione», spesso alcune parti identitarie permangono, per esempio la lingua occitana a Guardia Piemontese in Calabria o l’appartenenza alla storia

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

La Schola valdese a Steyr (Austria). Nella pagina accanto la sede del Museo valdese a Torre Pellice (Torino). Il suo allestimento ripercorre gli 850 anni di storia valdese.

valdese in Germania, nel Württemberg e in Assia. Per quel che riguarda la memoria, che non è immune dal nostro intervento, secondo il filosofo Paul Ricoeur – il quale sviluppa questo concetto nel suo studio La memoria, la storia, l’oblio –, essa è importante perché ci mostra, nel caso valdese, un percorso (movimento) che vuole essere coerente nel suo svilupparsi e rigenerarsi. L’oblio fa parte di questo movimento in cui come singoli e come collettività siamo parte attiva. Archivi, biblioteche, patrimonio e luoghi sono importanti per i valdesi, perché sono fondativi del presente e aperti al futuro; sono miniere che abbiamo la possibilità di consultare, punti chiave nel percorso; sono anche depositi da cui trarre memoria andando oltre l’oblio. La memoria valdese è complessa e in movimento, ed è fatta di sfaccettature. C’è quella generale e quella particolare dei singoli e delle famiglie Nel viaggio nella

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memoria valdese ci imbattiamo spesso in «Luoghi di memoria», in luoghi che sono, e mostrano quasi tangibilmente il viaggio nella storia, ma anche nella narrazione che nei secoli i valdesi hanno provato a fare di sé. Ne emerge un percorso in luoghi simbolici, pieni di senso, che mostrano e fanno sentire lo sviluppo fatto dalla narrazione valdese, che da memoria è diventata storia attraverso lo studio dei documenti e delle testimonianze, ma che ha bisogno di nutrirsi di luoghi e di «sentire» per essere significativa per i valdesi e per chi vuole sentirne il racconto. In definitiva come dice l’antropologa Anna Juso «non basta riconoscersi in una tradizione, occorre che questa sia trasformata in patrimonio». Gli elementi del passato e del presente diventano elementi di aggregazione, ed è quello che è capitato nei secoli per la comunità valdese. Nel caso dei musei o degli itinerari culturali europei questi sono diventati vetrina per parlare al

mondo esterno di determinati valori e contenuti. Valori e contenuti che in Italia e in Europa sono ormai considerati non solo valdesi, ma di tutti e quindi studiati dagli storici. La questione dei luoghi e della loro socialità, dell’essere caratterizzati non solo da una storia, ma anche da un sentimento, passano attraverso questi concetti. Nei luoghi e negli itinerari culturali la memoria, gli spazi, il tempo, il percorso si riempiono di senso e diventano narrazione, non si fermano a una semplice descrizione dei fatti.

Scelte significative

Gli itinerari culturali sono un esempio interessante di come questa dinamica possa essere un momento di riappropriazione della memoria, proprio muovendosi attraverso gli spazi e il tempo. Il movimento trae risorse dalla memoria e da come questa è vissuta da chi accoglie e da chi viene accolto. Per tutto questo il calendario degli 850 anni del movimento valdese febbraio

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prevede anche proposte di viaggio «sulle tracce dei valdesi tra il 1174 e il XVI secolo», recandosi in luoghi simbolici e carichi di senso per i valdesi e per l’Europa. Idealmente, si tratterà di percorsi nella narrazione valdese, che partendo da Lione, la città di Valdo, attraverso la diffusione del movimento arriverà a Torre Pellice e poi alla cittadina di Steyr in Austria e a Tabor in Cechia, con un passaggio a Torino. Ma perché scegliere questi luoghi? Se può essere «scontata» la scelta di Lione, luogo di partenza del movimento, o di Torre Pellice, luogo di attestazione fino a oggi, un po’ meno può esserlo l’andare in Austria e in Cechia. Proviamo a tracciare brevemente la storia guardando verso l’Est dell’Europa. La diffusione del valdismo in epoca medievale ha toccato in maniera consistente le regioni austriache e del Sud della Germania e della Boemia. Qui, nel Trecento, il movimento si è espanso e si sono diffuse le Scholae valdesi, i luoghi in cui

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l’Anonimo di Passau, già nel 1260, raccontava che «uomini e donne, poveri e ricchi, imparavano e insegnavano incessantemente, notte e giorno. Un artigiano che di giorno lavora, studia e insegna di notte». Nel Quattrocento, poi, in Boemia i valdesi e gli ussiti hanno percorso un tratto di strada insieme. A saperlo leggere, il territorio di questa parte d’Europa ci parla ancora della presenza valdese, e anche, per converso, della sua cancellazione nel Quattrocento.

Le persecuzioni

Le persecuzioni dell’inquisitore Peter Zwicker in Alta Austria iniziate nel 1397 e portate avanti per due anni sono sullo sfondo, i roghi sono spenti da secoli, cosí come sono chiusi i tribunali, ma i luoghi e gli edifici sono ancora in parte lí. Zwicker era originario di Wormditt (Prussia orientale) e nel 1381 entrò nel monastero celestino di Oybin, in Boemia. Nel 1391, è inquisitore a Erfurt e, fra il 1392 e il 1394, da Stettino perseguiterà i valdesi nella

Marca del Brandeburgo e di Pomerania. Sempre nel 1394 lo troviamo Provinciale dell’Ordine per la Germania e, fra il 1395 e il 1399, ricerca i valdesi tra Steyr e Enns, in Alta Austria. In quest’ultimo periodo, ci dice lo storico medievista tedesco Daniel Heinz ne I roghi della fede (edito da Claudiana nel 2008 e curato da Giuseppe Platone), furono un centinaio i valdesi condannati da Zwicker che salirono sui roghi, oltre mille quelli che passarono per il suo tribunale e numerosi quelli che subirono condanne e persecuzioni. Girando per le strade di Steyr, o di altri paesi della regione dell’Alta Austria, cosí come ci dice un altro storico tedesco, Peter Segl, che ha studiato a fondo gli atti del periodo che riguardano i valdesi e che ha prodotto una ricca bibliografia in proposito, si potevano vedere all’epoca persone costrette a portare cucita sui vestiti la croce segno dell’eresia e, andando alla messa, si incontravano persone costrette a coricarsi in segno di penitenza

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Dossier davanti alla porta di ingresso della chiesa, in modo che gli altri fedeli potessero passare loro sul corpo. Viaggiare in questi luoghi oggi significa vedere siti che portano con sé, se si è informati, la storia di persecuzioni e intolleranza che nel tempo ha attraversato l’Europa, spazi nei quali gli eretici venivano arsi vivi, edifici dove si riunivano a pregare altri in cui subivano gli interrogatori degli inquisitori. Luoghi importanti da riscoprire e da rivisitare. L’oblio ha caratterizzato a livello popolare per molti anni questa storia, solo negli anni Novanta del Novecento uno scultore di Steyr, Gerald Brandstötter ha deciso di trasformare in un monumento alcuni documenti, e anche il «Manifesto» che Zwicker ha scritto nel 1395 e in cui elenca «i 90 errores che la secta Waldensium diffusa in Austria da piú di 150 anni praticaIn alto uno scorcio del castello medievale di Torino, di fronte al quale fu mandato al rogo il pastore valdese Goffredo Varaglia.

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Il monumento ai valdesi realizzato da Gerald Brandstötter a Steyr. 1997. Nella pagina accanto, in basso le persecuzioni ai danni dei valdesi in una tavola tratta dalla Histoire générale des églises évangelique des vallées de Piémont ou vaudoises di Jean Léger. Leida, Jean Le Carpentier, 1669.

va». La storia viene riscoperta a livello popolare e Brandstötter crea un’opera che è stata definita «una sentinella della memoria». Per chi aderirà ai viaggi organizzati dalla Fondazione Ccv, si tratterà di percorsi di riscoperta e di approfondimento. Passando in Steyr, a fianco della «Bummelhaus», sarà possibile vedere e immaginare la «schola» valdese del XIII secolo, ripercorrere gli itinerari che all’epoca si facevano per riunirsi, pregare, imparare, fare comunità. Se praticata lungo un percorso, una narrazione si riempe di spazi che nel tempo hanno avuto sensi differenti e hanno comunicato diversamente a chi lí davanti passava. Per Zwicker erano luoghi nei quali Dio aveva prevalso; per Brandstötter e per noi, oggi, luoghi in cui la storia dell’intolleranza, per usare un termine contemporaneo, è stata particolarmente violenta. Un’esperienza simile si potrà vivere anche a Torino, quando, nel percorso che si sta preparando per il prossimo 25 maggio, verranno «ri-riempiti di senso» gli spazi di quello che è conosciuto come Palazzo Madama, ma che un tempo fu il castello medievale della città e di fronte al quale, nel 1558, fu arso sul rogo il pastore valdese, ed ex frate cappuccino, Goffredo Varaglia. Per il Consiglio d’Europa, gli itinerari culturali (i viaggi del Ccv toccheranno due degli itinerari riconosciuti dal Consiglio d’Europa, Le strade dei valdesi e Le strade della Riforma), sono uno strumento per dimostrare che il patrimonio culturale dei diversi Paesi europei è

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un patrimonio comune. Uno strumento che può essere di scambio tra le nazioni e le culture dei diversi Paesi, un processo virtuoso di riappropriazione democratica del proprio essere collettività.

Una storia comune

In linea con questa idea, il Consiglio d’Europa sottolinea come la storia europea si sia formata grazie agli incontri maturati sulla sua rete di percorsi e strade: quelle medievali che accoglievano religiosi, pellegrini, mercanti, e quella per esempio del secolo dell’illuminismo in cui l’aristocrazia europea prendeva coscienza del vasto patrimonio culturale del Vecchio Continente. Gli Itinerari culturali europei nascono nel dicembre del

2010, quando il Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa adotta l’Enlarged Partial Agreement (EPA) con il fine di far dialogare e cooperare i Paesi che hanno particolare interesse allo sviluppo degli itinerari culturali. Le finalità dell’accordo sono lo sviluppo sostenibile del territorio, la crescita della coesione sociale e la cooperazione culturale transfrontaliera. Tra gli obiettivi vi è anche il contribuire alla promozione dell’identità e della cittadinanza europea attraverso la consapevolezza del patrimonio comune. Mettersi sulle tracce del «movimento valdese in movimento» può essere una via per praticare questa parte della storia europea fondativa del nostro essere cittadini europei.

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Il doppio volto di un castrum

di Marco Ambrogi

Arroccato sulla rupe protesa nella Valle del Tanagro, Caggiano, in provincia di Salerno, conserva la sua matrice religiosa greca e latina, del periodo medievale, parallela all’incastellamento della fortezza normanno-angioina. Dal pagus della romana Volcei alla dominazione feudale dei Gesualdo, la cittadina, patria di versati umanisti, visse una stagione particolarmente fiorente quando accolse tra le sue mura i vescovi e gli arcidiaconi della diocesi di Satriano

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hi si trovi a transitare lungo la strada delle Calabrie, pervenendo da settentrione presso le Nares Lucanæ di Sicignano degli Alburni o, all’opposto, risalendo dal Vallo di Diano, non stancherà di posare gli occhi sulla rupe calcarea che svetta in capo alla vallata tanagrina e sulla quale si adagia Caggiano (oggi in provincia di Salerno), infeudata nel periodo normanno in un vasto territorio che appartenne in età classica all’ager volceianus. Osservata dall’alto, la cittadina mantiene quasi intatto il sistema difensivo medievale, con il nucleo ur-

bano di forma triangolare, protetto dal castello con le mura a oriente e dalle straripevoli balze e dai vertiginosi strapiombi, un tempo inaccessibili, sui versanti settentrionale e meridionale, che volgono il prospetto alle valli dei fiumi Melandro e Tanagro. Una delle peculiarità storiche riguarda la coesistenza, per alcuni secoli dell’età di Mezzo, di un clero greco, facente capo alle parrocchie di S. Maria dei Greci e di S. Caterina d’Alessandria, e dell’altro latino, beneficiato dalla cura d’anime della chiesa parrocchiale del SS. Salvatore. Nei pressi dell’abitato fortificato, scandito urbani-

Una veduta di Caggiano (Salerno), che evidenzia la posizione arroccata della cittadina, sorta sulla sommità di una rupe.

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sticamente in lotti abitativi longitudinali di matrice normanna, si stanziarono due comunità monasticocavalleresche, per le quali si hanno notizie certe per l’Ordine gerosolimitano, meno per l’altra fondazione dei Templari. L’esistenza delle due mansio sta a testimoniare la funzione di testa di ponte di Caggiano, sulle vie di pellegrinaggio dirette in Terra Santa, attraverso la Puglia e la Campania. D’altronde, anche la «pietra della Palestina», murata sul fianco sinistro della chiesa di S. Maria dei Greci, testimonia la leggenda della sua donazione da parte dei cavalieri crociati di Terrasanta nel 1098, posteriormente all’assedio di Antiochia di Boemondo di Taranto.

L’incastellamento normanno

Nelle giornate limpide, dalla sommità del castello si intravedono il Golfo di Salerno e l’isola di Capri, un aspetto non trascurabile, che contribuí a convincere il normanno Guglielmo «de Cauciciano», primo feudatario noto alle fonti storiche, a erigere una fortezza di avvistamento e di caposaldo delle preesistenti mura urbiche, cingendone un abitato altomedievale arroccato sulla rupe monolitica. Nel 1092 i figli di Guglielmo, esponente della famiglia di Roberto il Guiscardo, donarono al monastero greco e poi benedettino di S. Maria di Pertosa – casale che fu di Caggiano per diversi secoli – un territorio in contrada «Strata Consina»,

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in direzione di Compsa/Conza. Stilato in greco, l’atto rappresenta il primo documento in cui si registrano i feudatari normanni. All’abitato, difeso dalle mura e dagli strapiombi naturali, si accedeva attraverso due porte e due posterle: la «Bocca del ponte» (levatoio), si apriva nelle mura a oriente, mentre la Porta Marvicino limitava l’abitato sul lato opposto, in direzione dell’insediamento lavriotico italo-greco di S. Veneranda; le due posterle, «Portuccia» e «San Luca» intervallavano l’apparato difensivo della rupe a meridione, collegandosi otticamente alle torri di avvistamento sul pendio e nella valle. Nonostante la posizione arroccata sul pianoro roccioso, Caggiano ha nel tempo sfruttato le ubertose colline del suo territorio per una notevole produzione agricola e di allevamento, favorite dalla feracità dei campi e, soprattutto, dalla presenza di oltre venti sorgenti e fontane. Già nel periodo romano la zona a occidente dell’abitato era celebre per la produzione vinicola, di cui è prova, fra le altre, la vicenda del liberto e medico greco Menecrate di Tralles, che, nella sua fattoria, curava i pazienti rinvigorendoli attraverso la terapia del vino (notizia desunta dalla sua iscrizione sepolcrale bilingue, rinvenuta nell’Ottocento nella regione della Valle del Tanagro e nella quale il personaggio è appunto detto oinodotes, «donatore di vino», n.d.r.). In periodo svevo, il feudo di Caggiano, vincolato

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medioevo nascosto campania al dominus Roberto, ebbe una funzione di primo piano nella politica di gestione territoriale federiciana; tracce documentarie del suo ruolo si rinvengono nel Liber inquisitionum del re Carlo d’Angiò e nel Catalogus Baronum, come signore di un territorio comprendente Caggiano, Pertosa, Salvitelle e Sant’Angelo Le Fratte. La baronia di Roberto di Caggiano, avversario dello stupor mundi nella Congiura di Capaccio, gli era stata restituita nel 1266, dopo l’intermezzo demaniale di Giovanni da Procida e a seguito dell’ascesa di Carlo MOLISE LAZIO

PUGLIA

Roccamonfina Benevento Caserta

CAMPANIA

Napoli

Avellino

Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri

Amalfi

Salerno

BASILICATA Eboli

Mar Tirreno Palinuro

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Caggiano

Policastro

d’Angiò nel regno di Napoli. Il feudo appartenne ai conti normanni fino al 1282, quando l’erede Costanza, figlia di Raimondo e Loffredina di Eboli, sposò Mattia Gesualdo di Venosa.

La signoria dei Gesualdo

La mirabile linea ottica verso Salerno e, a meridione, fino al castello di Diano (odierna Teggiano), contribuí a far emergere nei secoli la posizione strategica di Caggiano. Durante la Guerra del Vespro (1282) tra Angioini e Aragonesi, il castello, con quelli di Sicignano, Auletta e Buccino, si inseriva nella linea difensiva di sbarramento verso la capitale del Principato, costituendo un osservatorio privilegiato sul Vallo di Diano, uno dei luoghi cardine della contesa e teatro di lotte per il possesso del Regno di Napoli. Furono i Gesualdo di Venosa, con Mattia, a potenziare il castello, dotandolo di torri e apparati difensivi; la possente mole della fortezza era imperniata su un torrione, tre torri e due fortini, mentre la chiesetta di S. Luca fungeva da cappella della guardia. Ancora oggi le torri angolari del castello conservano la tipologia architettonica di forma angioina, con sezione circolare, scarpa basamentale inclinata e marcata verticalità. Le sovrapposizioni del XVI e del XVII secolo e i successivi restauri delle cortine murarie non hanno adombrato l’antico mastio normanno e le torri difensive medievali.

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Un leone di epoca medievale, scolpito nel bianco calcare, risalta sulla mole del mastio normanno del castello di Caggiano. Nella pagina accanto una torre angolare angioina del castello di Caggiano sovrastante un tratto delle mura urbiche. Sulla sinistra, si riconosce la mole della cappella della Guardia o di S. Luca.

Al tempo dei Gesualdo la città fu a capo di un vasto territorio, allargato anche a Salvia e Castiglione, e nel 1284 il conte Mattia venne nominato Giustiziere della Basilicata da Carlo II D’Angiò. Su ordine reale, i vassalli di Caggiano e casali furono obbligati a dare al loro feudatario il debito sovvenimento, «quia se militari cinguli decoravit».

Preti greci e latini

Fin dalle origini, Caggiano fece parte della piccola diocesi di Satriano – che enumerava appena sei centri demici e due monasteri –, distinguendosi per demografia e preminenza; la decima pontificia per l’anno 1310 «in episcopatu satrianensi» registra il valore piú alto proprio per il clero di Caggiano e il monastero di Ognissanti, appena dietro la mensa episcopale e il cenobio vulturense col casale di Sant’Andrea. La vita quotidiana nella città murata era imperniata sulla presenza di una duplice anima religiosa; il clero latino faceva capo alla parrocchia del SS. Salva-

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tore, mentre i preti e i monaci di rito greco potevano contare su differenti luoghi di culto entro e fuori le mura, tra cui primeggiavano le chiese con cura d’anime di S. Maria dei Greci e della martire S. Caterina e le cappelle di S. Sofia e di S. Veneranda, arroccata su una rupe isolata, a capo di una laura italo-greca. L’antico edificio di culto di S. Maria, attualmente in restauro, offre significative testimonianze del suo illustre passato, dalla leggendaria «pietra della Palestina», collocata sul fianco esterno della navata, ai resti di un cenobio di sacerdoti greci, contiguo alla torre campanaria. Dal XV secolo ai primi del Novecento fu sede dell’arcidiacono di Satriano, avvicendandosi al SS. Salvatore; nel 1545 – tempo in cui il rito orientale nel Regno di Napoli era ormai un lontano ricordo – nella registrazione della tassa focatica di Caggiano, su un totale di trenta presbiteri, ben sei risultavano di rito greco, dimoranti nell’ambito parrocchiale con cura d’anime di S. Maria. Nel 1571 la parrocchia si trovò al centro di un processo intentato contro i contumaci sacerdoti greci, ai quali proibiva di fatto lo svolgimento dei riti orientali. L’anno prima la chiesa era stata chiusa al culto e affidata ai presbiteri di rito latino. S. Maria dei Greci, titolo cultuale rinvenibile anche nella vicina Polla, fu restaurata in chiave barocca dopo il 1770, analogamente all’altra parrocchiale di S. Cate-

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medioevo nascosto campania Una torre di avvistamento colombaia, ai piedi della rupe calcarea su cui sorge Caggiano. La costruzione si erge su un bancone di roccia e presenta blocchi litici di reimpiego del periodo romano.

rina, riplasmando l’edificio medievale; oggi si presenta con una navata longitudinale, innestata su un modesto transetto con abside. Nella chiesa fu tumulato nel 1439 l’ultimo vescovo della diocesi di Satriano, Andrea Raguseo di Venezia, trasferitosi a Caggiano dopo la distruzione della sede episcopale. Sul luogo di sepoltura nel presbiterio fu murata una lapide dettata da un successore, monsignor Costantino Testa, negli anni Trenta del XVII secolo, al tempo dell’indizione del sinodo, tenutosi nel convento francescano. V’è da credere che l’edificio principale di culto del clero greco, abbia beneficiato di donazioni e di committenze artistiche; del periodo di splendore tardo medievale rimane come testimonianza un brano di affreschi, ritrovato di recente sulla parete interna a sinistra. Si tratta di una doppia scena con vividi colori, ascrivibile alla fine del XIV secolo, in cui compare un personaggio di profilo, con un dito alzato in alto e rivestito di una tunica blu con mantello rosso. Potrebbe identificarsi con Cristo che ammaestra le folle o con la Resurrezione di Lazzaro, ma l’inversione delle tonalità nelle vesti, fa propendere anche per uno degli apostoli, Pietro o Paolo. Sulla scena di fianco, tagliata a metà dalla caduta di pellicola pittorica, s’intravede la figura di un monaco o un sacerdote, con una tunica bruna. Lo stile delle pitture, la caratterizzazione dell’aureola in stucco modellato del personaggio e i colori, richiamano la stagione artistica locale della fine del Trecento, della quale si mostrano chiare testimonianze nel comprensorio, da Teggiano a Polla, fino agli affreschi dell’eremo di S. Michele alle Grottelle di Padula.

Caggianesi illustri

Alle due parrocchie di rito greco che aggregavano gran parte della popolazione di Caggiano, faceva da contraltare la latina S. Salvatore. Ubicata nei pressi del castello e contigua al palazzo della nobile famiglia dei Colunna del ramo barese, la chiesa diventò in breve tempo anche la sede alterna e contesa alla cittadina S. Maria dei Greci, dell’arcidiacono della diocesi di Satriano. Nel 1337 la famiglia Colunna venne beneficiata della concessione al suo interno della cappellania della SS. Concezione, con una bolla redatta per mano del vescovo di Satriano, Francesco da Spoleto. Alla potente famiglia aristocratica appartenne don Crisostomo, il quale, alla fine del XV secolo fondò un «Monte di perpetuo moltiplico», atto a dotare le donzelle della cittadina, elargendo anche numerosi sussidi per i giovani di Caggiano. Il sacerdote e primicerio della chiesa del SS. Salvatore, fu dotto poeta, letterato e in-

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signe umanista, al seguito di Gabriele Altilio e divenne precettore del duca di Calabria, Ferdinando II. Fu maestro e consigliere di Bona Sforza, ambasciatore presso varie corti d’Europa e amico intimo del Pontano. Nei pressi del sagrato della parrocchia – nel 1730 il clero ne chiese l’erezione a cattedrale – restano oggi, a testimoniarne la ricchezza culturale e figurativa, un leone e un capitello scolpiti in pietra, che rimandano al XIV secolo, mentre un pannello ligneo sul portone d’ingresso, della fine del XV secolo ritrae la figura del Salvator Mundi. Nell’aula sacra è conservata una Madonna delle Grazie, ascrivibile alla cerchia di Giovanni da Nola, a testimonianza di uno slancio artistico di notevole ambito culturale promosso dall’Altilio e da Crisostomo Colunna e favorito dal clima magnatizio di Luigi Gesualdo e del figlio Fabrizio. Nel 1436 Caggiano diede i natali al grande umanista e brillante poeta latino, Gabriele Altilio. Frequentatore della corte aragonese, seguace del Pontano e amico del Sannazzaro, fu inizialmente protetto dalle famiglie locali Colunna e Solimena e divenne vescovo di Policastro nel 1493. Amava ritornare spesso nella sua città, nella dimora civica e nella bucolica villa in località «Fuossi», della quale si intravedono ancora le ultime vestigia nei pressi del Melandro, fiume che decantò in una sua celebre prosa. Luigi Gesualdo da Caggiano fu presente tra i ribelfebbraio

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La mole possente del castello normannoangioino di Caggiano, affiorante dal bancone di roccia e proteso nella Valle del Tanagro.

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medioevo nascosto campania PORTE E DIFESE NATURALI DELLA CITTÀ

Prospetto e campanile della chiesa del SS. Salvatore, un tempo parrocchia Didascalia di rito latino e sede dell’arcidiacono aliquatur della diocesi adi odisdi Satriano. queNella vero pagina ent qui accanto, in alto doloreium pianta diconectu Caggiano elaborata rehendebis sulla mappa eaturd’impianto catastale tendamusam d’inizio Novecento. È evidente la consent, conformazione perspiti triangolare dell’abitato, conseque perimetrata nis dalle difese naturali, dal castello e dalle mura a oriente. maxim eaquis earuntia cones apienda.

A. Porta «bocca del ponte» o «del lago»

B. Porta di San Luca o del Castello C. Posteruola o «portuccia» D. Porta Marvicino E. Balze naturali a settentrione (fiume Melandro)

F. Balze naturali a meridione (fiume Tanagro)

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CHIESE E MONUMENTI 1. Castello normanno-angioino 2. Chiesa del SS.Salvatore (parrocchia rito latino)

3. Chiesa di S. Maria dei Greci (parrocchia di rito greco)

4. Chiesa di S. Caterina V.M. (parrocchia di rito greco)

5. Cappella di S.Luca (castello) 6. Cappella di S. Gennaro (famiglia Salinas)

7. Chiesa di S. Antonio

li partecipanti alla Congiura dei Baroni contro Ferdinando d’Aragona nel 1485 e venne perciò privato dei feudi dal re, che diede l’ordine di abbattimento per il castello normanno-angioino. Grazie alla profonda amicizia intessuta con i Sanseverino, il Gesualdo ascese a un ruolo di comprimario nell’avversione agli Aragonesi; la sua unione in nozze con Giovanna Sanseverino, sorella di Antonello, principe di Salerno, lo spinse a tener fede al patto di alleanza, anche nel difficile periodo dell’assedio di Diano

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Nella pagina accanto, in basso Cristo che ammaestra le folle (?), affresco. Seconda metà del XIV sec. Caggiano, chiesa di S. Maria dei Greci.

ed ex convento dei Francescani Riformati 8. Laura italo-greca e ruderi della cappella di S. Veneranda; 9. Mura urbiche medievali e bastioni del XVI sec. 10. Sito del cenobio italo-greco (sacerdoti di rito greco di S. Maria) 11. Ruderi del corpo di guardia 12. Torre di avvistamento 13. Palazzo della famiglia Colunna febbraio

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del 1497. In quel frangente la fortificazione fu interessata dalla riduzione di potenziale, lo stesso Antonello Sanseverino, dopo la disfatta di Diano, si impegnava a consegnare, tra gli altri, i castelli di Caggiano e Auletta. Giacomo Caracciolo ricostruí la fortezza con le annesse piazzeforti, munendola di potenti artiglierie e inserendovi due baluardi, di tal ingegno da permettere di resistere, secondo alcuni storici, alle milizie di Carlo V, di ritorno dalla spedizione di Tunisi nel 1535. In quel periodo le opere difensive della città si do-

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tarono di accorgimenti adattati alle nuove esigenze militari, come le cannoniere per le bombarde e l’aggiunta di un bastione provvisto di redondone; il castello, invece, era stato già trasformato nella tarda età aragonese col potenziamento delle cortine murarie mediante accorgimenti balistici. Nelle carte tolemaiche e in quelle aragonesi della fine del Quattrocento, Caggiano è classificata come città fortificata con castello e cinta muraria.

La commenda dei cavalieri

Uno dei presidi territoriali di carattere religioso nella Valle del Tanagro era assicurato dalla commenda dei cavalieri gerosolimitani di Buccino, dalla quale dipendevano le precettorie di S. Simone di Polla e di S. Giovanni di Caggiano. Questa, ubicata a poca distanza dal centro antico, in direzione est, sorse come un ospedale, tra il XIII e il XIV secolo, in località Fontana, per essere poi trasferita a S. Sofia, nel sito dell’attuale convento francescano. Nei documenti pergamenacei figura ancora nell’anno 1420, anche come ereditaria dei beni dell’altra dipendenza monastica, per la quale i documenti d’archivio non hanno ancora chiarito se appartenente originariamente ai Templari o ai monaci benedettini della SS. Trinità di Venosa. Nel 1572 in un processo tratto dall’archivio della Diocesi di Satriano, viene descritta la «mansio dei Templari» ancora integra, seppur con fabbriche semidirute, collocata sul colle di Sant’Agata a mezzo miglio dall’abitato. La contrada era privilegiata dai locali per l’estrazione di un calcare di facile lavorazione, adatto alla scultura, come testimoniato dall’esecuzione di alcuni altari nelle chiese cittadine. Il Cinquecento fu per Caggiano un periodo di relativa floridezza, nel 1561 i Gesualdo assursero al titolo di principi, per aver acquistato il feudo di Venosa tenu-

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In alto croci graffite e incise sulla parete rocciosa della laura italo-greca di S. Veneranda. A destra, sulle due pagine i resti della chiesa di S. Veneranda collocata su uno sperone roccioso proteso nella Valle del Tanagro. L’aula di culto fu al centro di un insediamento lavrotico italo-greco.

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La laura di S. Veneranda

Echi greco-bizantini Dalla «Purticia» della città e dalla porta occidentale di «Marvicino», lungo una mulattiera selciata a gradoni in ripida discesa tra pareti di roccia viva, si giunge alla chiesetta di S. Veneranda (latinizzazione di santa Parasceve), che fu luogo di culto al centro di una laura monastica italo-greca. Il percorso è costellato da anfratti naturali, che un tempo furono riparo per i laurioti di rito greco, in alcuni punti della parete rocciosa risaltano i segnacoli di croci incise nel calcare. L’edificio cultuale, privo di copertura e perfettamente orientato in direzione est-ovest, presenta all’interno della muratura alcuni blocchi litici di reimpiego e frammenti di tegole del periodo romano. Strutturato in un’aula unica con abside, è preceduto da un corpo di fabbrica un tempo voltato, forse un portico con soprastante torre campanaria, nel quale si apriva l’antico ingresso. La tipologia architettonica di S. Veneranda è ampiamente attestata nel comprensorio, esempi analoghi si rinvengono nelle chiese di Sant’Antuono di Polla e di Teggiano, nella badia di Pattano e nella chiesa di Sacco Vecchia. Antistante i ruderi del portico si apre una fossa circolare scavata nella roccia, forse un tempo adibita alla raccolta delle acque. Caggiano viene nominata in numerosi atti del «Sillabus graecarum membranarum» – trascrizione di pergamene greche e latine degli archivi di Napoli, Cassino e Cava – in riferimento alle origini del clero greco e alla presenza monastica «basiliana». Ancora oggi i toponimi «Piedi d’Arma» (dal greco fenditura, cavità) e Calabri rimandano a una comunità di lingua e cultura bizantina, seppur assoggettata al dominus normanno.

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medioevo nascosto campania un museo per la statio di acerronia

to da Consalvo di Cordoba. Tra i membri della nobile famiglia risaltavano Fabrizio, che prese in moglie Girolama Borromeo, sorella di Carlo (il futuro santo), e Alfonso, divenuto arcivescovo di Napoli e cardinale nel 1561. Non va ovviamente dimenticata l’illustre figura del compositore e madrigalista Carlo Gesualdo, figlio di Fabrizio, che fu anch’egli a capo dell’esteso feudo. Una violenta contesa vide in disputa Caggiano con uno dei suoi casali, Pertosa, sul quale i preti amministravano i sacramenti ed esercitavano gli atti giurisdizionali dagli inizi del Trecento. Il patrimonio della benedettina S. Maria di Pertosa si estendeva, già dalla prima metà del XII secolo, a cavallo dei tenimenta dei castra di Auletta e Caggiano, numerosi atti ne vedono protagonista Ruggiero dominator Caiani.

Un Benedettino in galera

L’età romana Numerosi ritrovamenti di carattere archeologico hanno interessato il tenimento di Caggiano nell’ultimo secolo, restituendo sia materiali epigrafici, che ceramici e numismatici. I toponimi citano diverse contrade memori di un lontano passato, tra le quali doveva sorgere la statio di Acerronia, lungo la via militare, costellata di tabernae, che collegava il Vallo di Diano a Volcei. I rinvenimenti nelle località Casale, Veteranurso, Tempa dei Tiesti, Massa e Massavetere, partono dal VI secolo a.C., per attestarsi soprattutto nel periodo romano. La presenza di una ricca necropoli in località Santo Stasio ha restituito, tra gli altri, il monumento funerario innalzato da Gresia Tertia al marito Quinto Insteio Cimbro intorno al 40 a.C. Nel locale Antiquarium sono custodite alcune testimonianze del mausoleo, tra cui frammenti di iscrizioni e parti del fregio. Anche nel centro storico sono state rinvenute attestazioni dell’età classica, tra cui ben dieci epigrafi, l’edicola funeraria del gabellario Deinius, un’iscrizione osco-latina, una imagines maiorum e una tabula lusoria.

Nel 1572 il vescovo Girolamo Scarampi aveva dato l’ultimatum ai monaci benedettini di Pertosa di lasciare il casale, con l’obbligo di astenersi dall’esercitare la giurisdizione spirituale, pena la scomunica. Nel 1583 ebbe luogo l’epilogo, quando gli sgherri assalirono il padre benedettino della SS. Trinità di Cava, di stanza a Pertosa, legandolo e arrestandolo. Padre Anselmo fu portato a Caggiano e, in nome del Sant’Uffizio, affidato al castellano Giacomo Isolda, che lo chiuse nelle prigioni della fortezza. Il commissario apostolico Massenzio Polidoro interrogò il prigioniero e lo fece trasferire a Napoli presso il nunzio apostolico, dopo di che fu emanata la sentenza che assegnò a Cava la giurisdizione spirituale su Pertosa, permettendone il ritorno di frate Anselmo. Il paese traboccava ormai oltre le mura, una croce stazionaria eretta nel 1587 nel «Lago» segnava l’ingresso all’abitato antico; lo stemma civico «Cajani in-

In alto particolare di un fregio del mausoleo o monumento funerario innalzato da Gresia Tertia per il marito Quinto Insteio Cimbro. 40 a.C. circa. Caggiano, Antiquarium. A destra frammento dell’iscrizione del mausoleo di Gresia Tertia, ritrovata nel sito archeologico di Petrosa-Santo Stasio.

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Croce stazionaria del 1587, con, sullo sfondo, il castello normannoangioino. In basso il baluardo delle mura di Caggiano, posto a destra della Porta del Ponte. Il sistema difensivo fu innalzato tra la tarda età aragonese e il primo periodo vicereale.

Storia ecclesiastica

L’eredità di una diocesi Insieme alla vicina Sant’Angelo Le Fratte, Caggiano condivise l’eredità della diocesi di Satriano, quale sede dei suoi vescovi, dopo la distruzione dell’antica città per mano dell’esercito della regina Giovanna II. La tradizione storica narra di un vescovo già nell’878, al quale il nobile Goffredo consegnò le reliquie del martire Laverio, anche se il primo presule di cui si hanno notizie è Pietro, che intervenne al Concilio Lateranense indetto da Alessandro III nel 1179. Fin dai primi tempi la piccola diocesi fu composta da Satriano, Caggiano, Sant’Angelo e Salvia, oltre ai feudi di Castellaro e Perolla. La cattedrale satrianense di S. Stefano custodiva le reliquie di san Feliciano, martire sotto Diocleziano, che, dopo la distruzione del 1420, furono portate a Caggiano, nella chiesa della SS. Annunziata, sita un tempo nel punto in cui si innalza la croce stazionaria del 1587. Andrea Raguseo, ultimo presule della distrutta Satriano scelse prima Sant’Angelo e poi Caggiano come dimora stabile. Il vescovo Marco Lauro, delle diocesi unite di Satriano e Campagna, dopo il Concilio di Trento visitò Caggiano nel 1567, rinvenendovi la presenza di molti santi di culto greco e numerosi sacerdoti di quel rito. Ancora nel 1600 il presule campagnese Giulio Cesare Guarnerio sottolineava che in S. Maria dei Greci si celebrava secondo il costume dei Greci orientali. signia» alla base del segnacolo, volgeva in direzione della chiesa di S. Sofia e della commenda gerosolimitana, l’area in cui agli inizi del secolo successivo verrà fondato il convento francescano. I vescovi di Satriano e Campagna continuarono a scegliere Caggiano come sede prediletta, nel 1545, nella registrazione della tassa focatica della città, tra le numerose contrade, viene annoverata anche una «casa del vescovo di Satriano», con sette membri su due livelli. La signoria dei Gesualdo su Caggiano si estinse nel 1674, con la vendita del feudo alla famiglia Parisani di Tolentino da parte di Giovan Battista Ludovisio, pronipote di papa Gregorio XV.

Da leggere Gaetano Lamattina, La tassa focatica di Caggiano nel 1545, Editore G. Greco, Casavatore (NA) 1990 Carlo Palestina, L’arcidiocesi di Potenza Muro Marsico, Vol. I Chiesa e società, STES, Potenza 2000. Gaetano Lamattina, Caggiano e il suo casale di Pertosa. Acerronia-La diocesi di Satriano, Sala Consilina (SA) 2006

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Storie, uomini e sapori

Tutti i modi per «graffiare» la terra di Sergio G. Grasso

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er millenni, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale ha impiegato ogni sorta di strumento idoneo a lavorare la terra per sostenere una minoranza impegnata in occupazioni di carattere politico, militare o commerciale. Il primo attrezzo agricolo impugnato dall’uomo in Mesopotamia fu un ramo d’albero, piú o meno dritto e puntuto, con cui bucare il terreno per interrare i semi; qualcuno iniziò a trascinarlo sulle zolle secche per graffiarne la superficie e consentire all’umidità

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di penetrare nel suolo asciugato dal sole: Nel IV millennio a.C. i Sumeri fissarono diagonalmente un palo appuntito o un lungo corno bovino a una stanga, creando uno strumento in grado di «graffiare» il terreno tanto piú in profondità quanto maggiore era la potenza di tiro. Si trattava di una primitiva forma di aratro, la cui impugnatura (stegola) serviva sia a guidare l’attrezzo che a spingere la punta di legno verso il basso. Questo strumento, chiamato apin in sumero e gharbu in accadico, era

Pittura murale raffigurante una scena di aratura nella tomba di Sennedjem, funzionario egiziano vissuto al tempo della XIX dinastia faraonica, durante i regni di Sethi I e Ramesse II. 1280-1260 a.C. circa. Tebe, necropoli di Deir el-Medina. scarsamente bilanciato, a causa del telaio troppo stretto, offriva un solo minuscolo punto di contatto con il terreno, ma era abbastanza efficiente sui suoli sabbiosi e argillosi delle fertili pianure alluvionali. La sostituzione del traino umano con quello animale, aggiogato febbraio

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L’aratro del tipo «Trittolemo» rinvenuto nel 1977 nei livelli piú antichi dell’insediamento palafitticolo del Lavagnone (datati, grazie alla dendrocronologia, al 2067 a.C., nell’età del Bronzo Antico). Desenzano del Garda (Brescia), Museo Civico Archeologico «G. Rambotti». con una bure (asta) o con funi, consentí un notevole sgravio di lavoro, a vantaggio dell’efficacia e della velocità. Sebbene l’apin fosse in grado di rompere il terreno superficiale, permettendo la semina, quel solco di pochi centimetri non riusciva a raggiungere gli strati profondi, né a miscelare l’humus con i detriti vegetali per rimettere in circolo i nutrienti. In Egitto l’aratro di tipo sumero compare nel periodo Naqada II, verso il 3500 a.C., acquisendo nel tempo una seconda impugnatura per migliorarne la stabilità e rendere agevole la guida sui terreni resi limacciosi dalle inondazioni. Sono molte le immagini di aratri

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«assolcatori» presenti sulle pitture parietali dedicate al lavoro dei secheitiu (servi dei campi), talvolta arricchite da geroglifici che riportano le loro esortazioni: «devi premere con piú forza la mano sull’aratro», «ora spingilo in avanti (...) alzalo (...) girati e torna indietro». Nelle pitture tombali l’aratore è quasi sempre seguito dal seminatore, anche donna, e da uno che registra le operazioni.

Una diffusione capillare L’aratro passò dalla Mesopotamia all’India nel primo periodo Harappa (3300 a.C.), come provano le tracce di un campo arato a Kalibanghan (Rajasthan); da lí avrebbe raggiunto la maggior parte dei Paesi del Sud-Est asiatico, inclusa la Cina dell’ultimo periodo Yangshao (3000 a.C.), dove fu appesantito e dotato di ruote, in modo da penetrare piú a fondo nel suolo. Un’importante innovazione si manifesta in ambito mesopotamico con l’aggiunta di un imbuto vicino

all’impugnatura-timone, grazie al quale un solo contadino riusciva contemporaneamente ad arare e a far cadere i semi nel solco appena scavato; questo «aratro seminatore» (nummun-gar) è ancora usato in alcune comunità agricole africane e della Valle dell’Indo. Piú o meno nel 2800 a.C. il semplice vomere in legno venne provvisto di un dentale in bronzo che aumentava la forza di taglio; sei secoli piú tardi al bronzo si sostituí il ferro. Nell’Europa continentale, l’introduzione dell’aratro semplice o «graffiatoio» risale al Neolitico, ma la sua diffusione sembra iniziare con l’età del Bronzo Antico. L’esempio piú significativo e tra i piú antichi al mondo, è stato rinvenuto nell’insediamento palafitticolo del Lavagnone, un’antica conca lacustre abitata ininterrottamente dalla fine del III millennio al XIII secolo a.C. L’aratro venne alla luce nel 1977, sommerso dalla torba anaerobica accumulatasi tra i pali dell’insediamento. Risale

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alla «cultura di Polada» (2000 a.C. circa) e presenta un corpo lavorante (stegola e vomere) in legno di quercia con giogo in faggio. Conservatosi quasi integro grazie all’ambiente privo di ossigeno è ora esposto al Museo Civico Archeologico «G. Rambotti» di Desenzano del Garda. Questo tipo di aratro è definito dagli storici «di Trittolemo», creando cosí un legame ideale con quel personaggio della mitologia greca al quale la dea Demetra insegnò l’agricoltura perché ne trasmettesse la tecnica e i saperi ai Greci. Autori attici menzionano anche le figure leggendarie di Buzige, «l’aggiogatore di buoi» e di Echetlo, l’eroe che a Maratona combatté brandendo una stegola di aratro. Quasi venti secoli piú tardi, poco o nulla era cambiato nella struttura dell’aratro che Virgilio, nella Prima Georgica, istruisce di costruire cosí: «Senza indugio, nei boschi, si doma un olmo piegandolo a viva forza perché diventi una bure, e cosí prende la forma ricurva dell’aratro. Gli si attacca, dal ceppo, un timone dell’estensione di

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otto piedi, due orecchi e il dentale con le due regge: inoltre prima ancora si abbatte un tiglio, leggero, per il giogo, e un alto faggio, come manico, che da dietro faccia girare sotto di sé le ruote. La bontà dei legni, sospesi sul focolare, la saggia il fumo».

Lunghi campi a strisce Fino al VI secolo d.C. la punta dell’aratro scavava un solco piú o meno profondo ma non rivoltava le zolle e prima di seminare era necessario effettuare una seconda aratura, ad angolo retto rispetto alla prima. Apparve allora, probabilmente in ambito slavo, uno strumento piú efficiente, pesante e munito di ruote, con la parte lavorante composta da un coltello verticale (coltro) per tagliare il solco, un vomere orizzontale che lo apriva e un versoio che girava la zolla. Cosí i corti campi arati a scacchiera si trasformarono in lunghi campi a strisce, che favorivano il drenaggio del terreno nel clima umido del Nord Europa. Tuttavia, l’attrito del nuovo aratro a versoio era tale che sui terreni piú

densi e duri richiedeva l’utilizzo di otto buoi, ed erano pochi i contadini che potevano permettersi un tal numero di animali da aggiogare. Il problema fu risolto adottando l’aratura di comunità che, in breve, evolse in forme di cooperazione diffusa anche per la semina e il raccolto delle singole proprietà individuali. Il nuovo aratro e i sistemi di gestione collettiva si diffusero tra le popolazioni febbraio

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A sinistra miniatura raffigurante una scena di aratura e di semina, dalla pagina del mese di gennaio di un calendario anglosassone. XI sec. Londra, British Library. A destra miniatura raffigurante un contadino che raccoglie il fieno, da un Libro d’Ore detto Lescalopier. 1555 circa. Amiens, Bibliothèque centrale Louis Aragon.

A sinistra miniatura raffigurante una scena di aratura eseguita con un aratro tirato da cavalli, dal Salterio Luttrell. 1325-1335. Londra, British Library. col fieno raccolto. Lo stesso letame, anziché essere gestito in modo razionale – raccolto e fatto maturare prima della concimazione –, era lasciato disperdere dagli animali nella campagna, in balia degli eventi atmosferici che ne riducevano l’efficacia concimante.

Il mese del fieno

germaniche all’inizio dell’VIII secolo e furono portati in Gran Bretagna alla fine del IX, giungendo in Norvegia una manciata di decenni piú tardi. Grazie all’aratro a versoio fu possibile rendere coltivabili e produttivi anche i terreni piú pesanti, attuare un vasto taglio delle foreste e provvedere alla bonifica delle paludi per scopi agricoli: il volto del Nord Europa era cambiato. Parallelamente al nuovo modello

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di coltivazione dei cereali, andava affermandosi una migliorata tipologia di allevamento del bestiame. I Romani non erano riusciti a integrare efficacemente l’allevamento con l’agricoltura. La scarsità di falci lunghe (utilizzate per tagliare l’erba) di epoca romana giunte fino a noi dimostra che bovini e ovini pascolavano quasi sempre nell’ager e solo sporadicamente erano alimentati

Nell’età franca, le falci da fieno divennero comuni, tanto che alla fine dell’VIII secolo, Carlo Magno rinominò luglio «Mese della fienagione». Il fieno ottenuto veniva portato nelle stalle o raccolto in grandi covoni sparsi nella campagna, in modo che gli animali se ne cibassero liberamente, concentrando nell’area anche gli escrementi da far maturare. Il sistema di produzione alimentare divenne cosí piú equilibrato ed efficiente di qualsiasi altro metodo precedente.

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CALEIDO SCOPIO come il frumento o la segale) e una coltura primaverile (specialmente leguminose), lasciando un terzo terreno a maggese, ossia a riposo (il nome deriva dal mese di maggio, in cui nei terreni nasceva spontaneamente l’erba, utilizzata come pascolo per il bestiame). Fornendo due serie di colture e due raccolti, la rotazione a tre campi ridusse notevolmente il rischio di fallimento delle colture e di carestie.

Legumi a lunga conservazione Da notare che la coltivazione primaverile delle leguminose produceva una efficiente fertilizzazione del terreno, grazie al fatto che queste colture assorbono l’azoto dell’aria e lo rilasciano nel terreno; di non minore importanza era il fatto che ceci, lenticchie, piselli e i fagioli fornivano una maggiore quantità di proteine vegetali per il consumo umano e potevano essere conservati secchi per lunghi mesi. Di non poco conto fu, nel IX secolo, l’adozione di una nuova imbracatura per gli animali da tiro. Nell’antichità i buoi venivano collegati a carri e aratri per mezzo

Ancora in età carolingia si iniziò a modificare anche il sistema di rotazione agricola, cioè il modo di avvicendare le piante coltivate per non impoverire il terreno. I Romani avevano adottato una rotazione «a due campi», che consisteva nel lasciare la terra a riposo metà del tempo per rinnovare la sua fertilità: la metà coltivata del seminativo veniva piantata in autunno con grano, orzo o segale e raccolta all’inizio dell’estate. Nell’Europa centro-settentrionale, dove il clima piovoso della primavera permetteva di moltiplicare le piantagioni, iniziò a diffondersi invece un ciclo «a tre campi», che consisteva nell’alternare sullo stesso terreno una coltura invernale (cereali

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In alto marzo: l’aratura con una coppia dei buoi e la preparazione delle vigne, miniatura dal Breviario Grimani (Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae). 1510-1520 circa. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. A destra miniatura raffigurante un contadino che semina, da un Libro d’Ore detto Lescalopier. 1555 circa. Amiens, Bibliothèque centrale Louis Aragon.

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Miniatura raffigurante la raccolta del grano, la tosatura delle pecore e altre attività agricole, dal Très Riches Heures du Duc de Berry, il Libro d’Ore del duca Jean de Berry realizzato dai fratelli miniatori Pol, Hermant e Hennequin de Limbourg. 1412-1416 circa. Chantilly, Musée Condé. di corde legate alle corna e tiranti nel sottogola, comprimendo le vie respiratorie e sottoponendo le vertebre cervicali a uno sforzo notevole, tutte condizioni che limitavano la capacità di lavoro. Si adottò allora un collare rigido, collegato al traino da aste laterali di legno e appoggiato tra spalle e petto; l’animale poteva cosí respirare meglio e si riduceva di tre-quattro volte lo sforzo richiesto dal vecchio giogo. La nuova imbracatura rendeva possibile sfruttare anche la potenza e la velocità del cavallo. Il primo esempio di aratura equina è testimoniato in Norvegia alla fine del IX secolo e già nel 1100 il cavallo aveva sostituito il bue per il lavoro agricolo in gran parte delle regioni del Nord Europa, dove la rotazione aveva reso possibile un’ampia disponibilità di avena per nutrire i cavalli. Piú a sud, i contadini mediterranei, che per ragioni climatiche non disponevano di avena, continuarono a impiegare i buoi.

Un clima mediamente piú caldo La rivoluzione agricola avvenuta in Europa tra il IX e il XIII secolo coincise con il cosiddetto «optimum climatico medievale» che si manifestò con un aumento medio delle temperature globali di oltre 2 gradi centigradi. Vi sono chiare testimonianze di coltivazioni medievali di frumento in Groenlandia (dallo scandinavo Grønland, «terra verde») e la cerealicoltura si praticava anche in Islanda e nella Norvegia settentrionale. I palinologi che studiano gli antichi pollini rimasti

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intrappolati nei ghiacciai alpini ben oltre l’altitudine massima delle foreste (oggi 2500 m slm), stimano che nel XII secolo la vegetazione arborea raggiungesse almeno i 3000 m di quota, corrispondenti quindi a 3° in piú di temperatura. In parole povere, nella Pianura Padana del XII secolo il clima era paragonabile a quello della Campania del XXI secolo. Con la riduzione dei ghiacciai alpini, divenne possibile anche il superamento di valichi fino ad allora impraticabili, con riflessi non trascurabili sui commerci e le comunicazioni. Mentre nell’Europa mediterranea si esaurivano le invasioni normanne, ungare e saracene, le migliorate condizioni di vita avevano ridotto mortalità ed epidemie. Foreste e paludi si trasformavano in

territori coltivabili e la aumentata disponibilità alimentare sfociava in un corposo aumento demografico nelle città. A questa crescita senza precedenti corrispose l’affermazione delle nuove classi borghesi: mercanti, artigiani e banchieri. L’espressione piú alta di questo benessere, che segnava il superamento della società feudale, fu la costruzione di nuovi edifici civili (mercati, logge, ospedali, palazzi), ma, soprattutto, delle grandi cattedrali gotiche, per le quali non erano certo sufficienti i fondi del clero. Negli archi ogivali, nelle sculture e nelle vetrate la nuova borghesia esaltava il proprio potere, il proprio prestigio e il proprio impegno nel costruire il modello economico e politico dell’Occidente moderno.

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Quando i santi prendevano le armi

La leggenda del santo cacciatore di Paolo Pinti

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e notizie sulla vita di sant’Eustachio ci sono state tramandate solo da vari testi agiografici e, a tutt’oggi, non si hanno prove certe della sua reale esistenza. La versione piú accreditata vuole che Eustachio, probabilmente appartenente alla famiglia romana dei Placidi, avesse ricoperto l’incarico di magister militum al tempo dell’imperatore Traiano (98-117 d.C.). Secondo quanto narrato dalla Legenda Aurea – la cui prima stesura

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in lingua greca si sarebbe però basata su leggende popolari e, nel caso in questione, avrebbe ricostruito la vicenda della famiglia del futuro santo ricalcando un mitico racconto indiano – un giorno, durante una battuta di caccia, Placido stava inseguendo un cervo, che si fermò di fronte a un burrone e si volse verso di lui, mostrando tra le corna una croce luminosa, sormontata dalla figura di Gesú che gli parlò: «Placido, perché mi perseguiti? Io

sono Gesú che tu onori senza saperlo». Tornato a casa, Placido raccontò l’accaduto alla moglie Tatiana, che, a sua volta, gli riferí di aver sognato uno sconosciuto il quale le preannunciava che l’indomani ella sarebbe andata da lui con il marito. E, il giorno dopo, marito e moglie, con i due figli, andarono dal vescovo (secondo altri, dal papa) e si convertirono, facendosi battezzare. Come si vede, il racconto appare poco credibile sulle ragioni di tale febbraio

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conversione, ma tant’è. Placido cambiò il suo nome in Eustachio (dal greco eustáchios, «che dà buone spighe»), la moglie assunse quello di Teopista (da théos e pístos, «credente in Dio»), e i figli furono ribattezzati Teopisto e di Agapio (da agápios, «colui che vive di carità»). Il giorno dopo, Eustachio tornò sul luogo in cui aveva visto il cervo col crocifisso e lí Gesú gli apparve di nuovo, esortandolo a rispettare la fede cristiana e a sopportare le prove che presto gli sarebbero capitate. Il luogo dell’apparizione di Gesú a sant’Eustachio è ricordato da una cappella, eretta – non si sa da chi e, soprattutto, in base a quali indicazioni geografiche – nel comune di Poli (Roma), nel IV secolo, e lí l’imperatore Costantino inviò il papa Silvestro I a consacrare la chiesa in onore del santo martire.

Lukas Paumgartner come Sant’Eustachio, scomparto laterale dell’Altare Paumgartner, dipinto su tavola di Albrecht Dürer. 1500 circa. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek. Nella pagina accanto La Visione di Sant’Eustachio, tempera su tavola del Pisanello (al secolo, Antonio di Puccio Pisano). 1438-1442. Londra, National Gallery.

Una disgrazia dopo l’altra Sempre secondo la Legenda Aurea, Eustachio, dopo aver lasciato l’esercito romano, fu perseguitato dalla sfortuna, come accadde a Giobbe e come gli aveva preannunciato Gesú: perse prima tutti i suoi averi, quindi la moglie e i figli, senza che mai si rivoltasse contro Dio. Per questo fu premiato e, dopo molti anni di separazione, la famiglia si riuní miracolosamente. Occorre infatti specificare che qui, per «perdita», si deve intenderne il semplice allontanamento, il che giustifica la successiva ricomposizione del nucleo familiare. Vale la pena di riportare qualche ulteriore particolare delle «sfortune» toccate al poveretto: iniziarono con la perdita del bestiame e dei suoi mandriani, cosí che Eustachio e Teopista si risolsero a fuggire in Egitto per evitare il peggio. Il viaggio, neanche a dirlo, fu disastroso: il comandante della nave sulla quale erano imbarcati per raggiungere le coste africane, fa prigionieri Teopista, Agapito e

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CALEIDO SCOPIO Sant’Eustachio, affresco (strappato) del Maestro di Offida, anonimo pittore attivo nelle Marche e in Abruzzo nella seconda metà del XIV sec. Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica.

Teopisto e questi ultimi vengono quindi rapiti, vicino a un fiume, da un leone e da un lupo, mentre Teopista riesce a sottrarsi al rapitore, morto per volontà divina. Riconosciuto come prode comandante, Eustachio fu richiamato sotto le armi col grado di generale e combatté valorosamente contro i barbari. Si recò quindi a Roma per ricevere gli onori che gli spettavano per le vittorie conseguite, ma l’imperatore Adriano – nel frattempo succeduto Traiano – venne a sapere che era cristiano e lo fece arrestare e condannare a morte insieme con la moglie e i figli. I quattro subirono torture, ma, gettati alle fiere nel

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Colosseo, ne uscirono indenni: furono allora chiusi all’interno di un bue di bronzo arroventato (il cosiddetto Toro di Falaride, uno strumento di tortura ideato per l’omonimo tiranno di Siracusa da Perillo d’Atene nel VI secolo a.C., n.d.r.) e cosí morirono.

Un soggetto di successo Che sia esistito o meno, sant’Eustachio è un personaggio di primissimo piano nel mondo dell’arte, raffigurato dai piú grandi maestri di ogni tempo. Fra i tanti, ricordiamo Albrecht Dürer, che lo ritrae in uno degli scomparti laterali dell’Altare Paumgartner (vedi foto a p. 105), opera di grande

fascino e molto interessante per le armi presenti, quali una spada da una mano e mezzo e un pugnale, entrambi tipicamente di ambito svizzero-tedesco. Non meno famosa è La Visione di Sant’Eustachio del Pisanello, che però non raffigura armi (vedi foto a p. 104). In effetti, il santo è rappresentato quasi sempre davanti al cervo, ma a volte vestito da cacciatore, con abiti sontuosi, e a volte da soldato romano, in entrambi i casi con o senza armi. Di qui il grande interesse del soggetto per lo studio delle armi nel corso dei secoli. Le spade, soprattutto, testimoniano l’epoca dei tanti dipinti e meriterebbero davvero attenzione per ricavarne le varie tipologie. In non rari casi, il martire non è accompagnato dal simbolo del cervo ed è privo di armi, ma sempre con abiti signorili: risulta perciò difficile identificarlo, potendosi scambiare con altri santi di estrazione sociale alta. Le sue raffigurazioni non devono poi essere confuse con l’iconografia di sant’Uberto, che propone anch’essa un cacciatore di fronte a un cervo con un crocifisso fra le corna. Quest’ultimo, infatti, è considerato patrono dei cacciatori e, contemporaneamente, per alcuni, primo oppositore della caccia, visto che dopo l’apparizione rinunciò a uccidere la selvaggina. Questo santo, involontariamente legato al marchio del digestivo Jägermeister, non ha nulla a che fare con il nostro Eustachio. Sia Eustachio che Uberto (che visse dal 656 al 727) sono ufficialmente protettori dei cacciatori, ma preferiamo quest’ultimo, che, per amore, rinunciò a uccidere animali innocenti. febbraio

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Rinascimento noir LIBRI • Presentiamo in anteprima il nuovo romanzo storico di Corrado Occhipinti

Confalonieri. Ambientato nella Piacenza del Cinquecento, il libro del nostro collaboratore rievoca la congiura ordita ai danni del duca Pier Luigi Farnese

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iacenza, settembre 1545. La città accoglie il suo primo duca Pier Luigi Farnese, che semina da subito malcontento nella classe dirigente per la sua volontà di recidere i fili col passato, nonostante i consigli alla prudenza di suo padre Alessandro, eletto papa con il nome di Paolo III. Spinto dall’ambizione di voler estendere il suo ducato, Pier Luigi si inimica anche l’imperatore Carlo V che sostiene una congiura di nobili locali volta a destituirlo con l’uso della forza. Anche il conte Gianluigi Confalonieri viene chiamato a partecipare al complotto, ma la moglie Elisabetta cerca di farlo desistere: infrangere il giuramento di fedeltà al duca sarebbe un atto di lesa maestà, punibile con la damnatio memoriae. Nonostante gli avvertimenti della moglie, Gianluigi si farà coinvolgere in un intrigo piú grande di lui e molto pericoloso: ad andarci di mezzo sarà anche la felicità di Ortensia, la figlia tanto amata. Elisabetta, suo malgrado, si troverà a prendere le redini della famiglia per evitare che cadano tutti nel baratro. È questa la trama del nuovo romanzo storico di Corrado Occhipinti Confalonieri, I superbi: basato su fatti storici e personaggi realmente esistiti, è ambientato in un Rinascimento nepotista, spietato, sanguinario, combattuto solo dalla forza dei sentimenti di donne come Elisabetta. Che cosí fu descritta dall’umanista e biografo Lodovico Domenichi

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nel suo saggio La nobiltà delle donne (1552): «Mostra una certa schiettezza e generosità in tutti i suoi costumi, con cui le cose noiose e avverse pazientemente sopporta; e ritrovandosi in altezza e felicità non è punto sopra l’humana misura levataì». Ecco dunque, in anteprima, un brano tratto da I superbi.

La tirannide, Siena 1545 Entrati a palazzo Pubblico, Elisabetta era agitata. Da un lato voleva capire il senso dell’opera di Ambrogio Lorenzetti sul Buon Governo, che tanto aveva colpito l’immaginazione di suo marito; dall’altro ne temeva le conseguenze. I suoi silenzi di quei giorni non erano un segnale positivo. Affidò la mantella a un giovane inserviente e si sforzò di sorridere. «Fammi un po’ da Cicerone: dove si trovano gli affreschi?» Dopo tanti anni capiva Gianluigi anche dal peso dei silenzi: ma

solo nel sentirlo esprimere le sue emozioni verso quei dipinti avrebbe smentito o confermato i suoi timori. «Di sopra, nella sala in cui il governo dei Nove concedeva udienza ai cittadini.» Elisabetta afferrò i pesanti lembi della gonna e cominciò a salire le scale a fianco del marito. «Mai sentiti. Chi erano questi Nove?» «Borghesi. Amministravano Siena a rotazione ed escludevano i nobili per evitare liti e prevaricazioni.» Lei si fermò sul ballatoio. «Un governo popolare?» «Non ci crederai, ma è proprio cosí.» «Fammi riprendere fiato.» Gianluigi si portò una mano sul cuore. «Hai ragione. Vado troppo veloce, perdonami.» Farlo parlare era l’unico modo per capire cosa avesse in mente. «Come mai i Nove avevano commissionato questi affreschi a Lorenzetti?» Lui si sentí gratificato dalla sua attenzione. «Volevano dimostrare come il loro governo garantiva pace e concordia in città e in campagna. Anzi, che quello era l’unico modo possibile per evitare la Tirannide.»

Corrado Occhipinti Confalonieri I superbi. Una donna fra amori e vendette Edizioni Minerva, Argelato (BO), 2024 18,00 euro ISBN 978-8833246314 www.minervaedizioni.com febbraio

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«Quindi ti riferisci a qualche nobile rapace che prendeva il sopravvento?» Elisabetta fece un respiro profondo. «Ora sono pronta ad affrontare l’ultima rampa.» «Diciamo che era un primo tentativo di organizzazione democratica, sul modello degli antichi.» Lei aggrottò le sopracciglia. «Mi sembra un’utopia: nella realtà ha funzionato?» «Non proprio. Si trattava di propaganda perché i Nove vennero accusati di ingiustizia e corruzione, ma con questi dipinti volevano dimostrare cosa sarebbe accaduto senza di loro.» Nella sala degli affreschi, si trovarono di fronte a quello che rappresentava la guerra. Elisabetta indicò una figura con in mano una coppa colma di sangue, che indossava un mantello color oro e rosso tempestato di pietre preziose. «Oh, mio Dio! Quel mostro è spaventoso!» «Sí, è orribile. Si tratta di Tirannide, la meretrice di Babilonia. Le due corna che spuntano dalle trecce bionde e la bocca con i canini sporgenti sembrano quelli di una lupa feroce.» La guardò di traverso, le faceva paura. «Gli occhi però non sono come quelli di una lupa. Sono strabici: le conferiscono un’espressione cattiva e ottusa. A chi rivolge il viso?» «Alla sua alleata, la Superbia. Quella figura femminile ma con ali da diavolo, vestita di porpora.» Lei seguí con lo sguardo le mura merlate che si snodavano sulla parete. «Mi sembra che Tirannide abbia occupato Siena.» «Vero, sta seduta su quella panca a mo’ di trono. Sotto di lei c’è un caprone nero, lo vedi?» «Purtroppo sí: mi fa ribrezzo con quegli attributi in mostra.» Le sembrava anche di sentire il fetore che emanava quell’animale immondo, simbolo di lussuria.

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Lui fece un ampio gesto con il braccio. «La sua corte è formata dai vizi come l’Avarizia. La vecchia con ali da rapace, ha il viso scavato e lo sguardo truce.» Elisabetta annuí: l’impatto con quei grandi personaggi incombenti era cosí forte da farli sembrare vivi; ma quello che piú la colpiva erano le reazioni di Gianluigi a quelle immagini. Sembrava che si fosse

La personificazione della Tirannide, resa con sembianze diaboliche, particolare dell’Allegoria ed Effetti del Cattivo Governo, affresco realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nel Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339.

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CALEIDO SCOPIO L’autore Firma ormai familiare per i lettori di «Medioevo», Corrado Occhipinti Confalonieri, nato a Milano nel 1965, è autore di saggi, fra i piú recenti dei quali ricordiamo quelli sulla storia della peste del 1348 Gabriele Musso e l’angelo della morte (Bollettino storico piacentino, 2019, 2), su Jean Monnet alla Società delle Nazioni (Rivista di studi politici internazionali, 2021, 1) e sulla Veduta di Roma al MACA di Mantova (Civiltà mantovana, 2022, 1; 2023, 1). Il suo primo romanzo, La moglie del santo (Minerva edizioni), ha ottenuto il premio speciale «Italia medievale» (2019), il premio «Migliore copertina» del gruppo Facebook Thriller storici e dintorni (2019) ed è stato inserito dal Salone del libro di Torino nel percorso dei libri sull’amore (2021). catapultato all’interno dei dipinti, era ormai un loro personaggio che combatteva contro il male, tanto forte appariva il suo coinvolgimento emotivo. Indicò una figura vestita di bianco, che giaceva a terra con le mani legate. «Mi fa una pena quella donna con i capelli scarmigliati.» «Tirannide l’ha appena sconfitta. Vedi al suo fianco la bilancia dalle corde spezzate? È Giustizia.» «Che figure orripilanti!» Elisabetta si portò una mano alla bocca. «E quella megera che tiene in mano un serpente? Sta per strozzare un bimbetto!» «Quella è Crudeltà. Furore, invece, mi fa venire in mente Farnese: metà uomo, ma con la testa da cinghiale.» Lei fece finta di niente, ma capí che Pier Luigi stava diventando l’ossessione del marito. «Chi è quella donna che si sta segando in due?» «Divisio: questo accadrebbe ai cittadini se Tirannide prendesse il sopravvento. Ancora piú tremendo sarebbe l’effetto del suo malvagio regno: lo sfascio, la distruzione, gli omicidi. Fai attenzione a quel bimbo ai suoi piedi, sta per essere fatto a pezzi da due soldati. I reduci dell’ingiustizia sono quei poveretti che avanzano con i moncherini

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sanguinanti al posto delle mani.» Elisabetta appariva affranta, si strinse al braccio del marito. «E la sposa vestita di cremisi? Anche lei sta per fare una brutta fine?» «Sí, purtroppo, il marito giace a terra già morto…» «E là, sulla sinistra in alto, vicino alla porta della città, c’è una malefica vecchia… Leggo Timor, in cielo brandisce una spada. Cosa recita il cartiglio?» Gianluigi si schiarí la voce. «Per voler el ben proprio / in questa terra sommess’è la giustitia a tyrannia / unde per questa via / non passa alcun senza dubbio di morte, / ché fuor si robba e dentro da le porte.» Elisabetta osservò il resto dell’opera con attenzione: si vedevano gli eserciti alle porte di Siena, le fattorie distrutte, i campi dati alle fiamme. «Ora capisco. Se dominasse Tirannide in città, i suoi effetti si propagherebbero anche nelle campagne.» Gianluigi annuí. Condividere le stesse sensazioni con lei gli dava forza, non si sentiva solo. «Il messaggio è chiaro, vale ancora oggi e varrà per sempre: dove regna Tirannide vige la violenza, il sopruso, la morte, perché ciascuno mira al bene proprio e non a quello della comunità.» Lo guardò: l’inusitata enfasi che

metteva nelle sue parole non le piaceva affatto. (...) Passarono poi per una breve visita nella sala del mappamondo. Alcuni gentiluomini stavano conversando. Uno di loro appoggiava la mano guantata sull’elsa della spada che, come uno specchio convesso, rifletteva l’ultima luce che proveniva dalle ampie vetrate. Rivolsero un cenno di saluto ai nuovi arrivati e ripresero a parlare fra di loro. Sulla parete centrale del salone campeggiava un grande disco rotante della Terra. «Non comprende le nuove scoperte dell’ammiraglio Colombo» gli fece notare Elisabetta. «Sapere che l’Atlantico non è il confine del mondo è qualcosa a cui non ci siamo ancora abituati.» Lui sorrise con malinconia. «Ecco quello che possiamo perdere per colpa di Pier Luigi Farnese.» «Cosa?» Elisabetta lo guardò negli occhi con la speranza che si confidasse. «La libertà di poter essere felici.» «In questi giorni era il pensiero che ti turbava?» «Sí. Non sono riuscito a dirtelo prima, ma Giovanni Anguissola mi ha chiesto di partecipare a una congiura per eliminare il duca.» Elisabetta sgranò gli occhi. «Tu cosa gli hai risposto?» «Ho rifiutato. Sono un uomo d’arme, non un assassino.» Lei tirò un sospiro di sollievo e lo abbracciò. «Sia ringraziato Iddio.» Gianluigi la strinse forte, ma non ebbe il coraggio di rivelarle che con Anguissola aveva preso tempo. La visione di quegli affreschi lo avevano oltremodo destabilizzato: come quei piatti della bilancia che Giustizia teneva in perfetta simmetria nel Buon Governo, cosí egli sapeva di dover prendere la giusta decisione per impedire che sotto la tirannide del duca Farnese, Piacenza facesse la stessa fine di Siena. febbraio

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Giorgio Cosmacini Rivoluzioni nella storia delle scienze della vita Edizioni Pantarei, Milano, 214 pp.

15,00 euro ISBN 978-88-86591-55-3 www.edizionipantarei.com

Il volume raccoglie 13 lezioni dedicate dall’autore ad altrettanti punti di svolta – rivoluzioni, appunto – che hanno segnato una rottura con ideologie e saperi consolidati. Il tutto in una prospettiva in cui l’arte medica rivela il suo costante intreccio con il sapere filosofico e con le sue, mai sopite, domande. E non è forse una coincidenza che il 1543, anno della pubblicazione dell’opera di Copernico coincida con quello del De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio (1514-1564), su cui si basa la rivoluzione anatomica, fulcro a sua volta delle successive evoluzioni delle scienze della vita. Prendendo dunque le mosse dall’operato di Ippocrate (III secolo a.C.), che per primo elaborò l’idea di un progresso della scienza fondato sulle scoperte del passato, l’autore esamina poi la rivoluzione di Galeno (129-200 d.C.), che ebbe il merito di

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elevare la medicina da arte (ovvero insieme di conoscenze tecniche), a scienza basata sull’osservazione, sulla sperimentazione, sull’elaborazione di concetti (nati dalle due fasi precedenti), dando vita a un sistema destinato a durare un millennio e mezzo. L’età medievale vide nella Scuola medica Salernitana e nella nascita – in seguito alle epidemie di peste – degli uffici di sanità preposti alla gestione dell’emergenza,

dell’isolamento, della quarantena (ed embrione del sistema sanitario-assistenziale moderno), i suoi principali momenti. Parallelamente, la riforma ospedaliera (Gilino 1508), distinguendo tra ospedale (in quanto luogo dell’emergenza) e cronicario, gettava le basi dell’attuale concetto di nosocomio deputato a guarire nell’immediato e dotato di personale

laico (anziché religioso) specializzato. Da medievale «albergo dei poveri» l’ospedale si trasformava cioè in rinascimentale «fabbrica della salute». Ai primi del Cinquecento, Paracelso si battè per la verità dell’esperienza diretta contro i dogmi del sapere libresco (pur aborrendo l’esame autoptico), mentre alla metà del secolo si colloca la rivoluzione anatomica di Vesalio, il quale, sulla base delle autopsie eseguite personalmente all’Università di Padova, compilò il primo monumentale atlante di anatomia, corredato dalle tavole disegnate da un pittore/incisore fiammingo allievo di Tiziano. Confutava in tal modo il metodo galenico (basato su dissezioni eseguite da un chirurgo accompagnate dalla lettura dogmatica dei testi antichi), facendo dell’esperienza e dell’osservazione diretta la base di nuove conoscenze. Nel primo Settecento spicca l’opera di Bernardino Ramazzini (1633-1714) sulle malattie dei lavoratori, caposaldo della «medicina sociale». L’invezione dei vaccini da parte di Edward

Jenner (1749-1823) e quella degli antibiotici, dopo la seconda guerra mondiale, concludono il volume. Maria Paola Zanoboni Hendrik Dey Roma nel Medioevo Un nuovo profilo della città, 400-1420 traduzione e cura di Serena Romano, Viella, Roma, 448 pp.

48,00 euro ISBN 9791254693506 www.viella.it

A 43 anni dalla sua pubblicazione, il seminale Roma, profilo di una città 312-1308 di Richard Krautheimer trova un degno erede in questo volume di Hendrik Dey. L’opera, infatti, compie un’impresa analoga, abbracciando il millennio della storia di Roma che va dal periodo tardoantico alle soglie del primo Rinascimento. Secoli in cui il profilo urbanistico della città ha subito profondi cambiamenti, e in cui il rapporto con l’antico non si è mai interrotto, costituendo una linea rossa lungo la quale si è sviluppato un rapporto a volte conflittuale di amore/ odio. Roma è un caso emblematico negli studi di storia urbana, per la presenza di un passato tanto illustre

quanto ingombrante, in cui le imponenti vestigia divengono nei secoli un termine di ostentazione, confronto, nonché riappropriazione da parte delle istituzioni: imperiali, comunali ed ecclesiastiche. Dey ha il merito di raccontare questa complessa storia con stile accattivante e mai pedante, anche grazie all’ottima traduzione di Serena Romano. Basandosi sui risultati delle indagini archeologiche degli ultimi quarant’anni e sulla documentazione d’archivio, l’autore amplia la nostra conoscenza della storia urbanistica di Roma con un percorso cronologico in cui le varie fasi storiche vengono ben contestualizzate e illustrate attraverso esempi significativi, con l’ausilio di un ampio apparato iconografico. Franco Bruni febbraio

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LA GRANDE RAZZIA L’avventurosa storia dei furti d’arte dall’antichità ai giorni nostri

Secondo recenti stime dell’UNESCO, il traffico clandestino di opere d’arte e reperti archeologici è uno dei piú fiorenti business illegali praticati nel mondo e l’attività dei molti attori che alimentano la filiera è ben lontana dalla visione un po’ romantica e avventurosa dei cacciatori di tesori sette/ottocenteschi. D’altro canto, il desiderio di impossessarsi – anche con soprusi e violenze – delle piú felici espressioni dell’ingegno e della creatività di pittori, scultori e maestri artigiani ha radici antiche e proprio da questa considerazione prende spunto la nuova Monografia di «Archeo», che ripercorre la storia millenaria di una passione per l’antico che non ha esitato a trasformarsi in autentica razzia.

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Potrà forse sorprendere, ma le prime testimonianze a oggi note di simili pratiche si collocano nell’antica Mesopotamia, dove il principio secondo il quale «il bottino spetta al vincitore» fu a piú riprese applicato da tutte le grandi civiltà che si succedettero in quelle terre. Una logica alla quale non si sottrassero, piú tardi, gli eserciti di Roma e poi, per esempio, i Veneziani impegnati nella quarta crociata, responsabili, nel 1204, di uno dei piú colossali saccheggi della storia: quello perpetrato ai danni di Costantinopoli. Pagine poco gloriose di una vicenda destinata ad avere una folta schiera di epigoni anche in epoche piú vicine alla nostra, come provano le spoliazioni napoleoniche ai danni del patrimonio italiano o la sistematica caccia al tesoro scatenata dal regime nazionalsocialista, solo in parte risarcita dopo la caduta del Terzo Reich e la fine del secondo conflitto mondiale. Una storia, dunque, assai lunga, che la Monografia ripercorre con ritmo avvincente, forte di un ricco e spesso inedito corredo iconografico.




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