Medioevo n. 321, Ottobre 2023

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FIASPEC ND IAL RE E

www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

FIANDRE

IL SECOLO D’ORO

OTTOBRE 876 LA BATTAGLIA DI ANDERNACH TRECENTONOVELLE CONTADINI... MA DAL CERVELLO FINO UOMINI E SAPORI TUTTE LE VIRTÚ DEL VINO

PERUGIA UN’INVENZIONE FIRMATA LUCA SIGNORELLI ASSISI RIAPRE LA ROCCA MAGGIORE 30321 9

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Mens. Anno 27 numero 321 Ottobre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 321 OTTOBRE 2023

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 3 OTTOBRE 2023



SOMMARIO

Ottobre 2023 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Quella sentinella poderosa e magnifica

IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/9 Piedi scalzi e cervello fino

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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di Corrado Occhipinti Confalonieri

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STORIE BATTAGLIE Andernach L’arroganza di Carlo il Calvo di Federico Canaccini

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LIBRI Lo Scaffale

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FIANDRE Splendori del secolo borgognone di Aart Heering ed Élodie Lecuppre-Desjardin

CALEIDOSCOPIO

di Laura Teza, con un contributo di Paola Mercurelli Salari 32

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Vittore, valoroso cristiano d’Africa di Paolo Pinti 106

Dossier

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LUCA SIGNORELLI IN UMBRIA/8 Quella splendida invenzione

STORIE, UOMINI E SAPORI Vizi e virtú dei vini medievali di Sergio G. Grasso 100

RESTAURI Su per l’antica torre di Stefania Romani

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SOCIETÀ Una parità difficile da conquistare di Debora Gusson 96

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FIASPEC ND IAL RE E

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IL SECOLO D’ORO

OTTOBRE 876 LA BATTAGLIA DI ANDERNACH

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MEDIOEVO n. 321 OTTOBRE 2023

MEDIOEVO

IN EDICOLA IL 3 OTTOBRE 2023

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Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Debora Gusson è studiosa di arte e storia. Aart Heering è giornalista. Élodie LecuppreDesjardin è professoressa di storia medievale all’Université de Lille. Paola Mercurelli Salari è storica dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Stefania Romani è giornalista. Laura Teza è storica dell’arte. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

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MEDIOEVO Anno XXVII, n. 321 - ottobre 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Erich Lessing/K&K Archive: copertina (e p. 88) e pp. 68-69, 74; Album/Quintlox: pp. 26, 29, 48; AKG Images: pp. 27, 72, 84, 86; Album/Fine Art Images: p. 36; Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 37; Electa/Bruno Balestrini: p. 39; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 48/49; Album: pp. 50, 55, 105; Fototeca Gilardi: pp. 51, 52; Album/Oronoz: pp. 60/61; Album/Prisma: pp. 62 (destra), 101, 102; Album/British Library: pp. 63, 74/75; Darchivio/opale.photo: p. 70 – Cortesia Opera Laboratori: pp. 6-9 – Doc. red.: pp. 20-25, 30/31, 38 (basso), 40, 44-45, 53, 56, 59, 62 (sinistra), 64/65, 66-67, 73, 78-79, 87, 90, 96 (destra), 103 – Cortesia degli autori: pp. 33, 34/35, 92-94, 96 (sinistra), 97, 98, 106-108 – Shutterstock: pp. 40/41, 76/77, 80-83, 84/85, 91 – © Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia: p. 43 – Stefano Mammini: p. 54 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 104 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 65. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina Ritratto di Giovanni Arnolfini e di sua moglie, olio su tavola di Jan van Eyck. 1434. Londra, National Gallery.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Prossimamente storie

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il medioevo in

rima

agina

Quella sentinella poderosa e magnifica RESTAURI • Monumento simbolo di Assisi, la Rocca Maggiore è stata riaperta al

pubblico e inserita in un importante progetto di valorizzazione del patrimonio locale

È

stata riaperta al pubblico, dopo due anni di lavori di riqualificazione, la Rocca Maggiore di Assisi, il monumento simbolo della città, divenuto ora il fulcro dell’offerta museale comunale, grazie a un progetto di valorizzazione basato su un nuovo servizio di mobilità turistica. L’intervento di restauro è consistito nella realizzazione di un nuovo solaio e del pavimento nel salone d’onore, l’opera del camminamento-ballatoio che percorre tre lati del monumento, la scala

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di collegamento esterna con ricostruzione del parapetto, le rampe di accesso al cassero, la riqualificazione della torre poligonale con possibilità di accesso diretto. Sono stati poi realizzati nuovi impianti tecnologici. Gli adeguamenti consentono una visita unica di questo monumento, restituendo al livello superiore, aperto per la prima volta al pubblico, anche viste panoramiche eccezionali. Le prime notizie sulla Rocca Maggiore risalgono al 1174,

La Rocca Maggiore di Assisi, il cui aspetto attuale è in larga parte frutto della ricostruzione della fortezza promossa dal cardinale Egidio Albornoz nel 1365.

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quando fu ricostruita in seguito alla conquista di Assisi da parte delle truppe imperiali guidate da Cristiano di Magonza (1174); ma essa forse già esisteva in epoca longobarda. È quindi probabile che – sui resti di una fortificazione preesistente – la Rocca sia stata ricostruita dagli Svevi, come castello feudale: si narra anche che Federico di Svevia – il futuro imperatore Federico II – vi abbia soggiornato in gioventú, ospite di Corrado Lutzen. La Rocca si staglia sul colle che sovrasta Assisi: al di sopra delle sue mura spicca il Maschio, da cui si gode uno stupendo panorama della città e della Valle Umbra, da Perugia a Spoleto. Sin dai tempi piú antichi, il luogo ove sorge la fortezza era considerato sacro ed essenziale alla difesa dell’abitato. Nel 1198 il castello fu distrutto a seguito di una rivolta popolare per impedire che cadesse nelle

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mani di un governatore pontificio: non a torto, gli Assisani vedevano in esso un simbolo dell’oppressione imperiale.

Al centro di molte contese La Rocca fu ricostruita nel 1365 dal cardinale Egidio Albornoz (allora impegnato nella sottomissione delle principali città della penisola) come punto di avvistamento: ne uscí un tipico esempio di architettura militare medievale. Da allora, la Rocca fu protagonista di ogni tentativo di conquista nell’alternarsi al governo della città dei vari signori e il suo ruolo difensivo accrebbe nel tempo con modifiche nella struttura e con la costruzione di torri e bastioni. Successivamente all’Albornoz, la Rocca fu ampliata e modificata da Biordo Michelotti (139598), dal Piccinino (1458), da Pio II (1460), da Sisto IV (1478), da Paolo III (1535) e assunse un

Particolari delle architetture della Rocca Maggiore, che nel corso del Cinquecento perse la sua funzione difensiva e divenne residenza dei castellani deputati al controllo del territorio.

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In questa pagina, dall’alto il chiostro dell’abbazia di Praglia, l’oratorio della Santissima Trinità di Arquà Petrarca e la Tomba di Francesco Petrarca, che morí nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374.

DOVE E QUANDO

Assisi, Rocca Maggiore Orario gli orari variano stagionalmente Info tel. 075 8138680 oppure 331 6792735; e-mail: biglietteriarocca@operalaboratori.com; www.visit-assisi.it www.assisiseraficabellezza.it aspetto davvero imponente. È tradizione che la vetta del colle fosse occupata da una acropoli sin dall’epoca piú antica, ma che fosse stata devastata nel 545 dal re goto Totila. Nel Seicento, la Rocca fu completamente abbandonata per rimanere quasi intatta fino al nostro secolo.

Squarci di vita quotidiana La fortezza voluta dall’Albornoz fu piú volte ampliata con l’aggiunta di bastioni, ma venne devastata dalla popolazione in seguito all’unità d’Italia (1859). Oggi è aperta ai sempre piú numerosi visitatori; dalle sue torri si offre un panorama tra i piú ampi e suggestivi di tutta l’Umbria: Assisi raccolta ai suoi piedi, la splendida Valle Umbra. I saloni ospitano ricostruzioni tematiche ispirate alla vita medievale.

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Sulle due pagine altre immagini della Rocca Maggiore di Assisi. L’intervento di riqualificazione che ha interessato il complesso ne ha recuperato la piena agibilità e ha compreso anche l’installazione di apparati tecnologici destinati a migliorarne la fruizione da parte dei visitatori.

Far chiudere

Per raggiungere la Rocca Maggiore, è stato attivato il Servizio Assisi Serafica Bellezza-Eco Tour che, attraverso due bus elettrici di nuova generazione, con tetto panoramico e postazioni per diversamente abili, offre alla città di Assisi un servizio innovativo, efficente e sostenibile. I MiniBus assicurano un afflusso costante di visitatori a uno dei monumenti piú identificativi della città. Nelle tre fermate individuate – presso Piazza del Comune, Rocca Maggiore e Piazza San Pietro –, gli ospiti hanno a disposizione corse ogni 20 minuti, potendo scendere e risalire in modalità Hop On-Hop Off, fino a completamento della loro visita. Le visite a bordo dell’Assisi Eco Tour sono arricchite da un commento audiovideo, tradotto in cinque lingue, che guida gli ospiti, introducendoli alla visita dei musei. (red.)

Leggere per viaggiare P

er la sua terza edizione, la Festa libro medievale e antico di Saluzzo, in programma dal 20 al 22 ottobre, ha scelto il viaggio come tema su cui fare ruotare la riflessione e le proposte di una manifestazione libraria e fieristica nata nel 2021 per raccontare e approfondire la cultura e storia medioevale, attraverso diverse espressioni creative e artistiche: romanzi, saggi, lezioni magistrali, spettacoli, performance, concerti, momenti conviviali e cene, azioni pittoriche, occasioni di giochi a tema, laboratori per adulti, bambine e bambini. Il tema del viaggio nel Medioevo viene affrontato attraverso diversi aspetti ed espressioni. Il viaggio propriamente inteso, come itinerario da intraprendere – non senza pericoli – per spostamenti pratici o per necessità di lavoro e commerciali; il viaggio visto come desiderio di scoperta e avventura, come sfida per il superamento di confini e condizioni; il viaggio fantastico, epico e cavalleresco; il viaggio spirituale e mistico in un periodo di fervente religiosità, senza trascurare i pellegrinaggi militari di conquista che furono le crociate in Terra Santa, causa di migliaia di morti. Al programma di appuntamenti si affiancherà la parte

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espositiva della Festa, sabato 21 e domenica 22, nel cuore della manifestazione, Il Quartiere, dove il pubblico sarà accolto da editori, librerie, enti culturali con le loro proposte di catalogo, le novità sul tema e la presenza di copie di libri esclusivi, sia manoscritti che a stampa. Case editrici specializzate e generaliste e librerie antiquarie offriranno al pubblico il meglio delle uscite editoriali che raccontano il Medioevo. La Festa del libro medievale e antico di Saluzzo è nata dalla volontà di portare all’attenzione del grande pubblico la cultura e la storia del Medioevo, quale laboratorio culturale di notevole rilevanza, da cui nacque l’idea europea, e andare oltre gli stereotipi che lo hanno minimizzato relegandolo a mero momento di oscurità in opposizione al Rinascimento. La Festa intende cosí celebrare un periodo storico, dal V al XIV secolo, che esercita una forte fascinazione sull’immaginario collettivo, come dimostrano il successo di romanzi, serie televisive, film e videogiochi che a quella epoca e a quelle atmosfere si ispirano. Info: salonelibro.it; visitsaluzzo.it (red.)

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ANTE PRIMA

Un «villaggio» pieno di storia

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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opo la felice parentesi del 2022, quando, in occasione della decima edizione, si è spostata straordinariamente al Cen. Ser. di Rovigo, «Usi&Costumi», evento fieristico incentrato sulla valorizzazione dei beni culturali e del territorio attraverso le rievocazioni storiche, torna nella sua tradizionale sede emiliana di Ferrara nei padiglioni della fiera. L’11 e 12 novembre sarà quindi nuovamente il centro espositivo ferrarese a ospitare gli oltre 200 espositori provenienti da tutta Europa e operanti principalmente nella tutela dell’artigianato storico. Fabbri, falegnami, sarti, calzolai opereranno insieme come all’interno di un immaginifico villaggio dei saperi e dei sapori, arricchito infatti da stand enogastronomici che offrono al visitatore ricette antiche e pietanze locali. «Il ritorno alla fiera di Ferrara dell’evento “Usi&Costumi” costituisce la conferma del rapporto profondo che lega il mondo della rievocazione storica, rappresentato con grande autorevolezza dall’evento, con la meravigliosa città estense che sta valorizzando la propria storia tramite molteplici iniziative a carattere culturale, fra le quali l’evento fieristico si inserisce perfettamente», ha dichiarato Andrea Moretti, Presidente di Ferrara Expo, che ha aggiunto: «In questo quadro la presenza in città di moltissimi cultori della Storia arricchisce il panorama turistico di qualità e premia gli sforzi degli organizzatori dando lustro all’importante obiettivo di nobilitare la storia e le tradizioni del nostro ricco passato». «Ringraziando sentitamente il Cen.Ser. di Rovigo e tutti i soggetti locali coinvolti lo scorso anno nell’edizione ospitata a Rovigo – ha poi dichiarato Cesare Rusalen di Estrela Fiere, uno dei due soggetti organizzatori – per noi ora si tratta di un vero e proprio ritorno a casa quello che ci vede nuovamente ospiti a Ferrara Expo, luogo in cui “Usi&Costumi” è stata ideata e dove ha conosciuto il proprio sviluppo». Gli ha fatto eco l’altro organizzatore, Massimo Andreoli, di Wavents: «L’esperienza a Rovigo è stata positiva sotto tutti i punti di vista, perciò questo ritorno in Emilia non deve essere visto come una sorta di “bocciatura” dell’esperimento fatto nel 2022, bensí

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Immagini di repertorio delle passate edizioni di «Usi&Costumi», la cui XI edizione è in programma l’11 e 12 novembre prossimi. come la naturale ripresa di una collaborazione interrotta momentaneamente per motivi indipendenti dalla nostra volontà, ma che è sempre stata contraddistinta dalla volontà di tutti i soggetti coinvolti di favorire lo sviluppo di una nuova immagine di Ferrara come città della storia e in particolare del Rinascimento». «Usi&Costumi», che gode del Patrocinio del Comune di Ferrara, della collaborazione con il main sponsor «FerraraTua», rimarrà aperta sabato 11 novembre dalle 10,00 alle 19,00 e domenica 12 novembre, dalle 10,00 alle 18,00, insieme alle collaterali «Via Historica-Fiera del Turismo Storico», «Sagitta Expo» (area destinata al Tiro con l’Arco), e a «Scripta Manent – Piccolo Salone del Saggio e del Romanzo Storico», prima iniziativa in Italia dedicata a questo particolare settore dell’editoria, che sta avendo sempre maggiore successo. Info: tel. 345 7583298 oppure 333 5856448; e-mail: info@usiecostumi.org ottobre

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ANTE PRIMA

Un traguardo importante

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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a XXV Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico a Paestum, da giovedí 2 a domenica 5 novembre 2023, condivide il suo 25° anniversario con il Parco Archeologico di Paestum e Velia e la Certosa di Padula, inseriti nel 1998 nella Lista del Patrimonio UNESCO. L’Ufficio Italia del Parlamento Europeo e l’Associazione Civita illustreranno il 2 novembre «Le opportunità dei fondi europei per valorizzare il patrimonio culturale, migliorare l’attrattività delle destinazioni turistiche, rafforzare la competitività delle imprese». Il 3 novembre si ritroveranno a Paestum i Sindaci dei Comuni archeologici UNESCO con i Direttori di Parchi e Musei e sarà presentata la ricerca «Il valore aggiunto del brand UNESCO sui territori» a cura di S.R.M. Studi e Ricerche per il Mezzogiorno Centro Studi del Gruppo Intesa Sanpaolo. Nel pomeriggio in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale la Conferenza «#unite4heritage: archeologia e cooperazione culturale dal 2015 a oggi», hashtag lanciato dall’UNESCO a seguito della distruzione di Palmira, che istituí nel 2016 per i Paesi facenti parte dell’UNESCO l’utilizzo della Task Force «Unite4Heritage». La seconda giornata si concluderà con l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», che dal 2015, in collaborazione con «Archeo» premia le scoperte archeologiche. Le 5 finaliste sono: Egitto: nell’antica necropoli di Saqqara, a Giza,la piramide della regina Neith; Guatemala: le tracce del piú antico calendario maya; Iraq: dal fiume Tigri nel bacino di Mosul una città dell’età del Bronzo; Italia: a San Casciano dei Bagni (Siena), dal fango 24 statue di bronzo di epoca etrusca e romana; Turchia: a Midyat, nella provincia di Mardin, una grande città sotterranea di 2000 anni fa. Fanno parte del ricco programma la Conferenza «UNESCO Meeting on the Access to Underwater Cultural Heritage» sulla valorizzazione delle destinazioni mediterranee e il Premio Internazionale di Archeologia Subacquea «Sebastiano Tusa». Il Premio «Paestum

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Mario Napoli» andrà a Gianfranco Ravasi, Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, al Parco Archeologico del Colosseo e al Parco Archeologico di Pompei, all’École française di Roma. Il 4 novembre i Parchi e Musei statali autonomi e Fondazioni si confronteranno sui modelli di gestione, a cura del Gabinetto del Ministero della Cultura; «Dal Sud al Mediterraneo i nuovi turismi per viaggiatori consapevoli», a cura del Touring Club Italiano; «I Musei per la valorizzazione del patrimonio culturale mediterraneo e il dialogo interculturale» con i Direttori dei Musei Archeologici di Atene, Beirut, Il Cairo, Marsiglia, Napoli, Roma, Tunisi e con la lectio magistralis del Cardinale Gianfranco Ravasi. I buyer europei selezionati dall’ENIT (da Austria, Belgio, Francia, Germania, Olanda, Regno Unito, Spagna, Svizzera) saranno protagonisti al Workshop di sabato 4 novembre, che intende sviluppare la domanda turistica di prossimità europea e anche quella nazionale da parte dei tour operator specializzati. Da segnalare poi le sezioni ArcheoIncoming, ArcheoVirtual, ArcheoExperience, ArcheoLavoro e ArcheoStartup. Nel Salone Espositivo, oltre al Ministero della Cultura, saranno presenti 16 territori regionali e per la prima volta l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo del MAECI e la Città del Vaticano con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. L’ingresso alla BMTA è gratuito (registrazione on line consigliata) e include anche quello alle aree archeologiche di Paestum e Velia, oltre a usufruire di visite guidate il 3 e il 4 novembre. Info: www.bmta.it ottobre

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre CORTONA SIGNORELLI 500. MAESTRO LUCA DA CORTONA, PITTORE DI LUCE E POESIA Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino all’8 ottobre

Straordinario innovatore della stagione rinascimentale, Luca Signorelli (1450-1523) – al secolo, Luca d’Egidio di Ventura o Luca da Cortona – è stata una figura per molti versi sfuggente per la critica e il pubblico, eppure fondamentale nel tracciare la strada che sarà seguita da Raffaello e Michelangelo: i due giganti che, ironia della sorte, finirono in seguito per oscurarne la fama. Nel nella città di Luca dopo settant’anni una trentina di opere dell’artista provenienti da prestigiosi musei italiani ed esteri, compresi importanti prestiti da collezioni private e da oltreoceano, sarà dunque un’occasione per celebrare e consacrare definitivamente Luca da Cortona tra i grandi artisti del tempo, alla luce anche degli studi piú recenti. info tel. 0575 630415; e-mail: info@cortonamaec.org; https://cortonamaec.org/ FELTRE

cinquecentenario della morte, Cortona – la città natale a cui Signorelli fu sempre legato, assumendo anche incarichi pubblici nonostante i viaggi e la ripetuta lontananza – getta nuova luce sull’artista, con una mostra che volutamente si concentra sulla produzione pittorica del maestro con l’obiettivo di ripercorrerne la

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carriera, rendendo evidente la forza del suo colorismo, la portata e l’originalità delle sue invenzioni tanto ammirate da Vasari, la potenza narrativa delle opere e la capacità che egli ebbe di andare oltre i suoi contemporanei, divenendo «un faro per i grandi del Rinascimento». La mostra di Cortona, riunendo

LE PRIGIONI DELLA MENTE. DRAGHI, BASILISCHI, RETTILI FANTASTICI Antiche prigioni di Palazzo Pretorio fino al 31 ottobre

Allestita negli spazi delle antiche prigioni veneziane, l’esposizione è una delle attese anteprime del Festival dell’araldica di Feltre, in programma per le prime due settimane del prossimo ottobre e che si proporrà come un’occasione per esplorare il mondo degli stemmi e il loro

linguaggio di figure, segni, simboli e colori. Tra di essi anche draghi e creature a essi affini, espressioni di un immaginario collettivo che dalle testimonianze di epoca classica arriva, passando per i bestiari medievali e i racconti della tradizione orale, fino ai giorni nostri e a serie televisive e film di straordinario successo. Lungi dall’essere solo figure dell’immaginario, essi – come raccontano gli organizzatori del Festival – costituivano presenze concrete nella vita reale ed esprimevano nel loro stesso esistere sogni, credenze e paure: «le prigioni della mente», cioè quell’insieme di convinzioni attraverso cui noi uomini ieri come oggi filtriamo l’esperienza del reale. In mostra installazioni costituite da video e immagini, sculture e decorazioni di draghi e rettili ancora visibili sul territorio feltrino. Un’esperienza immersiva visiva che interagisce con narrazioni sonore in dialetto e in italiano ottobre

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di leggende della tradizione orale della montagna bellunese raccolti e pubblicati da Daniela Perco e Carlo Zoldan in due volumi editi dalla Provincia di Belluno. info www.visitfeltre.info SIENA DALLA SPADA ALLA CROCE. IL RELIQUIARIO DI SAN GALGANO RESTAURATO Cripta del Duomo fino al 5 novembre

Un furto clamoroso, nel lontano 1989, dal Museo del Seminario Arcivescovile di Siena. Uno straordinario recupero, oltre trent’anni piú tardi, grazie al Comando dei Carabinieri, Tutela Patrimonio Culturale. E infine il restauro, eseguito nei Laboratori dei Musei Vaticani. È questa l’occasione per inaugurare la mostra «Dalla Spada alla Croce». Al centro della vicenda, una croce liturgica, due pissidi, cinque calici e soprattutto un capolavoro della produzione orafa senese del XIV secolo, il Reliquiario di San Galgano, oggetto mirabile e di intensa

devozione popolare. Su di esso, decorate finemente in preziosi smalti traslucidi, sono raffigurate le scene della vita del santo e della sua spada. Secondo la tradizione, Galgano sarebbe nato nel borgo senese di Chiusdino. Cavaliere appartenente alla piccola nobiltà locale, si convertí alla vita ascetica ed eremitica dopo le visioni dell’Arcangelo Michele, come rappresentato nelle sei scene del Reliquiario. Condusse la sua vita monastica nell’Eremo di Montesiepi, da lui edificato su una collina vicina al luogo dove sarebbe sorta l’Abbazia. Morí, secondo le fonti, il 30 novembre 1181. Appena quattro anni dopo, a seguito dei doverosi accertamenti canonici, papa Lucio III lo proclamò santo nel 1185. info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com URBINO IL PALAZZO DUCALE DI URBINO. I FRAMMENTI E IL TUTTO Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino all’11 novembre

solo come spazio di grande qualità che ospita preziose opere d’arte, ma anche come manufatto spaziale raffinato e complesso che può coinvolgere i visitatori con la ricchezza dei suoi dettagli e del suo impianto. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it VENEZIA della città e il paesaggio verso il quale si apre. Nonostante il ruolo centrale e un’essenza da capolavoro indiscusso del Rinascimento italiano, il Palazzo Ducale di Urbino non ha l’attenzione e la comprensione pubblica che merita. Da qui l’idea di una grande mostra nell’edificio che ospita la Galleria Nazionale delle Marche, con l’obiettivo di far scoprire al grande pubblico il Palazzo Ducale, la sua importanza e complessità storica e architettonica, non

TIZIANO 1508. AGLI ESORDI DI UNA LUMINOSA CARRIERA Gallerie dell’Accademia fino al 3 dicembre

Nel 1508, in una Venezia dominata dai celebri Giovanni Bellini e Giorgione, inizia a emergere la figura di Tiziano che presto supererà la fama di entrambi. È quello, infatti, un anno di svolta, non solo per la carriera di Tiziano, ma per l’intera arte veneziana e, in qualche modo, europea. È in questo momento che il giovane cadorino, quasi ventenne, dimostra il suo talento grazie a imprese

«Tra le altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito di Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sí ben lo forní, che non un palazzo ma una città in forma di palazzo esser pareva». Cosí scrisse Baldassarre Castiglione ne Il libro del cortegiano pubblicato nel 1528; in effetti, la ricchezza del Palazzo Ducale di Urbino non è data solo dalla sua qualità architettonica e decorativa, ma anche nell’essere un frammento di città, una sorta d’infrastruttura che si unisce a Urbino e genera una complessità unica tra gli spazi privati del Duca e della corte, i luoghi pubblici

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di importanti Allegorie –, arricchiti dalla storia del loro ritrovamento e dalla descrizione del loro luogo di provenienza: Villa San Remigio, di proprietà del Marchese Silvio della Valle di Casanova e di sua moglie Sophie Browne. Il complesso comprende un ampio giardino disposto su terrazze e una villa su due piani. Il piano rialzato dell’abitazione richiama una dimora signorile del Cinquecento: gli ambienti interni, gli arredi e le opere d’arte alle pareti sono caratterizzati da un forte gusto neorinascimentale. Nel 1977 la Villa viene destinata alla

pubbliche importanti come la Giuditta con la testa di Oloferne, affresco realizzato sulla facciata laterale del Fondaco dei Tedeschi che, per la vivacità delle tinte e l’impostazione grandiosa, lasciò increduli i contemporanei e, in seguito, i posteri. La mostra racconta appunto la nascita del talentuoso artista attraverso 17 opere autografe di Tiziano e una decina di confronti con dipinti, incisioni e disegni di autori a lui contemporanei come Giorgione, Sebastiano del Piombo, Albrecht Dürer e Francesco Vecellio. Tra i lavori esposti ci sono importanti prestiti, per esempio la grande stampa del Trionfo di Cristo della Bibliothèque nationale de France, il Cristo risorto degli Uffizi, la Madonna con il Bambino tra sant’Antonio da Padova e san

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Regione Piemonte. Cristina Moro, nel 2014 ritrova due opere di soggetto allegorico attribuite alla «Scuola di Veronese» che a un piú attento esame si mostrano riconducibili alla mano del maestro stesso. E proprio da qui parte la mostra. info tel. 0323 502254; e-mail: segreteria@museodelpaesaggio.it; www.museodelpaesaggio.it FELTRE DI LAME E DI SPADE. MAESTRI SPADAI A FELTRE TRA IL XV ED IL XVII SECOLO Museo Civico Archeologico fino al 31 marzo 2024 (dal 7 ottobre)

Rocco del Museo del Prado e il Battesimo di Cristo dei Musei Capitolini. Il percorso accompagna il visitatore nel comprendere la capacità straordinaria dell’artista di assimilare velocemente componenti culturali diverse – in particolare giorgionesche, düreriane e michelangiolesche – e indirizzare il linguaggio pittorico veneziano verso una commistione di naturalismo e classicismo. info www.gallerieaccademia.it VERBANIA VERONESE SUL LAGO MAGGIORE. STORIA DI UNA COLLEZIONE Museo del Paesaggio fino al 25 febbraio 2024

Sono riunti nel Palazzo Viani Dugnani di Verbania due capolavori cinquecenteschi di Paolo Veronese – una coppia ottobre

MEDIOEVO


Allestita presso il Museo Civico Archeologico, la mostra offre uno spaccato sul mondo degli spadai feltrini e sull’eccellenza di produzioni che li resero celebri in tutta Europa. L’esposizione rende visibili al pubblico una decina di pezzi di assoluto interesse – da una trecentesca basilarda a lame, spade, stiletti ed armi in asta – il cui valore e la cui importanza sono stati riportati alla luce proprio grazie agli studi condotti in occasione dell’evento. info www.visitfeltre.com TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre 2024 (dal 5 ottobre)

Oggetto della mostra, terzo esito del ciclo espositivo Frontiere liquide e mondi in

MEDIOEVO

ottobre

connessione, sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di duemila anni di storia. Fra i materiali riuniti per l’occasione si possono ammirare splendide sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e

dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it

Appuntamenti FELTRE FESTIVAL DELL’ARALDICA I EDIZIONE 4-15 ottobre

Feltre tiene a battesimo una nuova e originale rassegna dedicata all’araldica, ovvero alla disciplina che studia gli

stemmi: un mondo fatto di segni, simboli, colori e figure piú o meno fantastiche nati a partire dal Medioevo e che costituivano gli emblemi d’identità di famiglie nobili e cittadinesche, uomini di Chiesa, corporazioni, città, ordini. Un vero e proprio linguaggio per immagini e smalti ancora oggi visibile sulle vie e i palazzi di tante città e che a Feltre in particolare si è conservato con un numero straordinario di testimonianze. La manifestazione offre momenti di approfondimento agli studiosi della disciplina, ma propone anche a curiosi e appassionati di tutte le età occasioni per conoscere un mondo tanto ricco quanto affascinante. info www.visitfeltre.com

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ANTE PRIMA


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ARALDICA

LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA art. 1, c.1, LO/MI.

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MEDIOEVO DOSSIER

I LIA olori sgargianti, figure geometriche, animali ND TA RA D’ I reali e fantastici, evocazioni di paesaggi... G E LE GLI I C’è un vero e proprio mondo negli stemmi, un M FA universo stratificatosi nel tempo e che ha portato alla nascita dell’araldica, protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo» e, non a caso, chiamata un tempo «arte del blasone». Un’«arte» che si è istintivamente portati ad associare alla nobiltà, ma che, come si scopre scorrendo le pagine dell’opera, non fu soltanto appannaggio di dinastie grandi e piccole. Soprattutto, sebbene si tratti di un’acquisizione abbastanza recente, l’araldica viene ormai riconosciuta come una delle fonti LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA documentarie che possono contribuire alla ricostruzione storica degli eventi che l’hanno scandita e dei loro protagonisti. L’obiettivo del Dossier è puntato sull’Italia, che potrebbe ben essere definita il Paese «delle mille famiglie» (e non delle «cento città») e che vanta un numero sterminato di casate nobiliari che ne punteggiano la geografia e la storia d’Italia. Una polverizzazione del titolo feudale che, da un canto, ha ostacolato la creazione di un GLI ARGOMENTI grande Stato nazionale – alla base invece delle fortune politiche e commerciali di altri Paesi d’Europa in epoca • La scienza araldica moderna –, ma che, dall’altro, grazie all’ascesa della piccola aristocrazia, ha dato vita a una dialettica tra • L’Italia delle dinastie: classe borghese e nobiliare capace di evitare grandi Nord, Centro e Sud fratture sociali. Il nuovo Dossier di «Medioevo» invita, pertanto, a leggere le storia delle casate nobiliari italiane, tra le quali sono comprese anche alcune dinastie «italianizzate», come per esempio gli Angioini. Stemmi, motti e magioni nascondono pagine di straordinario interesse non solo per lo specialista, ma per chiunque intenda la storia come un racconto vivo e palpitante, fatto di donne e uomini desiderosi di affermare se stessi e la propria discendenza.

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ARALDICA. LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA

N°58 Settembre/Ottobre 2023 Rivista Bimestrale

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Particolare del ciclo dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi nel Palazzo Ducale di Mantova: Ludovico Gonzaga ascolta un membro della sua corte, da alcuni identificato nel suo segretario Marsilio Andreasi, da altri nel diplomatico Raimondo Lupi di Soragna o nel fratello Alessandro. Gli affreschi vennero verosimilmente realizzati da Mantegna tra il 1465 e il 1474.

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battaglie andernach 8 OTTOBRE 876

L’arroganza di Carlo il

Calvo

di Federico Canaccini

N

Nell’876 Carlo il Calvo tenta di estendere i propri domini ai danni del nipote, Ludovico III, il Giovane. Una mossa azzardata, che sfocia in uno scontro nei pressi della cittadina di Andernach, sul Reno. Il cui esito è stato da alcuni autori interpretato come la giusta punizione divina

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di Federico Canaccini

N

ella notte di Natale dell’anno 800, quando Carlo Magno venne incoronato imperatore del Sacro Romano Impero nella basilica di S. Pietro, l’evento fu salutato come uno tra i piú significativi ed epocali della storia, destinato a durare nel tempo. Veniva cosí riattivato l’impero romano d’Occidente, la cui parabola era stata brutalmente interrotta dall’arrivo di popolazioni barbariche, tra cui –

In alto, a sinistra miniatura raffigurante la battaglia combattuta l’8 ottobre dell’876 ad Andernach dalle truppe di Carlo il Calvo contro quelle guidate dal nipote, Ludovico III, detto «il Giovane», da un’edizione delle Grandes chroniques de France. Post 1332ante 1350. Londra, British Library.

peraltro – proprio quella dei Franchi, che occuparono gran parte della ricca provincia di Gallia. Un membro dell’aristocrazia franca tornava a incarnare il ruolo di princeps, rinverdendo cosí i fasti della romanità: dopo la lunga epopea merovingia, infatti, tra l’VIII e il IX secolo in Gallia si era imposta, tramite una sorta di colpo di Stato, la dinastia pipinide-carolingia. La Gallia dei Franchi era stata suddivisa nelle macroregioni di Austrasia, Neustria, Aquitania, Provenza e Alvernia: un’estenuante lotta tra vari signori aveva caratterizzato questo regno in cui l’aristocrazia del palazzo regio si contrapponeva ai sovrani merovingi, discendenti del mitico Meroveo, ottobre

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un condottiero che forse combatté contro Attila nella battaglia dei Campi Catalàunici nel 451. La tradizione, riportata però solamente dalla cosidetta Cronaca di Fredegario, lo voleva figlio del quinotauro, «un toro dalle cinque corna», nato dalla fusione tra il tridente di Nettuno e Giove, trasformatosi in toro in occasione del ratto di Europa: proprio grazie a questo singolare legame con l’Olimpo, però, i discendenti di Meroveo potevano vantare origini eroiche e semidivine. Al di là della propaganda e del mito, la dinastia merovingia si appoggiò politicamente ora a una, ora all’altra regione, donando grandi patrimoni terrieri per compensare i servigi dei nuovi seguaci, ottenendo

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ottobre

però un risultato completamente diverso, se non addirittura opposto, al progetto di rafforzare il proprio domino. A guadagnare in prestigio e ricchezza, infatti, furono i grandi possidenti e i potentati agrari, tra cui alcune grandi abbazie, che iniziarono a beneficiare anche di diverse immunità e questo meccanismo innescò un crescente indebolimento del potere centrale: i nuovi veri potenti del regno dei Franchi furono dunque i funzionari della nobiltà fondiaria, eredi dell’aristocrazia gallo-romana e del clero.

I veri detentori del potere

Re Dagoberto (629-639), figlio di Clotario I, fu l’ultimo sovrano merovingio a mantenere realmente il

Miniatura raffigurante papa Leone III che consacra Carlo Magno imperatore, nella notte tra il 24 e il 25 dicembre dell’anno 800, durante la Messa celebrata nella basilica di S. Pietro in Vaticano, da un’edizione delle Chroniques des Empereurs di David Aubert. 1462. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

controllo diretto del regno, dopo di che i suoi successori dovettero contrastare sempre di piú le ingerenze dei cosiddetti maggiordomi, gli uomini piú importanti del palazzo regio. Se la lotta contro i re era terminata, i signori di Francia – alla fine del VII secolo – dovettero contrastare lo strapotere del signore di palazzo di Neustria e Burgundia, Ebroino (681), appoggiandosi a

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battaglie andernach Miniatura raffigurante Pipino il Breve, re dei Franchi dal 751 al 768, tra due dignitari ecclesiastici, dal Sacramentario di Drogone di Metz. IX sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Childerico II, signore di Austrasia, la regione compresa fra il Reno e la Marna. Proprio in Austrasia emerse poi la figura di Pipino II di Heristal, il fondatore della dinastia pipinide, il quale, una volta eliminati gli altri maestri di palazzo e dopo aver frenato le opposizioni dei grandi possidenti, governò quale dux et princeps Francorum, pur professando sempre formale obbedienza al re merovingio ancora in carica. In questi anni si affacciarono poi tre popolazioni germaniche che vennero in parte rintuzzate proprio da Pipino, piú che dal re: si trattava dei Frisoni, dei Sassoni e degli Alamanni. Il biografo di Carlo Magno, Eginardo, descrisse i sovrani merovingi con chiome e barbe fluenti, assisi in trono ma estranei all’esercizio del potere, assunto invece dai maestri di palazzo, come per esempio Pipino, molto piú intraprendenti: sulla base di questa indicazione, la storiografia, distorta anche dalla volontà carolingia, li ha etichettati a lungo come «Re fannulloni», sovrani estranei ai loro doveri. In realtà, nella prima metà del-

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l’VIII secolo, in molti dei nuovi regni si assiste a una profonda crisi e invece di assecondare le nuove istituzioni monarchiche, eredità del modello romano, i nobili locali danno vita all’ascesa di una inedita aristocrazia militare e fondiaria.

Spedizioni vincenti

Carlo Martello, un figlio naturale di Pipino, messosi a capo di Austrasia e Neustria, guidò varie spedizioni contro i Frisoni che tentavano di insinuarsi nel regno dei Franchi, approfittando delle continue rivalità intestine che serpeggiavano tra i diversi territori. Poi, nel 728, condusse le proprie truppe contro i Bavari, a sud della terra degli Alamanni, convincendoli a rientrare tra gli Stati vassalli dei Franchi. Due anni piú tardi guidò un’altra spedizione contro i Sassoni che si erano affacciati sul Reno in Turingia, e contro gli Alamanni, il cui ducato, che tendeva a una pericolosa deriva autonomistica, fu soppresso. Queste campagne militari, ma ancor piú quella combattuta contro quanti si opponevano alla sua ele-

zione nel 717, valsero a Carlo il soprannome «Martello», da intendersi proprio come l’arma che «distrugge e polverizza il ferro e l’acciaio». Un cronista del IX secolo associava il martello al giovane condottiero che, analogamente «distruggeva e polverizzava tutti i suoi avversari in battaglia». Campione a Poitiers contro i musulmani, Carlo Martello lasciò a suo figlio Pipino il Breve un dominio assai piú forte e solido: una volta deposto l’ultimo re merovingio, Childerico III, ebbe formalmente inizio la dinastia pipinide. Nel novembre del 751 segnò l’avvento della monarchia pipinide, che proseguí in modo grandioso con l’incoronazione di Carlo Magno nel 768 come re dei Franchi e poi con quella a Roma nell’800. Una serie di congiunture storiche aveva cosí reso possibile la nuova unità politica di parte dell’Europa: la superiorità militare del regno di Francia, l’interesse della Chiesa di Roma a promuovere la loro espansione a discapito di Longobardi, Bizantini e Musulmani, l’immaturità politica dei popoli stanziati a est del Reno che ancora non potevano dare un efficace contributo politico. Simili circostanze, però, erano quanto mai contingenti e il prosieguo della storia d’Europa avrebbe evidenziato in maniera eclatante tale fragilità. Nell’806, a Thionville, Carlo Magno emanò il capitolare Divisio Regnorum, con il quale suddivise il regno in tre parti, affidandole ai figli Ludovico, detto «il Pio» (Aquitania, Guascogna e Borgogna), Pipino (Italia, Baviera e parte dell’Alemannia) e Carlo il Giovane (Francia austrasica e neustrica,Frisia, Sassonia, Turingia e parte della Borgogna). Piú tardi, però, la morte di Pipino (810) e quella di Carlo (811) rimisero tutto nelle mani del solo Ludovico. A questa altezza temporale nessuno poteva immaginare che l’unità di tale impianto politico non sarebbe durata che pochi decenni. La struttura geopolitica dell’impeottobre

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Prima di Carlo Magno... S. Arnolfo (ca. 580-641) Vescovo di Metz dal 614 al 627. Sposa nel 611 Oda (o Doda).

S. Clodulfo (599-696) Vescovo di Metz dal 656.

Pipino il Vecchio (o di Landen) († 639) Maggiordomo di Austrasia. Sposa Itta d’Aquitania.

Ansegiso († 685) Maggiordomo di Austrasia. Sposa S. Begga († 698).

A destra elsa di spada, dalla necropoli longobarda di Nocera Umbra (Perugia). VI-VII sec. d.C. Roma, Museo dell’Alto Medioevo.

[1] Grimoaldo († 714) Maggiordomo d’Austrasia nel 696.

S. Begga († 698).

S. Gertrude (623-656) Badessa di Nivelle dal 651.

Grimoaldo († 656) Maggiordomo di Austrasia dal 642.

Childeperto († 656) Re usurpatore d’Austrasia nel 656.

Pipino II d’Héristal (635?-714) Maggiordomo di Austrasia verso il 679 e di Neustria nel 687. Sposa [1] verso il 673 Piectruda, ripudiata († post 714); [2] Alpaide (o concubina?).

[2] Childebrando

[2] Carlo Martello (689-741) Maggiordomo d’Austrasia e di Neustria. Sposa: [1] Crotrude († 724); [2] Sonnechilde (chiusa in monastero nel 741).

(† 743)

Conte.

Teobaldo († 715) [1] Carlomanno (715-755)

Maggiordomo d’Austrasia dal 741 al 747. Drogone

[1] Chiltrude († 754) Sposa nel 741 Odilone († 748), duca di Baviera.

[2] Grifone († 753) Duca di Baviera dal 749 al 753.

Altri figli la cui sorte è sconosciuta.

Carlomanno (751-771) Re di Borgogna, Provenza, Settimania e Aquitania orientale dal 768 al 771. Sposa nel 770 Gerberga figlia di Desiderio re dei Longobardi.

MEDIOEVO

[1] Pipino il Breve (715-768) Maggiordomo di Neustria dal 741 e d’Austrasia dal 747, re dei Franchi dal 751 al 768. Sposa Berta o Bertrada († 783).

ottobre

Carlo Magno (742-814) Re di Austrasia e di Neustria dal 768, di tutto il regno dal 771, re dei Longobardi dal 774. Imperatore dall’800. Dopo un rapporto di concubinaggio con [1] Imiltrude (†?), sposa: [2] nel 770 Ermengarda (o Desiderata) figlia di Desiderio re dei Longobardi, ripudiata nel 771; [3] nel 771 Ildegarda (758-783); [4] nel 783 Fastrada († 794); [5] post 796 Liutgarda († 800).

Gisella (757-811) Suora.

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battaglie andernach

...dopo Carlo Magno Carlo Magno (742-814) Re di Austrasia e di Neustria dal 768, di tutto il regno dal 771, re dei Longobardi dal 774. Imperatore dall’800. Dopo il rapporto di concubinaggio con Imiltrude (†?), sposa nel 770 Ermengarda (o Desiderata) figlia di Desiderio re dei Longobardi, ripudiata nel 771; nel 771 Ildegarda (758-783); nel 783 Fastrada († 794); post 796 Liutgarda († 800).

Pipino il Gobbo (769-811) Si rivolta contro il padre nel 791. Rinchiuso in convento.

Carlo (772-811) Re d’Austrasia.

Pipino (773-810) Re d’Italia dal 781.

Bernardo (797-818) Re d’Italia dall’810 all’818.

Lotario I (795-855) Re d’Italia dall’840, imperatore dall’843. Sposa nell’821 Ermengarda di Tours.

Adelaide

Pipino I (803-839) Re d’Aquitania dall’817. Sposa Ingeltrude († post 836).

Pipino II (825-dopo l’864) Re d’Aquitania dall’838 all’843, spodestato dallo zio Carlo il Calvo. Senza eredi.

Rotruda (775-810)

Ludovico II il Germanico (806-876) Re di Germania dall’840. Sposa nell’827 Emma di Baviera († 876).

Carlo († 863) Arcivescovo di Magonza nell’856.

Ludovico II (824 circa-875) Re d’Italia e imperatore dall’855

Lotario II Carlo (?-863) (825?-869) Re di Borgogna Re di Lotaringia dall’855. nell’855.

Carlomanno (828-880) Re di Baviera dall’876, re d’Italia dall’877.

Ludovico III il Giovane (822-882) Re di Sassonia dall’876.

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Ludovico il Pio (778-840) Re d’Aquitania, di tutti i domini dall’814, imperatore dall’816. Sposa nel 794 Ermengarda d’Angiò († 818); nell’819 Giuditta di Baviera (805-843).

Berta Gisella (779/790-829) (781-?) Sposa Angilberto Rinchiusa in di Saint-Riquier convento dopo († 814). l’814 per corruzione dei suoi costumi. Numerosi figli e figlie naturali da differenti concubine.

Gisella (820/822-874) Sposa nell’836/840 Everardo duca del Friuli († 862).

Carlo II il Calvo (823-877) Re di Francia dall’840, imperatore dall’875, re d’Italia dall’876. Sposa nell’842 Imiltruda (o Ermentruda) († 869); nell’870 Richilde sorella di Bosone († post 877).

Berengario I († 924) Marchese del Friuli, re d’Italia dall’888, imperatore dal 915.

Giuditta (843-?)

Luigi II il Balbo (846-879) Duca d’Aquitania dall’866. Re di Francia dall’877.

Carlo (847/848-866) Re di Aquitania dall’855.

Carlo III il Grosso (839-888) Re di Svevia dall’876, re d’Italia dall’880, imperatore dall’881, re di Francia dall’884. Deposto nell’887. ottobre

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A destra particolare di una miniatura raffigurante Carlo il Calvo in trono, dalla Prima Bibbia di Carlo il Calvo (o di Viviano). IX sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Ludovico il Pio, da un’edizione del Liber de laudibus Sanctae Crucis composto dall’abate di Fulda Rabano Mauro per il sovrano franco. IX sec. Torino, Biblioteca Nazionale.

ro carolingio, infatti, si sgretolò ben presto, dando vita a molteplici regni, che fecero ripiombare il centro Europa in una serie di lotte fratricide tra i figli del nuovo imperatore che moriva il 20 giugno dell’840 a Ingelheim sul Reno. Paventando simili dissidi, Ludovico aveva emesso nell’817 la cosiddetta Ordinatio Imperii, un decreto nel quale veniva chiarita la modalità di successione secondo la tradizione franca. Ai tre figli avuti dalla moglie, Ermengarda di Hesbaye, Ludovico volle assegnare una vasta area, affidando il titolo imperiale a Lotario, che ottenne il regno d’Italia. Pipino ottenne il regno di Aquitania, mentre quello di Germania andò al figlio omonimo, Ludovico. La successione, però, si complicò quando, rimasto vedovo, Ludovico il Pio convolò a nuove nozze con Giuditta di Baviera, dalla quale, nell’823, ebbe un figlio, di nome Carlo, il futuro Carlo il Calvo che, per le singolari vicende della storia, nell’875, dopo il Trattato di Verdun (843), fu consacrato, contro tutti i pronostici, imperatore del Sacro Romano Impero da papa Giovanni VIII.

La divisione dell’impero

Dopo la morte di Ludovico il Pio, l’impero fu suddiviso dunque in tre regni: Carlo il Calvo si trovò a occupare la parte occidentale dei domini che erano stati di Carlo Magno, inclusa la Marca di Barcellona; Ludovico, detto il Germanico, ebbe la parte orientale, mentre a Lotario toccarono la dignità imperiale, il

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ottobre

carlo il calvo

Piú abile come politico che come condottiero Quando Ludovico il Pio si sposò per la seconda volta con Giuditta di Baviera (o dei Guelfi), figlia del conte Guelfo I, l’imperatore aveva avuto già alcuni figli dal suo primo matrimonio e aveva ripartito tra loro il vasto dominio imperiale. La nascita di Carlo complicò enormemente la delicata divisione che era stata operata, poiché la nuova moglie, si impose nel far partecipare il proprio figlio alla eredità. Lo stesso Ludovico volle quindi assegnare un’adeguata porzione dell’impero a Carlo che venne educato a corte, dove ebbe modo di leggere opere classiche, quali il De re militari di Vegezio, che ricevette in dono dal vescovo Freculfo di Lisieux. Dopo essere stato investito re di Aquitania nell’838 per mano di suo padre, Carlo si distinse nelle guerre che seguirono la morte del padre (840) sino all’843, quando fu siglato il trattato di Verdun in base al quale furono finalmente stabilite e assegnate le rispettive porzioni dell’impero tra i vari eredi: uniti contro Lotario, sconfitto a Fontanetum (841), Carlo e Ludovico il Germanico ebbero finalmente i loro rispettivi regni. Durante i primi anni di governo, Carlo dovette fronteggiare anzitutto la resistenza di Pipino, re d’Aquitania. Nonostante le sconfitte patite, Carlo fu incoronato re d’Aquitania nell’848 ma, negli anni seguenti, i nobili locali invitarono Ludovico il Germanico e suo figlio, Ludovico il Giovane, a prendere il controllo della regione: a salvare Carlo dal disastro fu, per ben due volte, l’influenza dell’arcivescovo Incmaro di Reims. Nell’869 diede inizio all’invasione della Lotaringia dopo la morte di suo nipote Lotario II che non aveva lasciato un erede legittimo. Altrettanto fece alla morte del fratello, Ludovico il Germanico, morto nell’876, il cui regno però era difeso da uno dei suoi figli Ludovico il Giovane, il quale, nell’ottobre dell’876, sconfisse presso Andernach Carlo il Calvo, eletto imperatore appena un anno prima. La sua carriera politica è stata recentemente rivalutata da alcuni storici: ciononostante, quella strettamente militare è da considerarsi piuttosto fallimentare e deludente. Al pari di altri sovrani carolingi, infatti, Carlo il Calvo non fu assolutamente in grado di opporsi alle incursioni dei Vichinghi che, ripetutamente e in maniera sistematica, razziarono le terre del suo regno: forse perché mosso dal sogno di unità imperiale, Carlo il Calvo, anziché organizzare una resistenza contro i Vichinghi, a cui pagò piú volte pesanti tributi, tentò piuttosto – peraltro senza riuscirvi – di sottomettere i territori del regno d’Italia o quelli a est del Reno.

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battaglie andernach regno d’Italia, la Borgogna e la terra posta fra Mosa, Schelda e Reno, che da lui prese il nome di Lotaringia. I tre regni, di fatto, si equivalevano e, a differenza di quanto era avvenuto nella prima divisione, questa volta la coordinazione e subordinazione gerarchica tra queste tre realtà politiche fu assai debole: l’unità dell’impero svaniva rapidamente e si facevano strada identità politiche ben distinte. «I regni si disciolgono in frammenti, i suddditi non attendono il loro signore legittimo, ma esprimono dalle proprie viscere nuovi sovrani di ventura», scrisse Reginone di Prüm nel suo Chronicon. Dopo la morte di suo fratello Ludovico II il Germanico (876), Carlo il Calvo si decise a invadere la parte orientale della Lotaringia, ma incontrò la fiera opposizione e resistenza del figlio maggiore del Germanico, Ludovico III detto «il Giovane». È a questo punto, nell’876, che si situa lo scontro che vide contrapporsi le armate di Carlo il Calvo con quelle del giovane nipote: Carlo infatti non riuscí neppure a superare il fiume Reno, giacché lungo le sue rive, presso Andernach, fu costretto a ingaggiare battaglia. Stampa raffigurante l’Alter Krahnen, un’antica torre con gru sul Reno, nei pressi di Andernach.

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L’ordalia

Se sopravvivi, sei innocente Attestata con nomi diversi nelle culture preclassiche, l’antichissima pratica dell’ordalia era una modalità giuridica che univa il diritto con la religione e che era ancora in voga tra i popoli germanici, prima e dopo la penetrazione nei territori dell’impero romano. Essa consisteva nel sottoporre l’accusato a una prova di dolore – oppure nel fargli affrontare un duello – tramite la quale veniva determinata la sua innocenza o colpevolezza. L’uomo risultava innocente se la prova veniva superata, se non riportava lesioni o se, miracolosamente, esse guarivano rapidamente. Il termine, di origine germanica, significa «giudizio di Dio» (Ur-Theil) ed era applicabile anche a duelli, alla fine dei quali risultava vincitore colui che aveva avuto il favore di Dio. Le modalità piú diffuse nell’Europa medievale consistevano nel sottoporre l’accusato a immersioni in acqua gelata, a immergere le mani in paioli pieni di acqua bollente, a camminare reggendo una barra di metallo incandescente oppure ricorrendo a un duello con dei «campioni», a rappresentare le ragioni dell’uno o dell’altro. Tali pratiche, trattandosi di un giudizio di Dio, erano precedute da preghiere e inserite in una cerimonia religiosa presieduta dal clero che in parte regolava l’andamento del «supplicium». Per prima cosa, Ludovico lasciò intendere al proprio rivale che la maggior parte delle proprie truppe si trovasse ancora a Deutz, sulla riva destra del Reno: per questo fece lasciare in piedi le decine di tende dell’accampamento, magari con qualche falò ancora acceso, cosí da

far credere all’esercito nemico che le operazioni di attraversamento erano ancora di là da venire. L’inganno riuscí alla perfezione, al punto che, quando l’8 ottobre Carlo si trovò praticamente circondato dai cavalieri del suo avversario, rimase completamente stupe-

Nella pagina accanto un’ordalia: l’uomo sottoposto al giudizio è condannato a introdurre il braccio nell’acqua bollente.

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battaglie andernach fatto e sorpreso. Il sovrano, infatti, non aveva potuto minimamente sospettare che gli uomini di Ludovico avessero attraversato il Reno una ventina di chilometri piú a sud, tra Coblenza e Andernach, città sviluppatasi sul sito della romana Antonnacum e che nel IX secolo era divenuta assai attiva, con una florida economia e molte attività commerciali tra cui l’estrazione della pietra e del calcare di cui l’area è ricca. A riferirci le vicende dello scontro sono in primo luogo gli Annales Fuldenses e gli Annales Bertiniani, che segnalano come, prima dell’inizio delle ostilità, Ludovico avesse ai suoi ordini una ventina di uomini che dovevano sottoporsi all’antico giudizio dell’ordalia: dieci uomini, rappresentanti l’orda, si sarebbero dovuti immergere nelle acque gelide del Reno per un certo periodo, evitando di morire affogati, mentre altrettanti avrebbero dovuto tenere le mani in un calderone di acqua bollente e, alla fine, far osservare ai sacerdoti e al re gli eventuali danni. Nessuno di loro, però, stando agli annalisti, riportò alcuna ferita e nessuno affogò nel Reno: ciò fu interpretato come un buon auspicio, segno inequivocabile che quel giorno Dio avrebbe combattuto a fianco dell’esercito di Ludovico. Riguardo allo svolgersi dello scontro, purtroppo le fonti sono assai avare ed è difficile se non impossibile tracciare una ricostruzione dettagliata delle fasi della battaglia. Dalla lettura degli Annales succitati, però, si possono intuire alcuni punti fondamentali che avrebbero decretato, alla fine, la vittoria delle truppe di Ludovico. Innanzitutto, il riuscito stratagemma dell’accampamento che facilitò il superamento del Reno e permise ai cavalieri di Ludovico di riversarsi indisturbati sulla riva sinistra del fiume, senza che il nemico sospettasse nulla. Altro punto di vantaggio sull’esercito di Carlo il Calvo fu che,

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quando i due eserciti si trovarono l’uno di fronte all’altro, la cavalleria pesante germanica aveva ormai attraversato i terreni fangosi vicino al fiume che avrebbero rallentato movimenti e cariche, e avevano avuto modo di perlustrare l’area, a loro totalmente sconosciuta, acquisendo preziose informazioni topografiche, in base alle quali furono probabilmente stabilite le successive mosse. Se i compilatori degli annali insistono su questi aspetti, è probabile che, in qualche modo, tali tasselli abbiano costituito la struttura portante di quella che sarebbe divenuta una vittoria significativa.

Una battaglia durissima

Lo scontro dovette essere particolarmente cruento e l’ala in cui lo stesso Carlo il Calvo combatteva fu oggetto di un pesante attacco, dal momento che molti conti e signori, sia laici che ecclesiastici, furono uccisi o catturati. Tra i caduti si ricordano il conte Girolamo e Reginar, mentre tra i prigionieri furono catturati il conte Adalardo, il conte Bernardo e il vescovo di Parigi, Gozlino, che si sarebbe distinto nell’885 nella strenua resistenza contro i Vichinghi Nella pagina accanto i profili di Ludovico III, il Giovane (primo, a sinistra), e di suo fratello Carlomanno, litografia di François-Séraphin Delpech. 1820-1840. Londra, Royal Collection.

lanciati all’assedio di Parigi. Non è possibile stabilire una dinamica piú particolareggiata dello scontro: lo storico statunitense Bernard Bachrach (1939-2023) ha tentato di farlo unendo le varie citazioni dei diversi annalisti, ma la supposizione di una finta ritirata della fanteria sassone di Ludovico non è citata da alcuna fonte coeva, cosí come il fatto che la cavalleria di Ludovico sarebbe stata parzialmente protetta e nascosta dalle boscaglie. La battaglia dovette terminare quando anche il portabandiera dello stesso imperatore fu colpito a morte: ciò significa che il combattimento penetrò in profondità nell’esercito imperiale, raggiungendo addirittura il drappello attorno all’imperatore il quale, infatti, fuggí con uno sparuto gruppo di fedelissimi. La ritirata dell’esercito di Carlo si sarebbe trasformata in farsa, giacché sarebbe stata rallentata dall’enorme seguito di carri e vettovaglie, divenuti facile preda del nemico. Gli uomini di Ludovico, infatti, si sarebbero gettati – a vittoria assicurata – sui carriaggi, uccidendo o catturando anche i mercanti al seguito dell’imperatore: la razzia

ludovico iii il giovane

Signore dei Franchi orientali Ludovico il Giovane nacque, intorno all’835, dall’unione tra Ludovico il Germanico, figlio di Ludovico il Pio ed Emma, sorella di Giuditta di Baviera e madre di Carlo il Calvo. Cresciuto a corte presso il regno dei Franchi orientali, attorno ai 18 anni fu inviato dal padre in soccorso agli Aquitani che, ribellatisi a Carlo il Calvo, gli avevano offerto la corona: mentre i Vichinghi devastavano Poitiers, Périgueux, Clermont e Bourges, l’intraprendente Ludovico si spinse fino a Limoges per poi dover ripiegare in Baviera, dopo aver saputo che il legittimo pretendente al trono d’Aquitania era riuscito a fuggire dalla prigione in cui languiva. Nell’865, quando il regno di Germania fu suddiviso fra i tre figli, Ludovico ricevette dal padre la parte piú estesa ottobre

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che comprendeva la Franconia, la Sassonia e la parte orientale della cosiddetta Lotaringia. Nell’874 convolò a nozze con Liutgarda, figlia di Liudolfo, duca di Sassonia: due anni piú tardi, benché il titolo spettasse a suo fratello maggiore, di nome Carlomanno, Ludovico succedette finalmente al padre quale re dei Franchi orientali. Nello stesso anno, nell’ottobre dell’876, Carlo il Calvo tentò di approfittare di questo passaggio di poteri, provando a penetrare nei territori al di là del Reno di spettanza germanica, ma fu sconfitto da Ludovico III presso Andernach. Gli attriti con la casata dei Franchi occidentali proseguirono e quando nell’879 morí Luigi il Balbo – figlio e successore di Carlo il Calvo –, Ludovico non riconobbe come legittimi i suoi figli che, in cambio

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di tale riconoscimento, gli offrirono il titolo e il territorio della Lotaringia. Grazie a un’accorta politica matrimoniale, ad alcune significative vittorie militari e anche ad alcune astute mosse politiche, Ludovico era riuscito ad ampliare e consolidare il proprio dominio nel regno dei Franchi orientali, grosso modo corrispondente all’attuale Germania. Purtroppo, stando alla cronaca del monaco benedettino Reginone di Prüm, suo figlio, di appena due anni, morí cadendo da una finestra del castello di Ratisbona: tre anni dopo, minato da una malattia, moriva anche Ludovico il cui regno passò quindi al fratello Carlo il Grosso, signore d’Italia, il quale, in modo piú che rocambolesco, si ritrovò nell’888 a governare su gran parte di quello che era stato l’impero carolingio.

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battaglie andernach

L’esercito carolingio

Nuovi equipaggiamenti e tecniche collaudate Nei decenni successivi alla dissoluzione dell’impero carolingio, i cavalieri franchi iniziarono progressivamente ad adottare innovazioni tecnologiche destinate a rivoluzionare i reparti di cavalleria. Forse grazie alle tecniche musulmane, le cavalcature furono nuovamente ferrate e sul garrese dei cavalli furono poste selle di nuova concezione, con arcione e paletta che assicurava al cavaliere un appoggio migliore. Inoltre, la sella era ora assicurata al cavallo tramite cinghie che passavano sotto la pancia, sotto la coda e davanti al petto. A tutto ciò si aggiunse la staffa, che anzitutto forniva un appoggio alle gambe durante le cariche di cavalleria, ma anche nel corso dei lunghi spostamenti: se durante gli attacchi la staffa avrebbe favorito la nascita della cavalleria pesante, durante le lunghe cavalcate nelle terre dei Franchi,

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avrebbe limitato gli effetti del freddo sulla circolazione sanguigna dei cavalieri esposti a temperature spesso rigide. Dalle fonti in nostro possesso sappiamo che in epoca carolingia esistevano piccole formazioni a cuneo, dette conroi, di una cinquantina di cavalieri che, lancia in resta, dovevano attaccare e ritirarsi, ripetendo una tattica che fu del tardo impero romano. Prima dell’inizio delle battaglie vere e proprie era frequente che campioni, dall’una e dall’altra parte, si presentassero per sfide in singolar tenzone che potevano poi degenerare in una serie di brutali duelli tra fanti o cavalieri. I reparti di fanteria erano costituiti da corpi di arcieri che spesso aprivano le ostilità, ma anche da corpi di fanti armati di lancia e scudo e protetti da cotte di maglia ed elmi. Se possibile, la battaglia in campo aperto ottobre

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fu talmente grande che, ancora secondo gli annalisti, i cavalieri che ebbero salva la vita si diedero alla fuga coprendosi i genitali con fasci di paglia, dal momento che furono letteralmente spogliati di ogni bene dagli uomini di Ludovico!

Resoconti parziali

veniva evitata, ma, se ciò risultava inevitabile, obiettivo principale, come si evince anche dal racconto della battaglia di Andernach, era quello di uccidere o catturare il comandante avversario, la cui morte avrebbe provocato immediatamente lo sfaldamento del suo esercito. Quando Ludovico decide di far attraversare il Reno ai suoi, in realtà aveva già sistemato le tende in bella vista. Non sapremo mai se il giovane sovrano avesse anche edificato un vero e proprio accampamento fortificato, cosí come imponevano i regolamenti militari carolingi, che specificavano che gli eserciti, se di grandi dimensioni, dovevano costruire fortilizi in legno e terra dentro cui potevano trincerarsi in caso di attacco. Sempre facendo riferimento agli scarni accenni degli Annali, a battaglia conclusa i vincitori si diedero a razziare il campo, a spogliare i cadaveri o a denudare i prigionieri: la speranza di fare bottino, del resto, era la principale motivazione che spingeva molti uomini a impugnare le armi e combattere.

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Vignetta raffigurante cavalieri e soldati, dal Salterio di Utrecht, opera d’età carolingia prodotta a Reims o nel suo territorio. 820-835. Utrecht, Biblioteca Universitaria.

Si deve, però, tener conto del fatto che la narrazione dello scontro da parte degli annalisti è improntata su una chiave di lettura simbolica e religiosa: i segni forniti da Dio nell’ordalia preludono infatti a una giusta vittoria di Ludovico su Carlo, il quale, invadendo la parte orientale della Lotaringia, non ha commesso un semplice errore, ma un vero e proprio peccato. Per questo il suo progetto di espansione è destinato a fallire e, per darne dimostrazione piú che convincente, la sua débacle deve essere clamorosa. Non è improbabile che gli autori degli annali, che evidentemente disapprovavano la condotta politica di Carlo il Calvo, abbiano quindi esagerato le proporzioni della sconfitta dell’imperatore, inserendo immagini di sapore quasi biblico, come quella di Adamo ed Eva peccatori, cacciati dall’Eden, nudi, umiliati e costretti a coprirsi le vergogne con foglie di fico. Incoronato da appena un anno, Carlo il Calvo iniziò cosí, nel peggiore dei modi, il suo sogno imperiale che si sarebbe comunque spezzato l’anno seguente. Dopo aver riconosciuto l’ereditarietà dei feudi, con il capitolare firmato a Quierzy (877), l’imperatore scese nuovamente in Italia dove il papa lo incoraggiò a riprendere la lotta contro i figli di Ludovico il Germanico. Incalzato però proprio da uno dei figli del rivale, preferí non ingaggiare battaglia e riattraversare le Alpi, rifugiandosi in Savoia, dove, a causa dei disagi patiti in questa drammatica fuga, morí a ottobre nell’877, un anno esatto dopo la disfatta di Andernach.

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luca signorelli in umbria/8

Quella splendida

invenzione

di Laura Teza

Luca Signorelli è un artista ormai affermato quando il vescovo Jacopo Vagnucci, come lui cortonese, gli commissiona un’opera destinata alla cappella che sta facendo allestire nel Duomo di Perugia. L’esito è una pala di straordinaria raffinatezza, destinata a fare scuola

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n questo 2023 si festeggia il quinto centenario dalla morte di Luca Signorelli e Pietro Vannucci, detto il Perugino, e, al di là della coincidenza cronologica, l’evento mette in luce un legame piú profondo e singolare tra i due grandi pittori. Artisti famosi, importanti al loro tempo, venivano entrambi da città poste sulla linea di confine tra l’Umbria e la Toscana – Cortona e Città della Pieve –, distanti tra di loro poco piú di quaranta chilometri. Nella formazione cosí come nella maturità della loro carriera, i due pittori si mossero in continuazione in questo territorio posto sul crinale tra lo Stato della Chiesa, la Repubblica di Firenze e la Repubblica di Siena. E le terre di confine, si sa, sono ricche di stimoli ulteriori, di suggestioni incrociate, che rendono varia, speciale la cultura che li attraversa. Signorelli e Vannucci non sfuggirono a questo destino di frontalieri mentali, che, se emigrarono dalle loro cittadine per darsi una formazione piú robusta, tornarono poi in patria nell’ultima parte della carriera, carichi di successi, di esperienze di vita e di capacità di resilienza. Le famiglie Vannucci e Signorelli erano agiate e, soprattutto quella del Cortonese, di un buon livello d’istruzione che consentí al pittore la lettura diretta dei testi sacri e dei grandi capolavori poetici come la Commedia, caso non frequente per un pittore di allora. Sia Signorelli che Perugino ebbero probabilmente una prima formazione in patria, dove non mancavano testimonianze importanti delle nuove sperimentazioni rinascimentali, ricercate da Domenico Veneziano, dal Sassetta, dal Beato Angelico. Luca ebbe come prima guida suo padre Egidio, pittore, mentre Perugino, se-

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condo Giorgio Vasari, si rivolse inizialmente a un maestro «non molto valente». Presto lasciarono le loro cittadine per approdare Luca ad Arezzo e Pietro Perugino a Firenze, dove seguirono grandi maestri come Piero della Francesca e Verrocchio.

Una chiamata prestigiosa

Nei primi anni Ottanta del Quattrocento il piú celebre Perugino chiama Signorelli, probabilmente come membro aggiuntivo, nella squadra umbra al lavoro nel cantiere della Cappella Sistina. Una decina di anni dopo, nel 1499, Signorelli subentra al maestro umbro nel grandioso compito di affrescatura della Cappella Nova o di S. Brizio nel Duomo di Orvieto. Perugino aveva firmato sí il contratto per quest’impresa, per poi abbandonare quasi subito il lavoro, lasciando costernati gli Operai del Duomo, che dovettero aspettare appunto quasi una decina d’anni prima che la celerità provvidenziale di Luca Signorelli chiudesse in modo memorabile una grande decorazione cominciata mezzo secolo prima dall’Angelico. Le loro vite si intrecciarono ancora una volta sulla ribalta romana, nel competitivo cantiere delle Stanze Vaticane di Giulio II, per poi riparare nella tranquillità della patria, concludendo entrambi l’ultimo, operoso quindicennio della loro vita, appunto nel 1523. La formazione presso Piero della Francesca era stata importante per Luca. «Fu costui creato e discepoPala di Sant’Onofrio (Pala Vagnucci), olio su tela di Luca Signorelli, 1483-1484. Perugia, Museo del Capitolo della Cattedrale di San Lorenzo. ottobre

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luca signorelli in umbria/8 Consegna delle chiavi, affresco di Pietro Perugino. 1481-1482. Città del Vaticano, Cappella Sistina.

lo», aveva scritto Vasari, per sottolineare l’intensità di quella esperienza formativa, che traspare forte, concreta nelle sue prime opere. Fu l’allievo che piú assimilò il linguaggio del maestro, per poi elaborarlo in modo individuale: dalle Storie della Vera Croce nel coro della basilica di S. Francesco ad Arezzo imparò a «piantare bene le figure per terra, a legarle in una composizione grandiosa», come scrisse lo storico dell’arte Pietro Scarpellini (1928-2010), a concepire quel fare solenne della storia. Poi andò a Firenze dove la bottega polivalente del Verrocchio – orafo, scultore, pittore – era un vivaio di giovani artisti – Leonardo, Perugino, Lorenzo di Credi –, che declinavano in vari registri il linguaggio nuovo, sperimentale, che restituiva fisicità al corpo umano, linea dinamica al movimento, atmosfera all’ombra e alla luce. Qui trova Pietro Perugino, che si stava formando come uno degli artisti piú promettenti del gruppo e, grazie alle sue entrature con la famiglia egemone di Perugia, i Baglioni, aveva presto ricevuto buone commissioni in città, nel Palazzo dei Priori come nella chiesa baglionesca per eccellenza, S. Maria dei Servi. Grazie a queste relazioni influenti, Perugino approda a Roma, in S. Pietro e, dal 1478, affresca la Cappella della Concezione, nella vecchia basilica costantianiana, destinata a diventare la cappella funeraria del papa Sisto IV.

Per la gloria degli eredi di Pietro

Due anni piú tardi, Perugino dirige la decorazione della Cappella Sistina, la piú celebre della cristianità, in cui tuttora si elegge il papa, per rappresentarvi la traditio del primato di Pietro ai suoi eredi, articolando il confronto tra Mosè, il legislatore dell’Antico Testamento, e i papi, suoi successori, come legislatori della nuova Chiesa incarnata. Nell’affresco piú importante dell’intero ciclo, la Consegna delle chiavi, Signorelli viene assoldato nella squadra del Perugino, a fianco di quelle fiorentine di Sandro Botticelli, Cosimo Rosselli e Domenico Ghirlandaio. La sua fisionomia figurativa comincia a delinearsi: piú di uno studioso vede la mano dell’aiuto cortonese nei due Apostoli alle spalle del Cristo, dove le fisionomie appaiono piú segnate, incisive, quasi aggressive. Chiamato probabilmente per accelerare i lavori, Luca rimane a lavorare alla Sistina, anche quando il gruppo dei toscani è tornato a Firenze per la decorazione della Sala dei Gigli a Palazzo Vecchio. Compie quasi da solo, insieme al suo collega Bartolomeo della Gatta, le ultime due scene del ciclo, il Testamento e morte di Mosè e, forse, la Disputa degli angeli e diavoli sul corpo di Mosè, ora ridipinto da un pittore cinquecentesco, Bar-

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tolomeo da Leccia. Vasari ci dice che gli affreschi del Signorelli erano reputati «dagli altri artefici», probabilmente i colleghi, i migliori del ciclo. Fatta salva la sua condiscendenza verso l’antenato parente (Vasari sosteneva che il suo bisnonno, Lazzari, sarebbe stato fratello della madre del pittore, n.d.r.), il giudizio molto lusinghiero testimonia il suo graduale affrancamento dalla bottega umbra e un generale apprezzamento come maestro autonomo. Infatti la disposizione dei gruppi di figure – collocate abilmente tra il primo piano e lo sfondo –, la smaliziata costruzione dei gruppi intorno a un perno centrale – si veda la figura di Mosè – già preannunciano la ottobre

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composizione delle pale d’altare a venire come quella per il vescovo Jacopo Vagnucci. Grazie alla comune patria cortonese, il prelato invita Signorelli a lavorare alla sua cappella, che sta allestendo nel Duomo perugino. È sempre Vasari a farci da narratore: «In Perugia ancora fece molte opere; e fra l’altro, in Duomo per messere Jacopo Vannucci, cortonese vescovo di quella città una tavola; nella quale è la nostra donna, Sant’Onofrio, Sant’Ercolano, San Giovanni Battista, Santo Stefano e un angelo che tempera un liuto, bellissima». Personalità colta e attiva, Jacopo Vagnucci sedette sul seggio vescovile per piú di trent’anni, dal 1449 al 1482, plasmando il volto rinascimentale di Perugia. Probabilmente a lui

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si deve la chiamata dello scultore fiorentino Agostino di Duccio in città, come dei toscani Giuliano da Maiano e Domenico del Tasso al lavoro nel coro della cattedrale, che proprio in quei decenni si andava rinnovando nel suo ricco allestimento quattrocentesco. Ampliato il transetto del Duomo di S. Lorenzo per ricavare, accanto alla sacrestia, uno spazio destinato a ospitare le sepolture di famiglia, nel 1482 Vagnucci fonda una sua cappella dedicata a sant’Onofrio, che il suo successore e nipote, Dionigi Vagnucci, arrederà nel 1484. La famiglia Vagnucci era molto devota a questo santo, il cui culto era diffuso in Toscana, e soprattutto a Cortona, dove c’era un ospedale dedicato ai santi An-

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luca signorelli in umbria/8 Autoritratto di Luca Signorelli, affresco su lastra in laterizio attribuito allo stesso maestro cortonese. 1504 circa. Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo. Nella pagina accanto ritratto d’uomo tradizionalmente identificato con il Perugino (o con Andrea del Verrocchio), olio su tavola attribuito a Raffaello Sanzio. 1505-1506 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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tonio e Onofrio. A Firenze era il protettore dei tintori di lana e, non a caso, il padre e lo zio di Jacopo erano commercianti di panni di lana.

Appoggi che contano

Canonico della cattedrale di Firenze, Jacopo Vagnucci aveva fatto una rapida carriera in curia. Grazie alla vicinanza dello zio, priore della Certosa di Firenze, e a Tommaso Parentucelli – eletto nel 1447 al soglio pontificio col nome di Niccolò V –, fu trasferito a Roma, dove svolse diversi incarichi amministrativi. Nel 1448 veniva già nominato vescovo di Rimini e, l’anno successivo, fu eletto a Perugia, che non lasciò fino alla sua morte, nominandola sua città d’elezione. Reduce dal fresco successo della Cappella Sistina, il cortonese Luca Signorelli ebbe gioco facile nell’ottenere questa prestigiosa committenza in cattedrale. Purtroppo, della ricca inquadratura della tavola non rimane piú nulla, se non i profili sagomati delle candelabra lignee che dovevano incorniciarla, risparmiate dal colore, ed emerse nei recenti restauri. Nel 1568 Vasari la vede con la cornice e la predella, ma, nel 1608, tutta la cappella fu smantellata, insieme al suo splendido arredo rinascimentale, che inseriva la pala d’altare in un contesto colorato e luminoso, in cui le vetrate giocavano un ruolo fondamentale. La Madonna e il suo Bambino sono ritratti su un trono molto alto, intenti nella lettura di un libro d’Ore. Intorno stanno quattro santi, posti su due registri perfettamente paralleli. In alto, da una parte, san Giovanni Battista, che dialoga con lo sguardo con un angelo in volo, appena sopra di lui, mentre dall’altra il giovane diacono san Lorenzo, con la tonsura e una splendida dalmatica figurata, sembra voler mostrare un libro, manifestando un certo interesse per quello, aperto, tenuto in mano dalla Vergine. In basso, un incartapecorito sant’Onofrio, secco e bruciato dal sole, dai capelli e dal barbone argentei, guarda con tenerezza la Sacra famiglia. Dall’altra parte un vescovo, con il suo pastorale, è ammantato in un piviale con una ricchissima stola figurata in cui si dispiegano le storie della vita della Vergine. Rispetto all’icono-

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grafia tradizionale del sant’Ercolano, mancano la barba bianca, la palma e il vessillo con lo stemma di Perugia. Qui si presenta concentrato intensamente nella lettura, completamente calvo e con una fisionomia particolare. Particolare fondamentale, a differenza degli altri santi, nella redazione finale dell’opera non ha l’aureola. Sembra cosí molto attendibile la nota che si legge nella Vita di Jacopo Vagnucci, un manoscritto della Biblioteca dell’Accademia Etrusca di Cortona della fine del Cinquecento, per cui si tratterebbe di un criptoritratto del vescovo Vagnucci sotto la veste, simbolica e apologetica, del grande patrono cittadino, il vescovo sant’Ercolano. Questi, martire nella guerra goto-bizantina, defensor civitatis nell’assedio che, nel 547, vide la città soccombere a Totila, re degli Ostrogoti, ha rappresentato sin dai primi secoli della Chiesa perugina l’identità e l’orgoglio civico della città. Un implicito omaggio del nipote Dionigi, vescovo in carica, allo zio che incarnava nelle sembianze di sant’Ercolano l’esempio piú profondo e venerato della devozione perugina. Un santo fondatore addirittura idolatrato che diventa un motivo di scherno all’indirizzo dei Perugini nella novella CLXIX del Trecentonovelle di Franco Sacchetti: Bonamico dipintore dipignendo Santo Ercolano su la piazza di Perugia, il dipigne col diadema di lasche in capo. Si tratta della burla orchestrata dal pittore fiorentino Bonamico per punire i Perugini dell’insistenza nel voler vedere subito realizzato l’affresco raffigurante il loro patrono, che viene perciò dipinto con un’aureola sconveniente, composta da uno dei cibi piú comuni e prediletti della Perugia del tempo, le lasche del Lago Trasimeno. Giusta punizione per i cittadini insolenti «che credono piú in Santo Ercolano che in Cristo; e tengono che sia innanzi al maggiore Santo del Paradiso». Per un vescovo «moderno» e in piú cortonese, essere rappresentato nei panni di sant’Ercolano significava una sua identificazione totale nella città, nel suo eroe religioso piú genuino e venerato, le cui reliquie erano custodite sotto l’altare maggiore della cattedrale. Non a caso, a questa immedesimazione fu fedele fino in fondo, con la scelta di essere seppellito a fianco del martire, ap-

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luca signorelli in umbria/8 punto nella sua cappella di S. Onofrio e non nella natia e vicina Cortona, a cui peraltro regalò uno spettacolare reliquario firmato dall’orafo Giusto da Firenze (1457).

Divina naturalezza

In mezzo ai santi, seduto sul primo dei gradoni decorati con un fregio all’antica, un angelo nudo sta accordando il suo liuto, straordinario nel suo isolamento psicologico, ritratto con divina naturalezza, immerso in una luce tersa che delinea le sue forme eleganti, avvolte in una tipica sciarpa di seta multicolore che cosí spesso accompagna i personaggi dei quadri di Luca Signorelli. I racemi all’antica resi con una nitidezza da scultore dimostrano la consuetudine di Signorelli con la cultura fiorentina, in particolare con Verrocchio orafo e scultore che aveva scolpito il monumento funebre a Piero e Giovanni de’ Medici nella Sagrestia Vecchia di S. Lorenzo a Firenze. Cosí come le gemme che arricchiscono la mitra del vescovo, la preziosità della sciarpa e dei paramenti liturgici segnalano la confidenza del pittore con quella cultura fiamminga appresa nella sua giovinezza dal suo maestro Piero della Francesca e dal capostipite Domenico Veneziano, che avevano forgiato una sensibilità nuova verso l’apparenza minuta delle cose, espressa da una luce cristallina che modella forma e colore in un binomio inscindibile. È ancora questa la luce che avvolge l’intera Pala Vagnucci, che non lascia spazio ad architetture o al paesaggio, ma immerge i personaggi in un cielo trasparente, in un’atmosfera da acquario, che sottrae i personaggi torniti e monumentali a relazioni compositive incrociate, collocandoli in un felice isolamento individuale.

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In alto ancora una veduta d’insieme della Pala Vagnucci e, nella pagina accanto, il particolare dell’angelo che accorda il suo liuto con il bicchiere in vetro trasparente con le aquilegie, raffinata citazione di un dettaglio del Trittico Portinari (vedi qui sotto). In basso il Trittico Portinari, dipinto su tavola di Hugo van der Goes. 1477-1478. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Ma non basta. Questa luce zenitale che bagna in trasparenza ogni personaggio della Sacra Conversazione parla sí il linguaggio internazionale fiammingo, ampiamente diffuso in Europa sin dagli anni Trenta del XV secolo, ma questo nuovo sguardo fu ribadito con grande enfasi a Firenze nel 1483, l’anno precedente la consegna della nostra tavola. Si tratta dell’arrivo in pompa magna in città di una grandissima opera, il Trittico Portinari, che il pittore Hugo van der Goes spedí da Bruges per Tommaso Portinari, banchiere a capo della locale filiale del Banco mediceo, che voleva destinarla alla sua cappella in S. Egidio, nell’Ospedale di S. Maria Nuova a Firenze. L’enorme trittico su tavola arrivò in città via mare, e poi via Arno da Pisa a fine maggio del 1483, accolto da una grande festa di popolo. Dipinta quasi cinque anni prima, l’opera ebbe un successo strepitoso anche presso gli artisti che vi vedevano un repertorio di novità, all’insegna di un fresco ma anche aggressivo naturalismo. Ghirlandaio corse a citare i pastori abbrutiti e sdentati del trittico fiammingo nella Cappella Sassetti in S. Trinita e anche Signorelli partecipò a questo gioco di citazione, trasferendo nella sua tavola perugina l’incantevole dettaglio con il bicchiere di vetro tra-

In alto Pala dei Decemviri (Vergine in trono col Bambino tra San Costanzo, Sant’Ercolano, San Lorenzo e San Ludovico), olio su tavola di Pietro Perugino. 1495-1496 circa. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Sulle due pagine la facciata laterale della cattedrale di S. Lorenzo, a Perugia.

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sparente con le aquilegie, arricchito di gelsomini. E cosí la Pala Vagnucci, che già obbediva alle nuove influenze compositive delle Sacre Conversazioni veneziane, con la Vergine sull’alto trono e gli angeli in primo piano, dà un segnale volontario di aggiornamento sulla grande novità del momento che la rendeva ancora piú seducente e moderna. Questa cultura del disegno preciso e scandito, illuminato dalla luce, si rifletteva come in un gioco di specchi nell’ambientazione generale della cappella.

Un legame da recuperare

La cornice sfarzosa collocava il dipinto a diretto confronto con le vetrate della trifora sovrastante la tavola, dove si ripeteva la precisa sequenza dei santi, a eccezione del San Girolamo, che andava a sostituire l’angelo musicante. Le vetrate, opera del maestro perugino Neri di Monte su disegno di Bartolomeo Caporali, furo-

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no vendute già nel Settecento e ora si trovano in stato frammentario ad Assisi, nel Museo e nei depositi del Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco. Sarebbe davvero auspicabile che questi frammenti sparsi potessero ricongiungersi alla tavola, virtualmente o concretamente, per poter recuperare, almeno in parte, un cosí straordinario contesto originario. Unica opera superstite delle tante che, secondo la testimonianza di Vasari, Luca Signorelli lasciò a Perugia, la Pala Vagnucci fece scuola e fu lungamente osservata dai suoi colleghi pittori, dai contemporanei come dai piú giovani allievi. Probabilmente Perugino concepí in parallelo la grande tavola «politica» della Madonna dei Decemviri per i dieci Priori del Comune, ma tutti quelli che vennero dopo, dal geniale Raffaello all’erede di scuola Domenico Alfani, se vollero fare una Sacra Conversazione, fecero i conti con la splendida invenzione di Luca Signorelli.

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LA PALA DI PACIANO di Paola Mercurelli Salari

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l 7 aprile 1864 Adamo Rossi, in qualità di segretario della commissione artistica presieduta da Reginaldo Ansidei – direttore della regia Accademia di Belle Arti –, composta dai pittori Silvestro Valeri, Vincenzo Baldini e Filippo Cecchini, e dagli esperti Mariano Guardabassi, Luigi Carattoli e Giovanbattista Rossi Scotti, scrive al Sindaco di Perugia, evidenziando la necessità di ampliare il percorso espositivo della civica pinacoteca, inaugurata il 7 giugno 1863 nella chiesa di Montemorcino Nuovo. Tra le opere delle quali viene auspicata l’acquisizione, oltre a numerosi affreschi, tavole e tele provenienti da contesti cittadini e del contado, vi è una grande pala di Luca Signorelli, da qualche tempo ricoverata in locali comunali dopo essere stata rimossa dalla sua originale ubicazione in forza dei decreti di demanializzazione postunitari, ma, per averla, occorre che vengano ultimate le pratiche con il Comune di Paciano – piccolo castello di poggio poco distante dal Trasimeno, una quarantina di chilometri a ovest del capoluogo –, avviate nel 1862. L’iter si conclude il 2 novembre 1865, quando l’amministrazione pacianese cede il dipinto alla Pinacoteca «Vannucci» (oggi Galleria Nazionale dell’Umbria), con la clausola che non potrà essere trasferito altrove e che dovrà rimanere a disposizione degli studiosi, pena la restituzione ai concedenti. In cambio, il Comune di Perugia sostiene con 1000 lire la realizzazione del tratto di strada che da Mojano conduce a Chiusi, cosí da collegare Paciano alla nuova linea ferroviaria. Insomma l’aggancio alla modernità del piccolo Comune rurale vale la perdita di un capolavoro fortemente identitario!

Tavole convenzionali, ma apprezzate

La Pala di Paciano esemplifica efficacemente la tarda produzione di Luca Signorelli e della sua bottega, impegnati, soprattutto a partire dal 1515, ad assecondare i gusti di committenti di provincia, realizzando grandi tavole convenzionali, che però ben rispondono alle esigenze devozionali di confraternite laicali o di piccoli monasteri. Corredata ancora della cornice originale, fu commissionata dai Minori Osservanti di Paciano per l’altare maggiore della chiesa di S. Antonio da Padova, eretta sullo scorcio del Quattrocento grazie alla generosità della popolazione locale e di quella della vicina Panicale. In alto è raffigurata la Madonna col Figlio contornata da angeli tra i santi Michele Arcangelo, Lo-

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Pala di Paciano (Madonna in gloria tra santi e angeli), olio su tavola di Luca Signorelli e bottega, firmato e datato. 1517. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. L’opera fu commissionata all’artista dai Minori Osservanti di Paciano, per l’altare maggiore della locale chiesa di S. Antonio da Padova.

renzo e Francesco a sinistra, Sebastiano, Antonio Abate e Antonio da Padova a destra. Nella predella, divisi da sottili pilastrini monocromi, si susseguono San Bernardino, il Sogno di Innocenzo III, il Martirio di san Lorenzo, la Veduta del castello di Paciano, Sant’Antonio abate e san Paolo eremita ricevono il pane da un corvo, Sant’Antonio da Padova e il miracolo del cuore dell’avaro, il Beato Giacomo della Marca. L’impianto iconografico ruota intorno al contesto francescano, come suggeriscono l’evidenza dei santi Francesco e Antonio da Padova, e osservante, sottolineato da Bernardino e Giacomo della Marca. L’attenzione alla realtà locale è rafforzata dalla presenza di san Sebastiano, titolare, con san Rocco, di una chiesetta alle pendici del paese, di san Michele Arcangelo, dedicatario della collegiata della vicina Panicale, di san Lorenzo, uno dei patroni di Perugia, la città dominante nella cui sfera politica orbita il paesino.

L’importanza del contesto

La contestualizzazione dell’opera, come nei coevi gonfaloni processionali, tra cui quello uscito attorno al 1470 dalla bottega perugina di Benedetto Bonfigli e conservato nella chiesa di S. Giuseppe nel piccolo borgo, avviene non solo attraverso la raffigurazione dei santi «locali», ma anche mediante un’efficace concretezza topografica, esplicitata attraverso il duplice scorcio del castello di Paciano, che nella predella acquista un’evidenza del tutto eccezionale. Le radicali trasformazioni subite dal paesaggio circostante rendono oggi piú difficile riconoscere nell’analitica veduta dipinta all’interno della pala la campagna intorno al castello, sebbene proprio dal convento osservante sia ancora possibile godere di uno straordinario panorama verso il Trasimeno, che nella tavola compare in basso a destra. Nonostante la firma apposta sulla cornice assieme alla data – M. D. // LVCAS DE / SIGNO/RELLIS // DE COR/ TONA PI/NGEBAT // XV[II] –, la tavola è stata generalmente ritenuta di aiuti. Francesco Signorelli, nipote di Luca e suo stretto collaboratore, dovette eseguirne buona parte, sebbene la firma indichi che il maestro fu responsabile ottobre

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almeno dell’ideazione dell’opera e, forse, dei brani di qualità piú elevata, quali, per esempio, le figure dei santi Francesco e Antonio Abate. Il dipinto condivide impostazione e cifra stilistica con altri usciti dalla bottega di Luca Signorelli tra la fine del secondo e l’inizio del terzo decennio del Cinquecento. L’impianto compositivo, con i santi disposti su diversi piani e serrati intorno al gruppo centrale, con le sole figure in basso poste in uno spazio reale, è anticipato, per esempio, dalla tavola di Montone (1515; foto nella pagina accanto), oggi nella National Gallery di Londra (vedi anche «Medioevo» n. 315, aprile 2023; on line su issuu.com), dalla cosiddetta Pala di Santa Cecilia (1516-1517; foto in questa pagina) nella Pinacoteca di Città di Castello (vedi anche «Medioevo» n. 314, marzo 2023; on line su issuu.com) e ripreso, ormai sullo scadere del decennio, nelle opere eseguite per la chiesa delle Ss. Margherita e Maria Maddalena e per l’oratorio di S. Girolamo ad Arezzo, entrambe ora nel locale Museo di Arte Medievale e Moderna.

Nella pagina accanto Vergine col Bambino e i santi Sebastiano, Cristina, Gerolamo, Nicola da Bari e due angeli, olio su tavola di Luca Signorelli. 1515. Londra, National Gallery. L’opera venne realizzata dall’artista a Montone (Perugia), per la locale chiesa di S. Francesco. In basso Pala di Santa Cecilia (Madonna con Bambino in gloria e santi), olio su tavola di Luca Signorelli. 1516. Città di Castello, Pinacoteca Comunale. Sia quest’opera che la tavola di Montone mostrano il medesimo impianto compositivo, che Signorelli replicò poi anche nella Pala di Paciano.

Un esercizio arduo

Per questi lavori, come per la Pala di Paciano, sebbene vi siano stati vari tentativi di distinguere le mani dei collaboratori a cui l’artista cortonese demandò l’esecuzione, proseguire sulla linea del puro riconoscimento stilistico sembra un arduo, e probabilmente inutile, esercizio, dacché tutti rivelano, comunque, il coordinamento del maestro. Indubbia resta, tuttavia, la partecipazione di Francesco nel realizzare quest’ancona, come si evince da certe tipizzazioni dei volti, dalla gestualità contratta delle figure, dal sovrabbondante decorativismo, dai panneggi che nell’eccessiva convenzionalità e schematizzazione non seguono le linee anatomiche, sebbene denuncino ancora un’attenzione per le stoffe che presuppone la supervisione dell’anziano zio. Qualificano in tal senso il lavoro il broccato e il prezioso ricamo della dalmatica di san Lorenzo, mentre anche tecnicamente coerente con la tarda produzione della bottega signorelliana è l’uso di lumeggiare con puntini dorati il panneggio del manto della Madonna. Nel complesso, la Pala di Paciano testimonia quella che dovette essere l’organizzazione del lavoro all’interno di una bottega ben avviata, capace di assolvere contemporaneamente a molteplici commissioni, riproponendo o rielaborando ideazioni del titolare, alcune delle quali, pur mancando d’originalità e freschezza inventiva, risultano tuttavia perfettamente rispondenti alle esigenze di una committenza di provincia. Una committenza desiderosa di riconoscersi nell’opera attraverso la raffigurazione dei propri santi e la contestualizzazione dei luoghi familiari e, al contempo, orgogliosa di mostrare sul proprio altare una

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Sacra Conversazione con la firma del grande cortonese; una tavola che, seppur ridondante, non fu certo priva di fascino per gli schietti castellani di Paciano e delle campagne circostanti.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/9

Piedi scalzi e cervello fino I I di Corrado Occhipinti Confalonieri

Poveri, umili, creduloni... realtà e pregiudizi si mescolano nella considerazione del mondo contadino. Stereotipi che Franco Sacchetti demolisce a piú riprese, tracciando ritratti di agricoltori furbi e smaliziati, capaci perfino di tenere testa a un gran signore come Francesco di Bicci de’ Medici...

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n piú di una pagina del Trecentonovelle, Franco Sacchetti porta alla ribalta il mondo contadino del Trecento, mostrando un mondo variegato, animato da personaggi dall’insolita personalità. Nella novella LIII, Berto Folchi «piacevole cittadino» di Firenze corteggia una «forese [contadina]» di San Felice a Ema già sposata e «non abandonando questo suo amore, ne venne alla sua [riuscí nel suo intento]». Un giorno i due amanti si appartano a ridosso del muro a secco di una vigna che delimita il confine con la strada pubblica. Fa parecchio caldo e due agricoltori che passano per quella via sono assetati: non portano con sé l’acquerello, la tipica bevanda contadina medievale senza mercato, ottenuta facendo rifermentare

A destra ringiovanito dall’essersi bagnato nella fontana dell’eterna giovinezza, un uomo cerca di trarre a sé una donna, per darsi ai piaceri amorosi nel vicino boschetto, particolare degli affreschi dalla Sala Baronale del Castello della Manta (Cuneo). 1416-1420 circa. Il ciclo è opera di un artista ignoto designato come Maestro della Manta, ma da alcuni assegnato invece a Giacomo Jaquerio. A sinistra bronzetto in forma di rana, forse utilizzato come calamaio. Inizi del XVI sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/9 le vinacce già spremute con l’aggiunta di acqua, dal colore rosato e dal gusto leggermente acido. Uno dice all’altro: «Io ho una gran sete; vuo’ tu andare in quella vigna per un grappolo d’uve, o vuogli che vi vada io?». L’altro gli risponde «Va’ vi [vacci] pur tu». Cosí l’uomo fa un balzo e finisce con i piedi sul sedere nudo di Berto, che era «a dosso alla detta forese, (...) del quale colpo ebbe maggior paura e danno Berto che la forese però che [poiché] ella si sentí meglio calcata». Il contadino «sentendosi giugnere co’ piedi su una cosa molliccia, senza volgersi a dietro comincia a fuggire per la detta vigna, fracassando e pali e viti gridando: “Accorruomo, accorruomo” con le maggiori voci che avea in testa». Dal particolare del contatto dei piedi con le natiche di Berto, intuiamo che il contadino girava scalzo perché povero: molti studi hanno dimostrato un peggioramento delle condizioni di vita degli agricoltori nella seconda metà del XIV secolo.

Intanto il passaparola si moltiplica e accorrono alcuni paesani che chiedono al contadino il motivo di quel chiasso: «Oimè! Fratelli miei, ch’ella [il rospo] è maggiore che un vassoio. Io vi saltai suso, e parvemi saltare come su uno grandissimo polmon o fegato di bestia; oimè! Che io non tornerò mai in me». L’altro contadino, che aspettava l’uva, «temendo forse per briga che aveano [per qualche lite in cor-

Un gran trambusto

Occhio al rospo!

Berto fa finta di essere al lavoro nella vigna e chiede allo spaventato contadino cosa è successo: «Oimé! Che io ho trovato la maggior botta che mai si trovasse». La botta è un rospo, molto temuto nel Medioevo per la sua presunta capacità di schizzare il veleno. Anche nella quarta giornata, novella settima del Decameron di Giovanni Boccaccio troviamo un presunto rospo velenoso: il giovane Pasquino ha strappato una foglia da un cespuglio che crede di salvia, se la passa sui denti per pulirli e muore all’istante perché si trattava invece di una pianta velenosa. Gli investigatori scoprono fra le radici un grosso rospo e arrivano alla conclusione che l’animale aveva contaminato la salvia.

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che vuol dir questo? Ché sallo Dio con quanto diletto facea erba nella vigna per lo bue nostro, ed elli si levò questo busso [chiasso], che son quasi mezza morta». Anche Berto giunge da un altro lato della piazza e interroga il contadino che gli era piombato addosso su quanto accaduto: «Come, che è? O non l’avete voi sentito? Non credo che niuno vedesse o trovasse mai sí gran botta come io trovai nella tal vigna; e peggio fu che io gli saltai a dosso; che è maraviglia ch’ella non mi schizzò il veleno; e pur cosí non so se io me ne morroe [morirò]». Berto cerca di sdrammatizzare: «In buona fé che tu se’ un piacevol uomo; o se tu avessi trovato un diavolo che avresti tu fatto?».

so con gente del luogo], udendo il romore, che colui non fosse assalito e morto, comincia a gridare anco elli: “Accurruomo” e fugge in dietro quanto puote». Le campane di San Felice cominciano a suonare all’impazzata, tutti arrivano trafelati in piazza per sapere quello che sta succedendo. La contadina accorre assieme al marito: «Oimè! Marito mio,

Il contadino è ancora talmente terrorizzato che ribatte con testardaggine: «Vorrei trovare inanzi un diavolo che una botta a quel modo»; si tranquillizza quando viene raggiunto dall’altro compagno che lo trova sano e salvo. Berto li rimprovera: «Che cortesi uomeni siete voi? Avete con questo vostro romore scioperato [fatto smettere il lavoro] quanti uomeni ha in questo paese, e io era sopra a fare una mia faccenda, e sono stato sí bestia che io ci son corso anch’io». Berto sottolinea che tutti gli abitanti di San Felice sono stati distolti dal lavoro, come se l’evento avesse bruscamente interrotto l’operosa armonia della comunità. Per placare gli animi, l’astuto Berto sostiene: «Egli è buon pezzo che io usai in questo paese, e già fa buon tempo [da molto tempo] udi’ dire che uno trovò una gran botta in quella vigna; forse è questa dessa». Gli abitanti del borgo concordano con la sua ipotesi, perché là esistevano muri a secco e ruderi, tane ideali per il rospo. Mentre sta per tornare a Firenze, Berto si imbatte nel ottobre

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Miniatura raffigurante un uomo impegnato nella pigiatura dell’uva, dalla pagina dedicata al mese di settembre del Libro d’Ore di Bedford, attribuito alla bottega di un artista designato come Maestro del duca di Bedford. 1414-1423. Londra, British Library. Nella pagina accanto Il giovane e la morte, incisione a puntasecca da un originale dell’artista tedesco noto come Maestro del Libro di Casa. 1485-1490. Amsterdam, Rijksmuseum.

priore del luogo, Oca, «uomo picevolissimo» che lo convince a restare a cena e si fa raccontare il motivo di quel trambusto. Il priore «era grasso; egli stette un gran pezzo che non potea ricogliere l’alito [respirare], tanto ridea di voglia. E cenato e albergato con gran festa di ciò insieme, il detto Berto la mattina seguente si tornò a Firenze».

La furberia di un priore

Il priore pensa a come trarre vantaggio da quella storia; dopo aver celebrato la messa dice «a’ suoi popolani e del caso intervenuto e del romore, amonendoli tutti che non si accostassino a quella vigna, però che [poiché] cosí fatta botta era di gran pericolo, pur [solamente] guardando altrui non che schizzando il veleno». Un’altra leggenda medievale sui rospi era che fossero in grado di lanciare incantesimi e di paralizzare con lo sguardo. Il priore fa leva su una caratteristica di molti contadini medievali: quella di essere creduloni. Per questo motivo nella vigna del presunto rospo nessun lavorante osa piú entrare «se già non fosse stato Berto e la forese». Il priore prende la vigna in affitto a un prezzo irrisorio dal proprietario perché il suo fante «è uno mazzamarone [babbeo incurante dei pericoli] che non se ne curerà». Cosí Oca «tenne la detta vigna a fitto parecchi anni per una piccola cosa [per una somma irrisoria] e traevano l’anno quando cogna [cogni, misura di volume di dodici barili] otto e quando cogna diece di vino». La vi-

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Miniature raffiguranti una donna che fila con il fuso, mentre un uomo semina e un altro ara, dal Salterio Fécamp, cosí chiamato perché realizzato nell’abbazia omonima, forse per Eleonora d’Aquitania. XII sec. L’Aia, Biblioteca Nazionale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante contadini che vendemmiano e raccolgono frutta, allegoria dell’autunno, da un’edizione francese del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico. 1480. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

te, diffusa in Italia fin dall’antichità, è una delle coltivazioni che piú si dilata nei secoli di Mezzo, perché grande è il consumo di vino: a Bologna era di tre/quattro volte quello attuale; nel 1338 ognuno dei 90 000 abitanti di Firenze beveva in media dai 248 ai 293 litri di vino all’anno; la coltivazione dei grappoli era quindi un’importante fonte di guadagno. Con la sua predica, il priore accentua il terrore dei contadini verso i rospi e ne trae un vantaggio economico, anche se poi condivide volentieri il vino con gli amici come Berto. Eppure non tutti i contadini sono cosí faciloni come quelli descritti in questa novella, anzi parecchi sanno far valere i propri diritti in modo arguto. A Dicomano, un paesetto del Mugello, Cenni «assai agiato» contadino possiede una vigna confinante con quella di un componente della famiglia dei Medici che se ne vuole impossessare in modo illecito (LXXXVIII). Il contadino non vuole piegarsi all’ingiustizia e decide di recarsi a Firenze da Francesco di Bicci de’ Medici, il capofamiglia.

Un eloquio inaspettato

Dopo essersi fatto ricevere, Cenni gli dice: «Messer Francesco, io vengo a Dio e a voi, a pregarvi per l’amor di Dio, che io non sia rubato, se rubato non debbo essere. Uno vostro consorto [parente] mi vuol tòrre una vigna, la quale io fo perduta, se da voi non sono

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aiutato. E dicovi cosí, messer Francesco, che se egli la dee avere, io voglio che l’abbia; e diròvi in che modo. Voi dovete sapere, che sete molto vissuto, che questo mondo corre per andazzi [va per mode, comportamenti ricorrenti ed estesi], e quando corre un andazzo di vaiuolo, quando di pestilenze mortali, quando è andazzo che si guastano tutti e’ vini, quando è andazzo che in poco tempo s’uccideranno molti uomini, quando è andazzo che non si fa ragione [giustizia] a persona: e cosí quando è andazzo d’una cosa e quando d’un’altra. E però, tornando a proposito, dico che contro a quelli non si puote far riparo. Similmente quello di che io

al presente vi vo’ pregare per l’amor di Dio, è questo: che s’egli è andazzo di tòr [portar via] vigne, che il vostro consorto s’abbia la mia vigna segnata e benedetta [cosí com’è, con mia buona pace] però che [perché] contro all’andazzo non ne potrei, né non ne voglio far difesa; ma, se non fusse andazzo di tòr vigne, io vi prego caramente che la vigna mia non mi sia tolta». Notiamo in questo passaggio la notevole capacità retorica del contadino che non si dimostra timoroso di fronte al suo nobile interlocutore superando cosí il luogo comune dell’agricoltore ignorante. Francesco de’ Medici rimane

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il trecentonovelle di franco sacchetti/9 Contadini al lavoro nelle zone della campagna senese destinate a colture cerealicole e orticole, dal ciclo Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, affrescato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nel Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339. Nella pagina accanto Sant’Eligio nel suo laboratorio di orefice, tempera su tavola del Maestro della Madonna della Misericordia. 1370 circa. Madrid, Museo del Prado.

stupito dalla piacevolezza del contadino e gli chiede come si chiami, segno che lo riconosce come individuo al di là del suo umile status: «Buon uomo, il mio consorto con teco non potrebbe aver ragione, e sie certo che, andazzo o non andazzo che sia, la vigna tua non ti fia tolta». Francesco dà disposizioni in tal senso ad altri famigliari e «costoro tutti di concordia mandarono per lo loro consorto che già s’avea messo a entrata [che già considerava di sua proprietà] la vigna e riprendonlo del fatto; e brievemente liberarono la vigna da le mani di Faraone [sinonimo di un prepotente usurpatore di beni altrui, come il re d’Egitto che perseguitava gli Ebrei in esodo] e dissongli che Cenni ave’ allegato la ragione degli andazzi, per forma che non potea avere il torto; e che di ciò facesse sí che mai non ne sentissino alcuno richiamo [lamentela]. E cosí promesse loro, poiché andazzo non era, di liberare la vigna e di non seguire piú la sua impresa». Sacchetti mostra simpatia per il contadino: «Per certo la legge non arebbe in molto tempo fatta fare quella ragione a Cenni, che l’alegare suo piacevole dell’andazzo fece». Lo scrittore

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lancia anche un monito: «E non se ne faccia alcuno beffe; ché chi vi porrà ben cura, da buon tempo in qua, mi pare che ’l mondo sia corso per andazzi, salvo che d’una cosa, cioè d’adoprare bene [fare cose oneste], ma di tutto il contrario è stato bene [davvero] andazzo, ed è durato gran tempo».

Un braccio in piú

Anche un anonimo coltivatore di Faenza chiede giustizia contro le prepotenze, questa volta non con le parole, ma con un’originale forma di protesta (CCII). Un potente vuole impossessarsi della terra di un «omiciatto non troppo abiente» che rifiuta di vendergliela, per questo pensa all’uso della forza per ottenere ciò che vuole: durante l’aratura della sua terra «pigliava quando con un solco e un altro per anno, un braccio o piú di quella del vicino». Un braccio corrisponde a circa sessanta centimetri, cioè a quanto si poteva facilmente ricavare girando la terra dell’ultimo solco arato. L’unico fragile confine a quella costante ruberia era un ciliegio sul campo del povero contadino che sarebbe stato troppo evidente oltrepassare.

Disperato, il pover’uomo aguzza l’ingegno: con due fiorini si reca da tutti i parroci delle chiese di Faenza, si mette d’accordo con ciascuno di loro e li paga affinché suonino tutti insieme le campane fuori dagli orari canonici. Quando gli abitanti della città sentono quel frastuono si chiedono che cosa l’abbia scatenato e il contadino ripete a tutti: «Perché la ragione è morta». Francesco Alberghettino, signore di Faenza fra il 1313 e il 1327, si informa dell’accaduto e convoca il vessato agricoltore per chiedergli spiegazioni: «Udendo il signore il motto di costui e la ruberia fattali dal suo cittadino (...) fece restituire la terra sua a questo povero uomo, facendo andare là misuratori». Non solo, il signore espropria al disonesto proprietario tanta terra quanta ne aveva rubata, l’assegna al contadino e gli fa rimborsare i due fiorini spesi per far suonare le campane. Quando però i contadini vogliono tentare una scalata sociale le cose cambiano. Partito da Firenze, il ricco orefice Jacopo di ser Zello (CCXV) si trova nei suoi possedimenti terrieri a Santa Lucia di Altomena, presso Vallombrosa e si vanta con i contadini che «la spazzatura della sua bottega valea ogni anno piú d’ottocento fiorini; e voltosi verso loro disse: “E voi state sempre qui, poveri, a rivolgere le zolle!”». Da questa frase, notiamo come Jacopo voglia rimarcare la sua superiorità di ricco cittadino rispetto agli umili coltivatori. ottobre

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Poi «veggendo uno figliuolo d’uno ivi presente, che avea forse sedici anni, disse se volea darlilo, che lo aviarebbe e farebbelo buon uomo». Spesso nei poderi il surplus di manodopera e la fragile produttività della terra spingeva i capifamiglia a mandare i figli in città come servi e garzoni in cerca di una vita migliore: «Al contadino parve mill’anni, credendo subito che divenisse ricco, e spezialmente considerando alla valuta della spazzatura ch’egli avea udito». Jacopo si rivolge direttamente al padre del ragazzo per rimarcare la patria potestà del genitore, mentre il figlio sem-

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bra non avere voce in capitolo sul suo destino. L’imprenditore vuole prendere il giovane come apprendista nella sua bottega, attività che durava circa cinque anni e presuppone poi un lavoro continuativo, per poi farlo «buon uomo» ovvero dargli un’istruzione, necessaria all’inserimento nella vita cittadina. Ovviamente l’orafo ha il suo tornaconto: un lavoratore pagato il minimo indispensabile. Quando arrivano al laboratorio, Jacopo affida il ragazzo a Miccio e a Mascio, due suoi dipendenti esperti e «il raccomandò loro, dicendo che

come a sua cosa [con la cura dovuta a un suo protetto] gl’insegnassono ben l’arte» e si allontana di poco. Lasciati soli, Miccio e Mascio si inalberano: «Questo nostro maestro è un nuovo pesce [tipo strano], che non gli pare che noi abbiamo tanto a fare a digrossare l’ariento [per raffinare l’argento], che ci mena di contado contadini a dirozzare». I due lavoranti, già oberati di lavoro, trovano degradante il dover insegnare la loro arte a un contadino che si vuole elevare socialmente, perché vogliono conservare la loro posizione corporativa. Per questo motivo decidono di

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Miniatura raffigurante mercanti di tessuti e di gioielli, da un’edizione del Livre des bonnes moeurs di Jacques Legrand. 1490 circa. Chantilly, Musée Condé.

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tirare uno scherzo all’apprendista: «E andato su per una scaletta, il detto Mascio, come s’era composto [s’era messo d’accordo] col Miccio, salí su un palco dove menavano lo smalto e là su chiamò il garzone». L’apprendista appare volenteroso, ma «giunto suso e Mascio mettendo mani alle brache, dice a costui: “Va’, mena qua”». Imbarazzatissimo, il ragazzo si volta dall’altra parte e solo quando Mascio insiste, gli risponde: «Io non so che voi mi vogliate far fare; io non ci venni per questo». All’insistenza di Mascio il ragazzo «però che [poiché] avea ragione» si inalbera e si oppone, dimostrando personalità. Nel frattempo Miccio chiama il principale e gli riferisce: «Voi ci menate gent’ebrea [zoticoni] e voleteli fare orafi! Quel vostro di Altomena è sul palco, e non vuole fare cosa che Mascio gli dica». Quando Mascio sente il padrone di sotto «grida forte al garzone che meni» e aggiunge ad alta voce: «O Jacopo, e’ non vuole menare», giocando sul doppio senso. Jacopo pensa che si riferisca a girare lo smalto e grida al ragazzo dal basso: «Mena, che sie mort’a ghiado [ucciso di colpo], e’ mi sta molto bene, io ho tolto a dirozzare villani: mena, che tu sia tagliato a pezzi!». Il presunto comportamento del ragazzo ha risvegliato l’antico pregiudizio nell’orefice che i contadini sono negligenti. Il giovane deve ubbidire al suo magister, si avvicina a Mascio «non senza grande e temerità e vergogna» il quale «veggendo cosí venire il semplice verso lui, rimise la cosa naturale [il membro virile] nel debito luogo e lui menò verso il menatoio dello smalto». Si tratta di uno scherzo pesante, che lascia strascichi sul ragazzo: «L’altra mattina vegnente, o per la prima novità di Mascio o per la fatica d’aver menato lo smalto, il garzone, sanza dire alcuna cosa, si tornò al padre ad Altomena». Qui Sacchetti cede a un altro luogo comune medievale che considerava i contadini come sfaticati. Il ragazzo non vuole ri-

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velare al padre il vero motivo del suo ritorno, poi confessa. Il padre è sbalordito e dice fra sé: «È questa la spazzatura che valea fiorini ottocento? Deh! Dàgli il malanno a lui e agli altri mercatanti, se sono cosí fatti». Da questa riflessione silenziosa notiamo come il contadino non manifesta apertamente i suoi sentimenti. Alcuni giorni dopo Jacopo si reca nella sua proprietà in campagna e trova il coltivatore e il figlio: si mostra dispiaciuto che «come per la prima cosa, ciò era il menare dello smalto, egli [il ragazzo] avea preso ombra [si era tirato indietro, come i cavalli che si imbizzarriscono per le ombre]». Sostiene che se i superiori dicono al sottoposto: «Mena il diavol di ninferno» lo si deve fare. L’espressione «mena il diavol di ninferno» è corrente dell’epoca perché la utilizza anche Boccaccio nel Decameron (giornata III, novella 10). Poi Jacopo aggiunge: «Io l’avea accomandato [affidato] a’ due migliori lavoranti che io avesse mai in bottega, ed èvi tale che guadagna l’anno mille fiorini, e ha nome Miccio, che ’l dovete conoscere pur al nome; ma sapete che vi dico? Statevi nelle zolle, e voi zolle averete».

Un sottile doppio senso

L’alto compenso riconosciuto a Miccio non è tanto per la generosità dell’orefice, ma per evitare che il lavorante si metta in proprio facendogli cosí concorrenza. Dopo l’ennesima, ingiusta, offesa, il padre del giovane contadino replica il raggiro con un sottile doppio senso: «Jacopo mio, io credo che gli uomeni nascano con le venture [fortune] in mano», riferito al gesto osceno di Miccio, «e cosí sono di quelli che nascono con le sciagure in mano, e questo mio figliuolo è di quelli; steasi in contado tra le zolle, e forse fia il suo megliore [forse è meglio per lui]». Anche Miccio e Mascio mettono in ridicolo il loro datore di lavoro, ma in modo plateale: fanno conoscere la storia agli abitanti di

Firenze, i quali «rideano di Jacopo che, essendo di sotto, biestemava [malediceva] il garzone perché non volea menare, che non rideano o di loro o del garzone». Per loro, il difetto di Jacopo è quello di essere stato cosí ingenuo dal voler insegnare l’arte orafa a un contadino, biasimando cosí il suo tentativo di aprirsi al mondo della campagna. Da queste novelle possiamo trarre alcune considerazioni su coloro che lavoravano la terra. Fino alla peste del 1348 gli scrittori descrivevano i contadini in modo benevolo: il predicatore Giordano da Pisa (1260-1310) giudica la vita in campagna piú virtuosa di quella cittadina perché gli agricoltori si accontentano di una vita piú semplice e morigerata, sono considerati come sempliciotti, bersaglio delle burle dei cittadini. Nella seconda metà del secolo, la condiscendenza diventa disprezzo: grazie alle mutate condizioni economiche e sociali causate dall’epidemia, una parte dei contadini piú ricchi si è inurbata occupando anche cariche politiche. Lo scandalo è grande e porta Matteo Villani (1290 circa-1363) a scrivere nella sua Cronica: «Uomini novellamente venuti dal contado o dal distretto di Firenze poco pratichi delle bisogne civili (...) sovente deliberano in danno e vituperio del comune». Sacchetti supera l’antica satira sul villano dall’aspetto sgradevole e dalla bassissima vita morale ed evidenzia la capacità di almeno una parte di loro di portare avanti le istanze a carattere economico e sociale con arguzia. Ma nell’ultima novella emerge l’ironica vena politica dello scrittore che ha occupato cariche pubbliche: la grassa ilarità suscitata dalla vicenda dell’orafo preclude la città alle ambizioni sociali dei contadini e quando la sera si serrano le porte, essi devono rimanere fuori.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Il mondo femminile

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di Aart Heering ed Élodie Lecuppre-Desjardin

FIANDRE SPLENDORI DEL SECOLO BORGOGNONE Definita da confini linguistici, piú che geografici, la regione delle Fiandre ha avuto un ruolo di primo piano nella storia del Medioevo europeo. Soprattutto quando le sue città divennero centri nevralgici degli scambi commerciali internazionali, favoriti da una miscela vincente di capacità imprenditoriali e vocazione cosmopolita

Madonna con Bambino (Madonna di Ince Hall), olio su tavola già attribuito a Jan van Eyck. 1433. Melbourne, National Gallery of Victoria.


Dossier

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l pittore Dieric Bouts nacque a Haarlem e lavorava a Lovanio (vedi box alla pagina accanto). Pertanto è conosciuto come pittore «olandese» o «fiammingo»: un’ambiguità aggirata dai testi in lingua inglese che chiamano Bouts «a Netherlandish painter» («un pittore dei Paesi Bassi»), evitando cosí la scelta tra Dutch (olandese) e Flemish (fiammingo). Altrettanto fece il grande storico Johan Huizinga (1872-1945) quando, nel suo Autunno del Medioevo, descrisse Bouts come un artista del Nord che aveva introdotto elementi di sobrietà borghese nella ricca pittura aristocratica fiamminga. Allo stesso tempo però, Bouts appartiene alla grande tradizione della Borgogna, nel Quattrocento la terza potenza del continente europeo, che con la sua proverbiale ricchezza attirava grandi artisti dai Paesi Bassi e dal resto dell’Europa. Fino al 1477, due anni dopo la morte di Bouts, quando il potere borgognone si arrestò bruscamente.

Un ducato per sdebitarsi

La Borgogna nacque nel V secolo come regno dei Burgundi, una tribú germanica originaria dell’isola danese di Bornholm, arrivata nel Sud-Est della Francia nel corso delle grandi migrazioni. Nei secoli successivi fu ridimensionata e divisa in due: il ducato di Borgogna all’interno del regno di Francia e la franca contea di Borgogna nel Sacro Romano Impero. La situazione cambiò quando, nel 1363, il re di Francia, Giovanni il Buono, donò il ducato a suo figlio minore Filippo, come ringraziamento per averlo salvato, sette anni prima, nella battaglia di Poitiers, finita con la sonora sconfitta francese inflitta dagli avversari inglesi. Si trattò, senz’altro, di un bel regalo, ma il ventunenne Filippo – soprannominato l’Ardito grazie alla sua prodezza in battaglia – aspirava a molto di piú. Il suo du-

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Annunciazione, tempera e olio (?) su tavola trasferita su tela, attribuito alla cerchia di Dieric Bouts. 1480-1490 circa. Lisbona, Museu Calouste Gulbenkian.

Capolavori a confronto A Dieric Bouts (1410 circa-1475), uno dei più importanti maestri fiamminghi, è dedicata la retrospettiva che si inaugura il 20 ottobre nel Museo M di Lovanio, città alla quale l’artista è strettamente legato. Due dei suoi capolavori sono ancora conservati nella chiesa di S. Pietro, dove il maestro fu incaricato di dipingerli: il suo magnus opus, l’Ultima Cena, e il Martirio di Sant’Erasmo. Altre sue opere sono invece esposte nei più importanti musei del mondo. Grazie a una rete di prestiti internazionale, in occasione della mostra quasi trenta opere originali del pittore si potranno ammirare nelle sale del Museo M. Inoltre, l’incontro con la cultura visuale contemporanea offrirà ai visitatori una prospettiva completamente nuova su quest’arte classica di oltre cinque secoli fa. «Dieric Bouts, Creatore di immagini» Lovanio, Museo M fino al 14 gennaio 2024 (dal 20 ottobre)

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Dossier Dinastie

I duchi borgognoni Filippo l’Ardito Giovanni senza Paura Filippo il Buono Carlo il Temerario Maria di Borgogna Filippo il Bello Carlo V

(1363-1404) (1404-1419) (1419-1467) (1467-1477) (1477-1482) (1482-1506) (1506-1555)

A sinistra La famiglia di Massimiliano I, olio su tavola di Bernhard Strigel. Post 1515. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Il dipinto fu voluto per commemorare il doppio matrimonio di Vienna del 1515 e il conseguente legame tra gli Asburgo e la famiglia reale jagellonica: vi compaiono, da sinistra, Massimiliano I e la prima moglie Maria di Borgogna (morta piú di trent’anni prima); fra i due, il figlio Filippo il Bello (morto nel 1506) e in primo piano i nipoti di Massimiliano, i futuri imperatori Carlo V (al centro) e Ferdinando I (a sinistra), nonché, a destra Ludovico, erede dei regni di Ungheria e Boemia.

cato si trovava in una zona rurale e con una capitale, Digione, di poco piú di 10mila abitanti, che oltre a un buon vino non aveva molto da offrire a un giovane ambizioso. Di conseguenza, Filippo si attivò sul mercato matrimoniale della nobiltà europea, ottenendo la mano di Margherita, unica figlia di Luigi di Mâle, conte delle Fiandre.

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Nel 1369, i due si sposarono nella cattedrale di S. Bavone a Gand. Formalmente Margherita avrebbe ereditato le Fiandre, insieme alla franca contea di Borgogna, la contea di Artesia e le città di Anversa e Malines, soltanto alla morte del padre nel 1484. Tuttavia, la coppia poteva già disporre delle ricche entrate fiam-

minghe e Filippo cominciò subito a creare le basi per una propria dinastia, usando la diplomazia, la forza militare e soprattutto i soldi della moglie. Fu l’inizio del «secolo borgognone», come lo definisce lo storico fiammingo Bart Van Loo nel suo libro Il regno scomparso. All’epoca, le Fiandre erano la regione piú prosperosa d’Europa. ottobre

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A destra miniatura raffigurante il matrimonio tra Filippo I, duca di Borgogna, e Margherita, contessa delle Fiandre, nel 1369, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library. Nella pagina accanto, a destra miniatura raffigurante un’allegoria della morte di Carlo il Temerario, da un’edizione del Chevalier délibéré di Olivier de la Marche. 14831516. Chantilly, Musée Condé.

Situate nel Nord-Ovest dell’attuale Belgio, formalmente facevano parte del regno di Francia (eccetto una piccola parte nell’Est), ma già nel IX secolo i conti fiamminghi conquistarono una sostanziale indipendenza. La contea era poco piú di una zona semisviluppata nella periferia d’Europa, ma i suoi terreni alluvionali, in gran parte ri-

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coperti da paludi salmastre, formavano pascoli perfetti per le grandi greggi di pecore che nei secoli successivi avrebbero portato ricchezza e benessere alla regione. Nacquero un fiorente commercio di lana e un’industria tessile che presto divennero leader del mercato europeo. La crescita economica comportava una profon-

da trasformazione del paesaggio: le città si ingrandivano in modo esponenziale, facendo delle Fiandre una delle zone piú densamente popolate d’Europa. Verso la metà del secolo XIV, Gand e Bruges contavano rispettivamente circa 50mila e 35mila abitanti (piú o meno come Londra e Colonia), molti di piú di Amster-

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Dossier Geografia

Non chiamatela «Olanda»... Questo articolo fa riferimento a entità politiche e culturali come le Fiandre, il Brabante e l’Olanda. Nel corso dei secoli questi nomi hanno cambiato significato. Le Fiandre di Filippo l’Ardito sono diverse da quelle attuali e i Paesi Bassi di allora non sono sinonimi del Regno dei Paesi Bassi odierno. LE FIANDRE Oggigiorno, la parola Vlaanderen (Fiandre) indica la regione settentrionale del Belgio, dove si parla Vlaams, fiammingo, una versione meridionale del neerlandese, che è la lingua comune dell’Olanda e delle Fiandre. Nel Trecento, la Contea delle Fiandre comprendeva solo la parte occidentale, con le città di Gand, Bruges e Ypres, piú o meno le attuali province belghe delle Fiandre dell’Est e dell’Ovest. BRABANTE A est della contea delle Fiandre si trovava il ducato di Brabante, che da Bruxelles, a sud, andava fino a ‘s-Hertogenbosch, a nord. Grazie alla separazione tra Olanda e Belgio alla fine del Cinquecento, la regione ora è suddivisa in due province belghe – Brabante fiammingo (con al suo interno la Regione di Bruxelles) e Anversa – e una olandese, il Brabante del Nord. LIMBURGO E LUSSEMBURGO L’allora ducato di Limburgo è ora diviso tra una provincia belga e una olandese, ambedue chiamate Limburgo. L’attuale granducato del Lussemburgo copre circa la metà del ducato del secolo XIV, la parte rimanente ora è la provincia belga del Lussemburgo.

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OLANDA, ZELANDA E PAESI BASSI Le contee di Olanda e Zelanda, entrate nell’ambito borgognone nel 1433, coprivano grosso modo il territorio delle attuali province dell’Olanda del Nord, Olanda del Sud e Zelanda. Ma l’Olanda non era, e non è, sinonimo di Paesi Bassi, un termine che nel corso della storia ha assunto significati diversi. I Paesi Bassi, piú o meno l’attuale Benelux, da espressione geografica nel periodo borgognone acquistarono anche un valore politico. Dopo la separazione di

fine Cinquecento, si parlava di Paesi Bassi del Sud (asburgici) e del Nord (repubblica indipendente). In seguito, le regioni meridionali hanno scelto il nome Belgio, mentre il nord continua a riferirsi ai Paesi Bassi (Nederland), ma senza il suffisso «del Nord». L’attuale Olanda, da sempre la zona piú ricca e potente dei Paesi Bassi (del Nord), si estende solo su due delle attuali dodici province neerlandesi. La denominazione corretta del Paese sarebbe quindi non «Olanda» ma «Paesi Bassi», termine che il Ministero ottobre

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Utrecht

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CONTEA DI PONTHIEU

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Bruxelles Mons CONTEA DI HAINAULT

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DUCATO DI GHELDRIA

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Mare del Nord

PRINCIPATO VESCOVILE DI LIEGI DUCATO Colonia DI LIMBURG

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Liegi

CONTEA DI NAMUR

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DUCATO DI LUSSEMBURGO

CONTEA DI VERMANDOIS

Treviri Lussemburgo

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PRINCIPATO VESCOVILE DI VERDUN

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Regno di Francia

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CONTEA DEL PALATINATO Digione BORGOGNA

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Ginevra

degli Esteri olandese (o meglio neerlandese) da tempo sta tentando di imporre anche fuori dall’Olanda (scusate: Paesi Bassi). Ma con scarso successo, perché mentre la parola «Olanda» è un marchio mondiale, non lo è «Paesi Bassi».. In alto, sulle due pagine mappa della contea di Fiandra disegnata dal cartografo Matthias Quad. 1609. A destra, in alto il territorio dei Paesi Bassi e dei principali Stati confinanti nella seconda metà del XV sec.

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dam, allora un villaggio di 3000 abitanti. All’interno delle città fiamminghe sorgevano grandiosi municipi e grandi lakenhallen (mercati dei tessuti), nei centri la borghesia benestante faceva costruire prestigiose steenhuizen (case di pietra), mentre nelle periferie si formavano bidonvilles abitate da un proletariato di poveri tessitori.

Un centro nevralgico

Con una maggiore popolazione da nutrire, i pascoli furono trasformati in campi di grano e la lana fu im-

Basilea

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portata su vasta scala dalla vicina Inghilterra. Cresciuta all’incrocio di rotte commerciali tra Francia, Germania, Inghilterra e la Scandinavia, Bruges divenne un centro commerciale e finanziario di prim’ordine, dove dalla fine del Duecento molte transazioni si concludevano nell’osteria della famiglia Van der Beurze (della Borsa, n.d.r.), da cui deriva l’odierno nome di «Borsa dei Valori». Il Duecento è considerato il Secolo d’Oro delle Fiandre, mentre un lento declino iniziò nel secolo

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Dossier successivo. Le Fiandre furono duramente colpite dalla Peste che dal 1349 decimò almeno un terzo della popolazione. I rapporti politici erano segnati da una contrapposizione tra la nobiltà francofona e una borghesia cittadina di lingua diets (proto-neerlandese), sempre piú consapevole del proprio ruolo e che, a sua volta, si trovava di fronte a un popolo di artigiani e tessitori affamati e pronti alla rivolta. Anche lo spettro della guerra

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Scene della vita della Vergine sugli sportelli della pala commissionata a Melchior Broederlam da Filippo l’Ardito e in origine destinata alla certosa di Champmol, presso Digione. 1394-1399. Digione, Musée des Beaux-Arts. Nel pannello di sinistra, l’Annunciazione e la Visitazione; in quello di destra, la Presentazione al Tempio e la Fuga in Egitto.

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Dossier era sempre incombente: durante il conflitto franco-fiammingo del 1297-1305 – scatenato da Filippo IV di Francia, che mirava a riprendersi la ricca contea che formalmente era ancora un suo feudo – i Fiamminghi dovettero subire una dura occupazione francese. Dall’inizio della Guerra dei Cent’Anni, nel 1337, la contea si divise tra chi sosteneva la Francia per motivi politici, e chi l’Inghilterra per motivi economici. Di conseguenza, negli anni seguenti il plat pays (letteralmente, la «terra piatta») cantato da Jacques Brel fu ripetutamente invaso e violato da eserciti di ambedue le parti. Inoltre, si stava insabbiando irrimediabilmente lo Zwin, il braccio di mare che collegava il porto di Bruges con il Mare del Nord. Tenendo conto di tutti questi elementi disastrosi, può sembrare un miracolo

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che le tasse raccolte nelle Fiandre potessero ancora finanziare le stravaganze dei duchi borgognoni. Eppure, fu cosí.

Otto giorni di feste

Nell’olandese moderno l’aggettivo Bourgondisch (borgognone) è sinonimo di «esuberante» e «gaudente», a dimostrazione di quanto i ricordi della pompa magna della corte borgognona siano entrati nell’immaginario collettivo. Infatti, i duchi coglievano qualsiasi occasione per mostrare la loro opulenza: in occasione del matrimonio dei suoi figli Giovanni e Margherita, per esempio, nel 1385 a Cambrai, Filippo l’Ardito diede una festa per 20 000 invitati, che durò otto giorni. A una delle tante cene furono serviti galli forcelli in abiti dorati, oche decorate con gemme, un pavone che sputava fuoco, carne di

maiale in forma di pesce, pance di maiali ripiene di salsicce che una volta tagliate si aprivano come cornucopie. Musicisti, menestrelli e attori accompagnarono la presentazione di ingegnose creazioni di pietanze in forma di battaglie, amori e gesti eroici. Un ospite descrisse un tableau vivant tutto costruito di cibarie: un castello dentro il quale si trovavano due damigelle, circondato da attaccanti mori, sorvolato da un cervo volante con ali d’argento. L’orgia mangereccia era costata al duca la bella somma di 150mila libbre, la metà della sua entrata annuale di 300mila – che negli anni successivi sarebbe cresciuta fino a 500mila, di cui da un terzo alla metà proveniente dalle Fiandre. Cifre stratosferiche, se si pensa che all’epoca un maestro muratore guadagnava circa una libbra al giorno.

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Sulle due pagine la tomba di Filippo l’Ardito, duca di Borgogna (13421404), opera di Jean de Marville, Claus Sluter e Claus de Werve, commissionata per la Certosa di Champmol, presso Digione. 1385-1410. Digione, Musée des Beaux-Arts. Nell’immagine in basso, un particolare della decorazione del basamento del sepolcro di Filippo l’Ardito raffigurante il corteo funebre che accompagnò le spoglie del duca dalle Fiandre all’abbazia di Champmol.


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Miniatura raffigurante l’assassinio del duca Luigi I d’Orléans, da un’edizione delle Chroniques di Enguerrand de Monstrelet illustrata dal Maestro delle Cronache d’Inghilterra. 1470-1480. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Per Filippo, però, non rappresentava uno spreco. Al contrario, i duchi borgognoni, aspirando a una posizione come terzo incomodo tra la Francia indebolita dalla guerra e la Germania smembrata in un numero pressoché infinito di signorie e staterelli, proprio con lo sfarzo cercavano di conquistarsi un posto tra la fine fleur delle teste coronate europeo. Come scrive Van Loo: «L’ostentazione era diventata affare di Stato».

Duca e mecenate

L’attivismo di Filippo, tuttavia, non si limitava a cene pantagrueliche, abiti fantastici e tornei affascinanti. Il duca ambiva a creare un centro culturale e artistico di livello europeo e, grazie al mecenatismo borgognone, la corte di Digione divenne una start up per pittori e scultori, di cui molti provenienti dalle Fiandre e dagli altri «paesi bassi». Il pittore Melchior Broederlam (1350 circapost 1409) di Ypres, tra i primi «primitivi fiamminghi», dal 1381 lavorava come valet de chambre del duca. Jan Maelwael (1370-1415), che divenne pittore di corte a Digione, era originario di Nimega, nella contea di Gheldria, nel Nord dei Paesi Bassi. Maelwael (letteralmente, «colui che dipinge bene», in francese noto come Jean Malouel) portò con sé i tre figli della sorella, i fratelli Van Limburg, miniaturisti e autori de Les très riches heures du Duc deBerry, il celeberrimo Libro delle Ore del fratello di Filippo l’Ardito, il principe francese Jean de Berry. Nel 1389, Filippo assunse come scultore di corte Claus Sluter di Haarlem, che con il suo realismo nordico cambiò i precedenti modelli gotici. Sluter

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Studi, commerci, politica e... birra A pochi chilometri da Bruxelles, un piccolo gioiello architettonico sfoggia un sontuoso profilo medievale: nell’età di Mezzo e nel Rinascimento, Lovanio rivestí un ruolo di prestigio non solo sul piano politico e mercantile, ma soprattutto in ambito culturale. Epicentro della pittura fiamminga, fu città d’adozione per Rogier van der Weyden (1399-1464) e Dieric Bouts (1410 circa-1475) – del quale oggi si celebra il talento in una mostra nel locale Museo M. Capitale dell’Umanesimo, vanta la piú antica università del Belgio, nella quale nel 1517 venne fondato il Collegium Trilingue per lo studio del latino, del greco e dell’ebraico, prima istituzione del genere in Europa. Nelle sue aule transitarono, a vario titolo, Erasmo da Rotterdam, Adriano di Utrecht, futuro papa Adriano VI, e l’anatomista Andrea Vesalio, mentre in campo teologico divenne uno dei luoghi di elaborazione del giansenismo, dottrina giudicata eretica dalla Chiesa cattolica. Lovanio, inoltre, ospitò nel XIII secolo uno dei primi beghinaggi (sedi di comunità monastiche che rifiutavano di prendere i voti, anch’esse finite nel mirino dell’Inquisizione), tuttora preservato intatto. In origine – le prime informazioni risalgono al IX secolo – la zona della futura città era sotto il controllo normanno. La sua fama crebbe nell’891, in seguito a una battaglia di rilevanza strategica che si disputò sul suo territorio: l’affermazione dei Franchi, guidati dal sovrano Arnolfo di Carinzia, segnò la fine della dominazione dei Normanni nella vasta regione storica dei Paesi Bassi. Con i nuovi assetti politici, Lovanio cominciò la sua ascesa economica, sfruttando la felice posizione lungo il fiume Dyle, che la connetteva al corso d’acqua chiave per i commerci, la Schelda. In breve tempo divenne un polo produttivo, grazie alla lavorazione di un pregiatissimo lino, eccellenza che consentirà alla città di tener testa alla spietata concorrenza inglese sull’intero comparto tessile. In età moderna emerse un’altra eccellenza, l’industria della birra, destinata a conquistare il mercato internazionale. Il Quattrocento fu l’era della rivoluzione urbanistica, testimoniata da architetture-simbolo che svettano sul centro storico: l’imponente municipio, capolavoro dello stile gotico-brabantino, e la collegiata di S. Pietro, principale luogo di culto. Entrambi i monumenti campeggiano nella Grote Markt (la piazza del «mercato grande») e convivono con edifici neogotici di costruzione piú recente, la cosiddetta «Tavola Rotonda» e le case delle Corporazioni. era il responsabile delle decorazioni della monumentale certosa di Champmol, costruita per volere del duca, che ne fece anche il mausoleo per la sua famiglia. A Champmol lavorava con decine di artigiani provenienti dalle Fiandre, Brabante, Hainault, Namur, Olanda e Gheldria, creando un precedente culturale di quell’unità politica dei Paesi Bassi che si sarebbe formata nei decenni successivi.

Per creare un regno e una dinastia si ha bisogno di almeno tre cose: denaro, pazienza e fortuna. A Filippo e i suoi successori non mancava nessuna delle tre. Nel 1385, il duca borgognone si mise d’accordo con Alberigo di Baviera, conte di Olanda, Zelanda e Hainault, per un «doppio matrimonio» fra i suoi figli Margherita e Giovanni e quelli di Alberigo, Guglielmo e Margherita. Nacque cosí

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Ritratto di Filippo il Buono e Isabella di Portogallo, olio su tavola di autore ignoto. 1550 circa. Gand, Museum voor Schone Kunsten.

un intreccio dinastico che successivamente si sarebbe rivelato un ottimo investimento: quasi mezzo secolo dopo, nel 1433, le tre contee si sarebbero aggiunte ai possedimenti del nipote Filippo il Buono. Una storia simile vale per i ducati di Brabante, all’epoca la seconda provincia piú ricca dei Paesi Bassi, e Limburgo. La duchessa Giovanna, rimasta senza figli, aveva nominato erede Margherita, la moglie di Filippo l’Ardito. Quando però Giovanna morí nel 1406, il re dei Romani Roberto del Palatinato si rifiutò di assegnare i due ducati, che formalmente erano ancora

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feudi dell’impero, al successore di Filippo l’Ardito, Giovanni senza Paura. Cosí, il futuro imperatore Roberto III cercò di evitare la nascita di un nuovo potere rivale a ovest, ma non poteva impedire che Brabante e Limburgo andassero al figlio minore di Filippo, Antonio, che morí senza figli nella Battaglia di Azincourt (1415).

Un sovrano squattrinato

Dopo altri due decessi propizi, nel 1430 anche i due ducati furono inglobati nel crescente Commonwealth borgognone. Piú semplice è la storia della contea meridionale di Namur, acquistata nel 1421 dal marchese Guglielmo III, sovrano spendaccione, squattrinato e senza eredi. Nel 1443, con una combinazione di pretese dinastiche,

pressione militare e denaro, venne aggiunto il ducato di Lussemburgo. Anche i principati ecclesiastici dei Paesi Bassi furono inglobati. Quello di Liegi era praticamente un protettorato borgognone, mentre Giovanni di Borgogna, figlio bastardo di Giovanni senza Paura, nel 1439 fu nominato principe vescovo di Cambrai, e a Utrecht dal 1456 governava il principe vescovo Davide di Borgogna, fratello dell’allora duca Carlo il Temerario. Quest’ultimo infine, nel 1473 ottenne una sovranità effimera sul Ducato di Gheldria. Guardando la mappa di oggi si vede che sotto i duchi borgognoni si era formato un proto-Stato dei Paesi Bassi, grosso modo composto dagli attuali Belgio e Olanda (che si sarebbero separati circa un secolo piú tardi). ottobre

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Con la crescita dello Stato borgognone, i duchi impararono il diets che divenne la seconda lingua ufficiale oltre al francese. Allo stesso tempo il baricentro del potere si era spostato verso nord, soprattutto nel Brabante che pian piano stava soppiantando le Fiandre come la prima regione dei Paesi Bassi. Bruxelles prese il posto di Digione, il porto di Anversa quello di Bruges e nel 1425 la prima Università dei Paesi Bassi fu fondata a Lovanio per volere dell’allora duca Giovanni, con la benedizione di papa Martino V. L’Università, dove si studiava diritto ecclesiale, diritto civico, arte e medicina, ben presto divenne un centro intellettuale di prim’ordine in grado di dare nuova vita a una città che aveva conosciuto tempi migliori.

Una città in ascesa

Lovanio era stata la prima capitale del Brabante, dall’inizio del XII secolo fino al 1267, quando fu superata da Bruxelles. Nel Duecento ospitava una discreta attività nel settore tessile laniero e nel 1300 il numero di abitanti era cresciuto fino a 20 000, un numero che, dopo la peste del secolo XIV, non avrebbe piú raggiunto prima dell’Ottocento. Comunque, grazie all’arrivo di professori e studenti da tutta Europa e a nuove attività economiche – come laboratori di cuoio e lino e fabbriche di birra – la città raggiunse un nuovo benessere, testimoniato dagli splendidi monumenti quattrocenteschi come il Municipio e la chiesa di S. Pietro. A Filippo l’Ardito, morto nel 1404, succedette suo figlio Giovanni senza Paura. La carriera di quest’ultimo fu segnata dalla violenza, a cominciare dalla sua partecipazione alla crociata del 1396, finita con la disastrosa battaglia di Nicopoli, dove venne fatto prigioniero passando piú di un anno in cattività turca. Giovanni mantenne un atteggiamento ambivalente

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verso le sue terre nei Paesi Bassi: alle città delle Fiandre assicurò che, malgrado la sua appartenenza al casato di Francia, non avrebbe mai permesso un boicottaggio della merce inglese; allo stesso tempo, però, corse in aiuto del principe vescovo di Liegi, Giovanni di Baviera, per sopprimere in modo brutale una rivolta popolare. Comunque, non aveva molto tempo da dedicare ai Paesi Bassi, essendo soprattutto coinvolto in lotte di potere in Francia. Suo avversario principale era il cugino Filippo d’Orléans, fratello del re di Francia, che cercava di appropriarsi di beni e possedimenti borgognoni. Nel 1407 Giovanni lo fece assassinare da un gruppo di sicari, causando una guerra civile nel corso della quale egli stesso fu, a sua volta, ucciso nel 1419. Il lungo regno del terzo duca, Filippo il Buono (1396-1467), trascorse in maniera relativamente pacifica, soprattutto se paragonato a quelli del padre e del figlio.

Pannello centrale del Trittico dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista (o dello Sposalizio mistico di Santa Caterina, olio su tavola di Hans Memling. 1479. Bruges, Museum Sint-Janshospitaal.

Filippo cercava di tenersi il piú possibile fuori dalla guerra franco-inglese, a parte qualche spiacevole incidente, come quando vendette Giovanna d’Arco, catturata da soldati borgognoni, agli Inglesi. E anche lui non esitò a reprimere con la forza ribellioni nelle città di Liegi e Bruges. Con Filippo il Buono il potere borgognone raggiunse il suo massimo splendore, con gli eccessi nel lusso che superavano addirittura quelli del nonno. Le cronache ci raccontano di serate movimentate da elefanti-robot, nani seduti su maiali, una torta ripiena di 28 musicisti e un intero veliero portoghese completo di equipaggio. Mentre al suo territorio dei Paesi Bassi si aggiungeva una provincia dopo l’altra, frutto degli investi-

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Dossier menti fatti dai suoi predecessori, Filippo intraprese anche un lavoro di trasformazione di quel caotico patchwork regionale in uno Stato unitario. A questo fine introdusse una moneta unica, valida nelle quattro province principali: Fiandre, Brabante, Olanda e Hainault. Seguendo l’esempio francese, creò una rappresentanza di tutti i suoi Paesi Bassi sotto il nome Stati Generali – che ancora è la denominazione ufficiale del parlamento olandese – che si riuní per la prima volta a Bruges nel 1464. Aggiunse una Corte dei Conti centrale olandese a L’Aja nel 1443, dopo quelle create dai suoi predecessori nelle Fiandre (1386) e nel Brabante (1404). Lontano dalla sua terra d’origine, con la corte ducale ormai spostata definitivamente a Malines, Bruges e soprattutto Bruxelles, Filippo il Buono stava creando, con l’aiuto di funzionari professionali, un nuovo Stato. Nel frattempo, però, non dimenticava la vocazione culturale del suo casato. Il piú grande dei «primitivi fiamminghi», Jan van Eyck, lavorava per il duca come pittore personale, diplomatico e valet de chambre(come Broederlam due generazioni prima aveva fatto per suo nonno). Rogier van der Weyden, autore di magnifici ritratti di Filippo e di suo figlio Carlo il Temerario, diventò stadsschilder, pittore ufficiale, della città di Bruxelles. Dopo di loro, altri pittori furono attratti dal vibrante clima culturale (e dalla presenza di committenti danarosi) nelle Fiandre e nel Brabante, come Hugo van der Goes nella sua città nativa di Gand, Hans Memling – originario dell’Assia – a Bruges, e Dirk (o Dieric) Bouts di Haarlem a Lovanio. Scrive Van Loo: «La ricchezza delle

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Fiandre e del Brabante, ma anche il prestigio e il mecenatismo dei borgognoni restavano terra fertile per far germogliare nuovi talenti artistici».

Il centralismo di Carlo

Nel suo affascinante libro La marcia della follia: dalla guerra di Troia al Vietnam, la scrittrice americana e vincitrice del premio Pulitzer Barbara Tuchman prende in esame leader politici di diversi periodi della storia che insistettero in comportamenti palesemente contrari agli interessi propri e dei loro popoli. Alla sua lista avrebbe facilmente potuto aggiungere l’ultimo dei duchi borgognoni, Carlo il Teme-

Ritratto di Carlo il Temerario, olio su tavola di autore ignoto, da un originale di Rogier van der Weyden. Inizi del XVI sec. Innsbruck, Schloss Ambras.

A destra, sulle due pagine miniatura raffigurante Filippo l’Ardito che cinge gli speroni ai piedi del re di Francia Carlo V; sull’altare si vedono un trittico della Crocifissione, la corona, l’ampolla – verso la quale tende la mano l’arcivescovo di Reims, e la spada nel suo fodero, dal Coronation Book of Charles V of France. 1365. Londra, British Library.

rario, il quale proseguí la politica centralistica dei suoi predecessori. Nel 1468 soppresse l’ennesima rivolta di Liegi; nel 1471 intervenne in una lite dinastica nel ducato di Gheldria, per poi impossessarsene; nel 1473 installò a Malines un’unica Corte dei Conti e una Corte Superiore per tutti i Paesi Bassi. Ma a Carlo non bastava: voleva diventare re di un nuovo Regno di Mezzo, dal Mare del Nord al Mediterraneo, una sorta di rivisitazione di quello di Lotario, scaturito dal trattato di Verdun dell’843. Il ottobre

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primo obiettivo fallí quando l’imperatore Federico III d’Asburgo, benché gli avesse già promesso la corona reale della Lorena, non mantenne la parola, probabilmente spinto dai grandi elettori tedeschi che non vedevano di buon occhio la presenza di un nuovo sovrano al loro tavolo.

Imprese disperate

Per realizzare il suo progetto geopolitico, Carlo si mise al lavoro per riunire i suoi possedimenti, comprando l’Alta Alsazia, occupando la Lorena e combattendo gli Svizzeri, che lo consideravano una

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minaccia per la loro indipendenza. Il risultato fu una serie di campagne militari e battaglie sempre piú disperate in cui Carlo si macchiò di atti di estrema violenza e inutili crudeltà. Finí male: il 5 gennaio 1477 il Temerario cadde nei pressi di Nancy, battuto da una coalizione di Svizzeri e Lorenesi. L’epilogo è presto detto: il re francese Luigi XI, che non vedeva l’ora, si riprese subito il Ducato di Borgogna che da allora è rimasto francese. Il duca di Lorena rientrò nei suoi possedimenti. La figlia di Carlo, Maria di Borgogna, ereditò i Paesi Bassi, che grazie al suo matri-

Da leggere Bart Van Loo, Il regno scomparso. Quando la Borgogna sfidò l’Europa, Mondadori, Milano 2021

monio con Massimiliano d’Asburgo, figlio e successore di Federico III, nel 1506 passarono a loro nipote, il futuro imperatore asburgico Carlo V. Con la morte di Maria, nel 1482, il casato di Borgogna (a parte qualche ramo minore) cessò di esistere. Lasciando, però, una ricca eredita culturale e politica. Aart Heering

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GRANDI, RICCHE, OPEROSE di Élodie Lecuppre-Desjardin

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ercanti italiani, anseatici, inglesi o portoghesi, per non citare che qualche nazionalità, pellegrini del Nord che scendono verso Santiago di Compostella o che seguono una delle strade che conducono a Gerusalemme, diplomatici con gli stendardi di pace o soldati in armi pronti alla guerra, la lista dei viaggiatori che attraversano la Fiandra, per una ragione o l’altra, è lunga. Sempre sorpresi, spesso meravi-

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Il castello dei Conti di Fiandra a Gand, detto Gravensteen in neerlandese e costruito nel XII sec. sui resti di una fortificazione altomedievale.

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gliati dai paesaggi che scoprono, questi «girovaghi» del Medioevo talvolta si sono preoccupati di registrare le loro impressioni in taccuini di viaggio che, a fronte dei luoghi comuni propri alla letteratura di genere, fanno apparire in tutta la loro originalità e peculiarità le caratteristiche di queste città del Nord, definite per lo piú come «città della Fiandra». Prima di avventurarci al seguito di queste peregrinazioni settentrionali, si impone immediatamente una piccola precisazione di ordine etimologico, geografico, ma anche storico. In effetti, Flandria, Fiandri, Flanders sono i nomi comunemente utilizzati dai viaggiatori, qualunque sia la loro nazionalità,

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per qualificare questa parte d’Europa compresa da ovest a est fra il litorale del Mare del Nord e le rive del Reno e che si estende da nord a sud dai polders olandesi alle colline dell’Artois. Certo, la regione è occupata dal punto di vista amministrativo dalla contea delle Fiandre, ma le contee di Artois, di Hainaut, di Olanda e di Zelanda, i ducati di Brabante, di Lussemburgo o di Gueldre occupano questo spazio altrettanto legittimamente. La difficoltà ad attribuire un nome preciso a questo territorio, chiamato di volta in volta Paesi Bassi, Gallia Belgica, Borgogna, ecc., pone la delicata questione dell’identità nazionale, ma soprattutto mostra come la Fiandra appa-

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Dossier ingegneria idraulica

L’acqua, bene indispensabile Gli sforzi degli abitanti di Bruges per dominare il proprio spazio marittimo e mantenere libero l’accesso al mare grazie al canale dello Zwin sono ben noti agli stranieri dell’epoca, di volta in volta stupefatti alla vista delle chiuse, dei ponti, delle dighe… Meno noto, sebbene del tutto degno anch’esso di ammirazione, è il sistema di approvvigionamento di acqua potabile che dal XIII secolo permetteva alla città di non restare a secco. Posta in una pianura marittima, Bruges era infatti obbligata a utilizzare le acque di superficie meno salate e provenienti dall’entroterra, prima che fossero inquinate dalle industrie tessili. Perciò, si catturava l’acqua al momento in cui entrava in città in cinque punti diversi, dando cosí vita a cinque reti idriche indipendenti di almeno 1,5 km ciascuna. La parte bassa della città era alimentata per mezzo di condutture in piombo, dette moerbuizen, la cui manutenzione era affidata alle autorità cittadine. E piú di 35 case, soprattutto osterie, beneficiavano di un raccordo privato alla rete nel 1404. La parte alta di Bruges era oggetto di un servizio particolare, di grande ingegnosità e attestato dal 1280. Si trattava di una sorta di noria, alloggiata nella «casa dell’acqua» (waterhuis), di cui è possibile vedere una raffigurazione nelle Sette meraviglie di Bruges. Attraverso un ingegnoso sistema di vasi comunicanti, l’acqua risaliva grazie a condutture che alimentavano fontane pubbliche e pozzi privati.

A sinistra particolare delle Sette meraviglie di Bruges, olio su tavola attribuito a Pieter Claeissens il Vecchio. 1550-1560. Bruges, Collezione privata. Vi si può riconoscere la «casa dell’acqua» (waterhuis), una struttura in cui era collocato un elevatore che, attraverso un ingegnoso sistema di vasi comunicanti, riusciva ad alimentare fontane pubbliche e pozzi privati.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

ia quale pars pro toto, per qualificare questa parte incredibilmente ricca e dinamica dell’Europa occidentale medievale, costellata da un gran numero di città ognuna piú straordinaria dell’altra. Vincenzo Quirini, ambasciatore veneziano presso il principato di Borgogna nel 1506, scrive a proposito delle terre del Nord che sta scoprendo: «Sono alcune di queste province situate al piano, alcune al monte, alcune al mare, tutte popolose, ricche e piene di gran copia di città, di castelli e ville, tra le quali tutte si trovano in somma cento quarantatre terre murate, tra piccole che si possono computare per grossi castelli, e tra grandi che altro non gli manca che il vescovo per potersi chiamare città. Di queste le mediocri sono da tre sino a cinquemila fuochi, le grandi da sei fino venticinquemila (...). Sono le strade, le piazze, e le case piene di popolo, e ricche per essere tutti li cittadini mercanti, e il popolo artigiaottobre

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ni, de’ quali la maggior parte si dà a tesser panni e tapezzerie, e il resto delle cose necessarie a una città». La descrizione di questo diplomatico italiano si aggiunge a quella elaborata dal nobile cordovano Pedro Tafur, che visita le Fiandre nel 1438, ma anche a quella che narra il periplo del ceco Lev di Rozmital, in delegazione presso Filippo il Buono a Bruxelles nel 1465, oppure ancora a quella del pittore Albrecht Dürer, che non manca di segnalare lo splendore delle città di Bruxelles, di Anversa o di Gand. Insomma, i commenti si susseguono e si assomigliano, utilizzando le medesime parole, riportando le stesse notazioni che, brevi o lunghe, fanno a gara nel ripetere che le città della Fiandra sono grandi, belle e ricche. Una serie di cifre in successione potrebbe facilmente confermare questa idea di un mondo intensa-

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mente umanizzato e di un paesaggio in cui il punto di riferimento resta la città, che sia piccola, media o soprattutto grande.

Una soglia limite

Consideriamo soltanto alcuni valori di scala che hanno contribuito ad avvicinare tradizionalmente le città della Fiandra alle loro uniche rivali europee in termini di demografia e di urbanizzazione: le città dell’Italia settentrionale. Nel XV secolo, si stima che il 35% dei 2,5 milioni di abitanti dei Paesi Bassi vivano in centri urbani, valore che costituisce una soglia limite, poiché gli equilibri di sussistenza non potevano ammettere un numero maggiore di abitanti non rurali. Certo, la contea di Fiandra è piú urbanizzata del ducato di Lussemburgo, ma in generale l’immagine della città predomina nelle memorie dei viaggiatori di passaggio in

Miniatura raffigurante una città al cui interno un re detta un proclama, mentre, fuori dalle mura, alcuni operai provvedono a selciare le strade, da un’edizione delle Chroniques de Hainaut, adattamento in francese a cura di Jean Waquelin degli Annales historiae principum Hannoniae di Jacques de Guise. 1447-1448 circa. Bruxelles, KBR.

questa regione. È senza dubbio la rete urbana all’origine di tale impressione. È difficile in effetti per un forestiero, che percorra una delle numerose strade che innervano il territorio o che navighi su uno dei corsi d’acqua che lo irrigano, sottrarsi alla vista di una muraglia, di una torre campanaria (beffroi) o delle guglie dei numerosi campanili, la cui verticalità contrasta in maniera ben evidente con l’orizzontalità quasi monotona della piatta contrada fiamminga. (segue a p. 83)

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Dossier I beffrois

Simboli di libertà Le città del Nord della Francia o del Belgio vengono tuttora associate nell’immaginario collettivo ai beffrois, le alte torri che dominano la pianura, gareggiando con i campanili delle chiese e simbolizzando le libertà comunali. Ora, tale simbologia dell’autonomia urbana, difesa nel XIX secolo, nel momento stesso in cui il Belgio otteneva l’indipendenza, nel 1830, è stata eccessivamente caricata di valore dagli storici dell’epoca. Il beffroi urbano appare tardi nella Fiandra e l’idea di elevare un monumento alla gloria delle città sembra essere nata nel regno di Francia dove, per esempio, nel 1331, il re aveva punito Laon obbligandola a chiamare la torre della città non piú beffroi, ma «prigione del prevosto». Monumenti a pieno titolo o semplici campanili di chiese, i beffrois fiamminghi fanno soprattutto sentire la libertà della città grazie alle loro campane. Le campane urbane facevano risuonare la voce di un’autorità che si imponeva a quella del principe. Ricordiamo che, in occasione delle rivolte, sono le campane delle città a essere oggetto di ogni bramosia. Nel 1328, i soldati del conte di Fiandra abbattono le campane di Ypres per sedare la ribellione della città; nel 1383, Filippo l’Ardito si impadronisce dell’automa dell’orologio di Courtrai per inviarlo a Digione, dove è tuttora visibile, e infine, nel 1540, Carlo V soffoca la rivolta di Gand e fa rimuovere la campana della città detta Roeland. Certo, la fine del Medioevo inaugura una vera competizione tra i centri urbani, che gareggiano in sontuosità e in altezza nella costruzione dei loro municipi, ma il paesaggio sonoro che le campane propongono non deve essere trascurato, poiché esprime quotidianamente e alle orecchie di tutti l’ordine urbano.

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La chiesa di S. Nicola a Gand, la piú antica della città fiamminga. Nella pagina accanto, in alto l’automa dell’orologio che Filippo l’Ardito sottrasse a Courtroi per inviarlo a Digione, dove tuttora si può ammirarlo, sulla cattedrale di S. Benigno. Nella pagina accanto, in basso una veduta di Bruges. Sullo sfondo, svetta l’inconfondibile sagoma del locale beffroi (o belfort), la torre civica medievale, alta 83 m e risalente al XIII sec.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto uno scorcio della Place Royale di Bruxelles. In primo piano, il monumento in onore di Goffredo di Buglione e, sullo sfondo, la chiesa di Saint Jacques-sur-Coudenberg. Sulle due pagine il palazzo municipale di Douai, con la torre, simile nell’aspetto ai beffrois delle Fiandre. XIV sec.

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Un contadino dell’epoca distava non piú di 20 km dalla città piú vicina ed è facile immaginare che lo stile di vita urbano avesse largamente contagiato le campagne circostanti. In piú, se le grandi città come Gand (64 000 abitanti dopo la grande peste del 1348), Bruges (piú di 45 000) o Anversa (piú di 20 000), non tollerano l’esistenza di centri urbani minori in prossimità delle loro porte, altre regioni stabiliscono un inquadramento serrato del proprio territorio grazie a un incastro di città piccole e medie come Ypres, Poperingue, Menin. Tale rete urbana non sfugge allo sguardo degli stranieri di passaggio che, a guisa di Vincenzo Quirini, snocciolano cifre lungo tutti i loro scritti, per dare conto di questa struttura dello spazio e della gerarchia reciproca delle città attraversate. Cosí, Bruxelles, piú grande di Bois-le-Duc, è anche piú piccola di Anversa e via di seguito. Nel diario del medico di Norimberga, Thomas Muntzer, redatto alla fine del XV secolo, il confronto si stabilisce su scala europea: Bruges ha una circonferenza piú o meno identica a quella di Milano, la superfi-

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alto artigianato

Abiti di lusso, ma non solo... La città fiamminga ferve di attività di ogni genere, anche se alcuni centri cominciano a specializzarsi nella fabbricazione di tale o talaltro prodotto. Come in molti centri medievali, l’attività tessile occupa la maggior parte degli artigiani. Quel che però distingue le città della Fiandra è il gran numero di produzioni rinomate sul piano internazionale e di cui possiamo ancora ammirare l’elevata qualità tecnica negli abiti dei personaggi ritratti dai primitivi fiamminghi: vesti dalle pieghe impeccabili, soprabiti di panno pesante e foderati di pelliccia, guarnacche ricamate… La lana, importata dall’Inghilterra, e in seguito dalla Penisola Iberica, permette di raggiungere un elevato livello di produzione, la cui quantità non intacca la qualità, giacché una solida regolamentazione dei mestieri garantisce il marchio della città. Cosí, mentre il fabbisogno di prodotto tessile dell’epoca si aggira tra le 2 e le 3 aune (l’auna era una misura di lunghezza in uso in Francia e Belgio, n.d.r.) a persona, la città di Ypres produce all’inizio del XIV secolo intorno alle 80 aune a persona! Aspra era la competizione tra queste città e ciascuna aveva la sua specialità: tappezzerie di Arras, panni di Ypres, paioli di Dinant, oreficeria di Bruxelles, tela di Olanda, berretti e rosari di Bruges. cie di Gand equivale a quella di Parigi e Lille è ben piú grande di Ulm. Ripetizione di un sapere libresco o risultato di una reale esperienza diretta sul terreno? Difficile giudicare con certezza. È che sempre le riflessioni di questi viaggiatori non si limitano a tali dati quantificabili: le descrizioni delle città della Fiandra

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Dossier bruges

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A sinistra mappa seicentesca di Bruges, articolata in tre registri. Dall’alto, una veduta della città, la pianta del centro abitato e quella del canale che correva da Bruges a Ostenda.

Una città fiorente e cosmopolita Prima di essere soppiantata da Anversa, Bruges era il cuore pulsante dell’intera regione. Entro le sue mura sono concentrati prodotti del mercato locale e di importazione: panni di Fiandra, cotone di Fenicia, seta di Costantinopoli, vini di Guascogna, prugne di Spagna, marmitte di Colonia, ecc. Nel 1252, in occasione dei privilegi sul teloneo concessi ai mercanti stranieri dalla contessa di Fiandra Margherita e da suo figlio Guy, un inventario enumerava già piú di 200 prodotti disponibili in città. Il declino delle fiere della Champagne, i progressi della navigazione che permise, per esempio, ai Genovesi dal 1277 e ai Veneziani dal 1314 di stabilire legami commerciali diretti con l’Europa del Nord, l’invenzione della lettera di cambio e l’alta densità della popolazione spiegano in parte il formidabile successo di Bruges, che viveva allora del cosmopolitismo. I mercanti, piú di 2000, e i cambiatori vi si insediavano per nazioni e vi facevano fortuna, come il celebre lucchese Giovanni Arnolfini, i cui compatrioti si erano costituiti in comunità dal 1369, importando non soltanto il loro savoir-faire di banchieri, ma anche il proprio culto religioso, poiché la devozione al Volto Santo assai praticata a Lucca è attestata nel XV secolo pure a Bruges. Anche se il fenomeno è piuttosto eccezionale, taluni di costoro arrivarono a chiedere il diritto di cittadinanza, mentre altri divennero figure chiave dell’amministrazione municipale o comitale, come il fiorentino Tommaso Portinari, che sfila a fianco del duca di Borgogna, Carlo il Temerario, in occasione delle nozze di quest’ultimo con Margherita di York nel 1468. L’accoglienza delle comunità straniere era facilitata da una legislazione severa, che sanzionava ogni violenza contro gli stranieri, ma anche da un processo di integrazione assai riuscito come testimonia il Libro dei mestieri, redatto nella seconda metà del XIV secolo, che consegna una lista di frasi fatte da usare nella conversazione corrente. Cosí, quando si è invitati a bere un bicchiere, bisogna portare il boccale alla bocca, quindi renderlo a chi ve lo ha offerto, esclamando «groten danc»: grazie mille! I mercanti potevano, allora, andare e venire dove volevano, a loro piacimento nell’insieme dei Paesi Bassi, per commerciare facilmente, liberamente.

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fanno anche appello a termini estetici che, se non sfuggono a giudizi di valore propri di un’epoca o di un ambiente, esprimono nondimeno pareri personali. La prima immagine della città è quella di un sito mirabilmente fortificato. Per Pedro Tafur, Gand è fra i centri piú grandi del mondo, perché uno dei piú solidamente difesi. Quanto ai compagni di Lev di Rozmital, che spesso danno prova di un ingenuo entusiasmo, arrivano fino a vantare la magnificen-

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za delle mura della città di Lierre, che tuttavia non dovevano essere particolarmente elevate. Certo, come ha sottolineato Jacques Le Goff, qualunque sia la posizione geografica, le mura costituiscono l’elemento piú notevole della realtà fisica e simbolica delle città nel Medioevo. Nella Fiandra, le guerre franco-fiamminghe dell’inizio del XIV secolo costringono i centri urbani a munirsi di una cerchia muraria, assai spesso rappresentata sui sigilli o nelle miniature sotto

Sulle due pagine veduta aerea di Bruges. In primo piano, la cattedrale di S. Salvatore, edificio medievale con un campanile gotico-romanico alto 79 m e, sullo sfondo, la chiesa di Nostra Signora, uno dei luoghi di culto piú antichi della città, che oggi si mostra nelle forme acquisite fra il XIII e il XIV sec.

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Dossier Miniatura raffigurante tintori che immergono stoffe rosse in un catino riscaldato, da un’edizione in lingua francese del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico realizzata a Bruges. 1482. Londra, British Library.

forma di mura insormontabili, costituite da blocchi di pietra di una regolarità e bellezza incomparabili. Tuttavia, studi piú recenti hanno mostrato che le cinte murarie delle città fiamminghe erano assai spesso circondate di terrapieni che, pur non offrendo uno spettacolo di grande eleganza, permettevano di neutralizzare la balistica nemica ammortizzando l’impatto dei proiettili. Di certo, queste strutture difensive sono oggetto di grandi cure, sia da parte delle autorità urbane, la cui attività edilizia si

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concentra essenzialmente su queste barriere di pietra, di terra e di legno, sia da parte dei principi di queste regioni, spinti dalla loro attività bellica a rinforzare le proprie retrovie. Giovanni Senza Paura, in occasione del suo ingresso solenne a Douai nel 1405, non manca di ispezionare i cantieri municipali e di invitare la giunta degli scabini a consolidare il fianco nord della città ridotto in pessimo stato. Una volta varcata la porta, i viaggiatori della fine del Medioevo sono soliti arrampicarsi in cima

a una delle torri piú alte, per contemplare lo spettacolo del mondo urbano. Grazie a questa visione panoramica, la città si racconta e stimola la curiosità degli sguardi stranieri. Dagli innumerevoli tetti serrati gli uni contro gli altri, che le ordinanze municipali del XV secolo hanno invitato a coprire di tegole o di ardesia, per evitare il dilagare degli incendi tra case vicine a causa dell’impiego della stoppia e della paglia, emergono i segni identificativi del potere e delle caratteristiche regionali. Il rosso domina, con ottobre

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Hildebrand Veckinchusen

Un epistolario racconta il boom economico Proveniente da una famiglia di mercanti originaria di Lubecca, che trafficava con Gand, Bruges, Colonia, Riga, Venezia o Novgorod, Hildebrand Veckinchusen si stabilisce con la sua seconda sposa a Bruges nel 1402, anno in cui acquista una grande casa per farvi prosperare la sua famiglia e i suoi affari. Con sette figli e una rete commerciale che si estende dal Mediterraneo fino al Mar Baltico, possiamo dire che i progetti di Hildebrand furono coronati da successo, fintanto che la sua temerarietà e la sua insaziabile ambizione non lo spinsero ad accumulare debiti e a finire in prigione. Nel 1426, Hildebrand lascia Bruges dopo aver venduto la sua bella casa, i gioielli della moglie e dopo aver passato tre anni nelle carceri dello Steen per debiti non saldati. Non gli resta che raggiungere la sua terra natale, dove muore qualche mese piú tardi. La corrispondenza che ci ha lasciato, costituita da oltre 600 missive, da numerose lettere di cambio e da 13 libri di conti, è una miniera di informazioni che permette in particolare di distinguere l’insieme di tutti gli attori di questa formidabile ascesa economica. Sospettoso nei confronti dei suoi soci diretti, il mercante stabilisce legami di fedeltà con i portalettere, i giovani corrieri, che forma, e il popolo minuto di Bruges, che assicura l’instradamento delle sue mercanzie, come i carrettieri, i capitani delle navi o perfino il proprietario della gru municipale di Bruges, il Cranmaster Marcquart Garstede. Perché, se i mercanti investono nel commercio internazionale, non bisogna dimenticare che danno anche da vivere a una folla di dipendenti, che vanno dall’oste, di cui bisogna essere sicuri – Hildebrand

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lo apprese a proprie spese –, fino agli scaricatori specializzati, come i beurdenaars (portatori di pesce) o i kraankinders, che correvano nella ruota della gru per metterla in movimento, oppure ancora i sleemannen, che trasportavano su traini le botti di vino verso le cantine.

Miniatura raffigurante una gru al lavoro nella città di Bruges, allegoria del mese di ottobre in una edizione del Calendario Fiammingo illustrato da Simon Bening. Prima metà del XVI sec. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek.

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Dossier

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le nozze arnolfini cenami

Uniti nella ricchezza Jan Van Eyck non è solo l’autore del dipinto, è anche il testimone, che si può scorgere nello specchio convesso appeso alla parete, del matrimonio concluso tra Giovanni Arnolfini, celebre mercante lucchese stabilitosi a Bruges, e Giovanna Cenami, il cui padre Guglielmo, ugualmente originario di Lucca, viveva dal 1403 a Parigi. La scena si svolge a Bruges, nel 1434, in un interno facoltoso, in cui ciascun elemento del mobilio e della decorazione richiama la ricchezza delle famiglie unite da queste nozze. Nessun prete a concludere l’unione di questa fanciulla dallo sguardo umile con quest’uomo privo di ogni emozione. La faccenda è un contratto privato tra un uomo e una donna o, piú esattamente, fra due fortune ben decise a mettere i propri interessi in comune. In effetti, fino al concilio di Trento (1568), la validità di un’unione non aveva affatto bisogno di una benedizione ecclesiastica. E il matrimonio degli Arnolfini illustra innanzitutto il modello nuziale dell’oligarchia urbana, vero inno alla riuscita economica. La sottigliezza di Eyck, però, si serve degli oggetti di uso quotidiano, per significare, simbolicamente, la presenza della Chiesa, grazie alla candela unica che arde nel lampadario e che rappresenta il cero nuziale o brantkerze, grazie alle scene della Passione, distribuite in medaglioni attorno allo specchio, o, meglio ancora, grazie alla statuetta di Santa Margherita posta accanto al letto a garanzia di fertilità. La vicinanza della piccola scopa con il rosario simboleggia invece le occupazioni di ogni buon cristiano: ora et labora, prega e lavora. la terracotta certo, ma le grandi dimore di Gand, appartenenti alle piú importanti famiglie borghesi comparse dal XII secolo e dette steenen, ricordano che nella regione non mancano le cave di pietra e che il rango sociale si contende anche sulle facciate. Alle guglie delle chiese e delle cappelle, che hanno segnato l’emergere delle parrocchie e delle abbazie, ai piccoli campanili dei conventi dei frati mendicanti rispondono le cime dei beffrois e dei municipi, preoccupati di affiggere in pieno cielo l’autorità municipale accanto a quella della

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Nella pagina accanto Ritratto di Giovanni Arnolfini e di sua moglie, olio su tavola di Jan van Eyck. 1434. Londra, National Gallery.

Chiesa e del principe. L’itineranza di quest’ultimo porta a una moltiplicazione delle sedi palatine, la cui ampiezza varia in funzione delle dimensioni delle città.

Una corte itinerante

Nel XV secolo, i duchi di Borgogna ereditano o conquistano la quasi totalità dei Paesi Bassi e con questi un gran numero di palazzi e dimore appartenuti ai loro predecessori, i conti di Fiandra, i duchi del Brabante o i conti di Hainaut. Difficile paragonare lo splendido palazzo di Coudenberg a Bruxelles con la

Cour le Comte di Douai, piccolo castello riparato in fretta e furia in occasione di ogni passaggio principesco, e tuttavia la corte itinerante alloggia alternativamente in queste residenze dove gli stendardi, le vetrate e i tetti dipinti ricordano l’identità del signore dei luoghi. Bisogna però ammettere che è innanzitutto la qualità delle infrastrutture industriali e commerciali ad attirare l’attenzione dei viaggiatori. Cosí, a Bruges, gli edifici religiosi come St.-Sauveur, NotreDame, St.-Donatien, St.-Christophe, St.-Jacques, ecc., i mercati, il municipio, il cui restauro terminò nel 1420, e l’antico complesso signorile di Burg, primo centro della città edificato dai conti Baldovino I (862-879) e Arnolfo I (918-965), contribuiscono a dare un rilievo particolarmente notevole al patrimonio architettonico della città. Tuttavia, sono i ponti, le chiuse, i canali, il controllo del fenomeno della marea, i numerosi luoghi di mercato, le grandi case dei mercanti, autoctoni o stranieri, la consegna di un numero impressionante di mercanzie sbarcate nel pieno centro della città, che colpiscono un Pedro Tafur o un Lev de Rozmital. Anche dopo la rivolta della città contro Massimiliano negli anni Ottanta del Quattrocento e la partenza di un gran numero di mercanti per Anversa, il Giornale del cardinal Luigi di Aragona non manca di estasiarsi agli inizi del XVI secolo dei bei resti della città: «Et veramente si de strate, come de piazze et de ogni altre parti monstra essere molto magnifica. Vi sono molti canali de acqua larghi et navigabili con ponti di pietre bellissimi. Et benché per la guerra che tenne con lo Imperatore (...), che durò molti anni, sia molto ruinata, et ne perse la fera che fu transferita in Anversa, per il che quella terra ni è facta cosí grande et riccha, non però ce sono molti mercanti, et ce se fanno artificii et industrie assai, sí de panni come di cappelli et pelosi et rasi li piú belli se

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Dossier Città in rivolta

Regole e simboli delle sommosse popolari Dalla cockerulle di Ypres del 1280 – termine che significa correre in strada tra la confusione e le grida – fino alla sfilata dei mestieri in armi a Bruges innanzi alle finestre della prigione di Massimiliano nel 1488, le rivolte che sollevano le città contro la politica del principe non mancano. A lungo considerate come movimenti inconsulti e manifestazioni di una rabbia cieca, queste insurrezioni, animate dalle milizie dei mestieri, sono in realtà l’espressione di un linguaggio politico del tutto controllato. La forma ritualizzata di questi assembramenti armati, chiamati in Fiandra wapening, rivela l’esistenza di regole precise che obbligano, per esempio, ciascun mestiere a riunirsi al suono della campana, sulla piazza del mercato, sotto la sua insegna e con le armi, prima di punire i responsabili dei disordini urbani. L’appuntamento è a tal punto essenziale per la coesione sociale delle gilde urbane che, nel 1453, in piena guerra civile contro

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la politica di Filippo il Buono, il decano degli oliandoli, avendo rifiutato di unirsi alla parata militare organizzata sulla piazza del Vrijdagmarkt, si vide sottoposto a giudizio dai suoi pari e condannato a versare pesanti ammende. I principi di Borgogna avevano compreso l’importanza di questa simbologia militare, privando, per esempio, sistematicamente i mestieri delle loro insegne, come accadde nel 1453, dopo la battaglia di Gavre, che segnò la definitiva vittoria borgognona sulle milizie di Gand. Queste rivolte non erano condotte direttamente contro il principe e lasciavano perciò aperta la via dei negoziati. Nondimeno, gli ufficiali responsabili della cattiva gestione delle finanze, soprattutto quando provenivano dai ranghi dei mestieri locali, facevano le spese del malcontento generale. Vittime espiatorie della collera popolare, versavano un tributo di sangue necessario perché si tornasse al tavolo del negoziato.

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Gand. Il monumento in onore di Jacob van Artevelde. 1863. Nella pagina accanto miniatura raffigurante lo scontro combattuto nella piana di Beverhoutsveld, nei pressi di Bruges, dove, nel 1382, i Gandesi, sotto il comando di Philipp van Artevelde sconfissero Luigi di Mâle, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1468. Berlino, Staatsbibliothek.

jacques van artevelde

Ascesa e declino di un tribuno nato In pieno conflitto franco-inglese, la Fiandra è esangue. In effetti, il 12 agosto 1336, Edoardo III, re d’Inghilterra, decide di interrompere le esportazioni di lana, cosí preziose per tutta l’industria della contea. Luigi di Nevers, conte di Fiandra, sostiene la politica del re di Francia contro gli interessi dei suoi sudditi. Un uomo rifiuta questa situazione. Si chiama Jacques Van Artevelde, è originario di una famiglia agiata di Gand e si serve delle sue relazioni di agente di cambio per convincere gli ambienti degli affari della necessità di reagire. Tribuno nato, infiamma la folla, il 28 dicembre 1337, e dà vita a un fronte popolare composto di borghesi, di tessitori, di folloni e di mestieri minori per governare la città di Gand. Assai rapidamente, Bruges e Ypres si uniscono a Gand e Artevelde, da abile diplomatico, arriva a ottenere la neutralità politica per la Fiandra. La presa del potere dell’eroe di Gand fu un successo. Ma, assai velocemente, il ristabilirsi della situazione economica, stabilizzatasi, e la ripresa delle discordie, sia all’interno delle città sia fra di esse ebbero ragione di questo episodio, durante il quale la Fiandra aveva cominciato a sognare l’indipendenza. La contea non tollerò piú l’egemonia di Gand e le lotte delle fazioni all’interno dello stesso fronte popolare condussero all’assassinio del celebre tribuno, morto il 17 luglio 1345 sotto i colpi di quegli stessi che lo avevano innalzato agli altari. Dopo l’armistizio franco-inglese, il nuovo conte, Luigi di Mâle, non ebbe difficoltà alcuna a ristabilire la propria autorità.

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faccino in loco del mundo, de lana che pare vera seta». Certo, tale fama colloca Bruges anzitutto nella categoria delle città mercantili e Francesco Pegolotti, allorché parla dei centri del Nord nel suo trattato a uso dei mercanti (La pratica della mercatura, XIV secolo), preferisce attardarsi su Bruges, «pero ch’ella a quella terra ove piú stanno i residenti mercatanti a fare la mercatantia e cambi in Fiandra».

Luoghi di incontro

Ma, in linea generale, tutte queste città sono costruite in modo da facilitare gli scambi: persino i conventi dei frati mendicanti, come quello dei Domenicani a Bruges, dove la nazione portoghese poteva far seppellire i propri morti, ma anche e soprattutto tenere le sue riunioni, servivano da luoghi di incontro per i numerosi traffici che vi si svolgevano. Se il punto di vista è un po’ riduttivo, è chiaro che lo spazio urbano appare al primo sguardo come l’espressione dell’organizzazione economica di questo territorio. A differenza delle città italiane, l’assenza della nobiltà e di una corte sedentaria ha lasciato campo libero alle esigenze dei mercanti e degli artigiani. Le lotte sociali e politiche hanno anch’esse modellato lo spazio urbano, ma il dinamismo e l’incredibile ricchezza di queste città, di cui testimonia ognuno dei nostri visitatori, si basano sui commenti legati all’abbondanza di mercati, porti, banchi dei venditori, ateliers e locande. Sottolineiamo di passaggio che la famiglia Van der Buerse, le cui dimore ospitavano mercanti e cambiatori per i loro affari di cambio e di commercio a Bruges, ha lasciato il suo nome all’istituzione attiva ancora oggi della Borsa. Si ringrazia VisitFlanders-Ente del Turismo delle Fiandre per la collaborazione alla realizzazione di questo Dossier.

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CALEIDO SCOPIO

Su per l’antica torre

RESTAURI • Rovigo ha

festeggiato i 1100 anni dalla sua fondazione. E grazie a una delle iniziative promosse per celebrare la ricorrenza è tornata visitabile la Torre Donà, uno dei simboli della città veneta

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razie al restauro condotto in occasione dei 1100 anni dalla fondazione della città, a Rovigo si può di nuovo visitare la Torre Donà, testimonianza del castello fondato nel X secolo. Come racconta Marco Bressanin, architetto che ha seguito i lavori di carattere conservativo, «sono stati ripristinati i solai lignei, mentre le travi ammalorate per le infiltrazioni d’acqua sono state consolidate con resine ed elementi in acciaio che non si vedono. Abbiamo recuperato la porta lignea d’ingresso e sverniciato a mano le scale interne, poi riverniciate, che probabilmente per tipologia si devono al genio militare». La parte alta dell’edificio, un tempo aperta, è stata sormontata da una copertura in fibre di carbonio e il percorso di camminamento, che regala una vista straordinaria a 360 gradi sull’abitato, è stato arricchito da un parapetto non invasivo. Bressanin

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sottolinea il fatto che la struttura non sia stata cantierizzata durante gli interventi, che hanno previsto anche l’illuminazione a led e la cablatura a vista con tubi in rame.

Dall’alto la Torre Grimani (detta anche «Mozza») e l’ex monastero degli Olivetani, oggi sede del Museo dei Grandi Fiumi.

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Una veduta di piazza Vittorio Emanuele. In basso le torri Donà (a sinistra) e Grimani (o «Mozza»).

Il primo riferimento scritto relativo a Rovigo risale al 920, quando una bolla del pontefice Giovanni X concede di erigere una fortificazione a difesa del luogo di culto da attacchi barbarici al vescovo di Adria Paolo Cattaneo, signore di quest’area del Polesine, stretta fra l’Adige e il Po.

In posizione strategica È quindi da ricondurre all’inizio del X secolo il nucleo originario del castrum, probabilmente formato da una torre realizzata su un terrapieno artificiale e cinta da una semplice palizzata. Costruito per presidiare un punto strategico, vicino al corso dell’Adigetto, il complesso controlla anche il transito delle merci lungo il corso d’acqua. I lavori di ampliamento del castello proseguono a lungo e fervono, secondo gli storici, soprattutto nel XII secolo, per concludersi nel

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Trecento. Nel momento di massimo fulgore il maniero conta mura merlate e otto torri, come narra nel 1483 il cronista Marin Sanudo, che descrive la prigione ricavata nel basamento e la campana che dalla sommità del torrione principale richiamava gli abitanti o li avvisava

in caso di pericolo. Tutta la fortezza era circondata da un fossato, che si poteva superare attraverso due ponti levatoi. Il mastio, ancora oggi esistente e conosciuto come Torre Donà, è alto 60 m, ha una certa pendenza ed è considerato fra i maggiori esemplari altomedievali

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CALEIDO SCOPIO appena oltre l’attuale piazza Matteotti è ancora perfettamente leggibile il primo impianto viario, racchiuso dal pentagono che seguiva la cerchia fortificata.

Da pieve a duomo Anche il duomo, con facciata incompiuta in mattoni a vista, risale alla stessa età, perché della basilica concattedrale di S. Stefano Papa e Martire, nata come pieve, ci sono tracce dal 964; il luogo di preghiera, ampliato nel Millecento, subirà trasformazioni nel Rinascimento e nel XVIII secolo. Sono riconducibili al Medioevo anche la Torre Pighin, di pianta quadrata e affacciata sull’omonima via, e le porte cittadine: quella di san Bortolo collegava l’omonimo quartiere alla cinta muraria, dall’alto dei circa 25 m turriti, poi ridotti per le lesioni inflitte dall’artiglieria veneziana; la porta cinquecentesca di sant’Agostino è invece collocata nella stessa posizione della struttura precedente. Infine il monastero degli Olivetani, fondato dagli Umiliati nel 1255, nel tardo XV del nostro Paese; la sua merlatura ghibellina documenta il legame di Rovigo con il papato. Vicino la Torre Grimani, detta «Mozza», pende in senso opposto. Quando la funzione strettamente difensiva del castello comincia a scemare, le mura fungono da supporto per le abitazioni che vi vengono addossate. Dal 1191 la città passa sotto il dominio degli Este, che la governeranno per circa tre secoli, e il castrum è al centro di battaglie come la Guerra del Sale del 1482 contro Ferrara, con la quale Rovigo viene sottomessa da Venezia. Che, per lasciare una chiara impronta, costruisce una torre civica alternativa, nell’attuale piazza Vittorio Emanuele II, in cui spostare la campana cittadina. Nel corso del XVI secolo, quando il complesso non riveste piú uno

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Una veduta esterna e l’interno della Torre Donà.

scopo difensivo, i suoi corpi edilizi sono concessi alla nobile famiglia Donà, che avvia una serie di demolizioni. Ma ancora oggi gli elementi di origine altomedievale vengono comunque percepiti come simbolo di Rovigo. Le testimonianze dell’epoca di Mezzo non finiscono qui, perché

secolo passa appunto agli Olivetani, che lo ampliano e lo riedificano, affidando il chiostro probabilmente all’architetto rinascimentale Biagio Rossetti. Oggi il complesso accoglie il Museo dei Grandi Fiumi, che illustra la cultura rodigina e del Polesine. (info: https://rovigo920.it) Stefania Romani ottobre

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CALEIDO SCOPIO

Una parità difficile da conquistare SOCIETÀ • L’esercizio della professione legale è stato, per secoli, appannaggio

pressoché esclusivo dell’uomo. Infatti, sebbene già nella Roma dei Cesari si fossero distinte donne capaci di imporsi come autentiche principesse del foro, nelle epoche successive i casi furono assai pochi. E solo in tempi recentissimi è stato finalmente riconosciuto il primato di Giustina Rocca, che, nei primi anni del Cinquecento, fu la prima avvocatessa della storia, fonte d’ispirazione perfino per William Shakespeare A destra Eleonora d’Aquitania raffigurata in un particolare delle pitture murali che ornano la cappella di S. Radegonda a Chinon (Francia). XII-XIII sec.

A sinistra frontespizio di uno dei libri del De iure patronatus, opera che Cesare Lambertini ultimò nel 1523 e che fu stampata per la prima volta nel 1533.

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in dall’antica Roma, la donna era estranea alla legge: non aveva alcun diritto e doveva sottostare alla tutela di un uomo, a meno che non fosse una Vestale, la cui indipendenza era riconosciuta e tutelata. Sono tre i primi nomi da ricordare per aver interrotto questo silenzio che non permetteva alle donne di esprimere opinioni in materia di legge: Ortensia, Mesia Sentinate e Afrania. Figlia di Quinto Ortensio Ortale (celebre avvocato e rivale di Cicerone), Ortensia si pose come rappresentante di alcune matrone, difendendole davanti ai triumviri che avevano imposto loro di pagare il tributo sui patrimoni per partecipare alle spese militari. Di lei ce ne parla anche Valerio Massimo, autore latino che nei suoi Fatti e detti memorabili, riporta anche il nome di Mesia, ricordando un episodio che la vede come protagonista e scrivendo di lei come «né il sesso né la verecondia dell’abito matronale valsero a far tacere nel Foro e nei tribunali« (Factorum et dictorum memorabilium libri IX. 8,3).

ebbe come protagonisti i Cistercensi e gli Ospitalieri della diocesi di Sens. Ad approvare la decisione fu papa Innocenzo III, il quale riconobbe la legittimazione sulla base della tradizione che in Gallia prevedeva la giurisdizione delle donne eminenti sui propri sudditi, risoluzione che fu poi impugnata dall’ordine degli Ospitalieri, i quali ritennero non valida la sentenza, proprio in quanto decisa da una donna. Ma per parlare davvero di «avvocato donna» si devono aspettare il 1500 e Giustina Rocca, nata a Trani nella seconda metà del XV secolo. Figlia di Orazio Rocca, oratore al senato di Napoli e sposata con Giovanni Antonio Palagano con il quale ebbe quattro figli, essa si occupò di delicate questioni diplomatiche fra le città di Trani e Venezia. La sua fama derivò da una sentenza

Lo stesso Valerio riserva opinione disdicevole e parole dure anche ad Afrania, che era solita difendere i propri interessi in tribunale non per il tramite di un avvocato, ma presentandosi personalmente, dimostrando buone conoscenze legali e abilità retoriche che suscitarono indignazione tra vari storici.

arbitrale, esposta in volgare, pronunciata l’8 aprile del 1500, in presenza del governatore veneto della città, Ludovico Contarini, per una questione ereditaria sollevata da alcuni nipoti della stessa avvocatessa. L’episodio venne raccontato qualche decennio piú tardi da Cesare Lambertini (1475-1550/1551) nel De iure patronatus, stampato per la prima volta a Venezia e diffuso successivamente nel resto d’Europa, grazie al quale venne cosí conosciuta. Nel testamento di Giustina, dettato al notaio il 10 giugno del 1501, la donna chiese di essere sepolta nella cattedrale di Trani accanto alla tomba della figlia Cornelia, morta prematuramente nel 1492 e per la quale aveva composto un commovente epitaffio:

Due volte regina Altro importante nome da ricordare è quello di Eleonora D’Aquitania, donna colta, audace e coraggiosa che ha lasciato un segno importante nella storia. Nata nel 1122, due volte regina (prima di Francia e poi d’Inghilterra), fu incaricata di decidere in merito a una lite per l’usufrutto di un terreno, una contesa che

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La lapide di Cornelia Palagano, morta prematuramente nel 1492, sulla quale corre l’iscrizione formulata da sua madre, Giustina Rocca. Trani, Museo Diocesano.

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CALEIDO SCOPIO Da leggere Cesare Lambertini, De Iure Patronatus clarissimorum omnium, V.I.C., Venetiis, MDLXXXIIII (IV edizione), apud Hieronimum Zenarum & fratres Chiara Viale, Lidia e le altre. Pari opportunità ieri e oggi: l’eredità di Lidia Poët, Guerini Next, Milano 2022 Francesco Babudri, Giustina Rocca, modello ideale di Porzia di Belmonte shakespeariana, IV, Bari-Stampa, 10 aprile 1954 Salvatore Carlo Capozzi, La collana delle donne illustri di Trani, in Draghignazzo, Landriscina, Trani 1921 Tiziana J. Chiusi, La fama nell’ordinamento romano. I casi di Afrania e di Lucrezia, in Storia delle donne: 6/7, 2010/2011, Firenze University Press, Firenze 2011 Lidia Poët (1855-1949). Torinese, si laureò in giurisprudenza nel 1881, ma, pur esercitando la professione, ottenne l’ammissione all’Ordine degli avvocati solo nel 1920.

«La sua età non aveva ancora visto i vent’anni, quando la morte a noi la strappò violenta, con repentino morso». La lastra è conservata oggi nel Museo diocesano di Trani, città che a lei dedicò anche una strada e una delle scuole medie inferiori. Nel 2022 le è stata intitolata una delle tre torri della Corte di giustizia dell’Unione Europea, sancendo cosí il diritto di considerarla a tutti gli effetti la prima donna avvocato della storia.

La clemenza è piú forte del potere Sembra che questa donna sia stata presa a modello da Shakespeare per la figura di Porzia nel Mercante di Venezia. Travestita da avvocato, la donna pronuncia il famoso discorso di fronte al doge e con l’astuzia fa sí che Shylock se ne torni a casa a mani vuote: La clemenza ha natura non forzata, cade dal cielo come la pioggia gentile sulla terra sottostante; è due volte benedetta, benedice chi la offre e chi la riceve;

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è piú potente nei piú potenti, e si addice al monarca in trono piú della sua corona. Lo scettro mostra la forza del potere temporale, è l’attributo della soggezione e della maestà, sede del timore che incutono i regnanti; ma la clemenza sta sopra al dominio dello scettro, ha il suo trono nel cuore dei re, è un attributo di Dio stesso; e il potere terreno piú si mostra simile al divino, quando la clemenza mitiga la giustizia. Quindi, ebreo, pur se giustizia è ciò che chiedi, considera questo, che a rigore di giustizia nessuno di noi troverebbe salvezza. Noi invochiamo clemenza, e quella stessa preghiera insegna a tutti noi a fare atti di clemenza. Tanto ho detto per mitigare la giustizia della tua richiesta; se la manterrai, questa rigorosa corte di Venezia dovrà per forza dar sentenza contro il mercante. E mentre il commediografo inglese era già pronto a riconoscere in qualche modo la possibilità che una donna non solo fosse adatta al ruolo, ma tanto brava da superare il «collega», in Italia per la prima laureata in diritto si dovrà aspettare il 1777 con Maria Pellegrina Amoretti, mentre nel 1919 Elisa Comani ottenne l’iscrizione ufficiale all’albo degli avvocati. Fu cosí la prima donna avvocato d’Italia a tutti gli effetti: avanti a lei solo la forse piú famosa torinese Lidia Poët, che aveva combattuto e perso la battaglia per l’iscrizione già alla fine dell’Ottocento, potendo infine iscriversi a 65 anni, dopo una vita passata a lavorare nello studio del fratello senza poter utilizzare il titolo che le spettava. Debora Gusson ottobre

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Vizi e virtú dei vini medievali di Sergio G. Grasso

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econdo la maggior parte dei resoconti, il vino prodotto in Italia nell’Alto Medioevo aveva colore, odore e sapore inaccettabile per gli standard contemporanei. È probabile che anche i vini di migliore qualità prodotti in Italia tra il VII e il XV secolo fossero molto inferiori a quelli prodotti nell’antica Roma, se non altro perché questi ultimi erano conservati in vasi di argilla impermeabilizzati e tappati con legno e calce, cosí da garantire una certa protezione. L’inizio dei «secoli bui» del vino dei Cesari viene fatto coincidere con la disfatta di Adrianopoli del 378, dopo la quale Roma fu costretta a «subire» la presenza dei barbari sia all’interno, sia all’esterno dei confini imperiali. All’epoca del sacco di Roma del 410, la profonda crisi economico-sociale dell’impero era conclamata, le colonie e i municipia creati da Augusto non esistevano piú e l’agricoltura con tutte le sue strutture produttive era in piena, inesorabile consunzione. La vigna, per secoli orgoglio dell’economia romana, era ridotta a coltivazione marginale e la civiltà del vino e dell’olio sembrava destinata a soccombere a quella barbarica del burro e della birra. Tuttavia sopravvisse, seppur in spazi ampiamente ridimensionati, anche agli sconvolgimenti della conquista longobarda, al drastico

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calo demografico conseguente la peste giustinianea e al disinteresse dei Bizantini per tutto ciò che accadeva a Occidente. Il ripristino del vigneto (e non solo) italiano iniziò nel VII secolo a opera dei monaci benedettini, i primi patres vinearum, in forza del legame mistico e liturgico tra vino, religione e cerimoniale.

Regole ferree Alla fine dell’VIII secolo Carlo Magno, col Capitulare de villis, emanò le regole da osservare in ogni azienda agricola dell’impero. Demandò ai missi dominici il controllo dello stato e della salute di ogni vigneto e li obbligò a seguire personalmente la vendemmia; impose alle cantine di effettuare periodiche operazioni di pulizia delle vasche vinarie e degli strumenti; introdusse l’uso di presse per estrarre il mosto dalle uve che fino ad allora venivano pigiate in grandi vasche con i piedi. Tutte queste innovazioni, incluso l’uso di torchi per recuperare il mosto rimasto nelle vinacce, permettevano di ottenere vini piú sani, piú ricchi di tannini e di colore, che consentivano un piú lungo invecchiamento. Il Capitulare obbligava i vinattieri a mettere il vino solo in anfore impermeabilizzate con cera o pece (dall’effetto antibatterico) e poi sigillate con un «tappo» di

gesso e argilla. Si aggiungeva cosí al vino quasi sempre già acetico, un gusto dolciastro e colloso che sostituiva quello di rancido e stantio dovuto agli otri in pelle animale. Probabilmente noi stenteremmo a definire «vino» quel liquido, ma era pur sempre piú igienico dell’acqua dei pozzi di cui erano costretti a servirsi braccianti e operai. Al di là dei (mai dimostrati) terrori millenaristici, è documentato che già nell’anno Mille l’agricoltura italiana si era gettata alle spalle i secoli bui e aveva ripreso pieno vigore con vigneti abbondanti e pienamente organizzati dove le viti erano piantate in unità strutturate, attentamente sorvegliate e protette. I proprietari terrieri e le abbazie circondavano i vigneti con mura e un po’ ovunque le cantine disponevano di presse e torchi vinari. La crescita della popolazione, dei centri urbani e del commercio, fecero emergere nuove classi medie di imprenditori e commercianti con una grande sete di vino. Le regioni vinicole vicine a questi nuovi mercati prosperarono e cosí pure le rotte commerciali. Le due piú importanti d’Europa si svilupparono sull’acqua; una era la rotta marittima dalla Francia sud-occidentale (ora regione di Bordeaux) all’Inghilterra e ai porti dell’Europa settentrionale, l’altra si snodava lungo il fiume Reno, ottobre

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Miniatura raffigurante due uomini che bevono vino, mentre un terzo ne sta spillando dell’altro da una botte, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

dai vigneti del Centro e del Sud della Germania fino al Mare del Nord e ai porti del Baltico. Nell’XI secolo navi e battelli scaricavano nei porti marittimi e fluviali imponenti carichi di anfore vinarie. Le botti vere e proprie, piú solide, sicure e facili da disporre in stiva, iniziarono a diffondersi solo nel XII secolo e sempre a opera dei monasteri. L’utilizzo diffuso di botti non risolveva comunque altri problemi di conservazione e di igiene. I produttori infatti non provvedevano a operare la svinatura delle botti, cioè il travaso a una seconda botte per separare il vino dalle vinacce fermentate (vinaccioli e semi) e dalle cellule

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morte dei lieviti. Questi residui non solo intorbidivano il vino, ma gli conferivano anche un odore e un gusto decisamente feccioso.

Vini da vendere subito Ci volle tempo anche per capire l’importanza di «rabboccare» periodicamente le botti per evitare che l’evaporazione del nuovo vino lasciasse spazio all’aria che ne causava l’ossidazione. Era dunque tassativo vendere i vini il piú presto possibile per spuntare prezzi migliori, come quelli realizzati tra San Martino (11 novembre) e Santa Lucia (13 dicembre), quando il vino nelle botti era ancora giovane e fruttato grazie all’effetto

conservante dell’anidride carbonica residuata dalla fermentazione. Il notaio fiorentino Lapo Mazzei (1350-1412) scrisse in una lettera a Marco Datini che il vino, dopo la metà di luglio, sapeva di foraggio per il bestiame. Gli statuti di vari comuni del Centro-Nord Italia decretavano che la data della vendemmia fosse indicata per legge, in modo che non potessero sorgere speculazioni. Volevano evitare che la vendemmia fosse anticipata sempre di piú, per poter vendere il vino nuovo prima di tutti gli altri. Nel tardo Medioevo, forse qualche miglioramento tecnico si era verificato, se Mazzei stesso testimonia in altri scritti di fiaschi di Ribolla invecchiati anche tre anni.

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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante la vendemmia e la pigiatura delle uve, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto Dar da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, una delle Opere di Misericordia, affrescata in una delle lunette dell’oratorio dei Buonomini di S. Martino, a Firenze. XV sec. Il ciclo viene attribuito alla bottega di Domenico Ghirlandaio.

Le bottiglie in vetro, impermeabili e chimicamente neutre ma anche estremamente fragili e costose, si usavano fin dall’età greco-romana, ma in genere erano piccole e destinate a essenze, profumi e liquidi preziosi o esotici. Nell’XI secolo in Bretagna, Normandia e soprattutto a Murano, si iniziarono a «soffiare» vetri piú grandi destinati all’oggettistica di culto come calici, urne e reliquiari. La massima ambizione delle classi nobiliari e mercantili divenne quella di possedere dei «vetri da mensa», poco idonei a conservare i vini in cantina (la soffiatura a bocca non permetteva spessori forti e uniformi capaci di resistere alle manipolazioni e alle rifermentazioni) ma perfetti

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per spillare dalla botte il vino migliore e farlo servire in tavola. I vetrai della Valdelsa ovviarono al problema della fragilità creando il «fiasco» (forse dal greco phiàle o dal latino vasculum), un contenitore globoso che veniva ricoperto dalla «stiancia», un’erba palustre comune negli acquitrini, molto resistente, facilmente intrecciabile e modellabile. Cosí si miglioravano le operazioni di movimentazione del vino proteggendolo anche dalla nefasta azione della luce.

Con il fiasco in mano Del «fiasco» in vetro si parla già nella novella VIII del Decameron di Boccaccio, in cui Ciacco: «partitosi da Biondello, con un saccente barattier si convenne del prezzo, e datogli un

bottaccio di vetro, il menò vicino della loggia de’ Cavicciuli e mostrògli in quella un cavaliere chiamato messer Filippo Argenti (...) e dissegli: – Tu te n’andrai a lui con questo fiasco in mano e dira’gli cosi: – Messere, a voi mi manda Biondello, e mándavi pregando che vi piaccia d’arrubinargli questo fiasco del vostro buon vin vermiglio, ché si vuole alquanto sollazzar con suoi zanzeri». Per le bottiglie vere e proprie, non in ceramica ma in vetro spesso e uniforme, colato e non soffiato, si dovrà attendere la metà del Seicento, quando l’inglese John Colnett brevettò la prima bottiglia industriale per il vino in vetro forte e pesante, a forma di palla con una base leggermente rientrante che gli conferiva stabilità. Allo stesso periodo risale l’invenzione dei tappi ottobre

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in sughero che sostituirono quelli di legno avvolti nella stoppa. Fin dall’antichità greca per impedire che il vino si guastasse o «prendesse» d’aceto si è sempre versata una sottile pellicola di olio d’oliva sulla superficie del contenitore vinario in modo da proteggerne il contenuto dall’aria e dai batteri acetici; questa tecnica fu usata da molti contadini europei, fino al secolo scorso, con la sola variabile dell’olio di vasellina (privo di gusto) al posto dell’olio d’oliva. Perlomeno curioso è il metodo suggerito da un manoscritto francese dell’epoca dei fabliaux per ridar vita a un vino troppo acido: «La sera far cuocere a lungo del grano (froment) in acqua e versarlo ben caldo nel vino; se al

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mattino successivo il grano avrà fallito il suo compito, si getti nel vino stesso un cesto di sabbia (gravelle) ben lavata».

Un difetto irrimediabile Da Pasteur in poi sappiamo che l’acescenza è dovuta a ceppi di microrganismi già presenti nel vino e che il «prender d’aceto» è un difetto che, una volta conclamato, non è rimediabile. Il bolognese Piero de’ Crescenzi nel suo Ruralium Commodorum Libri XII (1305) non indica rimedi ma cerca di spiegare il fenomeno in modo pragmatico: «Inoltre, il vin saldo e potente e massimamente dolce e grosso, messo in tempo caldo in vaso non pieno e non chiuso di sopra, svapora il caldo e lo umido del vino, e resta il freddo e il secco che si converte in acetosità»

Intuisce cioè che la «corrutione» è qualcosa che succede all’interno del vino e non viene da fuori. «Avviene al vino per l’acquosità sua corruttibile nella vite e o nel vaso, che egli si corrompi e si guasti per varie cagioni adoperate in esso per lo strano caldo. Se si cavasse un poco di feccia o di vino che avesse la feccia, si metta nel vaso senza aprirlo, si convertirebbe in muffa. La quale infetta il vino. Oltre a ciò ogni altro vino che vi si ponga si guasta. E se di questo vino se ne mette in un doglio buono e si mischia con altro vino, lo infetta e lo converte nella sua corrotta natura». Fu solo nel tardo Medioevo che i viticoltori della penisola iberica iniziarono a usare lo zolfo per conservare il vino; fu un importante progresso tecnologico che alla

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CALEIDO SCOPIO fine avrebbe sostituito i metodi tradizionali di conservazione o «fissazione» del vino usando miele, resina, spezie e altri aromi. I luoghi di maggiore consumo di vino per tutto il Medioevo furono le taverne: rifugio di pellegrini, salariati, venditori ambulanti e servitori, ma anche di mendicati, imbroglioni, giocatori di professione e bari. Nelle taverne si mangiava e si beveva, si giocava e si fornicava, si intrattenevano relazioni sociali e si cercava un’alternativa al proprio mondo. Erano ubicate sia nei centri urbani che nei piccoli borghi nelle campagne, ma soprattutto nei luoghi di mercato, lungo i fiumi in prossimità di ponti, traghetti, strade e porti. Lí molte persone concludevano affari, assumevano dipendenti e socializzavano, ma erano anche il luogo in cui si verificavano ubriachezza e comportamenti turbolenti. Nelle taverne, di vino cattivo, annacquato o meno, se ne consumava parecchio, specialmente durante i caldi mesi estivi. A chi beveva per dimenticare o per alleviare la disperazione poco importava il sapore rozzo e il pessimo odore, l’importante era ubriacarsi, giungere a quel grado di intossicazione alcolica che ti illudeva di essere libero e diverso. I cronisti del Trecento spesso descrivono questi stati di alterazione ricorrendo a paralleli animaleschi: una sbronza modesta faceva agire come una pecora, l’ubriachezza molesta manifestava atteggiamenti leonini, quella severa rendeva gli

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uomini simili a scimmie e in quella funesta faticavano a riconoscersi anche i maiali. Un ultimo aspetto da considerare è ciò che noi chiameremmo «l’analisi organolettica» del vino nel Medioevo, una pratica riservata ai medici secondo un protocollo articolato in «signa generalia» e «signa specialia». I primi si riferivano a limpidezza, colore, odore e sapore. La pulizia e il nitor di un vino indicavano che la bevanda esaminata in controluce non nascondeva corpuscula vel caligines, né fecce di nature terrosa e nitrosa accusate di provocare disturbi alle vie urinarie: risplendentia come paradigma di subtilitas che generava umori altrettanto sottili.

Bianchi e rossi Sul colore si operava una prima, ovvia distinzione tra i vini bianchi (vina alba) e quelli rossi (vina rubra). Come regola generale, i bianchi erano reputati meno caldi e meno nutrienti dei rossi, non ottundevano la mente e avevano funzioni aperitive e diuretiche, ragion per cui venivano raccomandati ai temperamenti sanguigni e collerici. I vini rossi erano tanto piú nutrienti e riscaldanti quanto piú scuri di colore. Si scendeva nel dettaglio classificando il colore in gradazioni Bottiglia in vetro per il vino, di probabile produzione inglese. 1760 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Nella pagina accanto Natura morta con fichi, melograni, pane e vino, olio su tela di Luis Egidio Meléndez. 1770. Madrid, Museo del Prado. che andavano dall’album (giallo molto tenue) al citrinum, dal fulvum al flavum, per terminare col rubrurro e il nigrum. Era tenuto particolarmente in considerazione il colore ambrato dei passiti e quello tra il mattone e l’aranciato dei vini rossi lungamente invecchiati. L’odore aveva ovviamente un peso notevole nella valutazione dei vini medievali, soggetti a ogni rischio di contaminazione ambientale o di processo. Nel suo Libreto de tute le Cosse che se Magnano, il medico umanista padovano Michele Savonarola (1385-1468) indicava nel profumo il primo segno della bontà e della forza di qualsiasi vino: «Imperò i [medici] paduani, meglio sapendo tal signo, sempre scorla [agitanol prima il vino nel bichiero, dopo lo anasa [fiutano] e cossi de lui zudica, che sel non ne sente odore, fasse beffa de quello, dicendo esser molto picolo». L’assaggio in bocca permetteva di classificare i vini in dolci, amari, pontici, acerbi, austeri. Quelli dolci erano piú nutrienti degli altri pur causando sete, lasciandosi digerire con fatica e generando sangue spesso (crassus). I vini amari generavano umori grossi, nutrivano poco e non scaldavano le membra.

Consigli preziosi Il Savonarola, come già fece nel XIII secolo Pier de’ Crescenzi nel suo Opus ruralium commodorum, dava la qualifica di «pontico» a un vino brusco, di sapore aspro e freddo che costipava lo stomaco e ostacolava l’evacuazione; suggeriva per questo di berli moderatamente e sempre diluiti con acqua. Acerbi venivano considerati i vini piú leggeri, diuretici e capaci di dissolvere gli umori grossi mentre rientravano nel gruppo dei vini austeri quelli ottobre

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a cui l’invecchiamento, il grado alcolico e i tannini conferivano pienezza e pregio. Secondo la Schola Medica Salernitana, i «signa specialia boni vini» avevano in comune le cinque «F» iniziali: «Si bona vina cupis, haec quinque probantur in illis fortia, formosa, fragrantia, frigida, frisca». Parafrasando l’aforisma salernitano, il medico catalano Arnaldo da Villanova (1240-1316) invitava a ricercare nel vino un discreto tenore alcolico (fortia), misurabile dalla rapidità con cui riscaldava e andava alla testa. Si parlava di vini piccoli, mezzani, grandi e potentissimi e si riteneva – non a torto – che le uve cresciute in zone montane soleggiate, producessero vini piú forti che quelle della pianura. Altro signum speciale era il

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bell’aspetto (formosa) nel bicchiere e un invitante profumo (fragrantia) cosí che il bevitore, sorbendoli con soddisfatto piacere preparasse i visceri a digerirli facilmente.

Temperatura e colore Un ruolo importante nella degustazione del vino era la sua temperatura che doveva essere quella dell’ambiente, naturalmente fresca (frigida), evitando ogni raffreddamento o riscaldamento che ne avrebbe accentuato forza o debolezza. L’aggettivo frisca va inteso come vivacità, brio, giovane effervescenza (i vini spumanti erano di là da venire…), segnata da una corona di bollicine (atomi) che, se permaneva attaccata a lungo alle pareti del bicchiere, faceva dichiarare il vino debole o addirittura allungato con acqua

(dilutum). Opposto al friscum era il vino pendulum, ovvero sfinito, frusto e filante. Era ancora il colore a costituire, nel Medioevo, il criterio di classificazione commerciale del vino comune (nostranum): bianco o nero, spremuto da tutte le uve disponibili senza ulteriori specifiche; e quando se ne mescolavano di due colori si otteneva il vino vermilium, un rosato piú o meno intenso a seconda delle proporzioni, molto comune nelle regioni in cui le uve bianche e nere si coltivavano assieme. In Toscana, all’epoca di Dante, erano reputati i vini vermigli della Valdigreve. Al banchetto per le nozze di Lorenzo de’ Medici (Firenze, 1469), circolavano «molte some di fiaschi, e piú botti intere di [vini] forestieri, cioè malvagia e simili, e nostrali, cioè vermigli».

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Quando i santi prendevano le armi

Vittore, valoroso cristiano d’Africa di Paolo Pinti

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ittore il Moro, o anche Mauro – perché originario della Mauretania (una regione storica del Nordafrica che fu anche provincia dell’impero romano) – fu un soldato dell’esercito romano di stanza a Milano al tempo dell’imperatore d’Occidente Massimiano (286305 e poi 307-308), che si fece promotore di una delle ultime persecuzioni, prima che, nel 313, Costantino promulgasse l’editto che riconosceva libertà di culto ai cristiani. Le notizie sulla sua vita ci sono state tramandate da sant’Ambrogio nell’Explanatio evangelii secundum Lucam e soprattutto nell’Inno in onore dei martiri Vittore, Narbore e Felice. Non facendo mistero della sua fede cristiana, Vittore fu arrestato e processato: pur ribadendo la propria fedeltà all’imperatore, come cittadino e come militare, rifiutò di abiurare la propria fede e di sacrificare agli idoli. Venne perciò torturato in vari modi, tutti descritti nei minimi particolari, con compiacimento, quasi a voler dimostrare che patí sofferenze piú di tanti altri. Non si sa come, riuscí a evadere – come era successo per sant’Alessandro (vedi «Medioevo» n. 309, ottobre 2022; on line su issuu.com) –, ma fu presto rintracciato e arrestato di nuovo. Questa volta non ci furono indugi e venne decapitato. Secondo altre tradizioni, Vittore,

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insieme ai commilitoni Nabore e Felice, aveva disertato per non dover obbedire a Diocleziano e per questo i tre furono catturati e decapitati. I loro corpi, dopo l’editto di Costantino, furono trasportati a Milano e lí onorati.

Una degna sepoltura Una diversa tradizione vuole che il suo corpo fosse stato lasciato insepolto e in seguito ritrovato, intatto, dal vescovo di Milano, Materno, il quale lo seppellí in un sacello che, per le sue ricche decorazioni a mosaico d’oro, venne

chiamato S. Vittore in Ciel d’Oro (attualmente incorporato nella basilica di S. Ambrogio). Identificare il santo nei dipinti è quasi sempre impossibile, perché non ha attributi/simboli particolari ed è facilmente confondibile con altri martiri che hanno avuto una vicenda biografica simile. E sono davvero molti, e sempre soldati romani, che abbracciano la fede cristiana e accettano torture e morte per non abiurare. Non è facile spiegare perché esistano tanti santi quasi del tutto identici: in effetti, è probabile che ci siano stati molti Nella pagina accanto San Vittore, affresco del Sodoma (al secolo, Giovanni Antonio Bazzi). 1529. Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Mappamondo. Il martire, in veste di alto ufficiale dell’esercito romano antico, impugna una spada con impugnatura molto lunga, forse «da una mano e mezza». A sinistra mortaretto, detto anche mascolo d’allegrezza, in bronzo, con l’immagine di san Vittore a cavallo, conservato, insieme ad altri cinque, nella collegiata di S. Maria Assunta a Otricoli. Questa sorta di piccolo cannone era molto diffuso dal XVI fino al XIX sec. per fare «botti» in occasione di feste civili e religiose, spesso al momento dell’uscita di una processione. Con lo stemma del paese ne sono rimasti molto pochi, e, probabilmente, i sei reperti di Otricoli sono gli unici con l’immagine di san Vittore. ottobre

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CALEIDO SCOPIO San Vittore, olio su tela di Giovanni Francesco Guerrieri. 1654. Urbino, Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche. L’autore si firma – Franciscus Guerrierus fec. a.d. 1654 – nello sguscio della lama: ulteriore prova dell’importanza che riveste l’attenzione alle armi raffigurate nei dipinti.

soldati romani che, abbracciando la religione cristiana, furono uccisi durante le varie persecuzioni. Tuttavia, perché sforzarsi di ideare le torture piú mostruose, che, alla fine, sono in parte sempre le stesse?

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Il nostro martire, in linea generale, viene raffigurato in vesti di soldato romano, spesso con la spada al fianco o sguainata, simbolo del suo status sociale, ma anche evocazione dello strumento

utilizzato per porre fine alla sua esistenza. Attributi – spada e divisa da soldato – purtroppo in comune con altri santi con una storia molto simile, e quindi non sufficienti per identificare san Vittore. ottobre

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Lo scaffale Paolo Grillo Federico II La guerra, le città e l’impero

Le Scie, Mondadori, Milano, 348 pp.

24,00 euro ISBN 9788804769125 www.mondadoristore.it

Se si osservano i viaggi compiuti da Federico Barbarossa (1152-1190), analizzati in un bel libro di Ferdinand Opli del 1978, si resta

impressionati dalla quantità di discese che l’imperatore – nonno di Federico II, protagonista del libro di Paolo Grillo – fece in Italia, nel tentativo (fallito) di domare e controllare i comuni della Penisola. A distanza di un cinquantennio, il nipote, Federico Ruggero, si ritroverà invischiato in un’analoga lotta, feroce e lunga e forse sinora non del tutto adeguatamente studiata nella sua interezza, intrapresa

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contro quelle città che nel frattempo si erano irrobustite da un punto di vista intellettuale, giuridico e, naturalmente, militare. L’autore dunque racconta con penna felice la lunga guerra che lo Stupor Mundi condusse contro una alleanza che comprendeva le principali città comunali del Centro-Nord d’Italia, ma che includeva naturalmente anche il supporto della Curia che diede un enorme contributo alla vittoria dei comuni, decisi a mantenere le prerogative e i diritti ottenuti a caro prezzo contro il Barbarossa, e sigillati, finalmente, dalla Tregua di Venezia (1177) e dalla Pace di Costanza (1183). L’imperatore revocò l’appoggio all’antipapa,

ottenendo il riconoscimento di suo figlio Enrico VI quale re dei Romani e futuro imperatore: il matrimonio di Enrico con Costanza d’Altavilla fu il piú grande successo del Barbarossa. Dove aveva fallito lui, sperava, avrebbe avuto maggior successo il figlio, oppure il nipote, erede anche del Regno di Sicilia, giuntogli in dote dalla madre, ultima degli Altavilla. Ma, come mostra Grillo, tale processo non fu certamente lineare e non sarebbe giunto al conseguimento di un risultato se non a un prezzo altissimo da parte di entrambi i contendenti: la guerra durò, a fasi alterne e con rovesciamenti di fronte, circa un quindicennio, dal 1236 al 1250, anno

in cui l’imperatore improvvisamente morí a 56 anni, in Puglia. La prima parte della sua vita era stata spesa intensamente a irrobustire il regno di Sicilia, con la costruzione o il rafforzamento di una rete di castelli volta a controllare il territorio in maniera capillare: medesima operazione risultava assai piú impervia nel Centro-Nord dove, per esempio, sono rari gli edifici fortificati voluti da Federico II, come quello di Prato, di Monselice o di San Miniato. Il castello è certamente il simbolo del potere, ma anche una macchina da guerra: la rarità Miniatura raffigurante papa Onorio III che incorona Federico II, da un’edizione del Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec.

stessa di questi edifici militari federiciani in Alta Italia dice già molto sul terreno in cui venne combattuta questa guerra. Attorno alla figura dello Svevo si sono polarizzati, nei secoli, tanto i detrattori che lo hanno visto come un uomo dei suoi tempi – se non feroce despota, addirittura assimilato al demonio dalla propaganda antiimperiale – e altri che hanno ravvisato in lui un sovrano illuminato, quasi visionario, ostinato nella sua missione di imperatore universale per conseguire la quale consumò le finanze del regnum e la propria salute, viaggiando e combattendo ripetutamente in assedi e battaglie che piú volte si rivelarono illusorie. Paolo Grillo conduce il lettore negli scafi che attaccano il convoglio dei prelati diretti al Concilio di Lione, nel Piemonte in fiamme, presso Parma, dove proprio in località Vittoria si consuma la sua disfatta. Della sconfitta subita alla Fossalta, l’autore rimarca il duro colpo subito da Federico per la cattura del figlio Enzo, «sangue del suo sangue, ma anche l’uomo su cui ottobre

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ha fatto affidamento per governare il Settentrione». L’idea di un territorio unitario sotto un’unica corona, forse prematura, considerando che per far l’Italia ci vollero ancora diversi secoli – e forse il progetto non è del tutto terminato – non trovò risoluzione. Paolo Grillo segue le vicende del conflitto consumatosi lungo la Penisola, dal suo inizio al suo termine, rassicurando il lettore con dati, nomi ma senza annoiarlo, anzi, incuriosendolo. La scia di sangue, distruzione e odio lasciata da questa guerra, ci fa intuire l’autore, avrebbe accompagnato la Penisola per i lunghi decenni che seguirono la morte improvvisa dello Stupor Mundi. Federico Canaccini Lia Barelli, Manuela Gianandrea e Susanna Passigli (a cura di) Viae Urbis Le strade a Roma nel medioevo

Atti del convegno internazionale (Roma, 18-20 novembre 2021), Viella, Roma, 404 pp., ill. b/n e col

55,00 euro ISBN 9788833138718 www.viella.it

Nel 2011, in piena fase pandemica, si

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teneva, non senza grandi difficoltà e limiti imposti dall’eccezionalità della situazione sanitaria, un convegno organizzato da «Sapienza» Università di Roma, intitolato «Viae Urbis. La strada a Roma nel medioevo». Frutto dell’incontro di 36 studiose e studiosi che a vario titolo si sono occupati della storia tardo-antica e medievale di Roma, il convegno ha accolto 26 contributi, che hanno per oggetto le strade di Roma e il loro sviluppo tra Alto e Basso Medioevo e che vengono ora pubblicati nel volume. Come tutte le città con una storia ultramillenaria, Roma conserva nel suo assetto tracce piú o meno celate del suo sviluppo urbanistico, che, a occhi attenti, rivela indizi sul suo passato come un immenso palinsesto, nel quale affiorano in maniera palese

le testimonianze urbanisticoarchitettoniche del suo passato. Merito del volume non è quello di offrirsi come un mero approfondimento della storia urbanistica di Roma; al contrario, lo studio urbanistico localizzato lascia spazio a un ampio ventaglio di prospettive, punti di vista, che dal dettaglio si aprono sulle vie di Roma quali centri di socialità, di incontro, ma anche scontro, di attività commerciali, dove appare labile il confine tra interessi privati e pubblici. I contributi si avvalgono di una corposa messe di informazioni, che vanno dalla documentazione archeologica a quella notarile e statutaria, nonché iconografica, attraverso cui è possibile ricostruire lo sviluppo urbano che durante la lunga fase medievale ha saputo convivere con le ingombranti vestigia romane, reintegrandole a scopo pratico ma anche simbolico. Una ricostruzione della storia della viabilità della Roma medievale che deve fare i conti, purtroppo, con gli sventramenti avvenuti tra il tardo Ottocento

e il primo trentennio del Novecento, e con la perdita, per alcuni secoli, delle fonti d’archivio. Accanto a studi di taglio piú prettamente urbanistico, il discorso si allarga alle tematiche piú diverse, tutte legate alla strade di Roma, che riescono a rievocare il «vissuto» della città. Ecco, dunque, come la presenza di antichi labra, riadattati a fontane, gli elementi araldici nelle facciate dei palazzi, cosí come quella di elementi erratici riutilizzati a vario titolo, le epigrafi, le decorazioni pittoriche, convergono a connotare il tessuto viario di Roma, fulcro di dinamiche sociali, politiche, economiche che vedono il popolino, l’aristocrazia romana con le sue potenti famiglie baronali, la Chiesa e le autorità comunali, partecipare a vario titolo alle trasformazioni urbanistiche della città. Se, da un lato, ci si rammarica per l’assenza di un indice dei luoghi, strumento, a mio avviso, piuttosto utile in questo contesto, dall’altra, si apprezza lo stile chiaro e lineare adottato dagli autori, i cui testi sono accompagnati da

un ampio apparato iconografico, che rende il volume ampiamente fruibile a tutti quei lettori desiderosi di approfondire la conoscenza della Roma medievale attraverso le sue strade, che tanto hanno da raccontare sulla storia della città eterna. Franco Bruni Anna Esposito «Roma pare una abatia spogliata» Una città e i suoi abitanti al tempo della peste (1522-1523) Roma nel Rinascimento edizioni, Roma, 190 pp.

34,00 euro www.romanelrinascimento.it

Scarsamente presa in considerazione dalla storiografia, l’epidemia di peste romana del 1522/23 fu una delle piú violente che abbiano colpito la Città Eterna. Sulla base di nuove fonti (atti notarili carteggi diplomatici e mercantili), vengono delineati l’evoluzione del contagio, lo spopolamento della città, i provvedimenti delle autorità pubbliche per fronteggiare l’emergenza, con lo scopo precipuo di far emergere i principali protagonisti

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Lo scaffale del tragico evento. L’epidemia, le cui prime avvisaglie si palesarono nel maggio del 1522, per terminare nell’agosto dell’anno successivo, provocò la partenza di 40 000 persone (secondo alcune fonti), causando fino a 180 morti al giorno. A cercare di arginarla, i provvedimenti di papa Adriano VI, che vietò le celebrazioni in proprio onore, proibí di vendere oggetti appartenuti ai defunti, decretò la chiusura a tempo indeterminato dei

bagni pubblici e delle bische per evitare assembramenti, preoccupandosi di far isolare gli appestati in luogo apposito fuori città. Altri provvedimenti furono presi per trovare le risorse necessarie a curare gli ammalati, a retribuire il personale sanitario, a erogare aiuti economici agli appestati reclusi

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in casa. Dagli atti notarili utilizzati come fonte si traggono anche particolari sulla vita nella città colpita dall’epidemia (come le modalità di sanificazione), annotazioni diaristiche (l’abbandono dei familiari malati o la loro morte), elenchi di oggetti quotidiani, notizie di congiure, storie di eredità contestate, testimonianze di estorsioni nei confronti di donne che riuscivano difendersi strenuamente. Ne emerge anche l’immagine di una società in stallo, dove la vita economica e sociale era rallentata al massimo. Il volume si conclude con la trascrizione dei consigli contro la peste elaborati da un medico del tempo. Maria Paola Zanoboni Paolo Pinti Armi e arte in Umbria Un viaggio per musei, chiese e castelli, nel territorio umbro, alla ricerca di armi antiche, alla scoperta di cose belle Andrea Livi Editore, Fermo, 320 pp., ill. col. e b/n 28,00 euro

ISBN 88-7969-539-8

Pubblicato per i tipi di Andrea Livi Editore, questa

nuova opera di Paolo Pinti – firma ormai ben nota ai lettori di «Medioevo» grazie alla rubrica «Quando i santi prendevano le armi» – fa seguito ad altri due lavori sullo stesso tema: il primo, Armi e arte (1997), riguardante tutta l’Italia e il secondo, Armi e arte nelle Marche (2021), che tratta solo quella regione (vedi «Medioevo» n. 300, gennaio 2022; on line su issuu.com). L’argomento è sicuramente originale: l’autore, avvocato penalista e studioso di armi antiche, racconta i suoi numerosi viaggi in Umbria alla ricerca di chiese, musei, castelli e antichi palazzi nei quali si trovino armi antiche o dipinti con raffigurate armi, per ricavarne dati tecnici, notizie, aneddoti inaspettati, partendo dal presupposto che la «lettura» delle opere d’arte attraverso la conoscenza delle armi antiche risulti piú completa e approfondita. Molto spesso, infatti, l’arma raffigurata è databile con notevole precisione e questo servirebbe alla critica d’arte a orientarsi in mancanza di altri riferimenti. Per contro, naturalmente, se il

quadro è datato o databile con sicurezza, sarà questo a contribuire a datare quel tipo di arma dipinto, almeno come termine post quem. Non solo: poiché gli oggetti rappresentati nei dipinti non sono messi a caso, ma sono i componenti di un progetto espressivo, capire la tipologia delle armi significa facilitare la comprensione di ciò che l’artista voleva dire. Di qui la storia dei tre libri, vere e proprie guide per viaggiare alla ricerca sia di armi vere e proprie che di dipinti nei quali le stesse sono presenti, con considerazioni e domande che non di rado costituiscono dei rebus ai quali dare risposta, intriganti e spesso divertenti. Per Armi e arte in Umbria si tratta di 67 capitoli di poche pagine, leggibili e godibili anche da parte di chi non abbia alcuna dimestichezza con l’oplologia (studio delle armi), ma sia semplicemente curioso e amante delle cose belle. Non ci sono parti troppo tecniche, noiose e difficili, ma tutto è scritto con un linguaggio semplice, si potrebbe dire «parlato», che invoglia alla lettura, con la certezza di scoprire

molte curiosità e di trovare spunti per un viaggio nella bellissima regione umbra. In 320 pagine, ben 500 immagini a colori accompagnano il lettore in questa lettura, offrendo una panoramica eccezionale su borghi e centri urbani umbri, e svelando tesori nascosti, in parte non piú esistenti o non piú visitabili dopo il sisma del 2016. Il libro rappresenta, in questo, un’insostituibile

testimonianza di realtà scomparse. Un lavoro originale e, come tipologia, unico, diretto a un pubblico ampio, che apprezzerà la schiettezza del linguaggio – con molti aneddoti personali – e la bellezza, di luoghi e di opere artistiche, che ne è alla base. Il volume può essere richiesto all’autore, via mail – pintipaolo@ libero.it – oppure chiamando il 348 2431321. (red.) ottobre

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L’ARCHEOLOGIA ITALIANA NEL MONDO

Quella delle missioni archeologiche all’estero è una tradizione ormai consolidata per l’Italia e, grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sono centinaia gli studiosi attivi in oltre 80 Paesi, dall’Europa all’Oceania. A questa importante realtà è dedicata la nuova Monografia di «Archeo», che propone la rassegna dei progetti attualmente in corso, illustrati in prima persona dai loro stessi protagonisti. Le schede dedicate a ciascuna missione, corredate da un ricco apparato iconografico, danno vita a un ideale viaggio intorno al mondo, che permette di scoprire quanto importante sia il contributo italiano allo studio, alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio archeologico e storico-artistico degli Stati in cui i progetti vengono svolti. Perché un tratto comune a tutte le missioni è proprio quello del coinvolgimento di istituzioni e studiosi locali, nella convinzione che ciò rappresenti un passo fondamentale sulla strada della conoscenza e della conservazione. In tutti i territori nei quali operano, gli archeologi italiani si fanno dunque portatori di un know how di altissimo livello, ma sono al tempo aperti alla ricezione delle istanze dei partner con i quali condividono le proprie attività sul campo.

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