Medioevo n. 318, Luglio 2023

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IN L R NO ’ O OM CE RO A N Z DI O III

www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

NAVE BIANCA

UNA TRAGEDIA CHE CAMBIÒ LA STORIA

LUGLIO 1260 LA SCONFITTA DEI CAVALIERI TEUTONICI

TRECENTONOVELLE QUEI MONACI INCLINI AL PECCATO

ANGHIARI INTELLETTUALI IN BATTAGLIA

MATILDE DI CANOSSA L’ULTIMO VIAGGIO DELLA CONTESSA

CASSONI NUZIALI

LA PASSIONE DI KAROL LANCKORONSKI

LUCA SIGNORELLI UN FRAMMENTO MISTERIOSO 30318 9

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ANGHIARI DURBE 1260 MATILDE DI CANOSSA CASSONI LANCKORONSKI DOSSIER NAUFRAGIO DELLA NAVE BIANCA

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Mens. Anno 27 numero 318 Luglio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 318 LUGLIO 2023

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 1 LUGLIO 2023



SOMMARIO

Luglio 2023 ANTEPRIMA

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Letterati combattenti

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MOSTRE Le Arti per l’arte Splendori vaticani

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EVENTI Un tappeto di marmo e le sue storie

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE BATTAGLIE Durbe Le fatali paludi dei «paesi bassi» di Federico Canaccini

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Dossier

LUCA SIGNORELLI IN UMBRIA/5 Il frammento misterioso

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di Valentina Ricci Vitiani, con un contributo di Giuseppe Sterparelli

50

COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/5 Carni deboli e false reliquie MATILDE DI CANOSSA L’ultimo viaggio della contessa di Paolo Golinelli

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di Corrado Occhipinti Confalonieri

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COSTUME E SOCIETÀ Scene di vita quotidiana di Jerzy Miziołek

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CALEIDOSCOPIO QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Luis Bertrán, il santo pistolero di Paolo Pinti 106

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LIBRI Lo Scaffale

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LA NAVE BIANCA La traversata maledetta 83 di Gianna

Baucero


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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

LUGLIO 1260 LA SCONFITTA DEI CAVALIERI TEUTONICI

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MEDIOEVO n. 318 LUGLIO 2023

MEDIOEVO

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20/06/23 16:36

MEDIOEVO Anno XXVII, n. 318 - luglio 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Gianna Baucero è scrittrice. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Paolo Golinelli è presidente dell’Associazione Matildica Internazionale. Jerzy Miziołek è storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Valentina Ricci Vitiani è storica dell’arte. Giuseppe Sterparelli è documentarista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 35, 36-37, 39, 40, 44 (basso), 45, 46, 52-53, 58, 60/61, 65, 68, 83, 91, 92-93, 98-99, 102, 106 – Cortesia Ufficio Stampa Gallerie degli Uffizi-Ufficio stampa Fondazione CR Firenze: pp. 6-10 – Cortesia Ufficio stampa Opera Laboratori: pp. 14-15, 19, 20 – Cortesia Ufficio stampa VIVE-Vittoriano e Palazzo Venezia: Mauro Magliani: pp. 16 (alto), 17 (basso); Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Roma: p. 16 (basso); Studio Aguilar, Milano: p. 17 (basso); Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Roma/ Gaia Schiavinotto: p. 18 (alto, a sinistra); Ghigo Roli: p. 18 (alto, a destra); Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Roma-Museo di Roma, Archivio Iconografico/Alfredo Valeriani: p. 18 (basso) – Museo Nazionale, Varsavia: pp. 30/31 – Mondadori Portfolio: Album/Prisma: p. 33; Erich Lessing/K&K Archive: p. 80; AKG Images: pp. 97, 105 – Shutterstock: pp. 42/43, 46/47, 48, 62-63, 64/65, 66-67, 84-87, 90/91, 94-95, 100-101, 102/103, 104 – Cortesia degli autori: pp. 44 (centro), 51, 54-55, 57, 70-79, 107, 108, 110-111, 112 – Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie: Jörg P. Anders: p. 56 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 60, 109 – Alamy Stock Photo: pp. 88/89 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 32, 34, 44 – Cippigraphix: cartina a p. 38. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina Il naufragio della Nave Bianca, acquerello di Luisa di Sassonia. 1866. Londra, The Royal Collection Trust.

Prossimamente agosto 1278

La vittoria di Rodolfo d’Asburgo

uomini e sapori

dossier

A tavola con Geoffrey Chaucer

Navigare nel Medioevo

Errata corrige con riferimento all’articolo Quel tesoro da difendere (vedi «Medioevo» n. 317, giugno 2023) desideriamo rettificare la localizzazione fornita nella didascalia di p. 59, in quanto le Sante Croci di Brescia, in occasione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce, vengono esposte nel Duomo Nuovo della città lombarda. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori



il medioevo in

rima

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Letterati combattenti

MOSTRE • Le gesta e le opere dei letterati Federigo Nomi e Girolamo Magi, nati ad

Anghiari e vissuti tra Cinque e Seicento, sono oggetto dell’esposizione allestita nel Museo della Battaglia e di Anghiari nell’ambito del progetto «Terre degli Uffizi»

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l borgo aretino ospita opere manoscritte e a stampa provenienti da importanti istituzioni culturali e dipinti dal celebre museo fiorentino: un vero e proprio itinerario tra le corti dei Medici e Venezia, dove Nomi e Magi vissero e lavorarono. Indispensabile per Magi, nato ad Anghiari presumibilmente nel 1523, fu l’incontro con il poeta Pietro Aretino che lo aiutò nella pubblicazione del volume Le guerre di Fiandra, e le commissioni di Cosimo I de’ Medici, che in seguito lo portarono al servizio della Serenis-

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sima. Per Magi fu fondamentale lo studio del trattato sull’architettura militare di Albrecht Dürer, che fu il riferimento per quello del letterato anghiarese, il Della Fortificazione delle Città, scritto a quattro mani con Giacomo Fusto, detto Castriotto, e pubblicato a Venezia nel 1564. Venezia rimane il fulcro dell’attività matura di Magi, dove venne elevato al rango di Cavaliere di San Marco e da dove partí come sovrintendente alle fortificazioni per la difesa dell’isola di Cipro durante la guerra con gli Ottomani, culminata con la presa di luglio

MEDIOEVO


Il progetto «Terre degli Uffizi» Fondazione CR Firenze e Gallerie degli Uffizi si sono unite per dare vita al progetto di valorizzazione del patrimonio artistico della regione battezzato «Terre degli Uffizi». Si tratta del primo passo del piano mirato alla piú ampia conoscenza delle ricchezze artistiche della grande raccolta fiorentina, ideato e realizzato all’interno dei rispettivi progetti

Famagosta da parte di questi ultimi. Dopo la sconfitta veneziana, Magi venne condotto prigioniero a Costantinopoli dove venne giustiziato. Durante la prigionia ebbe il tempo di comporre opere letterarie, fra le quali il De Tintinnabulis, pubblicato postumo, uno dei piú significativi trattati di tutti i tempi sul suono delle campane.

Esilio a Monterchi Per Federigo Nomi, di antica stirpe di Borgo Sansepolcro, ma nato ad Anghiari nel 1633, il turbolento ambiente culturale toscano in declino, diviso tra galileisti e aristotelisti, lo portò da Rettore della scuola di Sapienza di Pisa all’esilio a Monterchi, dove scrisse la Buda liberata, poi pubblicata nel 1703, e Al Catorcio d’Anghiari, rimasto manoscritto e dato alle

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«Piccoli Grandi Musei» e «Uffizi Diffusi». Il progetto, della durata di cinque anni (2021-2026), ha preso il via nel 2021 con cinque mostre inserite nelle celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri e prosegue nel 2023 con un nuovo ricco calendario di eventi che intendono approfondire il legame tra il territorio e le collezioni del museo.

stampe solo a metà del XIX secolo. Il panorama storico e culturale che scaturisce dalla battaglia di Anghiari del 29 giugno 1440, in seguito raffigurata da Leonardo da Vinci, fece da genesi e da sfondo al componimento letterario del Catorcio. La sua vicinanza ad Antonio Magliabechi, ma soprattutto all’amico Francesco Redi, intimo della corte medicea, ne favorí la carriera di intellettuale, inserendolo fra i protetti di Cosimo III de’ Medici. In mostra, tra i prestiti dalle Gallerie degli Uffizi, si possono ammirare La fama e l’oblio di Nicolas Tournier, La donna e il soldato di Gerard Ter Borch e alcuni ritratti dei protagonisti della mostra, come quelli di Francesco Redi, Selim II, Pietro Aretino. Fra le opere in mostra provenienti dalla Biblioteca Città di Arezzo, vi sono alcuni dei

Un particolare dell’allestimento della mostra «Intellettuali in battaglia, fama e oblio di due letterati dalla Battaglia di Anghiari all’assedio di Famagosta», proposta dal Museo della Battaglia e di Anghiari, nella cittadina omonima.

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volumi a stampa delle opere piú significative di Magi; dal Museo delle Arti e Tradizioni Popolari dell’Alta Valle del Tevere di Palazzo Taglieschi (Direzione regionale musei della Toscana) il Ritratto di Federigo Nomi, dalla biblioteca della Nuova Fondazione Pedretti una rara edizione degli Elogia di Paolo Giovio e grazie alla collaborazione con la Biblioteca comunale degli Intronati di Siena sarà possibile il con-

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fronto fra l’opera di Dürer e gli studi di Girolamo Magi. Sono stati inoltre realizzati alcuni modelli di macchine inventate da Magi, con i quali è possibile sperimentare direttamente in mostra le invenzioni tecnologiche che egli realizzò nel corso del XVI secolo. Magi e Nomi contribuirono a determinare il panorama culturale dell’epoca. Due personaggi cosí diversi e distanti ma accomunati da destini simili: l’instancabile produzione

In basso il Della Fortificatione delle città di Girolamo Magi e Giacomo Fusto, detto Castriotto. 1564. Anghiari, Museo della Battaglia e di Anghiari.


A sinistra alcuni dei volumi esposti in mostra. In basso, a sinistra Ritratto di Selim II, olio su tela di Cristofano Dell’Altissimo. 1580-1590 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. In basso a destra Ritratto di Francesco I de’ Medici, olio su tela. Da un originale di Scipione Pulzone, post 1590, Collezione privata. Eike Schmidt – è sofisticata ed entusiasmante anche perché nasce da nuovi, importanti studi, che vengono messi alla portata del pubblico unendo testi scritti e dipinti che illustrano la vita e l’ambiente dei personaggi che ne sono protagonisti. Questo è il senso di “Terre degli Uffizi” e degli “Uffizi diffusi”: stimolare nuove riflessioni sul tessuto culturale e artistico del luogo che li ospita, per mostrare che ogni angolo d’Italia ha un ruolo fondamentale nella storia del Paese». Per il direttore Generale della Fondazione CR Firenze, Gabriele Gori, «“Terre degli Uffizi”

letteraria, seguita dall’oblio. La mostra vuole insomma porsi quale strumento di riflessione per evidenziare quanto l’ambiente intellettuale del XVI e XVII secolo fosse diffuso nel territorio, apportando arricchimenti e partecipando all’evoluzione del pensiero. «Questa terza mostra ad Anghiari – ha dichiarato il direttore delle Gallerie degli Uffizi

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torna per la terza volta in questo splendido borgo che dimostra la sua attenzione alla cultura e all’arte. Il Museo della Battaglia e di Anghiari è stato anche uno dei protagonisti del nostro progetto “Piccoli Grandi Musei”, di cui “Terre degli Uffizi” è l’ideale continuazione. Una nuova mostra che ci offre l’opportunità di ammirare opere d’arte provenienti dal-

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DOVE E QUANDO

«Intellettuali in battaglia, fama e oblio di due letterati dalla Battaglia di Anghiari all’assedio di Famagosta» Anghiari (Arezzo), Museo della Battaglia e di Anghiari fino al 17 settembre Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,30-18,30 Info tel. 0575 787023; e-mail: museobattaglia@anghiari.it; www.battaglia.anghiari.it

A sinistra un momento della cerimonia di inaugurazione della mostra. In basso Ritratto di Federigo Nomi, olio su tela di pittore ignoto di ambito toscano. Seconda metà del XVII sec. Anghiari, Museo delle Arti e Tradizioni Popolari dell’Alta Valle del Tevere, Palazzo Taglieschi. le Gallerie degli Uffizi, di approfondire vicende storiche dei nostri territori e di fare la conoscenza con personalità come le figure dei due “letterati combattenti” che incontriamo al Museo della Battaglia e di Anghiari. Siamo felici di aver supportato questa istituzione anche con il nostro “Sportello Europa” nell’iter per accedere ai finanziamenti europei che serviranno a rendere piú accessibile il Museo stesso».

Guardare al futuro senza paure «Dal 2019 – chiosa il sindaco di Anghiari Alessandro Polcri – molte sono state le iniziative culturali del Museo comunale che hanno contribuito, in alcuni casi in maniera determinante, ad accrescere la reputazione di Anghiari nel panorama nazionale e internazionale grazie soprattutto alla collaborazione con le Gallerie degli Uffizi e la Fondazione CR Firenze nell’ambito del programma “Terre degli Uffizi”. Girolamo Magi e Federigo Nomi in questa occasione sono coloro che ci annunciano la necessità di non chiudersi nei propri confini, ma di fare esperienze, intessere relazioni, e soprattutto di non avere paura del futuro. Visitando la mostra troveremo quindi un percorso dove Magi e Nomi ci introdurranno nelle loro vite, oggi sconosciute ai piú, svelandone alcuni dei piú significativi aspetti». (red.)

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Rinascimento lunigianese D

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Immagini di repertorio di «Filetto rinascimentale», in programma dall’11 al 15 agosto prossimi. danzatrici, medici d’altri tempi, musici itineranti, loschi figuri e creature provenienti dalla fantasia rinascimentale, mentre passeggerà tra i banchi storici per le vie del borgo. Concerti di musica dal vivo saranno previsti sul palco della piazza principale. Grazie a questo evento la frazione del borgo di Filetto si riempie di visitatori locali e non. Ciò porta un beneficio al tessuto economico locale costituito dai ristoratori e strutture ricettive, ma anche per valorizzare l’aspetto immobiliare del borgo data l’alta affluenza prevista. Il borgo essendo prevalentemente costituito da strutture tardo medievali e rinascimentali ottiene una maggior valorizzazione grazie al montaggio di scenografie storiche e alle attività previste. La comunicazione messa in atto si ripercuoterà su un periodo di tempo piú dilatato rispetto a quello dell’evento, portando interesse anche nei mesi successivi. L’ecletticità già raggiunta nella scorsa edizione sarà ampliata quest’anno aumentando il numero di conferenze e il livello delle stesse. Coinvolgendo un pubblico di giovani appassionati alla musica dal vivo. Coinvolgendo i piú piccoli per quanto riguarda le didattiche e gli spettacoli. Mentre ai senior sarà data attenzione per le mostre e le didattiche legate ad abbigliamento e vita quotidiana. Teatro e artigianato si fonderanno assieme, nuove tecnologie e antichi saperi so fonderanno per comunicare a un’utenza diversificata.

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al tradizionale mercato medievale di Filetto, che vantava piú di 35 edizioni, nasce con un certo senso di rinnovo «Filetto Rinascimentale», la prima festa rinascimentale della Lunigiana storica. La seconda edizione dell’evento prenderà forma nel meraviglioso e incantato borgo rinascimentale di Filetto dall’11 al 15 agosto. Artisti e rievocatori provenienti da tutta Italia e non solo, allieteranno un pubblico variegato dai piú piccoli ai senior. Sarà presente una mostra, curata dal gruppo SiAmo Lunigiana con gli abiti storici della famiglia Medici di Fivizzano. Mentre l’Accademia del Colore di Vezzano del Maestro Luciano Viani riproporrà, coi suoi artisti, uno spazio dedicato alle tecniche di pittura del Quattrocento e lo scultore Daniele Brochetelli mostrerà le tecniche scultore del periodo. Una serie di conferenze curate da Daniela Tresconi si susseguiranno nel chiostro del convento utilizzando un accampamento rinascimentale come sfondo scenografico. Un palinsesto di attività didattiche, spettacoli di strada, musica itineranti, concerti danza e teatro incentrati sulla vita quotidiana del tardo medioevo e del rinascimento Lunigianese e italiano in genere. Il gruppo Fochi Fatui di Carrara metterà in scena uno spettacolo di fuoco dedicato alla leggenda di San Giorgio e il Drago, i Diavoli Rossi dalle Chieti eseguiranno una serie di spettacoli di saltimbanchi ed equilibrismi. Per l’apertura dell’evento il giorno 11 agosto verrà messo in atto uno sketch con i sosia di Roberto Benigni (Mireno Scali) e di Massimo Troisi (Carlo Maria Teodini) dove i due personaggi reciteranno un estratto del film scendendo da un’improbabile automobile proveniente dal futuro, la Delorean. Inoltre il visitatore potrà incontrare affascinanti


ANTE PRIMA

Quell’incontro nella terra dei daini I

l nome di Mondaino (Rimini) ci racconta già un po’ la sua storia: il tempio eretto dai Romani, e dedicato a Diana (dea della caccia e delle selve), che sorgeva da queste parti doveva essere particolarmente importante se, in epoca romana, viene ricordato un Vicus Dianensis, cioè l’insediamento da cui trasse origine il paese. Al daino, animale simbolo ancora presente nel territorio e alle sue trasformazioni risale il nome del borgo, dal piú antico Mons Dainus a Monte Daino, sino all’attuale Mondaino. L’avvento del cristianesimo cambia il nome del luogo in Mons Damarum, il «monte dei daini» che poi diventa appunto Mondaino. Il castello vide crescere la sua importanza militare e civile proprio ai tempi della signoria malatestiana: nel 1289 già lo governano i Malatesta, i quali considerarono sempre il paese come luogo prediletto per la firma di trattati con i loro acerrimi nemici, i Montefeltro, signori della splendida città di Urbino (distante da qui solo 25 km) e di tutti i contadi dell’alta Valconca. Le mura di Mondaino hanno

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Immagini di repertorio del Palio de lo Daino, giunto alla sua 34a edizione, che animerà la cittadina di Mondaino nel prossimo mese di agosto. La grande rievocazione storica prende le mosse dai festeggiamenti organizzati in occasione dell’incontro tra Federico da Montefeltro e Sigismondo Malatesta, signore di Rimini.

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Altre immagini di repertorio del Palio de lo Daino. Fra i momenti assistito a scontri e battaglie per contendersi questi clou della manifestazione, vi sono i giochi nei quali si sfidano i crinali, strategicamente irrinunciabili, ma hanno visto rappresentanti delle quattro Contrade cittadine. anche atti e incontri politici del piú alto livello. Prima Carlo Malatesta con Antonio da Montefeltro (siamo e all’estero: il Palio de lo Daino, del quale si tiene nel 1393), poi Sigismondo Pandolfo con Federico duca quest’anno la 34a edizione. di Urbino (è il 1459) si incontrano a Mondaino per i patti di pace, destinati comunque a durar poco, come I festeggiamenti vengono organizzati per commemorare il giorno in cui, in un poggetto delle terre di Mondaino, dimostra il fatto che nel 1462 Federico conquista il castello e lo dona alla Chiesa. il conte Federico da Montefeltro incontrò Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, e l’evento fu celebrato Nei secoli successivi Mondaino resta uno dei principali con grandi feste. Per quattro giorni, dal 17 al 20 agosto, paesi della vallata; la sua bella piazza semicircolare, le Contrade di Mondaino – Borgo, Castello, Contado vero gioiello ottocentesco decorata da un elegante e Montebello – si sfideranno in varie competizioni, loggiato neoclassico, scenario naturale per eventi unici che sorprende e affascina il visitatore, qualche palazzo al termine delle quali tutti potranno rifocillarsi nelle taverne. Nelle strade saranno allestite bancarelle e nobiliare, le sue architetture e anche il saldo tessuto botteghe che proporrano prodotti artigianali, mentre cittadino, dimostrano la vitalità di un centro storico e di musici, cantori, giocolieri e acrobati daranno vita a un territorio ancor oggi molto apprezzato. eisibizioni e spettacoli. Dalla storia e dalla passione per la riscoperta delle Per il programma aggiornato e completo si può antiche tradizioni si celebra, in agosto, una delle consultare il sito www.mondainoeventi.it rievocazioni in costume piú conosciute in Italia Errata corrige con riferimento al Dossier

L’umanista che andò alle crociate (vedi «Medioevo» n. 220, aprile 2015) desideriamo precisare che la medaglia in bronzo riprodotta a p. 93 (in basso) ritrae Malatesta Novello (al secolo Domenico Malatesta, 1418-1465) signore di Cesena, e non Sigismondo Malatesta, come indicato in didascalia. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA

Le Arti per l’arte

MOSTRE • Le corporazioni fiorentine

commissionarono opere importanti ad altrettanto insigni artisti: ne sono un esempio le sculture di Ghiberti, Verrocchio e Giambologna attualmente «ospiti» del Museo Nazionale del Bargello

L

a chiusura temporanea del Complesso monumentale di Orsanmichele, a Firenze – resasi necessaria per permettere l’esecuzione di lavori straordinari di restauro, messa in sicurezza, riallestimento e miglioria degli accessi –, è stata trasformata in un’occasione di conoscenza di tre capolavori della statuaria bronzea rinascimentale. Fino al prossimo 4 settembre, infatti, il Museo Nazionale del Bargello – di cui Orsanmichele è parte – ospita in mostra il San Giovanni Battista di Lorenzo Ghiberti, l’Incredulità di san Tommaso di Andrea del Verrocchio e il San Luca del Giambologna. Noto come l’antica loggia per il mercato e per il deposito del grano,

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In alto San Luca (particolare), statua in bronzo del Giambologna. 1602. A destra Firenze, Complesso di Orsanmichele, 1988. Operazioni di smontaggio e movimentazione dell’Incredulità di san Tommaso di Andrea del Verrocchio, gruppo riprodotto nella pagina accanto.

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il Complesso di Orsanmichele è uno dei piú importanti monumenti pubblici fiorentini. Al primo piano del palazzo trecentesco dalla metà degli anni Novanta sono conservate le statue originali, marmoree e bronzee, raffiguranti i santi patroni delle Arti fiorentine, progressivamente rimosse dai tabernacoli esterni e sostituite da copie.

A ciascuno la sua edicola Le opere selezionate per l’esposizione temporanea al Bargello provengono tutte dalle edicole situate sulla facciata orientale di via de’ Calzaiuoli: il San Giovanni Battista di Ghiberti (1413-1416), la prima statua monumentale del Rinascimento, viene dal tabernacolo dell’Arte di Calimala, mentre il San Luca del Giambologna (1602) fu commissionato dall’Arte dei Giudici e dei Notai. L’opera dello scultore fiammingo si contraddistingue per la grande potenza espressiva e, a differenza degli altri due bronzi, non aveva mai avuto altre occasioni fino a oggi per lasciare il palazzo di Orsanmichele, se non per DOVE E QUANDO

«Ghiberti, Verrocchio e Giambologna. Ospiti “illustri” da Orsanmichele» Firenze, Museo Nazionale del Bargello fino al 4 settembre Orario lu, ve, sa e do, 8,15-18,50; me-gio, 8,15-13,50; chiuso il martedí Info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@ cultura.gov.it; www.bargellomusei. beniculturali.it

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la necessaria messa in sicurezza durante la seconda guerra mondiale e per il restauro del 2001. Infine, il gruppo verrocchiesco dell’Incredulità (1467-1483), scenograficamente allestito entro una nicchia sopraelevata a una altezza prossima a quella del tabernacolo originale, rappresenta l’Università della Mercanzia. Un video prodotto per l’occasione documenta in mostra le vicende conservative e allestitive del Complesso di Orsanmichele durante il corso del Novecento, attraverso la riproduzione di numerose fotografie storiche e moderne acquisite digitalmente, che mostrano le protezioni antiaeree predisposte dinanzi ai tabernacoli nel 19401943, i restauri dei bronzi intrapresi

dagli anni Ottanta, l’apertura del museo nel 1996, e l’esecuzione dei calchi dagli originali per derivare le matrici necessarie alla fusione delle copie. Le numerose fotografie testimoniano inoltre la complessità delle operazioni di movimentazione che, come in passato, anche in occasione della mostra, ha richiesto l’impegno delle professionalità tecniche coinvolte nell’allestimento dei tre bronzi monumentali.

Un dialogo ideale Nel percorso attraverso le sale del Bargello sono state predisposte didascalie per individuare quelle opere che, in virtú di legami storici e artistici con le vicende di Orsanmichele, o con gli scultori in mostra, possono essere idealmente messe in dialogo con questi ospiti «illustri». L’esempio piú significativo è il San Giorgio di Donatello (1415-1417 circa), scolpito per il tabernacolo dell’Arte dei Corazzai e degli Spadai, e trasferito nel 1891 da Orsanmichele al Museo Nazionale del Bargello, entro una nicchia, replica dell’originale, dove oggi è esposta anche la celebre predella con il San Giorgio che uccide il drago e libera la principessa. Sul lato settentrionale del cortile si trova poi la statua marmorea del San Luca di Niccolò di Pietro Lamberti (1403-1406), un tempo collocata nella nicchia dell’Arte dei Giudici e dei Notai, e sostituita nel 1602 dal monumentale bronzo del Giambologna. Mentre al secondo piano, nella sala del Verrocchio, il busto marmoreo scolpito da Mino da Fiesole ritrae Piero de’ Medici (1453-1454), uno dei cinque operai che, incaricati dalla Mercanzia di far eseguire una statua per il proprio tabernacolo a Orsanmichele, commissionarono al celebre scultore il gruppo dell’Incredulità. (red.)

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ANTE PRIMA

Splendori vaticani

MOSTRE • Ruota intorno a questo magnifico manufatto realizzato per papa

Innocenzo III la mostra allestita negli spazi del Vittoriano, a Roma, facendo luce sulla storia e la temperie culturale della Città Eterna nel Duecento

L

a lunetta della Nicchia dei Palli, uno straordinario manufatto di oreficeria medievale in bronzo dorato, è protagonista della mostra allestita nella Sala Zanardelli del Vittoriano. Realizzata da maestranze di Limoges che al tempo risiedevano a Roma, la lunetta era in origine destinata, con ogni probabilità, alla basilica costantiniana di S. Pietro in Vaticano: sopravvissuta alla demolizione della chiesa primitiva, l’opera è giunta a Palazzo Venezia, dove si trova ancora oggi. Imperniata sulla lunetta, «Bronzo e oro» ricostruisce e narra la figura di Innocenzo III, un papa capace di condizionare l’intero Medioevo, come dimostra fra l’altro il rapporto con san Francesco, e vuole anche far meglio

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In alto Lunetta della Nicchia dei Palli. Bronzo dorato, inizi del XIII sec. Roma, Palazzo Venezia.

comprendere l’assetto dell’antica basilica di S. Pietro, restituita attraverso la realtà immersiva.

Un programma di vasto respiro La mostra è il primo di una serie di progetti espositivi elaborati allo scopo di valorizzare e far conoscere a un piú vasto pubblico i capolavori del patrimonio di Palazzo Venezia e del Vittoriano, in piena sintonia con l’ampio programma di ricerca e di divulgazione messo in atto dall’apertura dell’Istituto nel 2020. Una programmazione che coinvolgerà anche opere non esposte al pubblico e conservate nei depositi, recentemente restaurate e sottoposte a importanti ricerche. Un ricco apparato iconografico e luglio

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divulgativo introduce i visitatori al capolavoro, contestualizzando il periodo storico e storico artistico. Grazie a un’installazione, realizzata attraverso le moderne tecnologie di modellazione digitale 3D e realtà virtuale, la basilica di S. Pietro ai tempi di Innocenzo III si materializza sulle pareti e sul pavimento della nuova sala immersiva. Il visitatore si troverà cosí catapultato all’interno della basilica medievale ricostruita grazie allo studio di antiche fonti iconografiche e descrizioni dell’epoca. Sulle grandi pareti della sala apparirà la Lunetta della Nicchia dei Palli: immagini ad altissima risoluzione mostreranno tutti i dettagli, poco visibili a occhio nudo, come l’Agnus Dei, la porta di Dio, i profeti, gli apostoli e l’immagine del pontefice. In un susseguirsi di immagini, suoni e animazioni 3D i visitatori saranno immersi in

Disegno ricostruttivo della basilica di S. Pietro in epoca medievale.

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Qui sotto un particolare della Lunetta della Nicchia dei Palli. Nella pagina accanto, in basso mosaico policromo raffigurante la Fenice. Inizi del XIII sec. Roma, Museo di Roma

un particellare dorato che renderà magica l’esperienza e li trasporterà in un mondo sospeso tra passato e futuro. La narrazione cosí costruita vuole essere quindi un esempio di divulgazione di alto profilo: l’obiettivo è di riuscire a coinvolgere un pubblico piú ampio per avvicinarlo a un momento della storia dell’arte complesso e difficile da immaginare. La Lunetta della Nicchia dei Palli è un’opera in bronzo dorato, con incisioni e inserti a smalto, lavorata su entrambi i lati. Sul recto la lamina mostra a rilievo dodici profeti e i dodici apostoli e, al centro, il Cristo come Agnus Dei e altri simboli tratti dal Libro dell’Apocalisse. Sul verso si trovano invece, eseguite a incisione, figure di vescovi entro arcate su colonne e la raffigurazione di un pontefice e dello Spirito Santo sotto forma di colomba.

Croci nere sulle stole bianche Secondo alcuni studiosi, la lunetta in origine coronava la cosiddetta Nicchia dei Palli, situata nella confessio dell’antica basilica di S. Pietro in Vaticano, sotto l’altare maggiore. La nicchia serviva per collocarvi i palli, ovvero le stole bianche trapunte da croci nere che i pontefici ancor oggi consegnano ai vescovi, nel corso di una solenne cerimonia di vestizione. La lunetta è stata conservata per lungo tempo nel santuario di S. Maria delle Grazie in Venturella (Mentorella) a Capranica Prenestina e nella seconda metà del secolo scorso venne depositata nel Museo di Palazzo Venezia.

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ANTE PRIMA Particolare delle storie dell’Anticristo nel quale compaiono l’autoritratto di Luca Signorelli (a sinistra) e il ritratto di un monaco tradizionalmente identificato con il Beato Angelico.

In alto Il sogno di Innocenzo III, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. A sinistra mosaico raffigurante l’Ecclesia Romana. XII sec. Roma, Museo Barracco. In basso mosaico raffigurante papa Innocenzo III. Inizi del XIII sec. Roma, Museo di Roma.

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L’opera venne realizzata nel primo decennio del XIII secolo, al tempo del pontificato di Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni) che regnò dal 1198 al 1216. Il manufatto viene riferito a un artista la cui formazione culturale è legata alla produzione dell’area del Reno e della Mosa, con influenze provenienti dalla produzione degli smalti di Limoges. Innocenzo III fu un pontefice molto importante per la Chiesa medievale: approvò infatti la prima Regola di san Francesco, evento centrale della spiritualità del tempo, divenendo anche il protagonista di un episodio della Legenda major, la biografia di Francesco, redatta da Bonaventura da Bagnoregio. Innocenzo III fu inoltre il tutore del futuro imperatore Federico II di Svevia. La sua azione politica fu volta al rafforzamento del potere spirituale e temporale della Chiesa; azione che ebbe – come accadeva in

tutto il Medioevo – importanti effetti sulla produzione artistica. Innocenzo decise di rinnovare il mosaico absidale della basilica di S. Pietro in Vaticano, la cui iconografia era incentrata proprio sul concetto della supremazia e del potere della Chiesa di Roma, direttamente discendenti da Cristo. In questo progetto di rinnovamento rientrò anche l’esecuzione di elementi decorativi dell’interno della basilica, di cui la lunetta faceva parte. (red.) DOVE E QUANDO

«Bronzo e Oro. Roma, Papa Innocenzo III: racconto di un capolavoro» Roma, Vittoriano, Sala Zanardelli fino al 1° ottobre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Catalogo Skira Info vive.cultura.gov.it luglio

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Un tappeto di marmo e le sue storie EVENTI • Torna la tradizionale

scopertura straordinaria del pavimento a commesso marmoreo del Duomo di Siena. Un’opera stupefacente e ricca di implicazioni simboliche e filosofiche

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ino al 31 luglio e poi dal 18 agosto al 18 ottobre, il Duomo di Siena torna a scoprire il suo magnifico pavimento a commesso marmoreo, frutto di cinquecento anni di espressione artistica, un viaggio simbolico alla ricerca dei piú alti valori dello spirito umano. Nella Lettera ai Filippesi (2, 15), san Paolo invita a splendere «come stelle in terra», a vivere l’esperienza terrena come preludio a quella divina nella città degli eletti, descritta nell’Apocalisse: «vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra» (21, 1). Con l’auspicio di una nuova epoca di pace, con la speranza che gli animi siano propensi a riscoprire la divina bellezza delle Arti e dei Monumenti, l’invito dell’Arcidiocesi di SienaColle di Val d’Elsa-Montalcino, dell’Opera della Metropolitana di Siena e di Opera Laboratori, è quello di proporre una visita con una maggiore consapevolezza, con un desiderio di rinascita verso la «luce» di bellezza, sapienza e spiritualità «poiché non vi sarà piú notte» (Apocalisse 21, 25). Il prezioso tappeto di marmi è unico, non solo per la tecnica utilizzata, ma anche per il messaggio

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L’interno del Duomo di Siena con, in primo piano, il pavimento a commesso marmoreo.

delle figurazioni, un invito costante alla sapienza, a partire dalle navate con i protagonisti del mondo antico, scarmigliate sibille e filosofi, fino ai soggetti biblici sotto la cupola, nel presbiterio e nel transetto; un viaggio simbolico alla ricerca dei piú alti valori dello spirito umano.

Oltre cinquanta artisti Il pavimento è il risultato di un programma iconografico realizzato attraverso i secoli, a partire dal Trecento fino all’Ottocento, oltre cinquanta in tutto, i cui cartoni preparatori furono disegnati da artisti, quasi tutti «senesi», fra cui il Sassetta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni, Domenico Beccafumi, oltre che dal pittore umbro Pinturicchio, autore del celebre riquadro con il Monte

della Sapienza, raffigurazione simbolica della via verso la Virtú come raggiungimento della serenità interiore, «un sentiero sicuro anche fra le onde»(Sap. 14,3). Il percorso si apre con l’iscrizione d’ingresso, davanti al portale centrale, un invito a entrare «castamente» nel Virginis templum, la casa di Maria, testimonianza del forte legame che i cittadini senesi hanno da secoli con la loro «patrona»: Sena vetus civitas Virginis. La Madonna si definisce anche come Sedes Sapientiae, «sede di Sapienza» e, subito dopo, la scritta è seguita dalla celebre tarsia con l’Ermete Trismegisto, il sapiente egiziano, il primo grande teologo dell’antichità. Seguono filosofi come Socrate e Cratete nella tarsia del Pinturicchio, Epitteto,

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ANTE PRIMA Un’altra immagine del Duomo senese e del suo magnifico pavimento, del quale è in corso la scopertura straordinaria.

DOVE E QUANDO Aristotele, Seneca ed Euripide che corredano la Ruota della Fortuna e invitano al distacco dai beni terreni, futili, anzi ingombranti per dedicarsi al pensiero filosofico. Si passa dunque all’itinerario biblico, in cui Domenico Beccafumi, rispetto agli artisti delle precedenti generazioni, si avvale di nuovi modi stilistici, rinnovando la tecnica del commesso marmoreo. L’artista invece di utilizzare pietre di vario colore accosta marmi di sfumature diverse rispetto alla tinta di base. Attraverso le gradazioni tonali del grigio-verde, Beccafumi riesce cosí a ottenere risultati sorprendenti di chiaro-scuro, in cui luci e ombre delineano le figure con una tale abilità artistica, da sembrare capolavori realizzati con la tecnica silografica o pitture monocrome. Beccafumi compie tale rivoluzione nel fregio in cui Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia che si inserisce tra i due pilastri che sorreggono la cupola, verso il presbiterio. In occasione della scopertura i

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visitatori possono «deambulare» intorno al coro e all’abside dove si conservano le tarsie lignee di Fra Giovanni da Verona, eseguite con una tecnica simile a quella del commesso marmoreo, con legni di diversi colori, raffiguranti vedute urbane, paesaggi e nature morte, armadi che mostrano gli scaffali interni con oggetti liturgici resi con abilità prospettica.

Un complesso da scoprire L’itinerario completo OpaSiPass consente, oltre la visita del Pavimento in Cattedrale, quella al Museo dell’Opera in cui si possono ammirare, nella Sala delle Statue, i mosaici con i simboli delle città alleate di Siena e le tarsie originali di Antonio Federighi con le Sette età dell’Uomo. Nella Sala dei Cartoni, il cui ingresso fiancheggia la magnifica Maestà di Duccio, è visibile la pianta del Pavimento del Duomo delineata da Giovanni Paciarelli nel 1884, che mostra un quadro d’insieme delle tarsie

«Come stelle in terra» Scopertura straordinaria del Pavimento del Duomo di Siena fino al 31 luglio e dal 18 agosto al 18 ottobre Info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it e del percorso che, dall’ingresso, conduce fino all’altar maggiore. Il biglietto integrato prevede anche l’accesso alla cosiddetta «Cripta», sotto il Pavimento del Duomo e al Battistero. Prenotando la visita al pavimento della Cattedrale è possibile avere sul proprio smartphone l’audioguida gratuita del complesso del Duomo oppure richiedere una visita guidata. In occasione della scopertura straordinaria 2023, è stato edito da Sillabe il nuovo catalogo ufficiale del pavimento del Duomo di Siena Un libro di marmo. (red.) luglio

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AGENDA DEL MESE

Mostre VICENZA RAFFAELLO. NATO ARCHITETTO Palladio Museum fino al 9 luglio

Tutti conoscono il Raffaello pittore, ma non tutti sanno che è stato un grandissimo architetto, uno dei piú influenti di tutto il Rinascimento. E la mostra, dunque, percorre venticinque anni della vita dell’Urbinate, decisa a dimostrare una tesi radicale: che Raffaello non nasce pittore e poi diviene architetto, quando gli viene affidato il cantiere dell’enorme basilica di S. Pietro, dopo la morte di Bramante nel 1514. Non solo le sue prime opere edilizie, per

a cura di Stefano Mammini

l’osservatore all’interno degli edifici dipinti, con vedute che oggi definiremmo «cinematografiche» e «immersive». In mostra disegni originali, fra cui preziosissimi autografi di Raffaello, provenienti dal Royal Institute of British Architects di Londra e dagli Uffizi, taccuini e manoscritti dalla Biblioteca Centrale di Firenze, sculture antiche e libri rinascimentali, presentano non solo le architetture costruite da Raffaello ma anche quelle – non meno affascinanti – rimaste sulla carta o andate distrutte, come palazzo Branconio dell’Aquila. Due riproduzioni ad altissima fedeltà degli enormi, intrasportabili cartoni per gli arazzi della Cappella Sistina, come il «Sacrificio di Listra» e la «Predica di San Paolo ad Atene», porteranno in mostra l’intreccio inscindibile del Raffaello pittore e architetto, realizzati dalla celebre Factum Arte di Madrid, il leader internazionale di queste produzioni in bilico fra tecnologia e arte. info tel. 0444 323014; e-mail: accoglienza@palladiomuseum.org; www.palladiomuseum.org AREZZO

il banchiere senese Agostino Chigi, risalgono a tre anni prima, ma Raffaello architetto lo è sin dall’inizio della propria attività di artista. Lo provano indizi concreti nei suoi disegni e dipinti a partire dal 1501, e nelle sue opere figurative vive da subito una nuova e innovativa idea di spazio, alimentata dallo studio e dall’imitazione dell’architettura della Roma antica, che porta

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IL MAGISTERO MEDIEVALE DI MARGARITO D’AREZZO Museo Nazionale di Arte Medievale e Moderna fino al 29 luglio

L’esposizione propone un viaggio alla scoperta della pittura del Duecento, attraverso l’opera di uno dei massimi interpreti di quella stagione, riunendo parte del corpus delle opere di Margarito d’Arezzo e rendendo omaggio al suo genio creativo. L’occasione dei lavori strutturali attualmente in corso al Santuario delle Vertighe che

hanno comportato il ricovero delle opere esposte in chiesa nel deposito del convento annesso, rappresenta infatti un’opportunità unica per mettere a confronto diretto il dossale con la Vergine con il Bambino in trono e storie della Vergine con santi e sante, capolavoro su fondo oro di Margarito, con le opere di Margarito esposte al Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo quali la Madonna col Bambino in trono di Montelungo e i due San Francesco, uno eseguito assieme a un collaboratore e proveniente dalla Chiesa del Convento di Sargiano, l’altro opera della bottega dell’artista, proveniente dalla chiesa del convento di Ganghereto a Terranuova Bracciolini. info tel. 0575 1696258; e-mail: info@arezzointour.it LONDRA SAN FRANCESCO D’ASSISI National Gallery fino al 30 luglio

San Francesco viene per la prima volta celebrato da una mostra allestita nel Regno Unito, in occasione della quale sono riunite oltre quaranta opere d’arte provenienti da collezioni europee e statunitensi pubbliche e private, che coprono oltre sette secoli. Le opere spaziano da pannelli dipinti medievali a

reliquie e manoscritti e persino un fumetto Marvel. La rassegna vuole far luce su come san Francesco ha catturato l’immaginazione degli artisti, su come la sua immagine si è evoluta nel corso dei secoli e su come il suo messaggio universale abbia trasceso i secoli, i continenti e le diverse tradizioni religiose. La vita e i miracoli di Francesco si prestarono alla creazione di un ricco immaginario e furono

una grande fonte d’ispirazione per gli artisti. Oltre a quelli del Nuovo Testamento, Francesco è probabilmente il santo piú rappresentato nella storia dell’arte e la popolarità del movimento francescano è cresciuta di pari passo con la rapida diffusione dell’immaginario, da parte di alcuni dei piú grandi artisti, che raccontano la sua figura e leggenda. Gli storici dell’arte ritengono che, solamente nel secolo successivo alla sua morte, potrebbero essere comparse circa ventimila immagini di luglio

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Francesco, senza contare quelle in manoscritti miniati. info www.nationalgallery.org.uk NEW YORK RICCHI, POVERI: ARTE, CETO E COMMERCI IN UNA CITTÀ DEL TARDO MEDIOEVO The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 20 agosto

All’epoca dei Tudor, i membri dell’emergente classe media inglese individuarono nella casa un bene attraverso il quale ostentare l’affermazione del proprio status sociale e un veicolo di autorappresentazione. È questa l’idea che ha ispirato il progetto espositivo realizzato nella sezione medievale del Metropolitan, The Cloisters, e che si è concretizzata nella documentazione dell’abitazione e della vita di un mercante vissuto a Exeter nel XVI secolo, Henry Hamlyn. Per farlo, attingendo alle collezioni del museo newyorkese stesso, sono state selezionate oltre 50 opere, fra tessuti, stampe, elementi d’arredo e oggetti d’arte decorativa. Hamlyn, che per due volte resse le sorti della municipalità cittadina, fu un ricco mercante di stoffe e si affermò come uno dei personaggi piú in vista della Exeter cinquecentesca. E la casa che si fece costruire costituí una vivace anomalia

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nel panorama urbano dell’epoca, caratterizzata com’era da una serie di sculture di grande formato che raffiguravano soggetti ricavati da stampe popolari e racconti boccacceschi: ecco cosí sfilare un giullare, una coppia che litiga, contadini e musicanti. Ma perché uno degli uomini piú ricchi e potenti della città avrebbe scelto di dare visibilità alle classi meno abbienti? Due sono le ipotesi suggerite dalla mostra: il desiderio di celebrare la vita quotidiana di Exeter o forse, e piú probabilmente, la volontà di sottolineare il proprio ruolo nella comunità. info www.metmuseum.org TORINO BIZANTINI. LUOGHI, SIMBOLI E COMUNITÀ DI UN IMPERO MILLENARIO Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica, Sala del Senato fino al 28 agosto

Giunge a Torino la rassegna sul «millennio bizantino» già presentata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Rispetto al primo allestimento, la versione torinese ripropone il corpus espositivo principale, integrato però da una sezione dedicata al rapporto con l’area piemontese. Oltre 350 opere – sculture, mosaici, affreschi, vasellame, sigilli e monete, smalti, oggetti d’argento, gemme e oreficerie, elementi architettonici – danno conto delle strutture, dei sistemi organizzativi, dei commerci e dei rituali di una complessa realtà politica, testimoniando nel contempo le eccellenze delle manifatture bizantine, gli incroci di cultura, gli stilemi e i simboli dell’impero d’Oriente attraverso i secoli. Prestiti provenienti da raccolte

italiane e da oltre venti musei greci giungono a Torino a narrare il millenario sforzo di un impero teso al dialogo tra la cultura classica e quella orientale. Per una Bisanzio, legata al territorio piemontese, che vedrà nel Principato d’Acaia, fin dalle origini proiettato verso l’Oriente greco e bizantino, l’origine della dinastia dei Savoia-Acaia – formatasi dal matrimonio nel 1301 tra Filippo di Savoia e Isabella di Villehardouin, principessa d’Acaia – ma anche una strettissima connessione con la dinastia dei Paleologi, ascesa nel 1261 con Michele Paleologo al trono imperiale, conservato sino al tramonto definitivo di Bisanzio nel 1453 tramite questo suo ramo occidentale, che si dimostra capace di ravvivare gli splendori della corte aleramica, rimanendo al potere fino all’ultimo discendente, Gian Giorgio, morto nel 1533. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it TORINO ALL’OMBRA DI LEONARDO. ARAZZI E CERIMONIE ALLA CORTE DEI PAPI Reggia di Venaria, Sale delle Arti fino al 3 settembre (prorogata)

La nuova stagione della Reggia di Venaria si apre con una mostra che offre l’occasione di compiere un viaggio all’interno di alcune fra le piú importanti cerimonie papali: la Lavanda dei piedi e la Coena Domini che si svolgevano il Giovedí Santo nel cuore del Palazzo Vaticano, in ambienti solenni impreziositi da straordinarie opere d’arte, legate ai nomi di Leonardo e Raffaello. Cogliendo il senso di antiche cerimonie, ricche di simboli e di significati, arazzi, quadri, incisioni e oggetti raccontano

una storia che affonda le sue radici lontano nel tempo, immergendo il visitatore in un mondo di tradizioni e antichi riti. Non solo atti esteriori, ma importanti testimonianze della Chiesa romana. La storia che si racconta ebbe inizio nel 1533 quando, in occasione

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del matrimonio di Caterina de’ Medici, nipote di papa Clemente VII, ed Enrico di Valois, secondogenito del re di Francia Francesco I, quest’ultimo donò al pontefice un prezioso arazzo raffigurante l’Ultima Cena di Leonardo. Un matrimonio e un regalo importante che suggellavano l’alleanza tra la Francia e il papato contro l’imperatore Carlo V (responsabile del sacco di Roma, avvenuto solo sei anni prima, nel 1527). L’opera fu realizzata dopo il 1516 su ordine dello stesso Francesco I e di sua madre Luisa di Savoia. Questo spiega la presenza di simboli sabaudi lungo tutta la bordura dell’arazzo. Nel prezioso panno, interamente tessuto in oro e seta, l’Ultima Cena milanese è trasposta con assoluta fedeltà, ma con un’importante variazione. Lo sfondo – che nell’originale è quasi un’astrazione – diviene un’architettura rinascimentale: come se l’Ultima Cena si svolgesse alla corte di Francia. Francesco I era un grande estimatore di Leonardo, tanto da averlo chiamato alla sua corte, ed è ormai opinione di molti che il cartone dell’arazzo, su cui fu poi effettuata la successiva tessitura, sia stato realizzato in Francia sotto la supervisione dello stesso Leonardo. info www.lavenaria.it VENEZIA IMAGO IUSTITIAE Museo Correr fino al 3 settembre

Aulo Gellio, giurista e scrittore latino del II secolo d.C. delinea un ritratto «tipico» di Iustitia: una giovane donna dall’aspetto solenne e pieno di dignità; espressione severa; fronte aggrottata; sguardo a un tempo scuro e pieno di

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energia. Si tratta, commenta Gellio, di fattezze simboliche che si interpretano facilmente: «Giustizia è vergine poiché incorruttibile, volitiva poiché non conosce cedimenti, austera poiché non lascia spazio a preghiere o lusinghe, temibile poiché nemica implacabile con chi sceglie di non rispettarla». Questa caratterizzazione contiene, tuttavia solo parte delle storie precedenti, che si rivelano ben piú complesse e illuminano un orizzonte molto piú antico quando l’ordine e l’armonia delle parti erano emanazione di divinità superiori. Al sovrano, eroe eponimo o capo della comunità spettava essere il tramite e l’esecutore del buon governo. La mostra attraversa il tempo alla ricerca della formazione del primitivo concetto di Giustizia e mostra i mutamenti dell’immagine nei secoli, magistralmente resi da grandi artisti di tutti i tempi, fra cui Guercino, Andrea Del Sarto, Martini, Nani, Reni, Sansovino, Vasari, Maccari e Raffaello. info call center, tel. 848082000; https://correr.visitmuve.it/ L’AQUILA IL MAESTRO DI CAMPO DI GIOVE. RICOMPORRE UN CAPOLAVORO Museo Nazionale d’Abruzzo, Sala Francescana fino al 3 settembre

Il furto, nel 1902, degli sportelli della custodia di Sant’Eustachio privò l’arte abruzzese di un tassello

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BUDDHA10. FRAMMENTI, DERIVE E RIFRAZIONI DELL’IMMAGINARIO VISIVO BUDDHISTA MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 3 settembre

importante per la ricostruzione della pittura centro-italiana del XIV secolo, oltre che del ciclo narrativo piú grande dedicato alla figura del santo. Dopo il furto l’opera fu tagliata nelle scene che la componevano, immesse come «tavolette» sul mercato antiquariale. Nel 2022, grazie all’acquisto di quattro tavolette da parte della Direzione generale Musei del Ministero della cultura, il Museo Nazionale d’Abruzzo ha oggi nella sua collezione otto delle sedici scene. Dall’importante acquisizione è nata l’idea della mostra che, grazie anche al generoso prestito di una collezione privata, espone, assieme per la prima volta dalla dispersione, le tredici tavolette finora rintracciate e, grazie alla collaborazione con la Diocesi di Sulmona, la statua del santo un tempo conservata nella Custodia. info museonazionaledabruzzo. cultura.gov.it

Quali significati hanno gli oggetti rituali presenti nelle collezioni del MAO e come venivano utilizzati e percepiti nel loro contesto originario? Perché e come sono entrati a far parte del patrimonio del museo – cosí come di altri musei di arte asiatica in ambito europeo? E ancora: quali sono i problemi posti dalla conservazione e dal restauro, subordinati al gusto e alle tecniche che cambiano nel tempo? Qual è il rapporto fra buddhismo e nuove tecnologie? Da queste domande prende avvio la nuova mostra «Buddha10», un

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progetto che parte dalle opere presenti nelle collezioni per aprire prospettive piú ampie relative a questioni che riguardano il museo, le sue collezioni e su cosa significa gestire, custodire e valorizzare un patrimonio di arte asiatica in ambito occidentale. Nelle sale dedicate alle esposizioni temporanee, in uno spazio essenziale ed evocativo, oltre venti grandi statue buddhiste in legno o pietra di epoche diverse (dal V al XIX secolo) delle collezioni del MAO sono accostate ad alcune sculture – tra cui oltre trenta bronzetti votivi della collezione Auriti e due straordinarie teste scultoree in pietra di epoca Tang (618-907 d.C.) – provenienti dal Museo delle Civiltà di Roma, con cui il museo ha avviato una proficua e articolata collaborazione, e a un importante prestito proveniente dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova. info tel. 011 4436927; www.maotorino.it FIRENZE GHIBERTI, VERROCCHIO E GIAMBOLOGNA. OSPITI «ILLUSTRI» DA ORSANMICHELE Museo Nazionale del Bargello fino al 4 settembre

Sono eccezionalmente riuniti nel Museo del Bargello il San Giovanni Battista di Lorenzo Ghiberti, l’Incredulità di san Tommaso di Andrea del Verrocchio e il San Luca del Giambologna, tre fra i massimi capolavori della statuaria bronzea rinascimentale, provenienti dal Museo di Orsanmichele. L’esposizione offre l’occasione per ammirare tre opere del celebre ciclo scultoreo di Orsanmichele, trasferite presso l’antica sede del Palazzo del Podestà durante la temporanea chiusura del Complesso monumentale per lavori straordinari di restauro, messa in sicurezza, riallestimento e miglioria degli accessi. Le opere provengono tutte dalle edicole situate sulla facciata orientale di via de’ Calzaiuoli: il San Giovanni Battista di Ghiberti (1413-1416), la prima statua monumentale del Rinascimento, viene dal tabernacolo dell’Arte di Calimala, mentre il San Luca del Giambologna (1602) fu commissionato dall’Arte dei Giudici e dei Notai. Infine, il gruppo verrocchiesco dell’Incredulità (1467-1483), scenograficamente allestito in mostra entro una nicchia sopraelevata a una altezza prossima a quella del tabernacolo originale, rappresenta l’Università della Mercanzia. info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@cultura.gov.it; www. bargellomusei.beniculturali.it TORINO METALLI SOVRANI. LA FESTA, LA CACCIA E IL FIRMAMENTO NELL’ISLAM MEDIEVALE. MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 17 settembre

La seconda tappa del viaggio di avvicinamento alla grande mostra dell’autunno dedicata all’arte dei Paesi tra estremo Oriente e centro Asia fino alle sponde del Mediterraneo è un progetto dedicato ai piú raffinati oggetti di arte islamica in metallo e rappresenta la prima collaborazione fra il Museo

d’Arte Orientale e la Aron Collection. L’esposizione presenta una mirata selezione delle principali tipologie di oggetti della metallistica islamica (bruciaprofumi, portapenne, candelieri, vassoi, bacili, coppe, bottiglie porta profumo) che, insieme alla miniatura, può essere considerata tra le piú alte espressioni della creatività artistica musulmana. Una creatività che dalla Persia si diffondeva nel mondo come un linguaggio, raggiungendo a Oriente l’India e la Cina e arrivando in Occidente alle pendici dell’Atlante. Frutto di ammirazione e di imitazione raggiunse anche l’Europa, dimostrando quanto le frontiere politiche e religiose non corrispondessero affatto a quelle della percezione estetica. info tel. 011 4436932; www.maotorino.it

ROMA BRONZO E ORO. ROMA, PAPA INNOCENZO III: RACCONTO IMMERSIVO DI UN CAPOLAVORO Vittoriano, Sala Zanardelli fino al 1° ottobre

L’esposizione ruota intorno alla lunetta della Nicchia dei Palli, uno straordinario manufatto di oreficeria medievale in bronzo dorato e, insieme, anche la piú importante opera d’arte superstite connessa alla figura di papa Innocenzo III (1198-1216). Realizzata da maestranze di Limoges che al tempo risiedevano a Roma, la lunetta era in origine destinata con ogni probabilità alla basilica costantiniana di S. Pietro in Vaticano: sopravvissuta alla demolizione della basilica primitiva, l’opera è giunta a Palazzo Venezia, dove si trova ancora oggi. Il manufatto è il fulcro intorno a cui viene ricostruita e narrata la figura di Innocenzo III, un papa

capace di condizionare l’intero Medioevo, come dimostra fra l’altro il rapporto con san Francesco. Parallelamente, si vuole far meglio comprendere l’assetto dell’antica basilica di S. Pietro, nell’occasione restituita attraverso la realtà immersiva. info vive.cultura.gov.it

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AGENDA DEL MESE CORTONA SIGNORELLI 500. MAESTRO LUCA DA CORTONA, PITTORE DI LUCE E POESIA Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino all’8 ottobre

Straordinario innovatore della stagione rinascimentale, Luca Signorelli (1450-1523) – al secolo, Luca d’Egidio di Ventura o Luca da Cortona – è stata una figura per molti versi sfuggente per la critica e il pubblico, eppure fondamentale nel tracciare la strada che sarà seguita da Raffaello e Michelangelo: i due giganti che, ironia della sorte,

faro per i grandi del Rinascimento». La mostra di Cortona, riunendo nella città di Luca dopo settant’anni una trentina di opere dell’artista provenienti da prestigiosi musei italiani ed esteri, compresi importanti prestiti da collezioni private e da oltreoceano, sarà dunque un’occasione per celebrare e consacrare definitivamente Luca da Cortona tra i grandi artisti del tempo, alla luce anche degli studi piú recenti. info tel. 0575 630415; e-mail: info@cortonamaec.org; https://cortonamaec.org/ SIENA DALLA SPADA ALLA CROCE. IL RELIQUIARIO DI SAN GALGANO RESTAURATO Cripta del Duomo fino al 5 novembre

finirono in seguito per oscurarne la fama. Nel cinquecentenario della morte, Cortona – la città natale a cui Signorelli fu sempre legato, assumendo anche incarichi pubblici nonostante i viaggi e la ripetuta lontananza – getta nuova luce sull’artista, con una mostra che volutamente si concentra sulla produzione pittorica del maestro con l’obiettivo di ripercorrerne la carriera, rendendo evidente la forza del suo colorismo, la portata e l’originalità della sue invenzioni tanto ammirate da Vasari, la potenza narrativa delle opere e la capacità che egli ebbe di andare oltre i suoi contemporanei, divenendo «un

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Un furto clamoroso, nel lontano 1989, dal Museo del Seminario Arcivescovile di Siena. Uno straordinario recupero, oltre trent’anni piú tardi, grazie al Comando dei Carabinieri, Tutela Patrimonio Culturale. E infine il restauro, eseguito nei Laboratori dei Musei Vaticani. È questa l’occasione per inaugurare la mostra «Dalla Spada alla Croce». Al centro della vicenda, una croce liturgica, due pissidi, cinque calici e soprattutto un capolavoro della produzione orafa senese del XIV secolo, il Reliquiario di San Galgano, oggetto mirabile e di intensa devozione popolare. Su di esso, decorate finemente in

preziosi smalti traslucidi, sono raffigurate le scene della vita del santo e della sua spada. Secondo la tradizione, Galgano sarebbe nato nel borgo senese di Chiusdino. Cavaliere appartenente alla piccola nobiltà locale, si convertí alla vita ascetica ed eremitica dopo le visioni dell’Arcangelo Michele, come rappresentato nelle sei scene del Reliquiario. Condusse la sua vita monastica nell’Eremo di Montesiepi, da lui edificato su una collina vicina al luogo dove sarebbe sorta l’Abbazia. Morí, secondo le fonti, il 30 novembre 1181. Appena quattro anni dopo, a seguito dei doverosi accertamenti canonici, papa Lucio III lo proclamò santo nel 1185. info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com URBINO IL PALAZZO DUCALE DI URBINO. I FRAMMENTI E IL TUTTO Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino all’11 novembre

«Tra le altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito di Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione

di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sí ben lo forní, che non un palazzo ma una città in forma di palazzo esser pareva». Cosí scrisse Baldassarre Castiglione ne Il libro del cortegiano pubblicato nel 1528; in effetti, la ricchezza del Palazzo Ducale di Urbino non è data solo dalla sua qualità architettonica e decorativa, ma anche nell’essere un frammento di città, una sorta d’infrastruttura che si unisce a Urbino e genera una complessità unica tra gli spazi privati del Duca e della corte, i luoghi pubblici della città e il paesaggio verso il quale si apre. Nonostante il ruolo centrale e un’essenza da capolavoro indiscusso del Rinascimento italiano, il Palazzo Ducale di Urbino non ha l’attenzione e la comprensione pubblica che merita. Da qui l’idea di una grande mostra nell’edificio che ospita la Galleria Nazionale delle Marche, con l’obiettivo di far scoprire al grande pubblico il Palazzo Ducale, la sua importanza e complessità storica e architettonica, non solo come

spazio di grande qualità che ospita preziose opere d’arte, ma anche come manufatto spaziale raffinato e complesso che può coinvolgere i visitatori con la ricchezza dei suoi dettagli e del suo impianto. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it luglio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

SACRO ROMANO IMPERO LA STORIA · I LUOGHI · I PROTAGONISTI

N

ella notte di Natale dell’anno 800, la basilica vaticana di S. Pietro fu teatro di un evento epocale: papa Leone III consacrò imperatore Carlo Magno e quell’atto, al di là degli aspetti formali, assunse una valenza simbolica straordinaria, destinata a segnare le sorti dell’intero Occidente medievale. Prendeva infatti avvio un grandioso progetto politico e culturale, il Sacro Romano Impero, che, come la denominazione stessa lascia intuire, ambiva, nelle intenzioni del re franco, a restaurare i fasti dei Cesari nei secoli cristiani. Questa eccezionale vicenda è l’argomento scelto per il nuovo Dossier di «Medioevo», che ne ripercorre l’intero svolgersi, passando in rassegna tutti i protagonisti e gli eventi piú importanti di una storia che andò ben oltre i confini temporali dell’età di Mezzo, chiudendosi alle soglie dell’epoca contemporanea. Oltre, quindi, che per Carlo Magno, c’è spazio per una schiera di figure che, al di là dei luoghi comuni, hanno davvero fatto la storia. A reggere le sorti del Sacro Romano Impero si sono infatti avvicendati personaggi del calibro di Federico Barbarossa, Federico II di Svevia, Massimiliano I d’Asburgo e Carlo V, il re che arrivò a vantarsi di controllare un territorio talmente esteso da poterlo attraversare senza mai veder tramontare il sole... Quello del Sacro Romano Impero fu insomma un millennio cruciale, del quale il Dossier non manca di descrivere i molteplici risvolti politici, culturali ed economici. , art. 1, c.1, LO/MI. 3 conv. L. 46/2004 in A.P. - D.L. 353/200

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MEDIOEVO DOSS

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SACRO ROMANO IMPERO

LA STORIA I LUOGHI I PROTAGONISTI

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GLI ARGOMENTI

2023 Rivista Bimestrale

30056

€ 7,90

SACRO ROMANO

N°56 Maggio/Giugno

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In alto Città del Vaticano, Sala Regia. Affresco di Marco da Siena raffigurante l’imperatore Ottone I che restituisce alla Chiesa, nella persona di Giovanni XII, le province occupate da Berengario II e da suo figlio Adalberto. A destra il «Talismano di Carlo Magno», in oro, rubini e smeraldi. IX sec. Reims, Palais du Tau.

059004

IMPERO

IN EDICOLA IL 18

MAGGIO 2023

• Carlo Magno e i Carolingi • L’età degli Ottoni • Il Regno d’Italia • Gli Hohenstaufen al potere • Massimiliano I d’Asburgo • Carlo V

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battaglie durbe Battaglia fra Lituani e Cavalieri Teutonici, olio su tela di Henryk Pillati. Seconda metà del XIX sec. Varsavia, Museo Nazionale.

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13 LUGLIO 1260

Le fatali paludi dei «paesi bassi» di Federico Canaccini

Alla metà del XIII secolo, l’evangelizzazione delle terre bagnate dal Mar Baltico subí una brusca battuta d’arresto sulle sponde del lago di Durbe. Qui, infatti, le forze dei Samogiti, una fiera e risoluta popolazione locale, inflissero una pesante sconfitta alle truppe riunitesi sotto l’insegna dei Cavalieri Teutonici

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luglio

O

ltre tremila anni fa, nei territori dell’attuale Lituania si stabilirono stirpi di popoli baltici quali i Lituani, nell’area piú interna, e i Samogiti nella zona prospiciente il Mar Baltico. In realtà molti altri popoli conviveano nella regione: a nord della Lituania si erano infatti insediati i Seli, i Semigali, i Latgali, mentre la zona a sud era stata colonizzata dai Pruteni, i Prussiani, e quella orientale dai Polacchi e dai Ruteni. Al tempo della cosiddetta Rinascita del Mille, l’Europa medievale iniziò a esplorare, disboscare, bonificare, colonizzare terre situate al di là di quelli che, sino ad allora, erano stati i confini canonici occidentali. Agli inizi del Duecento i vari capi del territorio lituano diedero perciò vita a un precoce Stato nazionale, sotto la guida del granduca Mindaugas, per affrontare i pericoli provenienti dall’esterno: in quegli anni, infatti, nell’area del Baltico si era imposto, con un certo successo, l’Ordine dei Cavalieri Teutonici. In maniera abbastanza fulminante

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battaglie durbe cavalieri teutonici Golfo di Riga

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Polacchi

e con lo scopo dichiarato di voler convertire i locali popoli ancora pagani, l’Ordine aveva sottomesso vaste aree rimaste sino allora estranee alla conquista dell’Occidente, terre sconosciute ai Romani e mai sfiorate dai Carolingi o dagli Ottoni.

Restii alla conversione

Nel 1242 i Cavalieri Teutonici, alla cui testa si era posto anche il vescovo di Tartu, subirono uno smacco da parte delle truppe russe guidate del principe di Novgorod, Aleksandr Nevskij, sulle rive del lago dei Ciudi: ciò non arrestò comunque la loro intraprendenza, anche se modificò in parte gli equilibri locali e gli Ordini monastico-cavallereschi si indirizzarono successivamente verso altre aree. Fra tutti i popoli europei, i Lituani furono gli ultimi a essere convertiti, nonostante le vicine genti slave avessero ricevuto il battesimo e altre popolazioni baltiche avessero accolto i missionari di fede cristiana: le ragioni di questo ritardo risiedono nella frammentazione del territorio e nella parziale adesione all’unità politica sotto Mindaugas. Questi, infatti, non fu accettato da tutti i leader locali e, in

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La distribuzione delle tribú baltiche all’epoca in cui si combatté la battaglia di Durbe, nel XIII sec. Nella pagina accanto il poeta Tannhäuser con l’abito e i simboli dell’Ordine Teutonico in una miniatura del Codice Manesse, redatto a Zurigo tra il 1300 e il 1340. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

L’Ordine militare dei Cavalieri Teutonici fu fondato nel 1198, su imitazione di quello fondato dagli Ospedalieri nel 1113, e, ben presto, acquisí terre e beni in Siria e in Germania. La storia dei «Frati dell’Ospitale di Santa Maria dei Teutonici Gerosolomitani» è parzialmente diversa da quella degli altri ordini monastico cavallereschi, i Templari e gli Ospitalieri, giacché gran parte della sua vicenda si svolse in Europa, in Germania. Essa ebbe inizio, al pari degli altri Ordini, con la creazione di un ospedale, costruito da alcuni tedeschi nella città di Acri nella prima metà del XII secolo. La vera base dell’Ordine, però, fu quella sorta durante l’assedio della città, un ospizio fondato da alcuni mercanti di Lubecca e Brema e affidato alle truppe del duca di Svevia nel 1191, nel corso della III crociata. I Cavalieri Teutonici combinarono l’aspetto militare dei Templari con quello caritativo dei primi Ospedalieri, dando vita a un Ordine riconosciuto nel 1196 da papa Celestino III e confermato due anni piú tardi. L’originalità del nuovo Ordine fu il carattere spiccatamente nazionale dei suoi membri, perciò detti Teutonici, tanto nelle gerarchie piú alte che nei cavalieri, ma anche all’intimo legame che ebbe con gli imperatori tedeschi. Inoltre le loro case e i loro beni si radicarono da subito in Germania e nelle altre terre germanofone, per poi condurli nell’Europa orientale. L’esperienza in Terra Santa fu piú limitata rispetto a quella degli Ospedalieri e dei Templari che risiedevano e operavano in Outremer da decenni. Anche se fino al 1271 il Gran Maestro dei Teutonici risiedette nella fortezza di Montfort, da loro edificata tra Acri e Tiro, furono ben presto attratti negli affari dell’impero, soprattutto tramite il langravio di Turingia e sua moglie, Elisabetta d’Ungheria, il cui padre, Andrea II, li aveva chiamati in soccorso contro i Cumani, donando loro la regione della Transilvania. Grazie alla fondazione di Marburg, che la stessa Elisabetta gli aveva assegnato,

quanto pagano, fu osteggiato anche dai cavalieri cristiani della Livonia, con i quali strinse infine un patto, a fronte del suo battesimo, di quello della sua famiglia e di molti cortigiani (1251). L’allora papa, Innocenzo IV, salutò con favore la scelta di Mindaugas ed emanò due bolle: con la prima riconosceva la dignità regia

del granduca e, con la seconda, stabiliva che la Lituania sarebbe stata sottoposta direttamente all’autorità del vescovo di Roma, sottraendola a quella dell’arcivescovo di Riga. Dopo la caduta del Muro di Berlino, in una fase di nuovi nazionalismi ex sovietici, gli storici lituani si sono preoccupati di stabilire la data esatta dell’incoronazione di luglio

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i Cavalieri Teutonici furono chiamati anche dal duca di Masovia, l’attuale territorio di Varsavia, per impegnarli nella lotta contro i Prussiani, la cosiddetta Vecchia Prussia e il territorio a est della Vistola, detto Kulmerlandia. La prima figura di spicco fu il quarto Gran Maestro Mindaugas, individuandola nel 6 luglio del 1253. Non è certo casuale che, in quello stesso giorno – considerato dai Lituani il primo vagito dello Stato – sia stata fissata la Valstybès diena, cioè il «Giorno di Festa dello Stato». Nel 1253 l’Ordine cavalleresco di Livonia aveva iniziato un’aspra lotta contro la tribú dei Samogiti

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luglio

dell’Ordine, Hermann von Salza, in carica dal 1209 al 1239. Egli si distinse in Oriente nell’assedio di Damietta, ma soprattutto per le sue indubbie capacità di mediazione fra il papa e Federico II, in un momento di forte dissidio tra i due. Nel corso della crociata dello Stupor Mundi, scomunicato da papa Gregorio IX per i suoi ritardi e le sue inadempienze, Hermann e i suoi Teutonici furono gli unici a sostenere l’imperatore e ciò procurò all’Ordine enormi vantaggi. Sotto la sua guida, inoltre, i Cavalieri Teutonici iniziarono la loro ascesa stabilendosi a Kulm, Marienwerde ed Elbing (1230). Dopo la loro avanzata verso est, i Cavalieri Teutonici furono fermati dall’esercito di Aleksandr Nevskij nel 1242 nella battaglia sul lago dei Ciudi (immortalata nel 1938 da Ejzenstein nel suo capolavoro cinematografico), e poi in Samogizia nel 1260, nella Battaglia di Durbe. Ciononostante lo Stato teutonico si spinse fino a Memel, ben oltre l’Oder, e il territorio fu presidiato da città fortificate come Thorn, Marienwerder, Kulm e Marienburg, che, dal 1309, divenne sede e residenza del Gran Maestro, dopo che anche la Pomerania era passata sotto il loro controllo. Di fatto, tutti i Paesi compresi tra la Pomerania e la Livonia erano sotto il controllo dei Cavalieri Teutonici, e ciò ostacolava l’accesso al Baltico ai regni di Polonia e Lituania. Lo scontro divenne inevitabile e si risolse a Tannenberg, nel luglio del 1410, quando una coalizione polacco-lituana e bielorussa, guidata da re polacco Jagellone, sconfisse l’Ordine, causandone la rapida rovina: nel settembre dello stesso anno Marienburg fu espugnata e, nel febbraio del 1411, venne stipulata la pace di Torun. Prima che la potenza teutonica venisse definitivamente respinta ci vollero ancora diversi conflitti, la cosiddetta Guerra della Fame (1414) e quella di Gollub (1422). Infine, dopo la Guerra dei Tredici Anni, nel 1460, Marienburg cadeva in mano polacca, preludio alla Pace di Thorn (1466), che sanciva anche il crollo dello Stato teutonico e la perdita della maggior parte dei territori di sua pertinenza.

che occupavano l’area nord-occidentale della Lituania, a est del fiume Neris, un conflitto scoppiato proprio a seguito dell’incoronazione di Mindagaus a re di Lituania. Con l’obiettivo di mantenere un clima pacifico con i bellicosi Ordini monastico-cavallereschi, infatti, il nuovo sovrano aveva ceduto loro alcune porzioni della

Samogizia e della Nadruvia, innescando una serie di rivolte da parte della popolazione locale. Trovandosi stretta fra Prussia, Curlandia e Semgallia, la Samogizia era un corridoio strategico per i vari Ordini cavallereschi, giacché connetteva territori sotto il controllo dei Lituani, dei Cavalieri Teutonici e dell’Ordine di Livonia. Ciò

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battaglie durbe LO STATO DEI CAVALIERI TEUTONICI NEL 1260 Territori dell’Ordine Teutonico nel: 1260 CONTESI

Cavalieri portaspada

Tribù prussiane non assoggettate

Ordine Teutonico

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Luoghi e date di importanti battaglie

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SACRO ROMANO IMPERO

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L’assetto geopolitico dei territori che furono teatro delle vicende legate all’Ordine Teutonico.

che Mindaugas non aveva previsto, però, era la ferma indisponibilità della popolazione locale a rinunciare alla propria autonomia per sottostare a una nuova fede, peraltro imposta con la violenza. Nel 1257, presso il castello di Memel, vi fu un primo scontro con l’Ordine, nel corso del quale persero la vita ben dodici monaci guerrieri. Vista la mala parata, si giunse a una tregua biennale, stipulata a Riga, allo scadere della quale, però,

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GRANDUCATO DI LITUANIA

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Luoghi e date delle principali rivolte Anti-Teutoniche Castelli dell’Ordine Teutonico

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Principati Polacchi

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Diocesi e città di Riga in Livonia

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Linee di attacco

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POLACCHI Dobrin

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i Samogiti puntarono verso nord, attaccando direttamente la Curlandia con un esercito di circa 3000 uomini. Poco lontano da Skuodas, nell’attuale Lituania, i Cavalieri dell’Ordine di Livonia intercettarono la colonna nemica che tentava di lasciare la regione, carica di bottino.

Popoli in rivolta

Ne scaturí una battaglia in cui persero questa volta la vita ben 33 monaci guerrieri e altri cavalieri, forse esposti alle cariche samogite a causa della defezione degli alleati curlandesi. La disfatta patita a Skuodas innescò una serie di rivolte, una delle

quali, in Semgallia, diede filo da torcere all’Ordine per oltre dieci anni. Agli inizi del 1260, il Gran Maestro di Livonia, Burcardo di Hornhausen, pianificò una vasta operazione col fine di sottomettere l’area nord-occidentale della Lituania: furono perciò radunate diverse truppe, che includevano Cavalieri Teutonici dalla Prussia e dalla Livonia, vassalli estoni alle dipendenze del re di Danimarca, crociati svedesi e milizie provenienti dai Paesi sottomessi, fra cui Estonia, Curonia e Sambia. Il 25 gennaio 1260 papa Alessandro IV emanò la bolla Solet annuere sedes, con la quale benediluglio

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ceva la spedizione crociata, confermando «omnes decimas in terris a rege Lettowie» («tutte le decime nelle terre del re di Lettovia») e segnalando che, senza «subsidio vestre defensionis» («senza l’aiuto della vostra difesa»), l’intera area, recentemente acquisita, «non posse subsistere contra impetus paganorum» («non può resistere contro gli attacchi dei pagàni»). In primo luogo, l’esercito dell’Ordine Teutonico si uní a quello dell’Ordine di Livonia presso il castello di Memelburg, con l’obiettivo di portare soccorsi alla vicina città di Georgenburg, assediata dai pagani. Alla notizia che però una nuova armata di Samogiti aveva ripreso la strada della Curlandia, con l’obiettivo di saccheggiarla, l’esercito si mise in marcia per andare incontro all’armata nemica e fermarla. I due eserciti entrarono in contatto, il 13 luglio 1260, sulla sponda meridionale del lago di Durbe, in Curlandia (oggi in Lettonia). Nel consiglio di guerra riunitosi per preparare la strategia da seguire, si sarebbero accese delle discussioni, dal momento che i cavalieri danesi dell’Estonia non volevano impegnare i propri uomini sui terreni paludosi che circondavano il lago. Ciononostante la battaglia ebbe inizio e, stando alla Cronaca rimata della Livonia (Livländische ReimchroRievocazione storica della battaglia combattuta a Saule, nel 1236, nella quale Samogiti e Semigalli affrontarono vittoriosamente un esercito guidato dai Cavalieri Portaspada.

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nik, opera di autore anonimo composta nel XIII secolo), i Curlandesi abbandonarono quasi subito i propri alleati, dopo aver saputo che non avrebbero liberato alcun curlandese, persino donne a bambini, fatti prigionieri dai Samogiti.

Il caos e poi la fuga

La loro defezione lasciò i monaci guerrieri pericolosamente scoperti e, nella Cronaca della terra di Prussia (Chronicon terrae Prussiae) redatta da Pietro di Duisburg (presbitero, cronista, nonché membro dell’Ordine Teutonico, vissuto fra la metà del XIII e la metà del XIV secolo, n.d.r.), si legge addirittura che si accesero alcuni scontri con la retro-

guardia cristiana, proditoriamente attaccata proprio dai Curlandesi. Alla vista di un simile caos, molti cavalieri delle milizie livoni e prussiane abbandonarono il campo: a questo punto, probabilmente, l’esercito appiedato dei Samogiti, abituati a combattere su terreni infidi come quelli, attaccò, circondando ben presto i cavalieri cristiani. Nello scontro morirono almeno 136 Cavalieri Teutonici e altri Cavalieri dell’Ordine di Livonia, tra cui il Maestro Burcardo e il Maresciallo Enrico Botel. Il duca di Svezia, Karl Ulfsson, rimasto fedele ai patti stipulati, seguí il loro tragico destino, morendo con i suoi uomini nella mischia furi-

Samogizia

Una terra dai caratteri peculiari Il termine Samogizia significa letteralemente «paesi bassi» e la natura delle sue valli, comprese tra i fiumi Nemunas, Dubysa e Venta, non è poi molto dissimile da quella dei piú celebri Paesi Bassi d’Olanda: pochi rilievi collinari, molti prati, pascoli, canali, molti acquitrini, piccoli laghi… terreni insidiosi per ingaggiare una battaglia a dorso di cavalli pesantemente bardati. Le prime notizie sulla Samogizia risalgono al XIII secolo: nel 1219, infatti, in un trattato stipulato fra i principi della Galizia e della Lituania, compaiono anche due principi samogiti, Erdvilas e Vykintas. Fu il duca Vykintas a sconfiggere i Cavalieri Portaspada nella battaglia di Saule, nel 1236, in cui sopravvisse solo il 10% dell’esercito crociato. La Samogizia comparve poi nelle fonti scritte con una certa regolarità, spesso accanto al nome di Lituania, con cui poteva essere confusa: in realtà, la terra dei Samogiti era una sorta di principato a sé stante e sarebbe stato conteso per secoli dai diversi potentati che insistevano nell’area. L’identità della regione era, e in parte ancora è, testimoniata anche a livello linguistico, poiché il samogitico è da alcuni considerato una vera e propria lingua baltica, piú che un dialetto lituano.

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battaglie durbe Sulle due pagine resti del castello che sorge nell’area in cui si combatté la battaglia di Durbe. La fortezza venne costruita qualche anno dopo lo scontro e se ne ha notizia, per la prima volta, in un documento del 1397.

A sinistra la croce nera, simbolo dei Cavalieri Teutonici, dipinta su un pavese della metà del XV sec.

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bonda. Inebriati dalla vittoria, i Samogiti inseguirono i fuggiaschi e si impossessarono di un enorme bottino, fatto di armi e vettovaglie. Il ruolo della fanteria dei vincitori – facilitata negli spostamenti sul terreno impaludato – fu probabilmente fondamentale, cosí come riportò lo stesso Pietro di Duisburg. Sebbene lo scontro fosse stato descritto dalla Cronaca rimata della Livonia, scritta una trentina d’anni dopo la battaglia, si deve attendere luglio

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La sconfitta patita sul lago di Durbe ebbe pesanti conseguenze sulla stabilità dell’Ordine Teutonico, anche perché nello scontro trovò la morte un numero assai elevato dei suoi effettivi

A destra e in basso spade di produzione lituana databili all’epoca della battaglia di Durbe. XIII sec. Kaunas, Museo della Guerra di Vytautas il Grande. A influire sull’esito dello scontro fu la natura paludosa del terreno, che favorí i movimenti della fanteria samogita, a scapito della cavalleria dell’Ordine Teutonico.

la Preussische Chronik dello storico Simon Grunau, nel XVI secolo, per trovare citato, come leader dell’esercito dei Samogiti, il granduca di Lituania Treniota, nipote di Mindaugas, ma di questi avversario, in quanto ancora fervente pagano. In realtà, nulla conferma la sua presenza, peraltro messa in discussione da alcuni storici, a motivo della sua nazionalità lituana, cosa che forse non gli avrebbe consentito di guidare una rivolta

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Granducato di Lituania

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samogita. Recentemente è stato proposto, invece, che a guidare i Samogiti fosse piuttosto Alminas, un condottiero locale, distintosi già negli anni precedenti nel corso di altre incursioni in Curlandia e, forse, anche vittorioso nella precedente battaglia di Skuodas.

La crociata infinita

La battaglia scosse profondamente la stabilità dell’Ordine giacché, in un solo giorno, morí quasi un quarto dei seicento Cavalieri Teutonici presenti in Livonia e Prussia in quegli anni. Come spesso accade, alla luce di tale vittoria pagana, ben presto i popoli vicini presero coraggio e si accesero nuove rivolte in Curlandia, Prussia e nella regione dell’Ösel, trascinando l’Ordine in un’infinita ed estenuante crociata in tutto il Baltico. Ciononostante, non mancarono di sorgere problemi interni alla nobiltà locale e in seno alla famiglia stessa del sovrano che, nel giro di alcuni decenni, aveva esteso il proprio dominio su un territorio di circa 100 000 kmq, raddoppiando cosí la

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L’assetto geopolitico della Livonia, negli anni immediatamente successivi alla battaglia del lago dei Ciudi (1242). Nella pagina accanto ritratto di Alberto di HohenzollernAnsbach, Gran Maestro dell’Ordine Teutonico dal 1511 al 1525, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1528. Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum.

Dalla guerra alla beneficenza L’Ordine dei Cavalieri Teutonici è ancora attivo, anche se, naturalmente, non è piú connotato militarmente come nel Medioevo: l’attuale «Ordine dei Fratelli della casa di Santa Maria in Gerusalemme» ha infatti un carattere di assistenza e spiritualità. In epoca moderna l’Ordine ha visto ridursi sensibilmente i propri possedimenti: nel 1525, per esempio, il Gran Maestro Alberto di Hohenzollern-Ansbach, convertitosi al luteranesimo, assunse il titolo di duca di Prussia, secolarizzando e acquisendo i possedimenti prussiani che erano stati faticosamente conquistati dall’Ordine nel Medioevo. Nel 1561 furono secolarizzati anche i territori della Curlandia e della Semgallia. I Teutonici mantennero nell’impero – e sopratutto in Austria – le proprie commende e case, oltre a un grande prestigio nell’ambito della nobilità germanofona. Con l’avvento di Napoleone, nel 1801, i cavalieri furono privati dei possedimenti che vantavano a ovest del Reno: come ricompensa, furono loro affidate abbazie e conventi in Austria e in Svevia. Nel 1804 l’Ordine fu amministrato dai piú alti membri della famiglia asburgica fino alle dimissioni dell’ultimo Gran Maestro, l’arciduca Carlo d’Asburgo, il quale, nel 1809, lo sciolse definitivamente come entità politica per cederlo al papa che, nel 1929, lo trasformò in un Ordine canonicale tout court, soprattutto per proteggerlo dalle mire dei nazionalsocialisti. Ciononostante, nel 1938, i Teutonici subirono la persecuzione da parte nazista, che non vedeva di buon occhio la casata d’Austria, e cosí, l’anno seguente, il partito ne soppresse l’esistenza in Austria, in Boemia e in Moravia. Paradossalmente, nel 1942, gli stessi nazisti si appropriarono del nome, creando il Deutscher Orden, la piú importante onorificenza del Reich, voluta per assecondare le fantasie di Himmler e di altri fanatici, interessati ad aspetti mistico-religiosi ed esoterici. Dell’aspetto militare del Medioevo, oggi rimane al Gran Maestro appena la facoltà di concedere dignità equestri-cavalleresche, dignità che riceve direttamente dal papa, cosí come recitano gli statuti stilati nel 1929. Esistono anche un ramo femminile dell’Ordine, e una componente laica, detta dei Familiares: per questi ultimi esiste la possibilità di essere elevati a Cavalieri d’onore, per volere del Gran Maestro, a motivo di meriti particolari o di una significativa generosità. Se un tempo per entrare a far parte dell’Ordine si doveva essere nobili, i moderni Familiari rappresentano l’élite sociale ma anche culturale di una certa aristocrazia cattolica, attenta a opere caritatevoli e di beneficenza. luglio

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battaglie durbe Replica del sigillo reale di Ladislao II Iagellone (1350-1434), granduca di Lituania e poi re di Polonia. L’originale del manufatto è conservato nell’Università Jagellonica di Cracovia.

superficie del proprio regno e controllando, tramite una rete di Stati vassalli, un’area altrettanto vasta. Benché sconfitto, l’Ordine era ancora una costante minaccia per la libertà e l’indipendenza dei popoli baltici e cosí, nel 1263, venne ordita una congiura per eliminare Mindaugas, che continuava a stipulare trattati di connivenza con l’Ordine e che, dopo la morte della prima moglie, avrebbe scelto come nuova consorte la di lei sorella, già sposa di Dovmont di Pskov, con cui il re era alleato.

Un patto segreto

L’occasione propizia si presentò quando il re inviò le proprie truppe, guidate proprio da Dovmont, contro il figlio ribelle, Treniota, che si trovava in Samogizia. È probabile che, nei mesi successivi al nuovo matrimonio di Mindaugas, Dovmont e Treniota avessero stretto un patto segreto col fine di esautorare il re. Dopo aver abbandonato il grosso dell’esercito, Dovmont affrontò il re, forse anche con la complicità della sua guardia personale, e cosí furono assassinati tanto Mindaugas che due dei suoi figli, designati eredi al trono cosí da assicurare una continuità con la politica della Chiesa di Roma. Ciò provocò il ritorno al paganesimo per ben 130 anni: per piú di un secolo i Lituani infatti combatterono contro l’Ordine Teutonico, per mantenere la propria indipendenza, ma mostrando, paradossalmente, una crescente tolleranza verso la fede cristiana – anche se per lo piú di rito greco –, che, col passare dei

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decenni, penetrava nelle campagne e nelle città. I Granduchi lituani però, pur contraendo matrimonio con donne cristiane, non accettarono il battesimo sino alla fine del Trecento. Si deve infatti attendere il 1385, con la stipula degli Atti di Kré’va, per assistere al matrimonio tra Jagellone e Edvige di Polonia, la cui unione prevedeva l’unione personale dei due Stati: l’anno seguente, per conseguire questo ambizioso obiettivo, il re accettò il battesimo a Cracovia e potè assumere la corona di Polonia, prendendo il nome di Ladislao II. Nel 1387, in qualità di granduca di Lituania, ormai convertitosi al cattolicesimo, promosse il battesimo dei plenipotenziari lituani e poi di tutto il popolo, creando la diocesi di Vilnius. Ben piú complessa fu la cristianizzazione della Samogizia, dove,

nel 1387, l’Ordine Teutonico governava con durezza, provocando la resistenza e l’ostilità dei Samogiti. Si deve infatti attendere ancora un cinquantennio perché il popolo samogita venga condotto al battesimo: al Concilio di Costanza (1415-1416) si presentarono i neofiti samogiti, la cui conversione fu in larga parte dovuta agli sforzi del granduca Vytautas. Accanto alla preesistente diocesi di Vilnius furono create quella di Medininkai e altre strutture ecclesiastiche che, dopo alcuni decenni, vennero inglobate nella provincia di Gniezno. La cristianizzazione della Samogizia aveva avuto inizio, ma il suo percorso sarebbe stato lentissimo, testimone della difficile convivenza col cristianesimo, imposto con la violenza per secoli, in quei «paesi bassi» del Baltico. luglio

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matilde di canossa

L’ultimo viaggio della contessa di Paolo Golinelli

Nel luglio del 1115 si chiudeva la parabola di Matilde di Canossa, indiscussa protagonista della vita politica e della cultura del suo tempo. Che volle trascorrere i suoi ultimi giorni quasi in disparte, in una casa di campagna, vicina all’amato monastero di San Benedetto Polirone

A N

ella notte tra il 24 e il 25 luglio 1115, si spegneva a Bondeno di Ròncore – ora una piccolissima località nel comune di Reggiolo (Reggio Emilia), denominata il Bondanazzo – Matilde di Canossa. Aveva 69 anni, come sappiamo dal suo biografo Donizone (il monaco e cronista al quale si deve la Vita Mathildis, n.d.r.), ed era già malata da tempo. Per questo, l’estate prima, si era ritirata in uno dei suoi castelli appenninici, a Montebaranzone, nei dintorni di Prignano (Modena), nella valle del Secchia, per sfuggire al caldo anche allora cocente. Subito a Mantova si diffuse la falsa notizia della sua morte e la città si scrollò di dosso il giogo dei Canossa; ma, tornata in salute, Matilde la costrinse alla resa. Era la fine di ottobre del 1114, un anno strano, che si era annunciato con presagi di morte: una pioggia di sangue, ricordano i cronisti, che interessò tutta la Lombardia fino a Cittanova, poco a ovest di Modena. Ammalatasi nuovamente,

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Il sepolcro di Matilde di Canossa nel monastero di San Benedetto Po (Mantova), nel quale la contessa ha riposato fino a quando, nel 1632, le sue spoglie furono traslate nella basilica vaticana di S. Pietro. Sulla tomba è collocata la replica del ritratto di Matilde di Canossa a cavallo, realizzato da Paolo Farinati intorno al 1587 e il cui originale è oggi conservato a Verona, nel Museo di Castelvecchio.

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matilde di canossa Matilde di Canossa si trasferí a Bondeno di Ròncore, vicino al prediletto monastero di San Benedetto Polirone (San Benedetto Po, Mantova). E siccome la gotta, di cui probabilmente soffriva, le impediva di alzarsi dal letto, si fece costruire una cappella accanto alla camera nella quale giaceva, per poter seguire anche in quelle condizioni la messa, e l’intitolò a san Giacomo, l’apostolo il cui corpo era stato miracolosamente scoperto in Galizia, e al quale già accorrevano migliaia di pellegrini. Matilde morí proprio alla vigilia della sua festa (se non nel suo stesso giorno: nel Medioevo il giorno iniziava con la notte precedente, quando nei monasteri si cominciava a leggere la vita del santo, nelle ore notturne), quasi che il santo al quale era molto devota fosse venuto a prenderla, per accompagnarla verso quel Cielo a cui aveva sempre aspirato da viva.

Mantova

Canneto sull’Oglio

Cerese

Bozzolo

San Benedetto PPo o SS62 Po Suzzara Bondeno dii Ròncore Rònc Rò R ònc òncore ònco ò ncco nco ore o re re Luzzara SS12

San Giovanni in Croce

Colorno Po

SP63R

A1

Reggiolo A2

Castelnovo di Sotto

Parma

E35

Albinea Scandiano

Canossa

Cavezzo Carpi

SS12

Bomporto

SS722

Bibbiano

Mirandola

Nonantola

A sinistra cartina dei luoghi citati nel testo. Al centro l’area del Bondanazzo di Reggiolo in una mappa catastale dell’Ottocento. In basso un cinghiale in un’incisione tratta dalla serie Diversi animali di Stefano Della Bella. 1641. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Modena SS9

Sassuolo

Maranello

La triste notizia

Donizone aveva impiegato gli ultimi cinque anni a scrivere il poema che voleva donare a Matilde, ed egli stesso si era fatto raffigurare nell’atto di porgere il volume alla contessa in trono, in apertura del codice. Ma la sorte (per lui la Provvidenza) aveva deciso diversamente. Gli giunse la notizia della morte della contessa mentre stava rilegando il poema. Il monaco l’aveva scritto per lei e per convincerla a farsi seppellire a Canossa, dove riposavano i suoi avi, dei quali erano state da poco rinnovate le tombe. Quella notizia lo sconvolse al punto che svenne, come Dante quando apprese della morte di Beatrice. È il monaco stesso a raccontarlo in un’aggiunta al suo carme, proprio in morte di Matilde. Da Bondeno di Ròncore Matilde continuò a governare le sue terre, e cominciò a prepararsi al passaggio: lí veniva visitata dall’abate di San Benedetto Po (allora

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Miniatura tratta dal manoscritto originale della Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. È ritratta la stessa Matilde, in trono, tra il monaco Donizone e il suo vassallo Arduino della Palude.

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matilde di canossa Polirone), il cluniacense Alberico, e durante il Natale del 1114 ricevette la visita dell’abate di Cluny, Ponzio di Malgueil, con il quale trascorse in preghiera tutta quella notte solenne, benché il freddo le stringesse le membra. Poi, a luglio, la morte, assistita dal vescovo di Reggio Emilia, Bonseniore, «del quale non credo vi sia altro prete piú semplice», scrive Donizone.

Fra i campi e il bosco

Matilde non moriva in un castello munito di torri e circondato da mura e fossati, né in un convento, tra il salmodiare delle monache oranti, e nemmeno in un sontuoso palazzo di una delle infide città che lei dominava, bensí in un piccolo villaggio fortificato al centro di una corte rurale, tra i campi di orzo e

di grano, ai bordi di un bosco di cui una parte era stata abbattuta e messa a coltura: un ronco, come si chiamavano allora i campi strappati alla selva, che si stendeva a macchia su tutta la zona piú bassa e piú ricca di acque del bacino del Po. Le acque che scendevano libere dall’Appennino, o quelle di risorgiva, che zampillavano in pianura, si stemperavano nei punti in cui il declivio del terreno diveniva quasi impercettibile, in una miriade di corsi, che segnavano il terreno, formando confini naturali, dando il nome ai piccoli insediamenti che lambivano. Vicino alla corte nella quale Matilde morí scorreva uno di questi fiumiciattoli, il Bondeno, e il suo nome era stato dato anche alla corte: Bondeno di Ròncore,

Appuntamento a Reggiolo A Reggiolo, nella pianura reggiana, si terrà quest’anno il II Festival Matildico Internazionale, dal 15 al 17 settembre, organizzato dall’Associazione Matildica Internazionale e dal Comune di Reggiolo, con un convegno, mostre, spettacoli e presentazioni di libri. Concluderà, alle 18,00 di domenica 17 settembre, in piazza Martiri, scalinata del Teatro, l’esecuzione dei Carmina Burana di Carl Orff (1895-1982). Produzione del Teatro Giovanni Rinaldi, dirige Luigi Pagliarini. Programma e informazioni: www.associazionematildicainternazionale.it; e-mail: info@associazionematildicainternazionale.it

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perché si trovava in una zona da poco disboscata col ronco, la falce dal lungo manico di legno, col quale si toglieva la sterpaglia, o si tagliavano annualmente i pali generati da ceppi di latifoglie (bosco ceduo), e per distinguerla da altre località di nome Bondeno, anche allora presenti: il Bondeno degli Arduini, che ora gli storici hanno identificato con il Bondeno, frazione di Gonzaga; Bondanello nel Comune di Moglia; e Bondeno, adesso comune del Ferrarese. Matilde morí tra l’odore delle messi e lo scalpiccio notturno degli

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animali; non in una corte sontuosa di ricchi signori dunque, ma in una corte rurale, un podere piú grande, con al centro la casa del signore in pietra e, accanto, quella, piú modesta, per il massaro e la sua famiglia; piú in là le baracche di legno o canniccio intriso di fango essiccato coperte di paglia dei servi, i ripari per gli animali e gli attrezzi. Tutt’intorno il broletto, con le piante da frutta e l’orto, richiuso da una siepe di pali incrociati per difendere il raccolto dal cinghiale, sovrano in quell’ambiente selvoso, e dalla volpe che insidiava i pollai, ma anche

Il monastero di San Benedetto Po (già Polirone), oggi in provincia di Mantova. Nella pagina accanto la rocca medievale di Reggiolo (Reggio Emilia).

da cervi e cerbiatti, allora presenti in quei luoghi, e dal lupo, stanziale nel Medioevo anche in pianura. Una palizzata attorniava l’intera corte, e si apriva soltanto sui campi e sulla strada in terra battuta, che su un dosso portava a Gonzaga. Un sentiero, voluto dalla contessa Matilde, ma su un asse viario romano, conduceva al monastero di San Benedetto, il prediletto dei molti

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matilde di canossa Particolare dei mosaici nei pressi del sepolcro di Matilde di Canossa, nel monastero di San Benedetto Po.

cenobi che erano nei suoi territori, e che ella stessa aveva reso importante con le sue donazioni. A San Benedetto aveva disposto di essere sepolta nell’aprile di sei anni prima, nel 1109, concordando un preceptum con l’abate Alberigo, nel quale si stabiliva che: «Da questo giorno fino alla fine del mondo, finché questo monastero rimarrà nel servizio di Dio, si ponga con cura ogni giorno nella mensa principale in nome di lei il pane e il vino e il restante vitto, come quello desinato ai singoli monaci, per il mantenimento di un povero (...). Si celebri poi come festivo l’anniversario della sua morte come si è soliti fare per i grandi abati di questo monastero». In cambio, Matilde donava l’altra metà dell’isola che il Po formava intorno alla località di San Benedetto, sdoppiandosi in due corsi, uno a nord nel ramo chiamato Lirone e poi divenne l’attuale corso del Po, e uno a sud, che proprio all’inizio del XII secolo cominciò a chiamarsi «Po vecchio», e fu pro-

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gressivamente ridotto a un canale di irrigazione. La prima metà era stata donata al monastero da parte di Tedaldo, nonno di Matilde, nel momento della fondazione del cenobio, nel 1007.

Le preghiere dei monaci

Era lo scambio del materiale con l’immateriale: la contessa donava terre, e i monaci la ricompensavano con le preghiere che le avrebbero garantito la vita eterna in Paradiso. I monaci di Polirone, infatti, tenevano i nomi dei loro benefattori nel libro dei vangeli sull’altare, in modo che i benefici spirituali che si rinnovavano a ogni celebrazione eucaristica passavano anche alle persone lí presenti con i loro nomi, e la preghiera dei monaci di Cluny, agnelli immacolati, giungeva sino alle orecchie del Signore, ed erano in grado – come allora si credeva – di liberare le anime persino dall’inferno. Lí il corpo di Matilde rima-

se per piú di cinque secoli, fino a quando un papa che ne ammirava la figura, tanto da scrivere un poema su di lei, Urbano VIII, ne comperò nel 1632 le spoglie dall’abate Andreasi, in un momento molto difficile per il monastero e per tutto il Mantovano, duramente provato dalla guerra del Monferrato e dalla peste, e diede loro un sepolcro degno di una regina, nella basilica vaticana di S. Pietro.

Da leggere Donizone, Vita di Matilde di Canossa, edizione, traduzione e note di Paolo Golinelli, Jaca Book, Milano, 2008 e 2023 Eugenio Riversi, La memoria di Canossa. Saggi di contestualizzazione della Vita Mathildis di Donizone, Edizioni ETS, Pisa 2013 Paolo Golinelli, Matilde di Canossa. Vita e mito, Salerno, Roma 2021 luglio

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luca signorelli in umbria/5

Il frammento misterioso di Valentina Ricci Vitiani

Fra le opere dipinte a Città di Castello da Luca Signorelli è attestata anche una grande pala con l’Adorazione dei pastori. Commissionata all’artista da Luca Bartolomeo Feriani, è da sempre considerata perduta, ma la rilettura di un lacerto di dipinto oggi conservato al Museo del Louvre apre la strada a una nuova e affascinante ipotesi...

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l Museo del Louvre di Parigi si conserva un misterioso frammento di pittura che, per ragioni stilistiche, è certamente da riferire alla mano di Luca Signorelli. Si tratta del lacerto di un olio su tavola, di dimensioni contenute (109 x 72,5 cm), originariamente parte di una composizione piú ampia. Nel frammento sono raffigurate quindici figure maschili accalcate in uno spazio ridotto. Fino al 1940 solo otto dei personaggi che popolano la tavoletta erano visibili: buona parte delle figure infatti è stata riportata alla luce da un fortunato restauro che ne ha permesso una migliore lettura. Luca Signorelli adorna i suoi personaggi con stoffe e sciarpe colorate, secondo un gusto piuttosto consueto nei suoi dipinti. Alcuni personaggi mostrano fisionomie tipiche del maestro di Cortona, come l’uomo accigliato in alto a sinistra, col naso affilato e la barba meticolosamente descritta ciocca a ciocca, che sembra molto vicino alla figura ritratta alle spalle di Cristo nella scena della Consegna delle chiavi affrescata all’interno della Cappella Sistina, per la quale un recente restauro ha confermato la presenza della mano di Luca Signorelli accanto a quella del «divin pittore» Perugino. Il frammento parigino è stilisticamente molto vicino alla grande pala d’altare raffigurante l’Adorazione dei Magi, sempre di mano del Signorelli, anch’essa conservata oggi al Louvre, proveniente dalla chiesa di S. Agostino di Città di Castello: le due pitture condividono infatti una sorta di horror vacui di sapore tardo-gotico che, in un contesto periferico come quello tifernate, immaginiamo abbia garantito all’artista un sicuro successo.

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Nella pagina accanto Gruppo di figure maschili, olio su tavola di Luca Signorelli. 1493-1496. Parigi, Museo del Louvre. Si tratta del lacerto (109 x 75 cm) di un dipinto di maggiori dimensioni che, come viene suggerito nell’articolo, doveva verosimilmente trovarsi nella chiesa di S. Agostino, a Città di Castello, forse identificabile con un’Adorazione dei pastori.

I due dipinti risultano cosí prossimi che in passato è stato ipotizzato che il frammento del Louvre abbia potuto costituire un ritaglio dell’opera di maggiori dimensioni. Secondo chi scrive, l’ipotesi è suggestiva e potrebbe essere calzante, tenendo anche conto del fatto che la grande pala, rimasta sepolta sotto le macerie della chiesa d’origine in seguito al terremoto del 1789, era in origine dipinta su tavola ed è stata trasferita su tela soltanto nel 1884. Tuttavia, l’idea non è stata accolta da tutti gli studiosi: in particolare, è stato infatti osservato che tale soluzione porterebbe a sbilanciare la composizione dell’Adorazione.

Per la nobile famiglia Feriani

Numerosi altri indizi ci suggeriscono comunque che le due pitture sono state forse concepite per condividere lo stesso luogo di origine e di esposizione, e cioè la chiesa di S. Agostino appena citata, assumendo che il frammento del Louvre abbia fatto parte di una composizione piú grande. Sappiamo infatti che a Città di Castello, fra il 1493 e il 1494, Luca Signorelli impreziosí l’altare di patronato della nobile famiglia Feriani all’interno della chiesa di S. Agostino con una pala raffigurante l’Adorazione dei pastori, della quale le fonti antiche luglio

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In alto Natività, olio su tavola di Luca Signorelli. 1498. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte. Nella pagina accanto Adorazione dei Magi, dipinto su tavola (trasportato su tela) di Luca Signorelli, dalla chiesa tifernate di S. Agostino. 1493-1494. Parigi, Museo del Louvre.

ci hanno tramandato alcune brevi, preziosissime descrizioni che però, a dire il vero, sembrano essere state trascurate. In passato la Pala Feriani è stata identificata con la Natività conservata al Museo di Capodimonte a Napoli. Dall’analisi delle fonti appena ricordate, però, una simile soluzione non ci convince. Nel suo manoscritto Memorie delle chiese e monasteri tifernati (1730), conservato presso l’Archivio seminariale di Città di Castello, l’abate Alessandro Certini descrive cosí la chiesa di S. Agostino: «Havemo successivo l’altare de Feriani, piccolo sí, ma notabile, per la pittura di Luca Signorelli Cortonese che vi effigiò Gesú Bambino nel Presepe, adorato da Pastori». La differenza con la tavola napoletana è evidente, trattandosi dell’immagine del Bambino adorato da Maria

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e Giuseppe (due pastori sono inseriti solo in secondo piano, alle spalle di Giuseppe). E ancora, nel 1832, nella sua Istruzione storico pittorica per visitare le Chiese e i Palazzi di Città di Castello, Giacomo Mancini annota: «Dopo sí magnifica tavola, altra Luca bellissima ne operò per la chiesa stessa di S. Agostino di un Presepio che sembrava una vera miniatura, e la capanna sí ben di prospettiva tratta, e sí naturalmente colorita che sembrava potervisi passeggiare».

Una presenza inconsueta

Anche questa volta la descrizione ottocentesca non sembra coincidere con la tavola conservata a Napoli, dove la capanna è solo accennata nel travetto di legno che emerge dalla roccia della grotta e non è ritratta come uno spazio calpestabile del quale si intuiscono forma e dimensioni. Dubitando, quindi, dell’identificazione della tavola di Capodimonte con l’Adorazione dei pastori voluta dalla famiglia Feriani, e provando ad assumere, in via ipotetica, che quest’ultima opera, (segue a p. 56)

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luca signorelli in umbria/5 il restauro della pala di santa cecilia

Una felice melodia Chissà cosa ne penserebbe Vivant Denon, primo direttore del Louvre, che nel 1812 la volle per il museo piú importante del mondo; annerita da secoli di lume di candela, con squarci verticali e tracce di nette segature, addirittura con un pezzo mancante, perché rubato: è la cosiddetta Pala di Santa Cecilia, ultima opera di Luca Signorelli per Città di Castello, che sfuggí alle requisizioni napoleoniche soltanto grazie alle sue imponenti dimensioni (2 x 3 m, con sei pannelli laterali e predella). Per tutto questo anno signorelliano 2023, la pala sarà restaurata integralmente e senza muoversi dalla splendida pinacoteca della città umbra, nel palazzo rinascimentale Vitelli alla Cannoniera. Finanziato tramite Art bonus dall’Università Telematica eCampus, il restauro sarà decisivo anche sul piano dell’attribuzione dell’opera: sotto la grande tavola, popolata da Vergine con Bambino e Santi, si legge infatti una didascalia che non assegna il dipinto a Signorelli, ma esclusivamente alla sua bottega. Una lettura errata e che si è tramandata nel tempo, sia per il progressivo peggioramento della pala, sia per l’ostracismo dei critici verso l’ultima fase del pittore, quando replicava scene devozionali molto richieste, facendo sempre maggiore riferimento ai suoi allievi. Eppure la mano del maestro è stata colta dagli studiosi piú attenti, come l’inglese Tom Henry, autore della monografia definitiva La Vita e l’Arte di Luca Signorelli, e da Raffaele Caracciolo, che ha segnalato addirittura la firma del pittore e l’anno di esecuzione del dipinto (ovvero il 1516), «nascosti» in una successione di lettere e numeri romani sulla veste di uno dei personaggi. Il restauro permetterà cosí di ricollocare l’opera nel catalogo signorelliano; di fatto una nuova «voce» nella feconda

stagione di Signorelli in Alta Valle del Tevere, dove il pittore lavorò all’ombra della famiglia Vitelli, alleata militare e commerciale dei Medici, e soddisfò al contempo anche il fervore devozionale di una città che all’epoca contava una chiesa per ogni cinquanta abitanti. Sarà quindi possibile cogliere la bellezza delle tracce autografe del pittore, a partire dal Bambino, forse uno dei piú dinamici che Luca Signorelli abbia mai realizzato, oppure nel manto della Vergine, che si trasforma in un cielo di stelle fisse, che ignorano le pieghe dei tessuti e si fanno elemento d’astrazione. Ma anche nei petali che cadono sopra le vesti e restano sospesi in un ralenti che dura da cinquecento anni. Fino alla Santa Cecilia, patrona della musica, che riceve la sua corona anche nella sua posizione decentrata, diventando cosí protagonista del quadro. Con il suo organetto in mano, forse appena suonato, c’è da immaginarlo, in una felice melodia. Giuseppe Sterparelli Sulle due pagine veduta d’insieme e particolari della Pala di Santa Cecilia, l’ultima opera realizzata da Luca Signorelli per Città di Castello. In occasione dell’anno signorelliano 2023, il dipinto è oggetto di un intervento di restauro dal quale si attendono indicazioni decisive per ricostruire la genesi dell’opera e fugare qualsiasi dubbio sulla sua attribuzione.

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luca signorelli in umbria/5 Ritratto virile, tempera su tavola di Luca Signorelli. 1492-1496 circa. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie. Nella pagina accanto il probabile ritratto di Niccolò Manni Bufalini identificato nel Frammento con figure maschili del Museo del Louvre (vedi a p. 51).

oggi perduta, abbia contenuto in origine il lacerto di Parigi, crediamo che la pertinenza degli astanti del frammento parigino, magari non troppo consueta all’interno di una scena di Adorazione dei pastori, si giustifica agevolmente proprio con la presenza, all’interno della chiesa di S. Agostino per il quale la pala doveva essere stata commissionata, della ricordata Adorazione dei Magi, cosí ricca e fastosa nell’accalcarsi dei personaggi eleganti e un po’ di maniera.

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Un dipinto che lo stesso Luca di Bartolomeo Feriani, committente della perduta Adorazione dei pastori, certamente conosceva bene: da alcuni preziosi documenti d’archivio sappiamo infatti che la mirabolante Adorazione dei Magi venne pagata dalla comunità. E che le quietanze per saldare il lavoro dell’artista furono liquidate al pittore di Cortona dal Comune di Città di Castello proprio quando Feriani, camerlengo della municipalità, amministrava i beni cittadini. luglio

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A sostegno di tali considerazioni ci vengono incontro proprio le parole di Giacomo Mancini riportate sopra, che descrivono la Pala Feriani come una vera miniatura. Oltretutto, la presenza di un simile corteo all’interno di una Adorazione dei pastori, sebbene poco frequente, vanta esempi illustri, come la meravigliosa tavola licenziata da Domenico Ghirlandaio nel 1485 per decorare la cappella Sassetti nella basilica di S. Trinita a Firenze.

Lo zuccotto azzurro dell’avvocato

Altra considerazione che sostiene questa ipotesi è la possibilità di identificare uno dei personaggi ritratti nel brano di Parigi con un nobile tifernate amico del Feriani: il personaggio centrale del frammento, che indossa uno zuccotto azzurro abbinato a una veste decorata tono su tono con lo stesso colore, mostra una fisionomia vicinissima a quella di Niccolò di Manno Bufalini, avvocato concistoriale in utroque iure e conte palatino al servizio dei papi Sisto IV, Innocenzo VIII e Alessandro VI. Una simile identificazione è stata possibile paragonando il personaggio in questione con il ritratto del Bufalini licenziato da Pinturicchio all’interno del ciclo d’affreschi che lo stesso Niccolò commissionò per la propria cappella romana all’Ara Coeli (il ritratto del Bufalini, un poco piú giovane coerentemente con la distanza temporale tra gli affreschi e il lacerto, compare con il medesimo sguardo profondo incorniciato da rughe nell’affresco che racconta le Esequie di san Bernardino). È plausibile, infatti, che il committente abbia chiesto di collocare il proprio ritratto all’interno della Pala Feriani, accanto a quello degli amici che, con Feriani, condividevano l’appoggio al governo dei Vitelli, la potente signoria che governava de facto la città altotiberina. Oltretutto dai documenti d’archivio relativi agli anni 1493-1494, che per considerazioni stilistiche sono quelli della esecuzione del frammento, Feriani e Bufalini risultano tra i cittadini tifernati alla guida della città. E se, come è stato riconosciuto dalla maggior parte degli studiosi, nella grande Adorazione dei Magi i personaggi hanno probabilmente il volto dei protagonisti delle vicende politiche locali del tempo (con buona probabilità in uno dei magi è ritratto proprio Vitellozzo Vitelli), allora l’ipotetico dialogo tra le due pale, l’Adorazione dei Magi da un canto e l’Adorazione dei pastori col nostro frammento dall’altro, diventa ancora piú suggestivo e in qualche modo politicamente forte. D’altra parte, l’Adorazione dei Magi e il frammento del Louvre sembrano condividere anche le stesse vicende collezionistiche a partire dal 1789. In quell’anno un terremoto particolarmente violento distrusse alcuni edifici di Città di Castello e gli Agostiniani, per poter far fronte alla ricostruzione, furono costretti a vende-

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luca signorelli in umbria/5

Esequie di san Bernardino, affresco del Pinturicchio (al secolo, Bernardino Betti o di Betto). 1486 circa. Roma, basilica di S. Maria in Ara Coeli, Cappella Bufalini.

re meravigliose opere d’arte. Furono cosí cedute agli emissari del papa Pio VI la tavola di Raffaello raffigurante San Nicola da Tolentino e due opere del Signorelli: l’Adorazione dei Magi sull’altare maggiore e l’Adorazione dei pastori della cappella Feriani. Da notare che il San Nicola da Tolentino risulta resecato per eliminare i danni subiti dalla tavola. La medesima sorte sembra occorsa al frammento parigino, mentre l’Adorazione dei Magi, decurtata di due parti laterali, fu trasportata su tela. Sia l’Adorazione dei Magi che il Frammento con figure maschili finirono nella collezione di Giampietro Campana. Poi, nel 1861 entrambe le opere furono acquistate dall’imperatore Napoleone III. E infine approdarono al Louvre. L’insieme delle considerazioni e dei dati raccolti, anche alla luce delle identificazioni illustrate, porta-

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no tutte a ricondurre il Frammento con figure maschili a Città di Castello, e concorrono a sollecitare indagini nuove su opere e committenti citati, inaugurando ulteriori affascinanti indagini, come quella, per esempio, che suggerisce di assegnare alla stessa consorteria, e in particolare alla figura di Niccolò Bufalini, un altro intensissimo dipinto di Luca Signorelli, il Ritratto virile (oggi conservato nella Gemäldegalerie degli Staatliche Museen di Berlino), nel quale è effigiato un volto dai tratti e dall’intelligenza molto vicina a quella del nostro personaggio parigino. Una intrigante pista interpretativa che apre, crediamo, una nuova meravigliosa pagina di storia dell’arte.

Da leggere Giuseppe Sterparelli (a cura di), Luca Signorelli a Città di Castello. La vita, l’opera e la Scuola in Alta Valle del Tevere, Petruzzi, Città di Castello 2013 luglio

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Mens. Anno 27 numero 317 Giugno

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il trecentonovelle di franco sacchetti/6

Carni deboli di Corrado Occhipinti Confalonieri

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reliquie

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Le novelle di Franco Sacchetti sono la gustosa conferma del detto secondo il quale non è l’abito a fare il monaco: sono infatti numerosi gli episodi di cui sono protagonisti servi del Signore facilmente inclini al peccato. E non privi di una buona dose di sfacciataggine, che li porta a negare le malefatte commesse, anche di fronte alle prove schiaccianti delle loro... marachelle

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Il registro comico del Trecentonovelle di Franco Sacchetti emerge in tutta la sua forza espressiva nei racconti dedicati ai religiosi, nei quali comunque non mancano le riflessioni moraleggianti. Per accentuare l’aspetto del divertissement, lo scrittore fiorentino trae riferimenti e citazioni dal Decameron di Giovanni Boccaccio, suo maestro letterario. Nella città di Amelia (novella CCVII) Buccio Malpanno è «uno semplice uomo [sciocco]» sposato con la bella Caterina «d’etade di venticinque anni» assai disponibile a offrirsi ad Antonio, un giovane frate francescano, il quale «come da suo divoto, spesso era visitata; tanto che forse, perché il marito era magretto e di poco spirito, e una cosa e un’altra detto frate usufruttava piú i suoi beni temporali che non faceva elli». Una notte che Buccio è di corvée alle porte della città, frate Antonio «diede posta [si accordò] di andare a giacere con la detta donna Caterina». Nel Medioevo le città troppo piccole, prive di una milizia a pagamento, reclutavano gli abitanti che, a rotazione, dovevano occuparsi della guardiania notturna. Antonio «giunto nella camera della donna, andandosi a coricare, si cavò

le bianche brache [indumento intimo maschile medievale] e misele sul capezzale [la sponda del letto]». Nel frattempo, Buccio chiede il permesso all’ufficiale di guardia di tornare a casa prima, giunge davanti all’uscio e infila la chiave nella toppa. Frate Antonio si accorge del rumore e «subito si leva, come colui che era destrissimo e sospettoso, e agrappato [avendo afferrato] la tonaca e gli altri panni e, non accorgendosi, lasciando le brache si gettò da una finestra non molto alta dalla via e ’l meglio che poteo s’andò con Dio».

Brache gigantesche...

Buccio si corica «nel luogo suo, il quale era stato da poco sagrato [consacrato dalla presenza del religioso]; e dormito che ebbono egli e la donna, che n’aveano aúto bisogno, sí per lo vegliare della guardia e per lo vegliare del culatario [il posteriore della moglie], in sino a dí chiaro». La mattina seguente Buccio apre la finestra e vede le brache sulla sponda del letto: sta per indossarle quando nota un altro paio sul cassettone e «conosciuto che quelle del capezzale non erano le sue, le ripose in una cassa e misesi le sue. E immaginando d’un pensiero in un altro di cui potesseno essere le brache, che alla grandezza pareano essere state d’uno gigante, gli era intrato una malinconia che quasi non mangiava». Dal dettaglio di Buccio, che, come Antonio, si toglie le brache per andare a letto, abbiamo la conferma che nell’età di Mezzo si dormiva nudi per liberarsi dagli insetti e dai parassiti che infestavano gli abiti. Vestiti e indumenti A sinistra miniatura raffigurante, da sinistra, un abate che spia il monaco nella sua cella e il monaco che, a sua volta, spia l’abate, da un’edizione francese del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert di Mets. XIV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Nella pagina accanto statuetta in pietra raffigurante un monaco. Produzione francese, XV sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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venivano riposti nelle cassepanche, perché non esistevano gli armadi, oppure su stanghe per evitare che fossero mordicchiati da roditori o animali domestici. In gran segreto, frate Antonio fa sapere a Caterina di aver dimenticato «le brache o la trabacca [tenda da accampamento, con riferimento alla straordinaria grandezza delle brache]». La donna intuisce che Buccio le ha trovate, comprende il motivo della sua malinconia e si aspetta nefaste conseguenze. Venutone a conoscenza, Antonio si confida con Domenico, un anziano e fidato confratello «molto scienziato e sperto [dotto]» che per evitare l’infamia dell’ordine e quella del giovane amico si offre «di levar questo sospetto a Buccio». I due si recano verso casa dell’affranto marito, lo incontrano per strada e frate Domenico «salutandolo il prese per la mano e, guardandolo in viso, li disse: “Buccio mio, tu hai malinconia”». L’uomo nega, ma l’astuto francescano insiste: «Veramente io il so per revelazione di santo Francesco; e per la verità io volea venire a casa tua per una reliquia che la tua donna portò a questi dí. E acciò che tu lo sappi bene, noi abbiamo una reliquia, la quale ha grandissima virtú a fare generare le donne che non menano [generano] figliuoli, e queste sono i panni di gamba del beato messer santo Francesco, le quali spesso prestiamo per questa cagione; e recandole una donna che l’avea accattate alla nostra sagrestia, abattendovisi [capitandoci] la donna tua e sentendo le virtú loro e ch’ella era sterile, con grandissima benignità me le chiese acciò che santo Francesco gli desse grazia di fare figliuoli, com’ella desiderava; e io, considerando l’amore che io ti porto, glile prestai, e halle tenute per piú dí. Ora, essendomi chieste per altre donne, ché ce ne sono assai che non fanno figliuoli, ce ne conviene pur servire ed esserne piú larghi forse che non si converrebbe; sí che io t’ho chiarito, s’alcuno sospetto avessi. E però ti prego che non t’incresca che andiamo per esse con

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il trecentonovelle di franco sacchetti/6 Il santuario della Verna, sull’Appennino Toscano, presso Arezzo. Nell’estate del 1224 san Francesco si ritirò qui e, durante la permanenza, il Signore gli apparve sotto forma di Serafino crocifisso, lasciandogli in dono i sigilli della sua passione, cioè le stimmate.

quella reverenza che si conviene, però che sono reliquie di povertà e d’umiltà». Anche qui notiamo un dettaglio interessante, vale a dire il ricorrere dei problemi di sterilità. Lo sciocco Buccio crede alla fantasmagorica fandonia: giunti a casa, apre la cassapanca e restituisce le brache. Quando frate Domenico vede che ha conservato la finta reliquia in mezzo alle masserizie, rincara la dose: «Buccio mio, son queste cose d’averle tenute in tal maniera? Tu hai peccato mortalmente». Il gretto frate si appropria di un mantello di seta di Buccio, ci pone le brache, comincia a recitare il De profundis e molti altri salmi per fargli credere meglio alla bugia; poi lo fa confessare, gli dice che è caduto in scomunica e infine gli assesta una gran manata sulle spalle per assolverlo. Buccio rimane con la speranza che Caterina generi figlioli, cosa che non succede, anche se la donna «ben se ne sforzò con frate Antonio

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quanto poteo». Lo stesso giovane frate sfrutta la falsa reliquia «per li tempi avvenire che avesse adoperato con donna Caterina».

Un giudizio severo

Al termine di questa novella, Sacchetti si chiede quale morale si possa trarre dal comportamento di frate Domenico che, per età ed esperienza, dovrebbe collocarsi ai vertici dell’Ordine francescano come esempio di religioso integerrimo. Il giudizio dello scrittore è severo: «Abandonò ogni onestà per ricoprire il defetto [la colpa] del suo compagno ed eziandio del suo convento; e volendo ricoprire questo disonesto adulterio, maggiore disonestà usò contro al beato messer santo Francesco, sotto il cui ordine vivea e a cui elli intitoloe cosí venerabile reliquia; che ben potea almeno averla intitolata in qualche altro, come che [benché] male era; ma molto era il meglio che avesse tenuto con gastigamento e con sí stretta vita frate Antonio che ’l disordi-

nato caldo [l’appetito erotico] li fosse atuato [smorzato]; ma non si vergognò di ciurmare [ingannare] o di trovare una cattiva falsità intitolando [usando il nome di] san Francesco il quale tra quanti santi sono non truovo in alcun mostrarsi tanto miracolosa e divina potenza quanto il nostro Signore mostrò in lui, a segnarlo delle sue preziose stimate sul santo monte della Vernia. Il quale luogo, se fosse tra gl’Infedeli se ne farebbe molto maggiore stima che a esserci cosí presso [vicino]; però che [poiché] in tutto il mondo sono due luoghi superlativamente notabili: il primo tra gl’Infedeli è il Sepolcro, il secondo tra Cristiani è questo». Sacchetti considera il monte della Verna, dove san Francesco aveva ricevuto le stimmate, un irrinunciabile luogo di pellegrinaggio, forse all’epoca sottovalutato a favore di mete piú lontane. La punizione divina per frate Domenico è esemplare: «E questo ipocrito, piú tosto rubaldo che religioso, essendo suo frate, non si vergognò in sí luglio

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In basso il saio lasciato da san Francesco nel castello di Montauto, presso Anghiari (Grosseto) e oggi conservato nel santuario della Verna.

vituperosa opera comporre una falsità con tanta disonestà [disonore] del beato messer santo Francesco, di cui era frate; ma a lungo andare la comprò come meritava: perché divenne lebroso in forma che convenne si dilungasse [allontanasse] e dall’ordine e dalla terra. E piú anni vivette con sí puzzolente infirmità, e poi morí come era degno. E fu de’ miracoli che fa il nostro Signore, che questo ipocrito e vizioso frate, mostrando con la coverta [copertura] di santo Francesco, essere un uomo di santa vita, convenne che mostrasse di fuori con malattia di lebbra, la quale stava dentro del suo corpo coperta, il suo difetto». Non a caso, lo scrittore sottolinea che frate Domenico muore di lebbra, considerata nell’età di Mezzo una punizione divina per i peccati commessi. Il tema dell’utilizzo di false reliquie viene ripreso dallo scrittore fiorentino nella novella LX che inizia da un fatto storico accaduto nella sua città: «Avendo aúto di Puglia un braccio, il quale fu dato loro per

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il trecentonovelle di franco sacchetti/6

lo braccio di santa Reparata, e facendolo venire con gran cerimonia e mostrandolo parecchi anni per la sua festa con gran solennità, nella fine trovorono il detto braccio essere di legno». A santa Reparata che si festeggia l’otto di ottobre, era in origine dedicata la Cattedrale di Firenze, poi trasformata in S. Maria del Fiore. Il presunto braccio della santa era giunto a Firenze nel 1352 e solo nel 1356 ci si accorse dell’imbroglio. Sebbene l’accaduto inviti alla prudenza in fatto di reliquie originali, frate Taddeo Dini, morto nel 1559, è costretto a smascherare un’altra falsa reliquia con un moto di spirito. Il predicatore domenicano si trova a Bologna il 25 novembre, festa di Caterina d’Alessandria, molto venerata nel Medioevo. Nel

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monastero dedicato alla santa «avvenne che, compiuta la predicazione, anzi che scendesse dal pergamo [pulpito] e pervenisse alla confessione (...) gli fu recato un forzieretto di cristallo, coperto con drappi». All’interno della teca, i religiosi gli mostrano un braccio di Caterina, ma Taddeo li smentisce: «Come il braccio di santa Caterina! Io sono stato al Monte Sinai e ho veduto il suo corpo glorioso, intero con le due braccia e con tutte l’altre membra». Sul monte Sinai si conserva il corpo della martire qui traslato per miracolo.

Il... terzo braccio

I «pretoni» insistono perché mostri il braccio ai fedeli e la stessa badessa cerca di forzare Taddeo perché si perderebbe un’attrattiva capace di suscitare devozione verso il mo-

nastero. Frate Taddeo capisce che bisogna mostrare la reliquia, prende in mano il braccio e si rivolge ai fedeli presenti nella chiesa: «Signori e donne, questo braccio che voi vedete dicono le suore di questo monastero che è il braccio di santa Caterina. Io sono stato al Monte Sinai, e ho veduto il corpo di santa Caterina tutto intero, e massimamente [soprattutto] con due braccia; s’ella n’ebbe tre, quest’ è il terzo». Poi utilizza il finto resto sacro per benedire il pubblico, suscitando ilarità nella maggior parte delle persone tranne in «molti uomini e femminelle semplici [che] si segnarono devotamente, come quelli che non intesono frate Taddeo, né avidonsi [si resero conto] mai di quello che aveva detto». Nella conclusione, Sacchetti luglio

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Il monastero di S. Caterina nei pressi del monte Sinai. A destra capolettera miniato raffigurante un vescovo che dà istruzioni ad alcuni chierici affetti dalla lebbra, da un’edizione dell’Omne Bonum. 1360-1375. Londra, The British Library.

chiosa sull’importanza della fede: «E’ buona e salva ciascuno che l’ha» ma mette in guardia: «Solo il vizio dell’avarizia fa di molti inganni nelle reliquie». Porta poi come esempio di false reliquie il latte di Maria: «Non è cappella che non mostri aver del latte della Vergine Maria! Ché, se fusse come dicono, nessuna sarebbe piú preziosa reliquia, pensando che del suo corpo glorioso alcuna cosa non rimase in terra; ed e’ si mostra tanto latte per lo mondo, dicendo essere del suo, che se fosse stata una fonte che avesse piú di rampollato, quello si basterebbe. Se se ne potesse far prova, come frate Taddeo fece del detto braccio, ciò non avverrebbe». Quindi conclude con un’esortazione e lancia uno strale: «Ora la fede nostra ci salvi; e chi archimia [organizza un falso] sí fatte cose, ne porta pena

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in questo o ne l’altro mondo». Nel Medioevo si pensava che molte malattie potessero essere curate attraverso il semplice contatto con parti del corpo di santi oppure con oggetti a loro appartenuti o connessi. Affaristi senza scrupoli ne approfittarono e i falsi resti sacri, come il latte della Vergine, si moltiplicarono. Neppure il IV Concilio Lateranense del 1215, che proibiva la venerazione di reliquie che non avessero il «certificato di autenticità», era riuscito ad arginere il fenomeno.

Prediche esilaranti

Ma non tutti i predicatori posseggono lo spirito arguto e ironico di Taddeo, anzi spesso dal pulpito dicono comiche bestialità. A Genova un frate dell’Ordine degli Eremitani di sant’Agostino afferma che i fedeli devono «fare buona guerra», paragonando i nemici veneziani a suini che «essendo una moltitudine di porci stretta insieme, e uno ne sia o percosso o bastonato, tutti si serrano a una, e corrono a dosso a chi gli percuo-

te», mentre i Genovesi sono degli asini «che quando molti ne sono insieme, dando d’uno bastone a uno, tutti si disserrano [si allontanano in varie direzioni], e qual fugge qua e qual fugge là, tanto è la loro viltà; e questa è proprio la natura vostra» (LXXI). Sacchetti ricorda anche l’insensata predica contro il peccato di gola di un vescovo a Firenze: «Voi siete molto golosi; e’ non vi basta magnare le pastinache [radici dolci] fritte ché voi le mettete ancora nell’agliata [salsa di aglio e aceto] cotta; e quando mangiate li ravazzuoli [raponzoli, cime di rapa o broccoli] non vi basta, quando hanno bollito nel pignatto, mangiarli con quel buglione [brodo], ché voi gli traete del loro proprio brodo e frigeteli in un’altro pignatto, e poi gli minestrate [servite intrisi nel condimento] col formaggio». Siccome quel giorno si festeggia l’assunzione di Gesú in cielo, il vescovo non lesina il suo commento: «E’ n’andò ratto piú che cosa che si potesse dire. Come andò ratto [veloce]? Andonne come uccello che volasse? Piú; andonne come freccia che

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il trecentonovelle di franco sacchetti/6 uscisse d’arco? Piú; o come strale che uscisse di balestro? Piú; come n’andò? Come se mille paia di diavoli ne l’avessino portato» (LXXII). Spesso le prediche sono anche fuori contesto e dimostrano la lontananza di questi pastori dal proprio gregge (C ). Romolo del Bianco è «uno vecchierello fiorentino, il quale ha bene ottant’anni ed è ancora vivo» che possiede «le piú nuove parole [ ben scelte] del mondo alle mani, e la maggior parte filosofiche [ricche di contenuto]. Una sera di quaresima, Romolo si reca alla messa in santa Reparata «alla qual predica vanno tutti poveri lavoranti la lana» dopo aver chiuso le botteghe e anche il personale di servizio delle case limitrofe. Ogni sera un frate predica contro l’usura, ammonendo dal prestare denaro, perché tale pratica conduce l’uomo alla dannazione.

In difesa degli usurai

Dopo aver ascoltato la paternale, Romolo interviene: «Messer lo frate, io ve l’ho creduto dire già è parecchie sere, ma sommene tenuto [me ne sono astenuto]; ché credea che voi uscisse a predicare d’altra matera che dell’usura; ora mi pare che voi non sete per predicare d’altro; io vi voglio far chiaro che voi vi perdete le parole, però che [perché] quanti voi ne vedete a questa predica accattano [prendono a prestito] e non prestano, ché non hanno che [non potrebbero prestare perché non possiedono nulla], e io sono il primo. E però, se voi ci sapete dare alcuno conforto sopra i nostri debiti e sopra che [quello che] dobbiamo dare altrui, io ve ne priego; quando che no, e io e gli altri che ci sono potremo fare senza venire alla vostra predica». Nella chiesa fa buio, ma gli astanti riconoscono la voce di Romolo e qualcuno, a nome di tutti, dice: «Egli ha molto ben ragione, ché non c’è alcuno di noi che non abbia piú debito che la lepre». Si tratta di un’espressione proverbiale dell’epoca, in quanto il comportamento del-

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Monache in un convento di origini medievali. Nella pagina accanto la statua di santa Reparata collocata all’esterno della cattedrale di S. Maria del Fiore a Firenze.

la lepre sempre pronta a scappare somiglia a quella di un debitore. Il frate in imbarazzo recepisce il messaggio e da quel momento inizia le prediche dicendo «Beati pauperes» e «fu loro grandissimo conforto». Sacchetti suggerisce ai sacerdoti di adattarsi al pubblico con senso di opportunità: «Se predica a una gente in una terra, che sieno ricchi per usure, molto li riprenda su questo, e se predica a’ poveri gli conforti su la povertà; se sono macolati [macchiati] di sfrenate concupiscenze contro a quelle dica, se da storsioni, se di ruberie, se di guerre, e e cosí degli altri vizi de’ fare il simile; acciò che non sia ripreso da uno pover uomo come fu costui». Ma anche le religiose hanno la loro parte nell’ironica reprimenda di Sacchetti. A Todi (CI) il barbiere Giovanni, detto l’Innamorato, fa parte della setta degli Apostoli, una costola del movimento francescano spirituale che si rifaceva alla povertà assoluta propugnata dal fondatore, rispetto a quella piú sfumata dei francescani conventuali. Negli ultimi anni del Duecento, la setta venne condannata perché le eresie pauperistiche erano molto

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temute e perseguitate dai Comuni italiani. Gli Apostoli erano protagonisti di una violenta polemica antimondana, che si diceva li portasse a mettere alla prova la loro virtú dormendo in modo casto vicino a donne nude.

Le voglie di Giovanni

Giovanni «si veste di bigio senza levare mai gli occhi in alto», porta il cappuccio in segno di umiltà, ma non disdegna di andare fuori Todi per incontrare una bellissima suora, che vive in un piccolo monastero con altre due sorelle. Quando qualcuno chiede a Giovanni perché venga chiamato l’Innamorato, risponde: «Perché sono innamorato della grazia di Iesu»; le suore stesse lo stimano come un santo, anche se il barbiere «molto segretamente era innamorato piú della bella romita». Una sera, con la scusa di non aver fatto in tempo a ritornare a Todi prima della chiusura delle porte, Giovanni bussa al monastero per trascorrere la notte, fredda e nevosa: all’inizio le monache sono contrarie, ma alla fine lo fanno entrare. Il monastero è molto pic-

colo, le donne dormono insieme nello stesso letto: «La bella si colicò da capo, e un’altra a latoli dalla proda lungo il muro, e da piede lungo il muro si coricò la terza». Prendendo a pretesto il fatto che il fuoco è spento e anche la lucerna è consumata, Giovanni si corica nel letto delle suore per ripararsi dal freddo: «Le romite stavano chete piú per vergogna che per altro, e forse alcuna dormía». Il malizioso barbiere comincia a toccare i piedi alla bella monaca «i quali erano morbidissimi» e le sussurra: «Benedetto sia Iesu Cristo che sí belli piedi fece»; le tocca i polpacci: «Benedetto sie tu, Iesu, che sí belle gambe creasti»; arriva al ginocchio: «Sempre sia lodato il Signore, che cosí bel ginocchio formò»; palpa le cosce: «O benedetta sia la virtú divina, che sí nobil cosa generò». A questo punto, l’avvenente suora gli dice: «Giovanni, non andare piú su, che c’è lo ’nferno». Si tratta di un riferimento alla famosa battuta della novella nel Decameron (III, 10) in cui la bella Alibech viene sedotta dall’eremita Rustico e serve a Sacchetti per colorare la sua di tratti cronistici. Il finto san-

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il trecentonovelle di franco sacchetti/6

Miniatura raffigurante il giardiniere Masetto che chiede di entrare nel convento e poi si bacia con una monaca, da un’edizione francese del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert di Mets. XIV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

to le risponde: «E io ho qui co’ meco il diavolo, che tutto il tempo della mia vita ho cercato di metterlo in inferno». La monaca cerca di respingere Giovanni con poca convinzione e lui, per farla cedere definitivamente, le dice: «Credi tu che Iesu abbia fatta la tua bellezza perch’ella si perda? Non lo credere». Le altre suore hanno finto di dormire e si fanno sedurre a turno da Giovanni che vuole far passare quanto successo come una cosa normale: «Credete voi che molte rinchiuse come voi non si disperassono, se alcuno mio pari spesse volte non desse loro di questi conforti? Voi sete giovani e sete femine: credete voi che per questo ne diminuisca la gloria di Dio in voi? E voi sapete che con la sua bocca disse che noi provassimo ogni cosa, e quello

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che è buono tenessimo. E questo è anco a’ miei pari utilissimo, però che, come io abbia questo abito, sono pure uomo e spesso mi assaliscono gli amorosi desideri; e a questi non è modo che se attutassino [si spegnessero] mai, se non si domassono e’ [essi, i desideri della carne] come si domano con voi. E io cosí ho fatto e farò quanto fia di vostro piacere, e non piú».

Deperito per ardore

La tresca va avanti per lungo tempo e ricorda quella del giardiniere Masetto che nel Decameron (III, 1) aveva trasformato un monastero in harem. Giovanni da «fresco e colorito» diventa «magrissimo e palido e andava onesto [umile] che parea San Gherardo da Villamagna [uno dei primi seguaci di san Francesco d’Assisi], essendo tenuto santo; e quando morí ogni uomo e femina gli andava a baciare la mano, dicendo che facea miracoli». Sacchetti conclude sottolineando come sia ben nascosta l’ipocrisia nel mondo che rende

facilmente santo un peccatore come Giovanni. Se confrontiamo le novelle dedicate ai religiosi nel Decameron con quelle dell’opera di Sacchetti, abbiamo una percezione piú chiara di come questa classe sociale sia considerata alla fine del XIV secolo. Nel Decameron la satira dei narratori contro i religiosi si affievolisce di giorno in giorno, perché il tempo trascorso lontano da Firenze purifica le loro anime dagli orrori della peste del 1348; cresce nei dieci giovani la speranza in un mondo nuovo, tutelato e vigilato dalla Chiesa. Nel Trecentonovelle questa speranza si rivela un’utopia e Sacchetti mette in luce il costante degrado dell’ordine sociale dei religiosi che lo porta a concludere: «E a questo modo e tra cosí fatte mani e cosí discreti sacerdoti è condotto il nostro Signore; che spegnere se ne possa il seme!» (XCVII).

NEL PROSSIMO NUMERO ● I nobili luglio

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costume e società

Scene di vita

quotidiana

di Jerzy Miziołek

La collezione delle pitture di cassone riunita dal conte Karol Lanckoronski offre un repertorio di eccezionale valore per conoscere la storia di questi manufatti di prestigio. Ornati da scene che, pur dedicate a celebri personaggi storici o eroi leggendari, sono vivide «fotografie» del tempo in cui vennero realizzate

Pitture di cassoni rinascimentali in origine facenti parte della collezione del conte Karol Lanckoronski. Cracovia, Castello Reale. Nella pagina accanto Il Conte Lanckoronski nel suo studio, olio su tela di Jacek Malcewski. 1905. Cracovia, Castello Reale.

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I I

l conte polacco Karol Lanckoronski (1848-1933) riuní la sua grande collezione di opere d’arte a Vienna. All’indomani della sua morte e poi durante e dopo la seconda guerra mondiale, essa venne in gran parte dispersa. Nel 1994, la figlia del conte, Karolina Lanckoronska, donò quel che ne rimaneva ai castelli reali di Cracovia e Varsavia. A Cracovia giunsero cosí oltre 80 dipinti italiani del tardo Medioevo e del Rinascimento, una trentina dei quali appartengono al genere noto come «pittura di cassone», che include fronti e laterali dei cassoni, spalliere e pitture, che in origine adornavano i letti, come è anche il caso, per esempio, della Primavera di Sandro Botticelli. Lanckoronski nutriva un interesse particolare per la pittura di cassone, nato dalle loro iconografie «all’antica» ispirate al mondo classico. Lo conferma un suo breve scritto del 1905, Einiges über italienische bemalte Truhen (Sui cassoni dipinti italiani), nel quale tratta i dipinti della sua collezione, fornendo informazioni su dove furono acquistati e affrontando il tema delle loro decorazioni e relative attribuzioni. Va rilevato che il prezioso volumetto di Lanckoronski, pressoché sconosciuto in Italia, precedeva di ben due lustri il monumentale corpus redatto da Paul Schubring, Truhen und Truhenbilder der italienischen Früh-Renaissance. Ein Beitrag zur profanmalerei im Quattrocento (1915). I cassoni italiani vengono ricordati dal conte perfino durante un suo viaggio in India. Nel suo diario di

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viaggio Intorno al mondo (1889), riporta: «Osservando la gente e gli animali di Jodphurt, non potevo fare a meno di pensare ai dipinti rinascimentali sui cassoni fiorentini e umbri, agli affreschi di Benozzo Gozzoli, a Carpaccio, che mi fecero un’impressione simile. Il Quattrocento italiano era forse come è oggi Rajputana, che rispetto all’Italia del 1380-1450 ha senz’altro meno garbo e nobiltà, ma la stessa volontà di vivere, lo stesso gusto dell’eccezionale, lo stesso ingenuo trasporto per vesti e gioielli stracarichi di addobbi superflui».

Mobili di grande valore

Il Rinascimento italiano era la pietra di paragone del conte, non solo durante questo viaggio, ma in molte altre occasioni, come durante l’escursione archeologica in Turchia nel 1884. Einiges über italienische bemalte Truhen, al pari delle Considérations sur l’état de peinture en Italie dans les quatre siècles qui ont précédé celui de Raphael di Jean-Alexis de Montor (1843) sono dedicati quasi per intero alle opere raccolte, da collezionista, dall’autore. I primi pezzi che il conte acquistò nel 1882 erano alcuni pannelli laterali di cassone. L’opera si apre passando in rassegna gli studi in materia e mettendo in risalto l’importanza dei cassoni tra il mobilio dell’epoca: quelli dipinti erano particolarmente preziosi e, dunque, costosissimi. I puntuali richiami alle opere del mitico Dello Delli, di Carpaccio (Sant’Agostino nello studio) e di Tiziano (Venere di Urbino) scaturivano da una

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costume e società

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

conoscenza perfetta dell’arte e della vita quotidiana in epoca rinascimentale, nonché da quella di una dottrina specifica sull’uso dei cassoni: «Feci fare – scrive Lanckoronski – una foto del primo piano di un quadro di fama mondiale: la cosiddetta Venere di Tiziano della Galleria degli Uffizi di Firenze. Questa Venere è il ritratto di una bellissima principessa di Urbino che ha posato per Tiziano; donde il titolo del quadro: La Bella del Tiziano (...). Vi vediamo due servette, una ginocchioni davanti a un cassone scolpito, chiaramente per trarne qualche vestito. Accanto al primo un secondo identico cassone (...). Quasi sempre li si metteva sotto la parete, sovente se ne avevano due uguali o simili, come nel quadro di Tiziano. Di solito un cassone stava accanto o di fronte all’altro. Posto sul pavimento (...). La parete anteriore, e spesso anche il coperchio, erano senza addobbi. Su quest’ultimo si adagiavano i cuscini perché ci si potesse sedere. Invece le pareti anteriori e quelle laterali erano ornate di dipinti o rilievi, o di entrambi». Lanckoronski si interroga poi su come il Rinascimento avesse riattualizzato i miti e le tracce della letteratura antica, che lui, allievo di un famoso filologo classico, conosceva in modo esemplare: «La pervasività reciproca di arte e vita si percepisce nella realizzazione dei progetti pittorici, nel modo in cui i pittori dipingevano la vita su piccole predelle, poste sotto i quadri degli altari, richiamando storie bibliche o leggende di santi, spesso con colori semplici e genuini, e si riscontra pure nelle scene dipinte sui cassoni, di fatto racconti di vita contemporanea, ma all’apparenza storie di vita antica (...). In quanto destinati a un uso mondano, era ben raro che i cassoni si ornassero di immagini religiose, e che, in un tal insolito caso, il

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richiamo non fosse al Vecchio Testamento. E al pari dei santi dei quadri nelle chiese, gli antichi dei cassoni non sono né solenni, né lontani, né staccati dal quotidiano. I pittori di Firenze o Ferrara li calavano, si chiamassero pure Ulisse o Orfeo, nella realtà del loro tempo. Similmente Domenico Ghirlandaio nel famoso affresco di Santa Maria Novella vestí di abiti portati a Firenze nel 1490 le egregie signore che rendevano omaggio a Sant’Anna per aver dato i natali alla Madonna».

Come la coda di un drago

Fatte queste osservazioni preliminari, peraltro assai equilibrate e precise, Lanckoronski passa in rassegna la propria collezione, cominciando dalle pareti laterali dei cassoni, spesso poco curate, perché i pittori davano il meglio di sé nel dipingerne le fronti. Eccone due: «Prima la parete laterale, con Orazio Coclite che difende il Tevere dagli Etruschi, come racconta il secondo libro di Livio. Il Tevere, piú simile alla coda di un drago che a un fiume, si allontana da Roma, in secondo piano con le sue mura e i suoi palazzi. Medievale la corazza, bianco il cavallo del protagonista che ostruisce l’accesso al ponte, peraltro divelto. A tutto fa da pendant Marco Curzio, attivo agli albori dell’età repubblicana, che si getta in un precipizio, come nel settimo libro di Livio». Il racconto di Lanckoronski è estremamente succinto (tralascia addirittura di rilevare la presenza nel primo dei dipinti di celebri monumenti romani, quali la Piramide Cestia e il Pantheon con la cupola della cattedrale di Firenze), ma assai brillante ed esatto nell’indicare le fonti letterarie. Il discorso è ben corredato di appunti tecnici: «Qui due esempi di assai semplice fattura», «Un altro cassone alquanto trascurato: luglio

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Qui sotto laterale di un cassone raffigurante Orazio Coclite che difende Roma, tempera su legno. 1450 circa. Cracovia, Castello Reale.

In alto, sulle due pagine spalliera raffigurante Orfeo, tempera su legno di Jacopo del Sellaio. 1485 circa. Cracovia, Castello Reale. A destra, in basso laterale di cassone raffigurante Marco Curzio che si getta nella voragine, tempera su legno. 1450 circa. Cracovia, Castello Reale.

il leone domato da Ercole, o forse Sansone – da notare che, a differenza del mito, il leone non viene strozzato e non pare che gli si voglia rompere il muso». Quindi il testo arriva alle creazioni artistiche piú ambiziose, a partire dalla parete frontale di un cassone lungo oltre mezzo metro, a cui l’autore dedica una descrizione circostanziata e analitica: «Ho portato qui la parte anteriore di un cassone alquanto rovinato. Vi si raffigura, con scorci assai temerari, una battaglia, con il corredo di interessanti dettagli relativi all’armamento e accessori vari, e, per giunta, di splendide teste. Vi vediamo una collina difesa da fanti e cavalieri. A ornare il loro stendardo l’immagine di un gallo (...). A sinistra il comandante con il capo scoperto, il bastone in mano, montando un bel morello si è lanciato alla riscossa. Forse è Cesare, a battagliare sono forse i Galli e i Romani. (...) Chi è l’autore di questo dipinto? Tutti gli indizi portano a Paolo Uccello». Non era Paolo Uccello, ma, verosimilmente, uno dei suoi eredi della cerchia di Andrea del Verrocchio, e la battaglia non dovrebbe essere uno scontro combattuto all’epoca di Cesare, ma è probabilmente quello, avvenuto alla fine del III secolo a.C., tra due grandi eserciti, a Talamone, in Toscana (nelle vicinanze di

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costume e società Grosseto) e di cui parla Polibio nel secondo libro delle sue Storie. Davvero affascinanti sono le quattro figure di guerrieri nudi armati di clava e scudo rotondo, raffigurati nel centro, sotto lo stendardo spezzato dei Galli, che ricordano le figure dei barbari sui sarcofagi romani e ancor di piú la famosa incisione all’antica di Antonio Pollaiolo, nota come Battaglia di dieci uomini nudi (1470 circa), diffusa, come ci informa Giorgio Vasari, grazie a calchi e incisioni proprio negli anni della creazione del nostro dipinto. Le quattro figure principali di guerrieri sono probabilmente i Gesati, di cui parla Polibio, famosi perché combattevano completamente nudi. Il conte non conosceva il racconto di Polibio, ma la sua supposizione sul tema del cassone era sostanzialmente corretta: Romani contro Galli. Di norma Lanckoronski è assai piú preciso. Ma ci torneremo. Intanto facciamo tesoro di qualche inciso sulla genesi

A destra fronte di un cassone, tempera su legno attribuita alla cerchia di Andrea del Verocchio. 1475 circa. Cracovia, Castello Reale.

della sua collezione. Eccone uno: «Molto prima di acquistare quel cassone con la battaglia contro i Galli ero entrato in possesso di altri due, con un torneo, dipinti alla maniera di Paolo Uccello». Un altro inciso riguarda il piú prezioso, a parte la spalliera con Orfeo opera di Jacopo del Sellaio, dei dipinti di cassone fiorentini della seconda metà del Quattrocento confluiti nella collezione: «Passiamo ora a due parti del cassone, di cui ho portato qui l’originale, entrambe con delle scene tratte dall’Odissea. (...) Delle due parti qui in discussione, la prima è stata comprata quindici anni fa da Bardi, a Firenze, l’altra d’estate alla casa d’aste Somzé a Bruxelles; per tutt’e due le dimensioni sono uguali, la mano pare la stessa». Entrambi questi cassoni sono ora esposti in una sala al primo piano del Castello Reale di Wawel.

In alto e a destra particolari delle Storie di Ulisse dipinte da Apollonio di Giovanni sulla fronte di un cassone, tempera su legno. 1460 circa. Cracovia, Castello Reale.

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L’esperienza come docente, insieme all’amore per l’antichità e l’epoca rinascimentale suggerivano a Lanckoronski di collegare il remoto con l’attuale o almeno con un passato non troppo lontano. Pertanto il suo discorso è inframmezzato di appunti e paragoni: «Per cogliere la differenza tra il nostro rapporto con l’antichità rispetto a quello del mondo rinascimentale, farò ora vedere alcuni famosi paesaggi dell’Odissea dipinti quasi 40 anni orsono da Friedrich Preller, ora al Museo di Weimar. Tutti sono spiritualmente affini alla tradizione determinata da Carl Rottmann e appartengono alle migliori opere di questo genere della metà del secolo scorso. Confronterò uno o alcuni quadri di Rottmann con le analoghe scene dei miei cassoni». Non sappiamo come il pubblico abbia colto questi paragoni, ma l’approccio sembra comunque molto

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efficace. In un altro brano Lanckoronski racconta le vicissitudini di un cassone comprato nel 1904 all’asta a Bruxelles, con motivi tratti dall’Odissea sulla fronte e due piccole pareti laterali di argomento completamente diverso, di qualche decennio piú tarde e non di mano fiorentina ma ferrarese, una prassi comune nella seconda metà dell’Ottocento, che Lanckoronski, nemico di ogni sorta di ricostruzioni e completamenti, avversava fieramente.

Un osservatore attento

Nel caso specifico non s’era fatto certo ingannare: «L’oggetto acquistato nella casa d’aste Somzé era corredato di due parti di origine diversa, mal conservate, in una cornice di stucco dorato, fatte entrare in un cassone moderno addobbato con una teoria di stemmi falsi. luglio

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Sulle due pagine dipinti facenti parte della decorazione di un lettuccio veneziano, ricostruito virtualmente nella foto in basso. Cracovia, Castello Reale. Nella pagina accanto, Virgilio nella cesta (particolare), olio su tela. 1525 circa. A destra, Aristotele cavalcato, storia medievale rappresentata in vesti rinascimentali, olio su tela. 1525 circa.

Entrambe di Ferrara, non anteriori alla seconda metà del Quattrocento, potrebbero ascriversi dunque a Ercole di Roberti Grande, celebre allievo del grande pittore di Padova, Mantegna. Come già si è fatto con Paolo Uccello, allarghiamo il raffronto ad altre opere di questo ardito pittore. Interessante la sua Pietà, oggi al Museo di Liverpool: parecchie le analogie tra la crocifissione [nella Pietà] sullo sfondo e i nostri dipinti; a dedurre da personaggi e paesaggio, si tratterebbe di Amazzoni in lotta, come nel quadro di Casa Borromeo a Milano». Questa volta Lanckoronski non si propone di decifrare l’argomento dei dipinti, peraltro subito staccati dalla tavola con scene dell’Odissea (chi scrive sarebbe comunque portato a vedervi scene della vita di Scipione l’Africano: La conquista di Cartagine Nuova e Il trionfo a Roma); per l’attribuzione e la datazione non

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costume e società A destra particolare della fronte di un cassone raffigurante la Vestale Tuccia con il setaccio, tempera su legno di Alvise Donati. 1500 circa. Cracovia, Castello Reale.

Laterale di cassone con la Storia di Psiche, tempera su legno di Jacopo del Sellaio. 1460 circa. Cracovia, Castello Reale.

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è distante dagli studiosi odierni. Le ultime ricerche di Mattia Vinco li attribuirebbero piuttosto a un pittore veronese della cerchia di Domenico Morone, o comunque di un ambiente a quest’ultimo affine. La collezione di dipinti da cassone, che Lanckoronski andò arricchendo per un quarto di secolo in parallelo con le spedizioni archeologiche e l’acquisto di opere antiche, è oltremodo variegata per dimensioni, qualità, appartenenza a scuole pittoriche. Ne fanno parte opere non solo prodotte a Firenze, ma anche a Verona, Milano, Venezia. «Due raffigurazioni – leggiamo in Einiges... – due oli, a differenza di tante tempere, alquanto piú grandi, ci aprono le porte del secolo nuovo, il Cinquecento. A casa mia fungono da “supraportes”. Ne tengo conto a ragione dei loro soggetti, poiché, pur non essendo parte dei cassoni, lo sono senz’altro del mobilio. Probabilmente erano le pareti anteriori di due letti disposti l’uno accanto all’altro». Quanto ai soggetti, si tratterebbe di Filis su Aristotele e Virgilio nel canestro, due leggende medievali e nel contempo due avvertimenti sull’incontenibile desiderio femminile di uomini. Lanckoronski è corretto nell’indicare le fonti letterarie nella datazione, cioè l’inizio del Cinquecento, e Venezia e la cerchia di Giorgione come luogo di provenienza. Oggi potremmo essere di poco piú precisi riguardo all’autore, Giovanni di Buonconsiglio, e suggerire una ricostruzione virtuale del «lettuccio» da cui traggono origine i nostri quadri. luglio

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Ulisse e Nausicaa, olio su tela di Friedrich Preller il Giovane. 1865. Lipsia, Museum der Bildenden Kuenste.

Ma torniamo al conte, da par suo brillante e originale: «Entrambi gli aneddoti mettono in risalto quanto sia debole il nostro sesso, ingiustamente chiamato “forte”, quando ha da misurarsi con il fascino e la cattiveria delle donne. (...) Carpisce l’attenzione l’abito purpureo bordato di ermellino, portato sia da Aristotele che da Virgilio, nonché da uno spettatore nel secondo di questi dipinti. Un abito medievale, portato ancor oggi in certe occasioni particolarmente solenni dai rettori, per esempio all’Università Jagellonica di Cracovia».

L’opera d’arte è come un albero

Nelle pagine finali, Lanckoronski si lancia in paragoni e si concede qualche nota poetica. Del resto va ricordata tra le altre anche la sua attività di poeta, che cercava di descrivere alcune opere dei pittori di Venezia e delle sculture di Michelangelo. «È vero – scriveva in conclusione – che questi cassoni abbondano (ciò vale anche per molte pièce di Shakespeare) di chiari anacronismi e anatopismi, se mi è concesso questo neologismo. Ma proprio per questo rispecchiano fedelmente i luoghi e la temperie dell’epoca in cui furono eseguiti. Sono dunque preziosi per conoscere la storia d’Italia nel periodo del suo massimo splendore, [come lo

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è Shakespeare] per l’Inghilterra elisabettiana. Anche come opere d’arte sono tanto piú autentiche e convincenti, quanto piú radicate nel proprio luogo e tempo. Una vera opera d’arte è simile a un albero, le cui radici scendono in profondità nel patrio suolo, mentre le cime si dondolano negli spazi del cielo». L’amore del conte Lanckoronski per l’archeologia, la cultura antica e i temi rintracciabili nelle numerose fonti letterarie classiche furono la base per creare un’unica raccolta delle opere d’arte. La sua grande passione per la pittura a carattere mitologico può trovare corrispondenza con l’interesse per la cultura antica da parte degli uomini del Quattrocento. La forma dei quadri non sembra rivestire molta importanza rispetto al soggetto, che aveva spesso il carattere di exemplum e che serviva come istruzione morale, come la storia della Vestale Tuccia. Alcuni quadri mostrano infatti un grande interesse per le gesta e le virtú degli uomini famosi (Orazio Coclite, Scipione Africano), altri accennano l’importanza di Omero e degli eroi da lui cantati (Ulisse, Penelope), altri ancora richiamano una forte passione per la musica (Orfeo, Virgilio con il flauto di Pan). Grazie a un profondo e autentico interesse per la cultura antica e amore per l’arte italiana, Karol Lanckoronski divenne uno dei piú importanti collezionisti europei dell’arte del tardo Medioevo e del Rinascimento italiano, soprattutto per la pittura di cassone. luglio

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di Gianna Baucero

In una notte di novembre del 1120 salpava dal porto francese di Barfleur la Nave Bianca, con rotta verso le coste inglesi al di là della Manica. A bordo viaggiava il fior fiore della nobiltà normanna, fra cui l’erede al trono d’Inghilterra, Guglielmo AEtheling. Poco dopo la partenza, però, il veliero finisce contro uno scoglio e si inabissa: una tragedia destinata a cambiare il corso della storia…

La traversata maledetta

Miniatura raffigurante il naufragio della White Ship (Nave Bianca), dal Liber legum antiquorum regum. 1321 circa. Londra, The British Library.


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N N

el 1120 la monarchia normanna in Inghilterra aveva raggiunto il suo apogeo e re Enrico I, terzo sovrano della dinastia iniziata con Guglielmo il Conquistatore, era ormai «all’apice del suo potere», come scrisse il medievista inglese Frank Barlow (The Feudal Kingdom of England, 1955). Come già aveva fatto suo padre tra il 1066 e il 1087, Enrico era re d’Inghilterra e duca di Normandia. Per consolidare il suo potere, inoltre, il re aveva dato la figlia Matilde in sposa all’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico V di Franconia e aveva ottenuto che il suo unico figlio maschio legittimo, Guglielmo, fosse riconosciuto come suo erede sia dalla nobiltà inglese sia da quella normanna. Per questo ormai tutti conoscevano il giovane

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come Guglielmo Ætheling, dove Ætheling era il termine anglo-sassone che indicava, per l’appunto, un erede al trono. Guglielmo, infine, aveva sposato Matilde d’Angiò, figlia del conte Folco V, realizzando cosí un’altra preziosa alleanza politica, poiché le terre angioine confinavano con quelle normanne.

Una valida reggente

Dopo anni di conflitti lontano dalle coste britanniche, nell’autunno 1120 re Enrico I si apprestava finalmente a tornare in Inghilterra, dove durante le sue lunghe assenze la moglie Matilde era spesso stata la sua valida reggente. Purtroppo, la buona sovrana era mancata una notte di due anni prima, il 1° maggio 1118, mentre il consorte era in Normandia. Ora, nel no-

vembre del 1120, egli tornava in Inghilterra per la prima volta dopo la grave perdita. Era un ritorno malinconico, perché Matilde non sarebbe piú stata nella sala del castello ad attenderlo con le premure e il calore di una compagna fedele e leale che non vede il suo uomo da tanto, troppo tempo. Ma forse Enrico era troppo concentrato sui suoi doveri di re per abbandonarsi ai ricordi e alla nostalgia. Il sovrano aveva scelto di salpare da Barfleur, sulle coste nordorientali della penisola del Cotentin, in Normandia. Era una località molto nota, poiché accoglieva molte delle navi che attraversavano la Manica. In quell’epoca, e quando le condizioni meteorologiche erano ideali, la traversata durava mediamente tra le dieci e le dodici ore.

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Spesso le navi dovevano attendere a lungo prima di salpare, perché il vento poteva essere molto forte e il mare troppo agitato. Per questo, in genere, si preferiva non viaggiare in pieno inverno. Attraversare il Narrow Sea (letteralmente, «mare stretto»), come allora veniva chiamata la Manica, non era un’impresa per tutti: molti ne erano terrorizzati, anche perché nell’età medievale poca gente sapeva nuotare. Non mancavano, tuttavia, coloro che dovevano spostarsi tra le opposte sponde della Manica anche nella brutta stagione, come i sovrani d’Inghilterra o come quei nobili che avevano proprietà in Gran Bretagna e in Continente. Secondo Charles Spencer (autore del volume The White Ship, 2020), Guglielmo il Conquistatore

solcò il mare diciassette volte nel corso dei ventun anni di regno e nel 1120 suo figlio Enrico I l’aveva già attraversato «due dozzine di volte», anche se «non aveva mai compiuto il viaggio oltre il mese di settembre».

Una nave speciale

Barfleur era stato un luogo molto caro al Conquistatore perché in quella città, molti anni prima, sua moglie Matilde aveva fatto costruire per lui la Mora, una bellissima nave destinata a diventare l’ammiraglia della flotta normanna. È stato suggerito che Mora fosse l’anagramma di «amor», poiché l’unione di Matilde e Guglielmo era stata anche una storia romantica. Il comando di quella nave speciale era stato affidato a Stephen FitzAiLe scogliere di Dover, sulla sponda inglese del canale della Manica.

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rard, il quale dovette certamente essere molto fiero del suo ruolo. Non sappiamo se da adulto Enrico I si ricordasse di lui, ma si sa che mentre egli si trovava a Barfleur, nel novembre del 1120, uno sconosciuto chiese un incontro con sua maestà. L’uomo che chiedeva udienza si presentò come Thomas FitzStephen, cioè Thomas «figlio di Stephen», e dichiarò che suo padre era quello stesso FitzAirard che aveva comandato la nave del Conquistatore. Grato per i privilegi che il grande duca normanno aveva offerto a suo padre, lo sconosciuto offrí a Enrico una moneta d’oro di inestimabile valore e gli mise a disposizione una nave lussuosa, elegante e veloce sulla quale gli propose di effettuare l’imminente traversata. Quella nave si chiamava Blanche Nef (Nave Bianca), ma in inglese sarebbe passata alla storia come The White Ship. Il re declinò l’offerta e rimase fedele alla sua nave personale, un’imbarcazione vichinga del tipo noto come «esnecca». Egli decise comunque di assegnare la Blanche Nef a suo figlio Guglielmo Ætheling, che era a Barfleur con il padre e con i suoi giovani amici e si apprestava a tornare in Inghilterra contemporaneamente al resto della corte. Fu cosí che il giovane erede al trono e tutto il suo nobile seguito si trovarono affidati alla Nave Bianca, il che avrebbe cambiato il corso della storia. A causa del tempo sfavorevole il re e tutti i suoi accompagnatori dovettero trattenersi a Barfleur per diversi giorni. Il porto inglese di Southampton, meta della traversata, doveva sembrare terribilmente lontano e il pensiero delle onde incuteva paura. Il 25 novembre, però, forse alle prime ore della sera, i comandanti della flotta reale annunciarono che il vento soffiava nella direzione giusta e che pertanto si poteva partire. Enrico I e i suoi cortigiani salirono dunque sulle

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Dossier loro navi, mentre la parte piú giovane del seguito reale, capeggiata da Guglielmo Ætheling, si imbarcò sulla Blanche Nef. Tra ospiti ed equipaggio salirono a bordo della nave bianca circa trecento persone. Gli amici di Guglielmo erano il fior fiore della giovane aristocrazia anglo-normanna abituata a una vita dorata. Rampolli delle migliori famiglie nobili, erano raffinati, eleganti, ricchissimi e si avviavano verso un futuro ricco di promesse e di speranze. Tra loro vi erano due dei molti figli illegittimi di Enrico I: Riccardo di Lincoln e Matilde di Perche. C’erano anche Stefano di Blois con sua sorella Lucia-Mahaut di Chester, il cognato Riccardo di Un tratto della costa francese sulla Manica nei pressi di Barfleur, località dalla quale salpò la Nave Bianca.

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Chester con la moglie Matilde di Blois, i due figli di Ivo di Grandmesnil e persone che prestavano servizio presso la casa reale con incarichi prestigiosi. Tra tutti i passeggeri, il piú importante, dopo l’erede al trono, era certamente Stefano di Blois, la cui madre era Adele, sorella di re Enrico. Il giovane viaggiatore, dunque, era uno dei nipoti del sovrano e vantava una posizione privilegiata grazie alla parentela molto stretta con il re.

Timori provvidenziali

In quel tempo Guglielmo Ætheling, che era nato nel 1103, aveva circa diciassette anni. Era sposato da un anno con Matilde d’Angiò, che aveva diversi anni meno di lui e non gli aveva ancora dato un figlio. In quell’occasione la fanciulla non viaggiava con il coniuge, bensí

su un’altra nave. Probabilmente il suocero aveva voluto proteggerla da quel gruppo di giovani che amavano l’alcol, le feste allegre e qualche forma di eccesso. Secondo lo storico Enrico di Huntingdon (1080-1160), al momento della partenza Guglielmo Ætheling indossava indumenti di seta ricamati d’oro. Doveva essere molto elegante, ma forse non ben equipaggiato per attraversare la Manica a fine novembre. È lecito supporre che anche i suoi nobili compagni di viaggio, soprattutto le contesse, fossero molto eleganti. Sappiamo che a corte vigevano abitudini rigide in fatto di etichetta e quindi è possibile che i passeggeri fossero abbigliati come se stessero andando a una festa e non come viaggiatori in procinto di affrontare il pericolo, il freddo e il mare. Va an-

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che ricordato che le vesti del tempo, soprattutto quelle femminili, pesavano molto e in certi casi potevano trasformarsi in zavorre letali. La flotta del re partí a un’ora imprecisata, che a seconda delle fonti varia tra «subito prima del tramonto» e «le prime ore della notte». La Blanche Nef, invece, rimase in porto e i suoi passeggeri, compresa la ciurma, ingannarono l’attesa festeggiando e bevendo avidamente l’ottimo vino che il figlio del re aveva fatto imbarcare. Era l’unica merce caricata nella stiva, a eccezione degli effetti personali dei viaggiatori e dei preziosi del sovrano. Secondo il racconto del cronista Orderico Vitale (1075-post 1142), gli uomini dell’equipaggio si unirono ai nobili passeggeri, bevendo e divertendosi per diverse ore, come se fossero

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tutti dello stesso ceto. Quando ormai mancava poco alla partenza, alcuni ecclesiastici raggiunsero la nave per impartire la loro benedizione. Era una pratica comune in quel tempo e certo era legata alla paura che molti avevano del mare. Quel giorno, tuttavia, gli allegri passeggeri della White Ship si opposero alla tradizione e cacciarono i religiosi, che se ne andarono senza aver benedetto il veliero.

Malore o presentimento? A quel punto accadde qualcosa di sorprendente e misterioso: quando tutto era pronto per la partenza, alcuni passeggeri decisero di sbarcare. Due di loro erano monaci, altri erano membri della nobiltà. Tra loro erano Stefano di Blois, Edoardo di Salisbury, il figlio di Guglielmo di Tancarville e probabilmente altri

giovani aristocratici. Non sappiamo cosa spinse Stefano a lasciare la nave. Forse si era reso conto che i marinai erano ubriachi o forse fu influenzato da altre ragioni. Alcune fonti propendono per un malore e spiegano che Stefano era stato colto da un’improvvisa diarrea. Quale che fosse la causa dello sbarco, anche questo fatto era destinato a cambiare la storia. Nel frattempo, l’aria si era fatta piú fredda e la luna era comparsa nel cielo. Quando la White Ship fu pronta per lasciare il molo ormai era buio. Secondo la bella ricostruzione di Charles Spencer, l’alta marea quella sera arrivò alle 22,43. La nave avrebbe potuto lasciare il porto già un paio d’ore prima, ma il comandante aveva preferito attendere per paura che il vento soffiasse nella direzione sbagliata.

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Dossier Con tutta probabilità, dunque, il veliero salpò intorno alla mezzanotte e chi si trovava sul molo poté sentire che il comandante urlava di voler raggiungere il re prima che quest’ultimo arrivasse a Southampton. Quando la nave levò l’ancora, quindi, era ormai notte, faceva freddo e magari la visibilità era scarsa, ma la White Ship partí a tutta velocità, poiché i suoi cinquanta rematori profusero il massimo impegno. Presto, probabilmente troppo presto, furono spiegate le vele.

Scontro fatale

Che cosa avvenne esattamente a bordo nei pochi minuti che seguirono non è dato sapere. Forse ci fu una manovra sbagliata, forse la velocità era eccessiva, forse le vele furono issate anzitempo, o forse la ciurma era ubriaca e il timoniere non seppe valutare le distanze. Ciò che sappiamo è che la nave era appena uscita dal porto quando cozzò contro una roccia chiamata Quilleboeuf, che è ancora visibile dal faro posto sulla scogliera di Barfleur. Fu uno scontro fatale, che squarciò lo scafo e fece affondare il natante, causando la morte di quasi tutti i passeggeri. Quando la nave colpí lo scoglio e cominciò a imbarcare acqua, i passeggeri presero a urlare per la sorpresa, il terrore e forse anche perché speravano di essere sentiti da qualcuno e tratti in salvo. Dal molo, in effetti, coloro che avevano assistito alla partenza sentirono quelle grida, ma pensarono che la festa del pomeriggio stesse proseguendo, cosí non vi furono soccorsi immediati. Tra quelle persone in piedi sulla banchina vi saranno stati anche alcuni familiari delle vittime, che in seguito non avrebbero mai piú dimenticato quell’esperienza. Nel buio e nel caos del naufragio le guardie del corpo di Guglielmo riuscirono a caricare il principe sull’unica scialuppa di salvataggio, che subito si diresse verso la co-

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sta, in cerca della sopravvivenza. Purtroppo, però, secondo ciò che si racconta, mentre si allontanava dal relitto il principe udí la voce della sorellastra, Matilde di Perche, che implorava di essere salvata. Non sappiamo esattamente cosa avvenne allora, ma, a quanto pare, Guglielmo ordinò ai suoi uomini di tornare indietro e salvare la donna. Il suo nobile gesto gli fu fatale, poiché molti di coloro che stavano annegando si aggrapparono disperatamente alla barchetta nell’estremo tentativo di salire a bordo e la fecero affondare. Guglielmo sparí tra i flutti e cosí i suoi compagni e Matilde. Quando si rese conto che l’erede al trono era scomparso, il comandante capí che il suo destino era segnato e, secondo le fonti, preferí lasciarsi morire. Pare che le sue ultime parole siano state «è inutile che io continui a vivere».

Il nobile e il macellaio

Tra tutti gli sventurati protagonisti del naufragio due riuscirono a galleggiare per ore, aggrappati a un pezzo di legno, probabilmente una parte dell’albero maestro. Erano il nobile guerriero Goffredo de L’Aigle e il popolano Berold (o Burold), di professione macellaio. Il primo tornava in Inghilterra col fratello per appropriarsi di un’eredità. Rimase vivo per diverse ore, ma poi fu stroncato dal freddo e dalla fatica. Spencer racconta che le sue ultime parole furono per Berold, dopodiché perse conoscenza, scivolò sott’acqua e non fu mai piú ritrovato. Il secondo era forse l’uomo piú povero di tutta la nave. Non essendo un cortigiano, indossava abiti pratici, di pelle animale, che lo ripararono dal freddo e lo salvarono dalla morte per ipotermia. Era partito per andare a recuperare alcuni crediti in territorio inglese, aveva quasi trovato la morte, ma alla fine riuscí a mantenersi lucido e a salvarsi, anche grazie a tre pescatori

Incisione nella quale si immagina la morte di Guglielmo Ætheling dopo il naufragio della White Ship. In realtà, il corpo dell’erede al trono d’Inghilterra non fu mai recuperato, perché, dopo essere stato tratto in salvo dall’unica scialuppa di salvataggio della nave, chiese di correre in aiuto della sorellastra Matilde di Perche, della quale aveva udito le grida, e, nella foga del momento, cadde in acqua e scomparve.


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che lo portarono a riva. Fu l’unico superstite della sciagura, il solo testimone in grado di raccontare l’incidente e la triste sorte dei suoi compagni di viaggio. Orderico Vitale, che visse proprio in quegli anni e forse parlò personalmente con Berold, scrisse che l’uomo prese a raccontare la vicenda a tutti coloro che volevano ascoltarla e visse per altri vent’anni in buona salute. Il relitto della White Ship rimase incagliato nel punto in cui era avvenuto lo scontro. Alcuni pescatori locali riuscirono a ispezionarlo, trovarono il tesoro di Enrico I e gli effetti personali dei viaggiatori e li portarono a riva. Non fu invece possibile recuperare i corpi delle vittime, poiché nella nave non era rimasto nessuno. Il mare, tuttavia, tende a restituire ciò che ha inghiottito e cosí a Barfleur e in altre

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località della costa la gente del posto trovò i poveri resti di qualche passeggero. Alcuni furono trovati anche a molte miglia di distanza, per via delle correnti, e parecchi giorni dopo il disastro.

Una punizione divina

Il mare, però, tenne per sé la maggior parte delle vittime. Tra i dispersi vi fu proprio il figlio del re, del quale Enrico di Huntingdon scrisse che «invece di indossare mantelli ricamati, egli galleggiò nudo tra le onde, e invece di sedere su un trono trovò la sua tomba nelle viscere dei pesci, sul fondo del mare». Lo storico, in altri termini, volle interpretare la tragedia come il segno della punizione divina che si era abbattuta su quei viaggiatori depravati. Mentre la White Ship si schiantava contro lo scoglio di Quillebo-

euf, la flotta reale continuava il suo viaggio verso Southampton, ignara dell’accaduto. Il re sbarcò sulla costa inglese il mattino seguente e, da buon sovrano normanno, si diresse verso una residenza di caccia nella New Forest, a Clarendon, che era uno dei suoi luoghi preferiti. Sulle prime egli non si stupí per il ritardo della White Ship, perché il tempo era stato clemente e non sembravano esserci motivi di preoccupazione. Con il passare delle ore, però, alcuni cominciarono a interrogarsi: dov’era finita la nave? Come mai non era ancora arrivata? Nessuno sembrava averla avvistata e il fatto induceva a sospettare che potesse essersi inabissata. A un certo punto, infatti, qualcuno in arrivo dalla Manica portò la ferale notizia dell’affondamento, che presto fu confermata da fonti piú auluglio

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A sinistra veduta della New Forest, la località nella quale Enrico I si recò a cacciare dopo essere sbarcato in Inghilterra, ignaro della sorte del figlio. A destra pagina miniata nella quale si vedono, dall’alto, il re Enrico I d’Inghilterra e il naufragio della White Ship. 1307-1327. Londra, The British Library.

torevoli. A quel punto il problema era: come informare il re? Chi scegliere come messaggero? Ma, soprattutto, con quale coraggio si poteva annunciare a un sovrano che il suo unico figlio maschio legittimo, che aveva cosí faticosamente ottenuto il diritto di ereditare i titoli e i beni paterni, era scomparso tra i flutti a soli diciassette anni? Chi conosceva il re sapeva che, quando tutto andava bene, egli sapeva essere gradevole e accogliente. Ma era anche noto che, quando era contrariato, Enrico poteva esplodere in scatti di collera e reagire in modo spaventoso. Tutti sapevano quanto amasse i suoi figli: sia quelli legittimi, avuti da Edith-Matilde, sia i circa venticinque figli naturali avuti dalle sue molte amanti, ma non era un mistero che per Guglielmo il re avesse

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un trasporto e una considerazione speciali, perché, come detto, Guglielmo era «Ætheling», cioè l’erede al trono, il principino destinato a succedere al padre.

L’atroce verità

Il re non vedeva l’ora di riabbracciarlo e quando fu trascorso un giorno senza notizie della White Ship, il povero genitore cominciò a preoccuparsi. Man mano che la sua ansia aumentava i cortigiani si interrogavano sul da farsi e alla fine pensarono che l’unico adatto a comunicare la notizia fosse Tebaldo, fratello di Stefano di Blois, e dunque nipote del re. Ma Tebaldo non ebbe il coraggio di affrontare lo zio, perché sapeva che la notizia gli avrebbe spezzato il cuore. Egli ricorse allora a un ragazzino, il quale si presentò al sovrano pian-

gendo e, inginocchiatosi, gli rivelò l’atroce verità. Non solo il re, ma l’Inghilterra intera ne fu sconvolta. Enrico si rifiutò di accettare la realtà e ordinò che si iniziassero subito le ricerche di Guglielmo, che poteva essere nascosto, ferito, bisognoso di aiuto in chissà quale tratto del mare o della costa. Le fonti raccontano che furono impiegati persino uomini in grado di esplorare i fondali, il che a quell’epoca doveva essere una rarità, ma dopo un po’ di tempo le ricerche furono interrotte e le ultime speranze svanirono. Con una reazione profondamente umana, il povero Enrico si sentí cosí male da mettersi a letto senza quasi toccare cibo e forse il suo stato di depressione sarebbe continuato a lungo o lo avrebbe distrutto se non fosse intervenuto Guglielmo di Tancar-

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Dossier ville, che lo spronò ad alzarsi, a nutrirsi e a riprendere a vivere. Anche lui era convinto di aver perso il figlio nel naufragio e dunque si sentiva profondamente vicino al re. Di lí a poco, invece, quanto non si sa, arrivò una buona notizia: Stefano di Blois e il figlio di Tancarville erano vivi, poiché non avevano voluto affrontare il viaggio, abbandonando la Blanche Nef pochi minuti prima della partenza. E, infatti, presto Stefano arrivò in

matilde d’angiò

Capolettera miniato raffigurante l’incoronazione di Folco V a re di Gerusalemme, da un’edizione dell’Histoire d’Outremer. XIV sec. Londra, The British Library.

era contessa del Maine. Il fratello maggiore di Matilde, Goffredo, era conte d’Angiò, Touraine e Maine. Era detto «il Bello» per la sua particolare avvenenza e all’età di quasi quindici anni sposò un’altra Matilde, una delle tante nobildonne che all’epoca portavano questo nome. Si trattava della figlia di Enrico I d’Inghilterra, la quale aveva

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Da vedova a sposa di Dio Matilde d’Angiò era stata battezzata con il nome di Alice, ma aveva adottato il nome Matilde al momento delle nozze. Viene talvolta ricordata anche come Isabella. Secondo Alice Weir (autrice del volume Britain’s Royal Families: The Complete Genealogy, 2008), nacque all’incirca tra il 1107 e il 1111 nella regione dell’Angiò. Era figlia del conte Folco V d’Angiò e di sua moglie Aremburga, la quale, a sua volta,

In basso, sulle due pagine Il naufragio della Nave Bianca, acquerello di Luisa di Sassonia. 1866. Londra, The Royal Collection Trust.

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ventisei anni ed era vedova dell’imperatore Enrico V. Dalle nozze tra Goffredo e Matilde, celebrate a Le Mans il 17 giugno 1128, nel 1133 sarebbe nato il futuro re Enrico II d’Inghilterra, primo sovrano della dinastia plantageneta. La madre della nostra Matilde d’Angiò, Aremburga, morí nel 1126. Due anni dopo il vedovo ricevette una delegazione che gli offriva la mano di Melisenda, figlia del re Baldovino II di

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Gerusalemme. Poiché la giovane era erede dei titoli e delle fortune paterne, Folco V decise di accettare la proposta, farsi crociato (prese la croce a Le Mans nel 1128) e partire per la sua nuova avventura. Nel 1129 sposò Melisenda e, nel 1131, alla morte del suocero, assunse le redini del governo di Gerusalemme insieme con la nuova moglie. Matilde d’Angiò fu promessa in sposa a Guglielmo Aetheling agli inizi del 1113, quando era ancora una bambina tra i

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due e i sei anni, mentre il futuro marito aveva allora circa dieci anni. Le nozze vennero celebrate molto piú avanti, nel giugno del 1119, nella cattedrale normanna di Lisieux. L’unione tra i due sposi durò, purtroppo, poco piú di un anno, poiché il disastro della White Ship, sulla quale viaggiava Guglielmo ma non Matilde, fece di quest’ultima una giovanissima vedova. Doveva avere tra i nove e i tredici anni, mentre il defunto marito ne aveva diciassette. La coppia non aveva avuto figli, cosí Matilde rimase veramente sola. Il suocero accarezzava per lei alcuni progetti matrimoniali con persone importanti e la speranza di non perdere la ricca dote che la fanciulla aveva ricevuto dal padre al momento delle nozze. La povera Matilde fu perciò costretta a fermarsi in Inghilterra, benché quel mondo le fosse completamente estraneo. Qualche tempo dopo, tuttavia, la fanciulla fece ritorno alla sua famiglia d’origine, ma senza alcuna intenzione di andare in sposa a un altro uomo. Nel 1228,

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dopo una lunga riflessione, infatti, la giovane vedova, forse ormai priva di qualsiasi interesse per la vita mondana e delusa dalle atmosfere di corte, indossò il velo e si uní alle monache dell’abbazia di Fontevrault, fondata nel 1101 da Robert d’Arbrissel e ispirata ai principi di san Benedetto. La scelta del chiostro si rivelò la migliore, perché Matilde non tornò mai sui suoi passi e nel 1150 fu addirittura scelta come badessa della comunità. Rimase alla guida del complesso per soli quattro anni, dopodiché, nel 1154, purtroppo morí. Curiosamente, mentre la giovane monaca finiva la sua vita terrena, suo nipote Enrico II diventava il nuovo re d’Inghilterra. Era figlio di Geoffrey, il fratello maggiore della defunta, e inaugurava la dinastia dei Plantageneti, i quali avrebbero avuto profondi legami con Fontevrault. Negli anni a venire parecchi di loro vi sarebbero stati sepolti e tuttora il luogo è famoso per le tombe di Enrico II, Eleonora d’Aquitania, Riccardo Cuor di Leone e Isabella d’Angoulême. luglio

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Inghilterra. La notizia piú attesa, invece, quella del salvataggio di Guglielmo, non arrivò mai. La sciagura – della quale si parlò in tutta Europa – cambiò profondamente l’atmosfera della corte e influí anche sui ruoli delle famiglie nobili nell’apparato dello Stato. Ci vollero molti giorni prima che fosse stilato l’elenco completo delle vittime e si sa che tra gli altri morirono diciotto contesse, una delle quali era la già citata Matilde di Perche. Il vedovo, Rotrou III, conte di Perche, per onorare la memoria della moglie fece erigere una cappella in una zona isolata della Normandia, vicino a Solignyla-Trappe. Alla cappella fu poi aggiunto un monastero che prima fu affidato all’ordine di Soligny e poi passò ai Cistercensi.

Nozze senza eredi

La scomparsa del giovane Guglielmo, come abbiamo visto, lasciava Enrico I privo dell’erede al trono. Il sovrano aveva ancora una figlia legittima, Matilde, ma voleva un maschio a tutti i costi e cosí, poco dopo la sciagura, egli decise di risposarsi. La nuova regina si chiamava Adeliza di Lovanio, era giovane, sana e quindi in grado di donare al

marito il figlio agognato. Le nozze furono celebrate a Windsor il 29 gennaio o forse il 1° febbraio 1121, ma purtroppo la coppia non ebbe alcun figlio. I due rimasero insieme per quattordici anni, fino alla morte del re, nel 1135. La vedova di Guglielmo, invece, non si risposò. Rimase in Inghilterra alla corte del suocero per un certo periodo di tempo, poi tornò dalla sua famiglia, nell’Angiò, probabilmente vinta dalla nostalgia, ma anche perché suo padre pretendeva il suo ritorno e la restituzione della sua dote. Il suocero la congedò coprendola di doni preziosi, tra cui vasellame d’oro e d’argento, denaro, cavalli e chissà quali altri oggetti rari. Gli Angiò avrebbero voluto che la vedova si risposasse, per stringere importanti alleanze matrimoniali con qualche famiglia potente, ma Matilde non volle. Scelse la strada del chiostro e nel 1128 entrò nella comunità di Fontevrault, dove prese il velo e rimase con le consorelle per il resto della vita. Nel 1150 fu nominata badessa e morí quattro anni piú tardi, circondata dalle monache. Il titolo di Ætheling non fu mai piú assegnato ad alcun erede al trono d’Inghilterra.

In alto l’abbazia di Fontevrault. In basso particolare della tomba di Isabella di Angoulême a Fontevrault.

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ENRICO E MATILDE: STORIE D’AMORE E DI RAGION DI STATO

L’

erede al trono d’Inghilterra morto nel naufragio della White Ship, Guglielmo Ætheling era uno dei due figli legittimi di re Enrico I d’Inghilterra. Secondo Alison Weir, il padre del giovane ebbe 25 figli naturali da varie amanti, sei delle quali sono ricordate come Sybilla, Anfrida, Nesta, Edith, Isabella di Meulan ed Edith. A dire il vero, forse Enrico I e sua moglie ebbero anche altri due bambini, Eufemia e Riccardo. Secondo Alison Weir, Eufemia era la primogenita e morí molto giovane, scomparendo per sempre dalla storia. La secondogenita era Ma-

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tilde, che nacque nel 1102. Subito dopo arrivò Guglielmo, che venne alla luce il 5 agosto 1103. E infine doveva esserci un certo Riccardo, ma su di lui aleggiano molte incertezze. Non è escluso che costui fosse in realtà uno dei figli naturali di Enrico che annegarono nel disastro della White Ship.

Al trono da terzogenito

Figlio di Guglielmo il Conquistatore e Matilde di Fiandra, Enrico I nacque probabilmente nel settembre 1068 a Selby, nello Yorkshire. Non pareva destinato al trono, poiché quando suo padre morí il du-

cato di Normandia passò al primogenito Roberto, detto Curthose (Calzacorta), e l’Inghilterra andò a un altro figlio, Guglielmo, detto Rufus. Il tempo, però, avrebbe cambiato le cose, poiché Rufus morí nel 1100, ucciso da una freccia mentre cacciava nella New Forest, e Roberto fu sconfitto a Tinchebray dallo stesso Enrico, che lo tenne prigioniero fino alla morte. Con l’uscita di scena dei due fratelli, dunque, Enrico unificò i possedimenti paterni, diventando Enrico I d’Inghilterra il 3 agosto 1100 e duca di Normandia il 28 settembre 1106. L’anno in cui salí al trono d’Inluglio

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Una sezione del rotolo pergamenaceo contenente la genealogia dei re inglesi da Aroldo II a Enrico I. 1300-1340 circa. Londra, British Library. Nel particolare ingrandito, si vede la linea di successione che passa per Matilde e non per Guglielmo Ætheling, morto nel naufragio della White Ship.

ghilterra, Enrico sposò Edith, le cui origini erano estremamente importanti. La giovane, infatti, era una figlia del re di Scozia Malcolm III Canmore e di Margherita del Wessex, la buona sovrana che nel 1250 sarebbe stata canonizzata da papa Innocenzo IV e che viene anche ricordata come «la perla di Scozia». Cresciuta con la madre Margherita, che era profondamente devota e caritatevole, la regina respirò la fede, la generosità e l’amore per la preghiera fin da bambina. Quando la zia materna, Cristina, entrò nel monastero di Romsey, nel Wiltshire, Edith e sua sorella Maria furono mandate a studiare da lei e vi rimasero per sette anni. Era il 1086. Cristina fece di tutto per convincere Edith a farsi suora e, quando la fanciulla raggiunse la pubertà, prese a costringerla a portare il velo, che doveva anche servire a proteggerla da possibili violenze da parte di uomini crudeli e perversi.

Aspirazioni divergenti

Se la mamma e la zia sognavano per Edith un futuro nel chiostro, non altrettanto si può dire del padre, il quale per quella figlia progettava un matrimonio prestigioso e importante. Da Romsey, Edith e Maria passarono al monastero di Wilton, che era un’altra istituzione molto famosa, dove venivano educate le fanciulle delle migliori famiglie del regno. Secondo Alison Weir, nell’agosto del 1093 re Guglielmo Rufus, che non era sposato, visitò la comunità monastica di Wilton e fu introdotto nel roseto. Mentre guardava di nascosto le fanciulle, il sovrano vide che Edith era velata e forse pensò che avesse preso i voti. La settimana seguente re Malcom III in persona si presentò al monastero e, nel vedere la figlia velata, andò su tutte le furie: si avventò su Edith, le strappò il velo, lo calpestò e maledisse la persona che aveva scelto quel copricapo per la

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Dossier La discendenza del Conquistatore

Roberto II Duca di Normandia

GUGLIELMO I

Duca di Normandia Re d’Inghilterra (1087-1134) sp. Matilde di Fiandra

GUGLIELMO II Re d’Inghilterra (1087-1100)

Guglielmo Ætheling († 1120)

ENRICO I

Adele contessa di Normandia sp. Stefano I di Blois

Re d’Inghilterra (1100-1135) sp. Matilde d’Angiò (1) sp. Adeliza di Lovanio (2)

MATILDE sp. Enrico V (1) sp. Goffredo d’Angiò (2)

ENRICO II

Re d’Inghilterra (1154-1189) sp. Eleonora d’Aquitania

Roberto Conte di Gloucester († 1120)

Tebaldo Conte di Blois e di Champagne

STEFANO Conte di Mortain e di Boulogne Re d’Inghilterra (1135-1154) Enrico Vescovo di Winchester

sua bambina. Dopo quel giorno la giovinetta e sua sorella tornarono in Scozia, ma quando arrivarono a casa scoprirono che la madre era gravemente malata. Ciononostante, il re fu costretto a ripartire subito per una spedizione militare nel Nord dell’Inghilterra, dove purtroppo fu ucciso da Archil Morel di Bamburgh. Gli avevano teso un’imboscata vicino al castello di Alnwick. Tanto Bamburgh quanto Alnwick sono tra le fortezze piú belle della Gran Bretagna e si trovano nell’affascinante regione del Northumberland, cioè nell’Inghilterra di nord-est. Malcolm morí il 13 novembre 1093, quando aveva circa 63 anni. Nella stessa imboscata fu gravemente ferito anche il suo figlio maggiore, Edoardo, che morí tre giorni piú tardi, vicino a Jedburgh, dove tuttora si erge una bella abbazia. Quando le comunicarono la tragica notizia, la povera Margherita, già provata dalla malattia, non resse al dolore e morí. Sul letto di morte, in un ultimo gesto d’amore

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Incisione ottocentesca raffigurante Edith di Scozia, che volle poi chiamarsi Matilde dopo avere sposato Enrico I d’Inghilterra. Nella pagina accanto Malcolm III e Margherita di Scozia, dal Seton Armorial. XVII sec. Edimburgo, National Library of Scotland

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Dossier

materno, affidò le sue creature al priore di Durham. Edith si trovò improvvisamente orfana e quindi tornò probabilmente a Wilton con la sorella Maria. Erano lontane dai pochi affetti rimasti, prive della famiglia e soprattutto non erano piú le figlie del re. Ma nel 1097 tornarono a essere potenti, poiché quell’anno il loro fratello Edgar depose il nuovo sovrano di Scozia, Donald, e si impadroní del trono. Tre anni dopo Edith si sarebbe sposata con il re d’Inghilterra. Prima di poter arrivare all’altare, tuttavia, gli sposi dovettero lottare, perché il soggiorno di Edith in monastero e la sua abitudine a indossare il velo avevano diffuso la convinzione che la giovane avesse davvero preso i voti e pertanto non potesse sposarsi. L’interessata negava, ma non mancavano coloro che insinuavano sospetti e sollevavano obiezioni. Anche l’arcivescovo di Canterbury, Anselmo di Aosta, nutriva dubbi sulla situazione di Edith. La

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Chiesa, pertanto, proibí il matrimonio della fanciulla e la invitò a tornare alla vita del chiostro.

Il parere decisivo

Edith allora chiese un incontro personale con l’arcivescovo e, quando lo ottenne, dichiarò al prelato di non essere mai stata una suora. L’arcivescovo si dimostrò disponibile, ma non volle prendere alcuna decisione senza prima aver consultato gli altri ecclesiastici. Fu cosí che un consiglio di membri della Chiesa fu convocato allo scopo di fare chiarezza sulla condizione di Edith. I partecipanti si riunirono a Lambeth, ma l’arcivescovo preferí non assistere all’incontro, per non influenzare il verdetto. Alla fine il parere dei vescovi fu favorevole a Edith e la decisione indusse finalmente Anselmo ad autorizzare il matrimonio. Le nozze tra Enrico I ed Edith furono dunque celebrate l’11 novembre 1100 nell’Abbazia di Westminster. Con il matrimonio la sposa decise di adottare un nuovo

nome, abbandonando quello di battesimo, che era di origine sassone, e scegliendo di diventare «Matilde» in segno di omaggio verso la dinastia normanna del marito. L’unione con Enrico realizzava la fusione delle famiglie reali normanna (quella di Enrico I), scozzese (quella di Malcolm III) e sassone (quella di Margherita, o Margaret, che era regina di Scozia ma discendeva dai Sassoni): la novella sposa, infatti, non solo era una delle figlie del re di Scozia, bensí era anche una discendente di uomini importanti come re Edoardo il Confessore, re Etelredo e persino re Alfredo il Grande. Al momento delle nozze Edith-Matilde doveva avere vent’anni, mentre il marito era intorno ai trentuno. L’ incoronazione della regina consorte ebbe luogo l’11 o il 14 novembre 1100, naturalmente nella stessa abbazia in cui erano state celebrate le nozze e in cui il marito era già stato incoronato il 5 agosto. Sia Enrico, sia Matilde erano amanti della cultura. Lui sarebbe luglio

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Sulle due pagine il castello di Alnwick, nel Northumberland, dove Malcolm III di Scozia rimase vittima di un agguato mortale. In basso il castello di Arundel, che fu residenza di Enrico I e Adeliza di Lovanio.

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Dossier Il sigillo reale di Matilde di Scozia. Londra, The British Library. In basso, sulle due pagine veduta di Bamburgh, nel Northumberland.

passato alla storia con l’appellativo di «Beauclerc» e forse fu il primo re normanno d’Inghilterra a essere padrone della lingua inglese. Grazie ai sovrani la corte divenne un ambiente in cui la musica, la letteratura e lo studio erano apprezzati e sostenuti, al punto che la regina incaricò Guglielmo di Malmesbury di scrivere il trattato Gesta Rerum Anglorum, che l’autore dedicò proprio a lei. La regina istituí diverse comu-

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nità religiose e fece erigere croci lungo le arterie di comunicazione in tutta l’isola. Mandò due candelabri preziosi alla Cattedrale di Le Mans, fondò la grande chiesa di Nostra Signora a Southampton e non mancò di offrire cospicue donazioni alla Cattedrale di Durham e a molte altre comunità religiose, tra cui quelle di Abingdon, Barking, Wilton, St. Albans, Selby, St. Peter’s in Gloucester, St. Mary’s a Tavistock, St. Mary’s a York. Si prese cura anche della Merton Priory, dell’Abbazia di Malmesbury e della Waltham Abbey. Tra le generose donazioni di Matilde ricordiamo inoltre le campane offerte alla Cattedrale di Chartres, alla quale inviò anche una croce d’oro e denaro per ricostruire il tetto.

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La regina era molto legata all’Abbazia di Westminster, dove soleva trascorrere giorni e notti assorta nelle sue preghiere, sdraiata o inginocchiata accanto alla tomba di Edoardo il Confessore, che in quel tempo non era ancora santo. Andava dal palazzo reale alla chiesa a piedi scalzi, si prendeva cura dei malati, di chi non possedeva nulla e soprattutto dei lebbrosi. Come già avevano fatto i suoi genitori, praticava la lavanda dei piedi ai poveri e non provava ribrezzo, ma, anzi, arrivava persino a baciare le mani di chi era malato. Sappiamo che fondò un lebbrosario dedicato a St. Giles, appena fuori Londra, e che elargí cospicue donazioni al lebbrosario di Chichester nel West Sussex.

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Durante le lunghe assenze del marito, fu piú volte nominata reggente e seppe farsi apprezzare per la sua competenza e la sua saggezza. Nel 1117, però, purtroppo cominciò a non sentirsi bene e progressivamente peggiorò. Trascorse gli ultimi mesi di vita a Westminster e probabilmente nel 1118 fondò un altro lebbrosario, quello di Saint James and Saint Mary Magdalene. Durante la sua malattia il marito non le restò accanto, se non per una brevissima parentesi, e quindi Edith-Matilde morí lontana dal suo sposo. Spirò il 1° maggio 1118, di notte, mentre si trovava al palazzo di Westminster. Il suo corpo fu trasportato all’abbazia di Westminster, i cui monaci pretesero di seppellirlo

tra loro. Sappiamo che Enrico di Huntingdon scrisse per la defunta un meraviglioso epitaffio che ai tempi di Enrico II (r.1154/1189) fu posto presso la tomba della sovrana. Esso recitava cosí: «Qui giace Matilde II, la buona regina degli Inglesi, già moglie di re Enrico I, madre dell’imperatrice Maud, e figlia di Lord Malcolm, che fu re di Scozia, e della sua consorte, Santa Margherita. Se volessimo parlare della sua bontà e rettitudine il giorno sarebbe troppo corto. Che il suo spirito possa essere grandemente consolato». Il tempo non fu magnanimo con la tomba di Edith-Matilde. Oggi il luogo in cui la donna riposa non è piú indicato e questo struggente epitaffio composto proprio pensando a lei malau-

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Dossier guratamente è scomparso. Vale la pena precisare che il sigillo reale di Edith-Matilde, invece, è sopravvissuto ai secoli ed è conservato presso la British Library di Londra. Esso presenta l’immagine di una donna a figura intera, che porta sul capo una corona e tiene tra le mani il globo e lo scettro. Si tratta del piú antico sigillo di una regina che sia sopravvissuto sino ai giorni nostri.

Nella pagina accanto capolettera miniato raffigurante Matilde di Scozia, dal Golden Book of St Albans. 1380. Londra, The British Library.

Dolore e speranze

E che cosa ne fu di Enrico I dopo la morte della regina? Come abbiamo visto, il re non era neppure in Inghilterra quando sua moglie cessò di vivere. Aveva preso l’abitudine di affidarle il ruolo di reggente e si fidava di lei, che con il suo equilibrio gli consentiva di dedicarsi ad altro e restare lontano. Il sovrano continuò a concentrarsi sulle questioni continentali e sul futuro del figlio Guglielmo Ætheling. Dopo la morte di quest’ultimo, tuttavia, il dolore per non avere piú un erede maschio legittimo spinse il re a risposarsi, nella speranza di concepire presto un nuovo figlio che potesse sostituire quello inghiottito dai flutti. La notizia delle imminenti seconde nozze fu comunicata ufficialmente il 6 gennaio 1121, a Londra, dopo un importante consiglio a cui parteciparono i piú potenti membri dell’aristocrazia e del clero. La seconda moglie si chiamava Adeliza di Lovanio. Veniva dalla Lotaringia, era considerata una discendente di Carlo Magno ed era molto piú giovane del re. Era nata, infatti, intorno al 1103, il che

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Statua del re Enrico II (nipote di Enrico I), facente parte della galleria di ritratti che ornano il Kings Screen, il coro della Cattedrale di York.

la rendeva praticamente coetanea del giovane appena scomparso in mare. Si narra che fosse molto graziosa, tanto che qualcuno coniò per lei l’espressione «La bella fanciulla del Brabante». L’avvenenza e la tenera età la rendevano adatta a diventare regina, perché avrebbe potuto dare diversi figli al re, in particolare quel maschietto che Enrico desiderava ardentemente. Le nozze furono celebrate al Castello di Windsor il 29 gennaio 1121 o forse il 1° febbraio 1121. La sposa aveva circa diciotto anni, mentre il re era intorno ai cinquantatre e regnava da piú di due decenni. Enrico era cosí ossessionato dal progetto di diventare di nuovo padre che non si separava mai da Adeliza, neppure quando viaggiava: voleva sempre stare con lei e tenersela accanto, probabilmente perché pensava che cosí il figlio tanto agognato non si sarebbe fatto aspettare. Purtroppo le cose andarono diversamente. Adeliza non diede figli al consorte, che il 1° dicembre 1135 morí in Normandia, a Lyons-la-Forêt, in una residenza di caccia dove qualche giorno prima si era sentito male, forse dopo aver mangiato troppe lamprede. Sul letto di morte il re ordinò di essere sepolto a Reading, in Inghilterra, dove aveva avviato la fondazione di un monastero per ben duecento monaci. In attesa delle esequie gli rimasero accanto la moglie, il figlio naturale Roberto di Caen e l’arcivescovo di Rouen, oltre a un seguito di migliaia di uomini. luglio

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Stefano di Blois, che il 22 dicembre si era impadronito del trono.

Guerra civile

Come spesso avveniva nel caso della morte di sovrani, parti del corpo del defunto furono espiantate. Si sa che il cuore e gli intestini furono sepolti al priorato di Notre-Dame-du-Pre e che una sorte simile toccò anche al cervello e agli occhi. Il tempo inclemente purtroppo impedí di trasportare subito la salma alla sua destinazio-

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ne finale, cosí si dovette attendere per un mese prima di poter attraversare la Manica. Il re fu finalmente sepolto a Reading il 1° gennaio 1136, ma si racconta che nel frattempo il suo cadavere, pur imbalsamato, si era tremendamente deteriorato. Al momento dello sbarco sulle coste inglesi, Enrico I fu ricevuto, tra gli altri, dal nipote

Era proprio quello stesso Stefano che era sbarcato dalla White Ship poco prima che la nave lasciasse il porto. Successivamente sarebbe scoppiata una lotta furiosa tra il nuovo re e l’unica figlia legittima di Enrico, Matilde, nota anche come Maud, che si considerava la vera erede del padre. Negli anni a venire la lotta diventò una vera e propria guerra civile, «The Anarchy», e si concluse con il Trattato di Wallingford del 1153. Fu cosí che nel 1154, alla morte di Stefano, la corona passò al nipote di Enrico I ed Edith, cioè al figlio di Matilde e Geoffrey d’Angiò. Il nuovo re si chiamava come il nonno materno, Enrico, e sarebbe diventato Enrico II, il primo sovrano della dinastia dei Plantageneti, uno tra i piú famosi monarchi di tutto il Medioevo inglese, nonché secondo marito di Eleonora d’Aquitania. Quanto ad Adeliza, dopo la morte del marito, si ritirò per un po’ di tempo in un monastero, ma nel 1138 sposò Guglielmo d’Aubigny, al quale negli anni seguenti diede ben sette figli. Se uno solo di loro fosse nato dal primo consorte la storia inglese sarebbe stata molto diversa e molto del sangue versato durante la guerra civile sarebbe stato risparmiato. Nel 1150, quando doveva avere circa quarantasette anni, la donna lasciò la famiglia e si ritirò in un convento nelle Fiandre, dove morí il 23 aprile. Enrico II concesse al vedovo Guglielmo d’Aubigny di mantenere il possesso del Castello di Arundel, che era appartenuto all’amata Adeliza e che era stato la dimora della coppia e della sua numerosa prole.

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CALEIDO SCOPIO

Quando i santi prendevano le armi

Luis Bertrán, il santo pistolero di Paolo Pinti

N

ato a Valencia il 1º gennaio 1526, Luis Bertrán Eixarch fu un religioso e missionario domenicano e si impegnò nell’opera di apostolato tra le genti indigene dell’America centrale e meridionale. Ebbe una relazione epistolare con Teresa d’Avila – santa di cui abbiamo già avuto occasione di occuparci (vedi «Medioevo» n. 315, aprile 2023; on line su issuu.com) –, della quale appoggiò il progetto di riforma dell’Ordine carmelitano. Morí a Valencia nel 1581 e dopo essere stato dapprima beatificato (1608) da papa Paolo V e poi proclamato patrono del Nuovo regno di Granada (le odierne Colombia, Venezuela, Ecuador e Panama), venne infine canonizzato da Clemente X nel 1671. Sebbene l’iconografia piú nota sia quella in cui Bertrán trasforma in crocifisso una pistola, si legge spesso, anche in rete, che il santo è raffigurato di solito nell’atto di «benedire una coppa da cui fuoriesce un serpente (secondo la tradizione, avrebbero tentato di avvelenarlo ma ne sarebbe uscito indenne)»: proprio come ha scelto di fare, per esempio, Francisco Zurbarán in un’opera oggi conservata a Siviglia, nel Museo di Belle Arti (vedi foto in questa pagina). Una curiosità, a questo proposito: nel Notiziario del Portale Numismatico dello Stato (n. 13.2 del 2019; on line www.numismaticadellostato.it), fra

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Estasi di san Luigi Bertrand (particolare), olio su tela del Baciccia (al secolo, Giovanni Battista Gaulli). 1670-1673. Roma, chiesa di S. Maria sopra Minerva. Qui la pistola è raffigurata per intero: è a pietra focaia, come in gran parte delle opere pittoriche con il santo. Nella pagina accanto San Luis Beltrán, olio su tela di Francisco Zurbarán. 1636-1638 circa. Siviglia, Museo di Belle Arti.

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i materiali del Museo Francescano di Roma, compare una medaglietta con un santo domenicano che tiene con la mano destra un crocifisso fuoriuscente da una pistola a ruota completa (e, quindi, molto chiara e visibile) e con la sinistra una coppa col serpente al centro. La scheda recita: «San Luigi Beltrán cartone 9, 305; argento; ovale; mm 23×29; inv. MF 0926/305 ·SAN ·LVDOVI· BERTRAN· OR· PR· Il S., a mezza figura, di fronte, aureolato, che tiene con la d. Crocifisso e con la s. coppa da cui fuoriesce una serpe». Evidentemente, per non scontentare nessuno, il medaglista, ha in questo caso raffigurato

entrambi i miracoli attribuiti al santo, ma il redattore del catalogo, dimostrando di non avere una dimestichezza particolare con le armi e, quindi, non vedendole anche se evidenti, non ha rilevato la stranezza di un crocifisso che spunta da una pistola.

Una predica... ad personam Spieghiamo dunque il miracolo. Luigi Beltrán, come molti altri uomini di fede era un fustigatore dei vizi e in tale ottica, durante le sue prediche, non mancava mai di mettere all’indice coloro che non onoravano il vincolo di rispetto verso il coniuge e la famiglia,

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CALEIDO SCOPIO San Luigi Bertrand, olio su rame di scuola emiliana. XVIII sec. L’opera è stata pubblicata come lotto 66 del catalogo della Pandolfini Casa d’Aste di Firenze del 26/2/19. È molto importante, perché la pistola ha il meccanismo d’accensione del tipo detto «a ruota», tipico del Seciento, già antiquato nel Settecento.

piú esplicito e mandando in bestia – c’è da capirlo – il nobiluomo, che perse la testa e, impugnata una pistola, gli sparò per porre fine a quel dileggio. Il Domenicano se ne accorse e, con riflessi incredibili, trasformò la pistola, simbolo di morte, in un crocifisso, simbolo di vita, salvandosi senza conseguenze. Va peraltro sottolineato come siano rari i casi di miracoli compiuti a proprio favore, giacché di solito vengono fatti a beneficio di terzi. Comunque sia, l’iconografia è costante (in circa dieci casi rintracciati, il santo è ritratto con in mano un crocifisso, la cui parte inferiore ha la forma di una pistola, a pietra focaia ma anche a ruota, come, per esempio, in un dipinto di scuola emiliana apparso nel catalogo della Casa d’Aste Pandolfini di Firenze del 26/2/19, lotto 66; vedi foto in questa pagina, in alto).

La selce come pietra focaia

coltivando relazioni carnali con altre persone. Di per sé nulla di strano, ma mentre affrontava l’argomento, fissava con insistenza un nobiluomo presente alla funzione, quasi a volerlo indicare come bersaglio delle sue parole di rimprovero. La cosa non sfuggí al suddetto – probabilmente perché era davvero nella condizione cosí condannata –, che si risolse a parlare con il religioso, diffidandolo dal continuare a predicare di certe cose fissando proprio lui. Il risultato fu che Luigi Bertrán rincarò la dose, diventando ancor

Nella pagina accanto Cinque santi inginocchiati in adorazione di Cristo: San Francesco Borgia, San Luigi Bertrán, San Gaetano, Santa Rosa da Lima e San FIlippo Benizi, incisione di François Spierre. 1671 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. Bertrán impugna una pistola chiaramente tale, a pietra focaia, dalla cui bocca spunta il crocifisso.

Due parole per chiarire la differenza fra pistola «a pietra focaia» e «a ruota»: nel primo caso il meccanismo d’accensione è costituito da una sorta di piccola morsa (ganasce del cane) che serra un pezzo di selce, sagomata in modo da avere un lato dritto e abbastanza affilato, posizionato frontalmente a un elemento di acciaio (martellina), contro il quale viene mandato a battere da una molla liberata con il grilletto. L’urto fra la selce e la martellina farà frammentare piccolissimi pezzi della prima, resi incandescenti dall’urto stesso, che andranno a cadere in un apposito contenitore

Pistola italiana a pietra focaia, detta «alla fiorentina». XVIII sec. Milano, Collezione privata. luglio

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(scodellino) che comunica tramite un forellino con la camera di scoppio, contenente la polvere da sparo. Il meccanismo detto «a ruota» – la cui invenzione viene generalmente, ma erroneamente, attribuita a Leonardo da Vinci – consta di una sorta di piccola ruota d’acciaio con il bordo leggermente

dentato che viene messa in tensione con una molla, caricata tramite uno strumento apposito (chiave da ruota) e rilasciata al momento dello sparo. Sopra la ruota stessa è collocato un morsetto simile a quello del meccanismo a pietra focaia, ma che non serra un pezzo di selce (cioè, di pietra focaia),

In questo particolare di una Gloria di Santi Domenicani (già nel deposito dei beni culturali di Fabriano), la pistola è pressoché invisibile, essendo rappresentata esclusivamente dall’estremità del calcio, con la coccia, dalla quale inizia la parte inferiore del crocifisso. Assolutamente impensabile che i fedeli potessero vedervi un’arma e, quindi, capire quale santo fosse.

Pistola a ruota bresciana. Primi decenni del XVI sec. Imperia, Collezione privata. La troviamo raffigurata in vari dipinti con l’episodio dell’attentato a Luigi Bertrán.

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bensí di pirite: quando si preme il grilletto, la molla viene rilasciata e la ruota sfrega contro la pirite, che le è premuta contro, frantumandone piccole schegge incandescenti. Per quanto riguarda san Luigi Bertrán, va detto che entrambi i sistemi d’accensione sono plausibili, ma solo con riferimento all’epoca del dipinto, giacché per tutto il secolo XVII erano in uso armi a ruota e a pietra focaia (queste ultime piú moderne). Per una ricostruzione filologica, ovviamente, l’arma usata contro il santo deve essere stata del tipo «a ruota», ma di norma quelle sui quadri sono contemporanee al pittore.

Il miracolo di san Ludovico Beltran, dipinto di Giovan Battista Lucini. 1680 circa. Milano, chiesa di S. Maria delle Grazie. Opera importante per lo studio delle armi, essendo molto ben descritta: si tratta, però, di un archibusetto e non di una pistola, col meccanismo «a ruota» tipico della prima metà del XVII sec. L’arma è dipinta quasi per intero (manca solo la canna) ed è immediatamente riconoscibile e, con essa, il santo.

Particolari nascosti Una curiosa particolarità accompagna molte di queste raffigurazioni: la pistola, solitamente, non è ben descritta, ma tutto si limita a un crocifisso con la base a forma di impugnatura di pistola – praticamente è visibile solo la coccia (l’elemento metallico, spesso finemente lavorato, fissato al legno dell’impugnatura, per proteggerla dalle scheggiature, n.d.r.) – appena avvertibile e solo da parte di esperti del settore. Viene quindi da chiedersi che senso avesse rappresentare qualcosa di illeggibile per i piú, cosí nascosto da non essere individuato dalla stragrande maggioranza dei fedeli. Un valido esempio è nell’opera di pittore romano del XVII secolo I Santi Vincenzo Ferrer, Giacinto e Luigi Bertrán, conservata nel Museo Civico di Correggio e proveniente dalla chiesa di S. Giuseppe Calasanzio, dove l’accenno a una pistola è costituito dal solo tratto dell’impugnatura della stessa, lungo quanto la coccia, alla base del crocifisso. Certamente ci sarà stata una ragione, ma oggi questa ci sfugge. Resta, fortunatamente, qualche arma perfettamente descritta, tipica dell’epoca del

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dipinto, come nel caso del San Pietro presenta alla Vergine san Luigi Bertrand, santa Rosa da Lima, san Filippo Benizi, san Francesco Borgia, san Gaetano da Thiene di Carlo Maratta, nella Cappella Altieri della chiesa di S. Maria sopra Minerva a Roma (vedi foto a p. 110), che conferisce al santo la qualifica

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Martirio di San Giuda Taddeo, olio su tela di Pietro Damini. 1625-1630. Padova, chiesa di S. Gaetano.

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San Pietro presenta alla Vergine san Luigi Bertrand, santa Rosa da Lima, san Filippo Benizzi, san Francesco Borgia, san Gaetano da Thiene, olio su tela di Carlo Maratta. 1692 circa. Roma, chiesa di S. Maria sopra Minerva Cappella Altieri. L’arma è militare ed è coeva al dipinto e, quindi, anacronistica rispetto all’epoca del fatto.

di uno dei piú interessanti sotto questo aspetto. Naturalmente, il fatto storico – sempre che sia tale – dev’essere anteriore al 1581 (data della morte del santo) e, quindi, la pistola, o archibugio che fosse, doveva essere «a ruota» e non «a pietra focaia», ma come è logico, e del tutto normale nelle raffigurazioni di episodi di qualsiasi tipo, il pittore rappresentava armi a lui contemporanee. Stranamente, non si indica mai la data di tale miracolo, né la località dove è avvenuto. Luigi Bertrán si può quindi riconoscere per la sua veste da Domenicano – una tonaca di lana bianca fermata da una cintura di cuoio e, sopra, un largo cappuccio a coprire anche le spalle; su tutto, una cappa di lana scura – che tiene in mano un crocifisso, con la parte inferiore a forma di pistola o di impugnatura di pistola. Nei casi piú difficili, occorre fare attenzione all’eventuale ingrossamento della parte inferiore, che non compare mai nei crocifissi normali, ma soltanto su quelli miracolosamente sorti da un’arma da fuoco. luglio

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Lo scaffale invece luogo di furiosi scontri, vie veloci per spostare eserciti, macchine da guerra, artiglieria, prigionieri e bottini, portano Prefazione di Aldo A. Settia, devastazione alle Biblioteca Clueb, città rivierasche. Poter Bologna, 135 pp. disporre di una flotta 24,00 euro ISBN 978-88-31365-53-6 per rendere decisivo www.bibliotecaclueb.it l’esito di un conflitto è cosí importante da far Fabio Romanoni intraprendere imprese copre una lacuna colossali, come quella lamentata da studiosi portata a termine dalla e appassionati di Repubblica di Venezia storia medievale: la tra il 1438 e il 1439: ricostruzione delle il trasporto di grandi battaglie sulle acque galee e molte altre interne del Nord Italia. imbarcazioni dal fiume Nei secoli, fiumi, Adda al lago di Garda laghi e canali hanno attraverso montagne rappresentato un e valli. In questo saggio scopriamo i primi conflitti e la fobia dei Longobardi per l’elemento acqueo; i diversi tipi di navi: i galeoni, le barbotte, i redeguardi, le corabisse, i brigantini, le galee e le navi da trasporto; i protagonisti delle battaglie tra cui i «navaroli» che, importante sistema dopo aver governato per sviluppare l’imbarcazione, comunicazioni e partecipano con i commerci. Anche se balestrieri e i fanti spesso costituiscono alla battaglia; come i confini naturali per dominare le vie popoli e nazioni, d’acqua tirando Ondas. Martín fondamentale è laCodax, catene da una riva Cantigas loro funzionedediAmigo ponte: all’altra per impedire Hamon dei le Vivabiancaluna acque in tempo Biffi, di Pierre il passaggio Arcana (A390), pace uniscono, non1 CD nemici, privilegiando www.outhere-music.com dividono. Durante i ponti mobili a quelli le guerre medievali fissi e utilizzando le acque dolci sono navi incendiarie Fabio Romanoni La guerra d’acqua dolce Navi e conflitti medievali nell’Italia settentrionale

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per distruggerli. Ancora, alla fine del Quattrocento, quasi tutti gli Stati dell’Italia settentrionale dispongono di flotte armate sui corsi d’acqua, ma il loro utilizzo comincia a venire meno. La causa principale è il grande sviluppo, tra la fine del XV secolo e i primi decenni del successivo, dell’artiglieria. Una lettura completa ed esauriente, corredata dall’ampia bibliografia. Corrado Occhipinti Confalonieri Ivana Ait, Daniele Lombardi, Anna Modigliani (a cura di) Forme e linguaggi dell’apparire nella Roma Rinascimentale Roma nel Rinascimento, Roma, 292 pp., ill.

45,00 euro EAN 9788885800243 www.romanelrinascimento.it

Il tema viene affrontato nel volume nelle sue molteplici forme. Prima di tutto gli abiti, espressione di status sociale ed economico, civile o ecclesiastico, e al tempo stesso manifestazione delle capacità artigianali degli artefici nella Città Eterna. Tessuti in seta, broccati, materiali tintori erano oggetto d’importazione dalle piú varie località della

Penisola o d’Oltralpe, e veicolo di mode. Anche negli arredi, nella facies esteriore degli edifici e nella pittura dominava la volontà dei committenti di esprimere messaggi politici relativi ai continui conflitti tra il papato e le famiglie romane. Altra forma dell’apparire erano gli allestimenti effimeri per cerimonie e cortei. Il linguaggio dell’abbigliamento in particolare andò codificandosi nel Duecento, quando nacque il fenomeno della moda, testimoniato dalle prime leggi che disciplinavano il lusso di vesti, gioielli, banchetti e cerimonie. Fin dal XIII secolo vennero elaborate vere e proprie strategie dell’apparire per marcare le differenze tra i ceti, con gare di esibizione di novità ed eccessi. Broccati, velluti, pianelle e scarpe erano tra i capi di abbigliamento piú ricercati e commercializzati nella Roma quattrocentesca. Se Cesare Borgia aveva una corte piú sfarzosa di quella di un re, buona parte della popolazione urbana aspirava a capi e suppellettili di lusso. La foggia e il colore

dell’abito potevano indicare la professione di chi lo portava (rosso per i medici, nero per i giudici), o essere connotate da elementi araldici. Sarti e calzolai abbondavano nella Città Eterna, lavorando a stretto contatto con i mercanti-banchieri toscani presenti alla Curia. Molti sarti erano impegnati in attività particolari, come la cucitura delle vele, o l’intreccio di foglie di palma per le processioni pasquali.

Oltre all’abbigliamento, i gentiluomini mettevano in atto molte altre forme dell’apparire: dalla costruzione e decorazione dei palazzi alle cappelle di famiglia abbellite da affreschi e opere di oreficeria, mentre le autorità cittadine, in occasione delle visite papali, provvedevano ad addobbare con alberi, fiori, frutta, drappi istoriati, i centri che amministravano. Maria Paola Zanoboni

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ALLA SCOPERTA DELLE MERAVIGLIE DELL’ANATOLIA CLASSICA

TURCHIA EGEA La Turchia possiede un patrimonio culturale di straordinaria ricchezza e, per quanto riguarda l’archeologia, la sua porzione piú consistente si concentra nelle regioni bagnate dal Mar Egeo. Come grani di uno sfavillante diadema, lungo le coste che si snodano dallo Stretto dei Dardanelli al Golfo di Antalya e nel loro immediato entroterra si succedono siti e città di eccezionale rilevanza storica, architettonica e artistica: da Troia a Pergamo, da Smirne a Efeso, da Mileto ad Afrodisia... Centri toccati dal viaggio che Fabrizio Polacco propone nella nuova Monografia di «Archeo», sottolineando, di volta in volta, il ruolo svolto da ciascun insediamento nel corso delle vicende succedutesi nell’arco di molti secoli e le testimonianze che di quegli eventi si possono ancora oggi ammirare. Del resto, la Turchia egea fu teatro di avvenimenti davvero epocali, basti pensare alla guerra di Troia o alla realizzazione del mausoleo di Alicarnasso (oggi Bodrum), considerato una delle Sette Meraviglie dell’antichità. Un itinerario avvincente, dunque, costruito sulle puntuali descrizioni dei siti – frutto della personale conoscenza dei luoghi che l’autore ha acquisito nel corso di ripetuti soggiorni – alle quali si affianca un ricco corredo fotografico e cartografico. Gli argomenti

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