Medioevo n. 316, Maggio 2023

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MEDIOEVO n. 316 MAGGIO 2023

LE S UL IN TIM D E S ON CO E PE RT E

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

NEL GIARDINO DEL SIGNORE

Mens. Anno 27 numero 316 Maggio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

IL PARADISO RACCONTATO NELL’ ETÀ DI MEZZO

MAGGIO 1234 SCENE DI GUERRA IN BASSA SASSONIA TRECENTONOVELLE NEL MONDO DEI MERCATANTI

I FARNESE UNA STORIA DI AMORE E DI FEDE

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UMBERTIDE I SEGRETI DI UN VOLTO BELLISSIMO

IN EDICOLA IL 4 MAGGIO 2023



SOMMARIO

Maggio 2023 ANTEPRIMA MULTIMEDIALITÀ Una duchessa come amica di penna

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE BATTAGLIE Altenesch Meglio morti che schiavi! di Federico Canaccini

LUCA SIGNORELLI IN UMBRIA/3 Il volto del mistero di Valentina Ricci Vitiani

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L’UOMO DELLA SINDONE Quella sacra coincidenza di Michele Salcito

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COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/4 Astuti ma non troppo di Corrado Occhipinti Confalonieri

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QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Pronto al martirio pur di non combattere di Paolo Pinti 106 LIBRI Lo Scaffale

Dossier IL PARADISO Nel giardino di Dio

di Riccardo Montenegro

STORIE Farnese Un grande amore nel segno della fede di Romualdo Luzi

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CALEIDOSCOPIO CARTOLINE L’opera è compiuta

di Corrado Occhipinti Confalonieri

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MEDIOEVO n. 316 MAGGIO 2023

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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Mens. Anno 27 numero 316 Maggio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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UMBERTIDE I SEGRETI DI UN VOLTO BELLISSIMO

Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Romualdo Luzi è storico e scrittore. Riccardo Montenegro è architetto. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Valentina Ricci Vitiani è storica dell’arte. Michele Salcito è esperto di sindonologia.

IN EDICOLA IL 4 MAGGIO 2023

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21/04/23 15:30

MEDIOEVO Anno XXVII, n. 316 - maggio 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Electa: copertina (e p. 63) e pp. ; AKG Images: pp. 22/23, 24/25, 27, 51, 62, 82, 96 (sinistra); Electa/Sergio Anelli: p. 47; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 48; Fine Art Images/Heritage Images: p. 49; Album/Prisma: pp. 52/53; Archivio dell’Arte Luciano Pedicini/Luciano Pedicini: p. 59; Archivio Mauro Magliani/Mauro Magliani: pp. 70/71; Fototeca Gilardi: p. 86; Album/Joseph Martin: p. 107; Mauritius Images/Stephan Schulz: p. 108; Album/Oronoz: p. 109 – Cortesia Ufficio stampa Haltadefinizione: pp. 6-8 – Doc. red.: pp. 26, 28, 44/45, 46, 50, 58, 68/69, 71, 75 (alto), 77-81, 83, 84-85, 86/87, 88-91, 92-95, 96 (destra), 97, 98 – Shutterstock: pp. 29, 32/33, 39, 41, 54/55, 57 – Cortesia degli autori: pp. 30-31, 32, 34-37, 40/41, 56/57, 61, 65, 67, 104 (alto), 106, 110 – Alamy Stock Photo: pp. 64, 66/67 – Michele Salcito: pp. 69, 72 (alto), 72 (basso, da fotografie di G. Durante), 74 (alto), 75 (basso) – Cortesia A. Guerreschi: pp. 72/73, 74 (centro e basso) – Cortesia Peter Crepaz: pp. 100-103, 104 (basso). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina Giovane donna con Unicorno, olio su tavola, di Luca Longhi. 1535-40. Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo. Il dipinto viene tradizionalmente identificato come ritratto di Giulia Farnese, «la Bella».

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Prossimamente giugno 1422

Arbedo La disfatta dei Confederati

medioevo nascosto

Bassano in Teverina

dossier

1473-1543 Nicolaus Copernicus L’uomo della rivoluzione



il medioevo in

rima

agina

Una duchessa come amica di penna MULTIMEDIALITÀ • Le lettere scritte da Lucrezia

Borgia e oggi conservate presso l’Archivio di Stato di Modena diventano accessibili grazie alla digitalizzazione. Un’occasione per conoscere da vicino una delle figure di spicco della nostra storia

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iglia del cardinale Rodrigo Borgia, poi papa Alessandro VI, e di Vannozza Cattanei, la controversa figura di Lucrezia Borgia ha ispirato nel corso dei secoli numerose opere letterarie, teatrali e cinematografiche. La sua fu una vita segnata dalle malelingue e dai giochi politici

della potente famiglia Borgia, e non le furono risparmiate accuse di vendetta, intrighi e incesto. Ma Lucrezia, nota per la sua bellezza e tra le donne piú ambite del suo tempo, è stata anche una grande sostenitrice delle arti e delle lettere. Dopo le sfortunate nozze con Giovanni Sforza, signore

Una lettera scritta da Lucrezia Borgia a papa Leone X il 22 giugno 1519. di Pesaro, e con Alfonso, figlio illegittimo di Alfonso II d’Aragona, re di Napoli, il terzo matrimonio con Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, fu felice e fortunato.

Un osservatorio privilegiato Al periodo ferrarese risale il corpus di lettere autografe conservate tra i preziosi documenti dell’Archivio Segreto Estense, custodito presso l’Archivio di Stato di Modena. Il nucleo modenese di missive comprende grosso modo un terzo delle circa 900 lettere totali oggi Una fase delle operazioni di digitalizzazione del corpus dei documenti di Lucrezia Borgia conservati presso l’Archivio di Stato di Modena.

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note e riconducibili a Lucrezia, dunque costituisce un punto di osservazione privilegiato sotto diversi aspetti. Il carteggio della duchessa, infatti, è una fonte di grande importanza per comprendere la quotidianità di una delle nobildonne piú famose del Rinascimento italiano. Tra le lettere emergono dettagli sulle questioni politiche che il ducato estense stava affrontando all’inizio del Cinquecento, sono inoltre numerose le informazioni che

gettano nuova luce sui tanti volti di Lucrezia e forniscono agli studiosi maggiori approfondimenti sul contesto storico-culturale delle corti rinascimentali, sulla rete di relazioni e legami che venivano mantenuti e sulle strategie comunicative utilizzate.

L’acquisizione degli originali Il progetto di studio, riordino, messa in sicurezza, descrizione e digitalizzazione promosso dall’Archivio di Stato (reso possibile In questa pagina lettere inviate da Lucrezia Borgia ad Alfonso I d’Este il 13 luglio del 1505 (in alto) e l’8 agosto del 1510.

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grazie al sostegno della Fondazione di Modena e all’Art Bonus) ha l’obiettivo di promuovere la conoscenza e la valorizzazione di un nucleo di documentazione del patrimonio culturale estense. A seguito degli interventi di messa in sicurezza dello stato conservativo a cura del Laboratorio interno di restauro dell’Archivio di Stato di Modena, le 280 lettere del corpus modenese sono state acquisite recto e verso con risoluzione gigapixel da Haltadefinizione, tech company della casa editrice Franco Cosimo Panini specializzata nella digitalizzazione di dipinti, documenti e manoscritti. Non solo gigapixel, tra le tecnologie messe in campo durante la campagna d’acquisizione sono state condotte anche indagini multispettrali. La transilluminazione, o luce trasmessa, è stata associata alla ripresa fotografica visibile gigapixel al fine di evidenziare le filigrane della carta. La tecnica prevede l’illuminazione di un oggetto dalla direzione opposta rispetto al punto di osservazione. In questo modo, se l’oggetto presenta delle trasparenze, la luce viene trasmessa attraverso l’oggetto solo nelle aree piú sottili. Questa tipologia di ripresa evidenzia dettagli altrimenti non visibili o difficili da individuare come le filigrane, e si rivela particolarmente adatta per lo studio

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Ancora un’immagine delle operazioni di elaborazione dei documenti digitalizzati.

e la conservazione di documenti storici, libri antichi, fotografie e materiali fragili. La digitalizzazione delle lettere di Lucrezia Borgia è un tassello importante per la conservazione del nostro patrimonio. L’acquisizione digitale ha infatti permesso di avere una panoramica completa e dettagliatissima dello stato conservativo, fissando un punto di riferimento per il futuro. La campagna di digitalizzazione ha interessato anche 16 registri del guardaroba, delle gioie, dei beni, delle rendite e delle spese di Lucrezia, per una consistenza di circa 3158 scansioni. Le

riproduzioni digitali dei documenti lucreziani, corredate da un esaustivo apparato informativo, sono ora liberamente consultabili su Lodovico Media Library (https://lodovico.medialibrary. it), la biblioteca digitale sviluppata dal Centro Interdipartimentale di Ricerca sulle Digital Humanities dell’Università di Modena e Reggio Emilia (DHMoRe).

Valorizzazione e disseminazione Basata sui piú moderni software per la visualizzazione in alta definizione e la manipolazione delle immagini digitali, Lodovico Media Library è una piattaforma federativa che mira

a valorizzare in maniera integrata il patrimonio storico e culturale del territorio modenese e, piú in generale, emiliano-romagnolo, e a promuoverne la disseminazione presso il pubblico, senza per questo rinunciare a una rigorosa scientificità. A oggi, dopo poco meno di due anni di attività, Lodovico Media Library ospita già quasi 10 000 documenti digitali o digitalizzati e collabora con una ventina di enti pubblici e privati delle province di Modena, Bologna, Reggio Emilia, Parma e Rimini. Lo sviluppo della piattaforma è stato affidato a un gruppo di aziende leader nel settore della digitalizzazione di beni culturali (Haltadefinizione e Mida Informatica), della catalogazione (Hyperborea), dell’archiviazione e della gestione di immagini in alta e altissima definizione (Memooria) e nella conduzione di biblioteche digitali (Horizons Unlimited). Un esempio di come la collaborazione e la contaminazione tra saperi tradizionali e nuove tecnologie possano portare alla realizzazione di prodotti di altissima qualità, fruibili a diversi livelli, che diventano veri strumenti di conoscenza e diffusione di cultura per tutte e tutti. (red.)

Per un futuro sostenibile L

a XIV edizione dei Dialoghi di Pistoia, festival di antropologia del contemporaneo (dal 26 al 28 maggio), ha come tema: «Umani e non umani. Noi siamo natura» (www.dialoghidipistoia.it). L’opposizione tra Natura e Cultura ha caratterizzato una lunga fase del pensiero occidentale ed è ancora, per molti versi, alla base della nostra visione del mondo. Da un lato la Natura, un concetto che non tutte le società concepiscono nello stesso modo; dall’altro la Cultura, che caratterizza l’essere umano e ha contribuito a definirne la superiorità e il dominio sulla Terra. In seguito alla crisi climatica ed energetica la distinzione tra Natura e Cultura è stata messa in discussione da studiosi di varie discipline. Oggi si sta

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diffondendo una visione «relazionale» del mondo vivente: non si tratta di rinnegare le peculiarità dell’essere umano – come la sua grande capacità di immaginare il futuro, il linguaggio, il pensiero – ma di riconoscere la sua interdipendenza con gli altri esseri, viventi e inorganici, che abitano la Terra. Come sempre, i Dialoghi chiamano studiosi e intellettuali di diversa estrazione e discipline a confrontarsi su un tema chiave della contemporaneità, che è parte centrale di una nuova visione di un futuro sostenibile che permetta di rispondere alle crisi in atto, in primis quella climatica. maggio

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Perugia al tempo di Braccio, capitano coraggioso P

ronti a fare un tuffo nella storia e immergersi Errata corrige con riferimento al Dossier nell’epoca a cavallo tra Medioevo e Rinascimento? L’umanista che andò alle crociate (vedi Non servono congegni speciali o la macchina del tempo, «Medioevo» n. 220, aprile 2015) desideriamo basta riuscire a ritagliarsi qualche giorno libero da che la medaglia in bronzo riprodotta a precisare trascorrere a Perugia, nel secondo week endp.di93 giugno, (in basso) ritrae Malatesta Novello (al in un centro storico che diventa un palcoscenico secolo Domenico Malatesta, 1418-1465) signore d’eccezione, capace di regalare atmosfere suggestive di Cesena, e non Sigismondo Malatesta, come ai cittadini cosí come ai turisti e ai visitatoriindicato presenti. in didascalia. Dell’errore ci scusiamo con «Perugia 1416» è una rievocazione storica l’autore che valedell’articolo da e con i nostri lettori. sola un viaggio e si svolgerà dall’8 all’11 giugno.

L’evento

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Immagini delle passate edizioni di Perugia 1416. In alto, un momento della tradizionale festa che si svolge in piazza IV Novembre (già Piazza Grande); qui sopra, la Mossa alla torre, una delle gare atletiche disputate in occasione della manifestazione.

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Perugia 1416 ruota intorno alla figura del valoroso condottiero Braccio Fortebracci che, dopo la vittoria della battaglia di Sant’Egidio, combattuta il 12 luglio 1416, ottenne le chiavi della città e il governo di Perugia, iniziando una Signoria de facto. L’evento coinvolge i cinque Magnifici Rioni cittadini: Porta Sant’Angelo, Porta San Pietro, Porta Santa Susanna, Porta Eburnea, Porta Sole.


ANTE PRIMA

La sfida tra Rioni per la vittoria del Palio si svolge in tre giornate mediante tre giochi medievali, vere e proprie gare atletiche (la Mossa alla torre, la Corsa del drappo e il Tiro con l’arco) e il grande corteo storico che vede i figuranti dei cinque Rioni e rappresentanze di altre Rievocazioni Storiche coeve sfilare per le vie principali del centro storico di Perugia, in un corteo ad alta spettacolarità cosí come l’ingresso di Braccio in notturna. Bizzarri e divertenti i bandi di sfida che i Rioni si lanciano il giovedí sera, quasi a mitigare l’emozione della rievocazione storica, nel corso di una festa campestre fuori le mura. Conferenze storiche e altre interessanti iniziative vengono organizzate dall’associazione Perugia 1416 e dalle associazioni rionali nel corso dell’anno nel lungo percorso di avvicinamento che culmina con la manifestazione di giugno e prosegue nei mesi successivi. Perugia1416 è una Associazione di Promozione Sociale ed è socia fondatrice di AURS, Associazione delle Rievocazioni Storiche Umbre.

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Il fatto storico La data 1416 si riferisce all’ingresso a Perugia del coraggioso capitano di ventura Braccio Fortebracci, in seguito alla storica battaglia di Sant’Egidio (12 luglio 1416), vinta grazie alle sue doti strategiche. Una pagina della storia significativa eppure poco approfondita e solo recentemente rivalorizzata – anche grazie a cicli di conferenze realizzate con il contributo di importanti studiosi del calibro di Franco Cardini, Claudio Finzi, Clara Cutini, Filippo Orsini, Tommaso di Carpegna, Maria Giuseppina Muzzarelli, Maria Grazia Nico Ottaviani, Stefania Zucchini e molti altri tra storici

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dell’arte, scienziati, filosofi, architetti, professionisti dei beni culturali che ne hanno presentato personaggio, contesto storico e aspetti della vita del tempo – che simbolicamente, a Perugia, segna il passaggio tra Medioevo e Rinascimento. Braccio coltivava il sogno di un regno italico di cui Perugia sarebbe stata la capitale. Ciò non avvenne mai, nonostante i tanti territori conquistati lungo la Penisola, perché dopo otto anni Braccio morí nell’assedio dell’Aquila, ma durante la sua Signoria egli seppe ridare a Perugia pace e buongoverno e gettare, con il suo mecenatismo, quei semi che preludevano al Rinascimento.

La rievocazione I momenti salienti della rievocazione storica, con la consulenza artistica di Stefano Venarucci, sono rappresentati dall’ingresso in Perugia di Braccio Fortebracci vincitore (interpretato sempre con sentita partecipazione da Alexio Bachiorri), seguito dai suoi armati (della «Compagnia d’arme del Grifoncello») e dalla rappresentanza della Città di Montone – culla anch’essa del grande Braccio -, e la consegna delle chiavi della Città da parte del Primo Priore della Reggenza comunale.

Le sfide sportive Il Tiro con l’arco storico nel giardino di San Matteo degli Armeni, la Mossa alla torre (con l’imponente «macchina» in ferro che definisce, nel suo spostamento, la squadra vincitrice di ogni round nel tiro alla fune in piazza Matteotti) e la Corsa del drappo in Corso Vannucci e intorno alla Fontana Maggiore sono le sfide sportive tra Rioni che tengono maggio

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il pubblico col fiato sospeso fino all’ultimo istante, in un appassionante crescendo di forza, precisione e coraggio. I punteggi si sommeranno a quelli del Corteo storico per decretare il vincitore del Palio.

Sulle due pagine altre immagini di repertorio di Perugia 1416, rievocazione storica che riporta la città umbra al momento di passaggio fra Medioevo e Rinascimento. L’edizione 2023 è in programma dall’8 all’11 giugno prossimi.

Il corteo storico e la sfida delle allegorie

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l’orgoglio di diventare provetti tamburini per il proprio L’evento piú spettacolare e coinvolgente della Rione o apprendere l’arte di bandiera per diventare gli manifestazione è il corteo storico, che nell’edizione sbandieratori di Perugia1416. post pandemia (2022) fu un unico corteo, senza distinzione tra i cinque Rioni, per favorire la coesione Il Palio tra di essi; quest’anno torna l’identità rionale che lo Il Palio, vinto dal Rione che avrà totalizzato il punteggio ha sempre caratterizzato e che costituirà punteggio piú alto, viene scelto ogni anno tra gli elaborati per l’assegnazione del Palio con allegorie a tema preparati da studenti dell’Accademia di Belle Arti unico. Circa 700 figuranti sfileranno, infatti, concorrige con Errata Pietro riferimento Vannucci al Dossier di Perugia in base al concorso lanciato anche alcune delegazioni di RievocazioniL’umanista Storiche che andò dall’Associazione alle crociate (vediPerugia 1416. Un «palio d’ artista», coeve, proprio per celebrare l’unità di intenti di uno studente che, per poter «Medioevo» n. 220,frutto aprile della 2015)creatività desideriamo con le altre feste storiche umbre che caratterizza partecipare, dovrà quindiaapprofondire i fondamentali precisare che la medaglia in bronzo riprodotta questa manifestazione in tutte le sue sfaccettature. del Malatesta progetto. LaNovello diffusione p. 93 (in basso) ritrae (al della conoscenza della storia Il periodo storico di riferimento per gli abiti e laDomenico Malatesta, della città, dei suoi Rioni, dei valori della sfida sono secolo 1418-1465) signore scenografia è compreso in un lasso di tempo di circa infatti allaMalatesta, base del concorso di Cesena, e non Sigismondo come che Perugia1416 lancia 50 anni intorno al 1416 cosicché gli occhiindicato espertiin didascalia. agliDell’errore studenti. ci Tutti elementi scusiamo concostitutivi del concept che dei giurati potranno apprezzare attinenzal’autore storica, l’elaborato nel segno della sana sfida. dell’articoloaccompagnerà e con i nostri lettori. interpretazione e scenografia. L’insieme viene poi valutato da una commissione e il vincitore riceve da Perugia1416 un premio in denaro. Il Medioevo a misura di bambino Dal bozzetto, il palio viene poi riportato su stoffa. Un fantasioso mondo di dame e cavalieri, draghi e Il Palio andrà al Rione vincitore insieme all’ambíto collare con la medaglia del Grifo Perugino fusa per maghi hanno sempre affascinato i piú piccoli nella Perugia1416 e passata di anno in anno al capitano del festa medievale, che li apre anche alla storia della città Rione vincitore, che ne rimane custode per un anno. Il in un percorso leggero e giocoso, ma istruttivo. Ed è cosí che anche i piú piccini si ritrovano insieme tra palio resta invece al Rione che se lo è aggiudicato. Il programma completo della manifestazione, che fiabe, letture, tornei cavallereschi, dimostratori degli prevede anche un ricco calendario di eventi collaterali, è antichi mestieri, giochi e laboratori, artisti di strada, disponibile all’indirizzo: www.perugia1416.com trampolieri e mangiafuoco. Per i piú grandi poi c’è


AGENDA DEL MESE

Mostre TERAMO LA CAMERA DELLE MERAVIGLIE Castello Della Monica fino al 7 maggio

Il Castello Della Monica, una prestigiosa residenza neogotica riconsegnata alla collettività dopo importanti interventi di restauro, inaugura la sua stagione espositiva con una mostra che propone una selezione di preziosi e insoliti oggetti di arredo tardorinascimentali collezionati alla metà dell’Ottocento dai fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi per la loro casa nel cuore di Milano. Suppellettili, armature, cassoni finemente decorati e intagliati, cofanetti in avorio, formano una vera e propria Wunderkammer, piccole camere delle meraviglie tutte da scoprire che entrano in dialogo con le suggestive sale della storica dimora teramana, tra pareti affrescate e vetrate policrome. Tra gli oggetti che si possono ammirare vi sono alcuni pregevoli manufatti legati alla storia e all’arte dell’Abruzzo e del Regno, come il cassone di legno di pioppo realizzato negli ultimi anni del Quattrocento che presenta un coperchio convesso, frutto di una ricostruzione ottocentesca. L’arredo ligneo è riccamente decorato in pastiglia dorata e dipinta con lo stemma

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a cura di Stefano Mammini

senese della famiglia Piccolomini, importante famiglia che godeva di ampi feudi anche in Abruzzo. O anche l’armatura cinquecentesca che rievoca l’uso bizzarro dei nobili che amavano fare i loro viaggi in terre sconosciute o presso i loro amici altolocati con i quali indossavano armature durante ricche feste celebrative. info tel 0861 250873 o 338 3901759; www.comune.teramo.it SAINT-GERMAIN-EN-LAYE IL MONDO DI CLODOVEO Musée d’Archéologie nationale fino al 22 maggio

mostra attualmente allestita negli spazi del castello di SaintGermain-en-Laye, che propone un approccio decisamente inconsueto al tema affrontato, che è quello dell’età merovingia e del suo primo sovrano, Clodoveo. Il percorso espositivo, ludico e interattivo al tempo stesso, rievoca dunque i tratti distintivi del primo Medioevo, dispensando nozioni di storia e archeologia. Ai visitatori è data la possibilità di vestire i panni di un personaggio vissuto al tempo dei Merovingi e di costruire un proprio «percorso di vita», grazie a un’applicazione web o a libri-gioco. La fruizione delle diverse risorse – giochi, libri, video – è totalmente libera e ciascuno può scegliere la soluzione che preferisce, diventando attore della visita ed eroe della storia che ha confezionato. info www.museearcheologienationale.fr ACQUI TERME (ALESSANDRIA)

Il Museo d’archeologia nazionale si trasforma in un grande gioco di fuga collettivo, facendo di ciascun visitatore l’eroe di un’avventura inedita, che ha luogo all’epoca dei Franchi: è questo il sorprendente risultato della

GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di

Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it BOLOGNA L’ALTRO RINASCIMENTO. ULISSE ALDROVANDI E LE MERAVIGLIE DEL MONDO Museo di Palazzo Poggi fino al 28 maggio (prorogata)

Il progetto espositivo, realizzato in occasione del cinquecentenario della nascita di Ulisse Aldrovandi (15221605), accompagna il visitatore in un viaggio alla scoperta di un episodio del Rinascimento tanto importante quanto poco conosciuto, perché messo in ombra dai capolavori dell’arte e dell’architettura che tutto il mondo riconosce: il risveglio delle scienze naturali. Se gli artisti avevano cercato di imitare e superare i capolavori della classicità, i filosofi le idee, e gli umanisti la letteratura, negli ultimi decenni del Cinquecento Ulisse Aldrovandi e un piccolo gruppo di naturalisti, medici e farmacisti italiani decisero di ripercorrere le orme di Aristotele e di Plinio, trasformandosi da umanisti in scienziati. Cominciarono a raccogliere collezioni che diventeranno i musei di storia naturale e fecero realizzare le prime vere immagini della maggio

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natura, creando un immaginario della natura che è ancora il nostro. Della straordinaria vicenda di questo manipolo di proto-scienziati si sarebbero perse le tracce, se l’Università di Bologna non avesse conservato nelle sue collezioni e nella sua biblioteca un patrimonio eccezionale di oggetti, immagini, libri e manoscritti, legati sia al lascito fatto da Aldrovandi alla città, sia alle raccolte dell’Istituto delle Scienze creato piú tardi da Luigi Ferdinando Marsili. «L’altro Rinascimento» riunisce infatti molti dei «gioielli» custoditi dall’Alma Mater, in gran parte mai esposti prima, fra i quali il Codice Cospi, uno

dei soli tredici codici precolombiani sopravvissuti al mondo, alcune delle piú antiche mappe del mondo conosciuto, i volumi con le tavole illustrate fatte dipingere da Aldrovandi, e naturalmente la collezione naturalistica del grande scienziato bolognese, unica arrivata sino a noi nella sua quasi interezza, oltre che la piú grande, importante e famosa del suo tempo. info e-mail: aldrovandi500@ unibo.it; www.unibo.it/ aldrovandi500

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maggio

TORINO

PERUGIA

LUSTRO E LUSSO DALLA SPAGNA ISLAMICA. FRONTIERE LIQUIDE E MONDI IN CONNESSIONE MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 28 maggio

Mare Nostrum, Mediterraneus, Mar Bianco, Hayam Hatikhon, Grande Verde: tanti nomi per indicare un luogo di incontro, di scontro, di scambio, di battaglie e di dialogo fra popoli e culture diversi fra loro ma accomunati da una prossimità profonda. Il Mediterraneo ha sempre esercitato una forza d’attrazione a cui nessun popolo ha potuto sottrarsi: per lunghi secoli merci, tradizioni, invenzioni, scoperte sono nate o sono transitate da qui. Perché questo non è solo un mare e soprattutto non è solo Europa: è stato – e per certi versi è ancora – una possibilità dall’identità mutevole. Ciò che nasce sulle sponde del Mediterraneo si contamina per prossimità e si radica per necessità, innestandosi sull’esistente e assumendo identità e forme nuove. Cosí è accaduto con la lingua araba, ma soprattutto con le arti figurative, in particolare con la produzione tessile e ceramica: diverse raffigurazioni e tecniche della produzione di tappeti, tessuti e vasellame, custodite come segreti preziosi nei territori del Medio Oriente e del Nord Africa, sono approdate nella penisola iberica insieme ai conquistatori, quasi un “effetto collaterale” della secolare dominazione, dando origine a una straordinaria produzione autoctona ibridata. Pregiati tappeti e frammenti tessili e ceramiche ispano-moresche di

«IL MEGLIO MAESTRO D’ITALIA». PERUGINO NEL SUO TEMPO Galleria Nazionale dell’Umbria fino all’11 giugno

provenienze diverse datati tra il X e il XVI secolo, capaci di trasportare il visitatore in territori poco esplorati, aprono diverse traiettorie di conoscenza e riflessione e mettono in evidenza la relazione tra il mondo ispanico europeo e quello islamico nel contesto del Mediterraneo. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it

In occasione del V centenario della morte, la Galleria Nazionale dell’Umbria celebra Pietro Vannucci (1450 circa-1523), il piú importante pittore attivo negli ultimi due decenni del Quattrocento. Il progetto espositivo, composto da oltre settanta opere, ha scelto d’individuare solo dipinti del Vannucci antecedenti al 1504, anno nel quale egli lavorava a tre commissioni che segnano il punto piú alto della sua carriera: la Crocifissione della Cappella Chigi in S. Agostino a

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Siena, la Lotta fra Amore e Castità già a Mantova, ora al Louvre di Parigi, e soprattutto lo Sposalizio della Vergine per la cappella del Santo Anello del Duomo di Perugia, oggi nel Musée des Beaux-Arts di Caen (Francia). La mostra dà conto, nella maniera piú completa possibile, dei passaggi fondamentali del suo percorso: dalle prime collaborazioni nella bottega di Andrea del Verrocchio alle capitali imprese fiorentine che fecero la sua fortuna (come per esempio le tre tavole già in S. Giusto alle Mura, oggi nelle Gallerie degli Uffizi, o la Pala di San Domenico a Fiesole); dagli straordinari ritratti alle monumentali pale d’altare, quali il Trittico Galitzin, ora alla National Gallery di Washington, e il Polittico della Certosa di Pavia, per gran parte alla National Gallery di Londra ed eccezionalmente ricomposto per l’occasione. info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@beniculturali.it; www. gallerianazionaledellumbria.it; www.peruginocinquecento.it

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TORINO ALL’OMBRA DI LEONARDO. ARAZZI E CERIMONIE ALLA CORTE DEI PAPI Reggia di Venaria, Sale delle Arti fino al 18 giugno

La nuova stagione della Reggia di Venaria si apre con una mostra che offre l’occasione di compiere un viaggio all’interno di alcune fra le piú importanti cerimonie papali: la Lavanda dei piedi e la Coena Domini che si svolgevano il Giovedí Santo nel cuore del Palazzo Vaticano, in ambienti solenni impreziositi da straordinarie opere d’arte, legate ai nomi di Leonardo e Raffaello. Cogliendo il senso di antiche cerimonie, ricche di simboli e di significati, arazzi, quadri, incisioni e oggetti raccontano una storia che affonda le sue radici lontano nel tempo, immergendo il visitatore in un mondo di tradizioni e antichi riti. Non solo atti esteriori, ma importanti testimonianze della Chiesa romana. La storia che si racconta ebbe inizio nel 1533 quando, in occasione del matrimonio di Caterina de’ Medici, nipote di papa

Clemente VII, ed Enrico di Valois, secondogenito del re di Francia Francesco I, quest’ultimo donò al pontefice un prezioso arazzo raffigurante l’Ultima Cena di Leonardo. Un matrimonio e un regalo importante che suggellavano l’alleanza tra la Francia e il papato contro l’imperatore Carlo V (responsabile del sacco di Roma, avvenuto solo sei anni prima, nel 1527). L’opera fu realizzata dopo il 1516 su ordine dello stesso Francesco I e di sua madre Luisa di Savoia. Questo spiega la presenza di simboli sabaudi lungo tutta la bordura dell’arazzo. Nel prezioso panno, interamente tessuto in oro e seta, l’Ultima Cena milanese è trasposta con assoluta fedeltà, ma con un’importante variazione. Lo sfondo – che nell’originale è quasi un’astrazione – diviene un’architettura rinascimentale: come se l’Ultima Cena si svolgesse alla corte di Francia. Francesco I era un grande estimatore di Leonardo, tanto

da averlo chiamato alla sua corte, ed è ormai opinione di molti che il cartone dell’arazzo, su cui fu poi effettuata la successiva tessitura, sia stato realizzato in Francia sotto la supervisione dello stesso Leonardo. info www.lavenaria.it VENEZIA VITTORE CARPACCIO. DIPINTI E DISEGNI Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 18 giugno

Frutto di una proficua collaborazione fra musei ed enti italiani e stranieri, la retrospettiva riunisce soprattutto opere oggi in musei e collezioni internazionali, oppure in chiese degli antichi territori della Serenissima, dalla Lombardia all’Istria e alla Dalmazia: opere che illustrano compiutamente la varietà e l’altezza della pittura di Carpaccio, seguendone anche l’evoluzione; fino al capitolo conclusivo della sua carriera, maggio

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tra secondo e terzo decennio del Cinquecento, quando l’arte del maturo maestro, pur rimanendo colta e suggestiva, pare non tenere il passo delle novità tematiche e tecniche introdotte da Giorgione. Carpaccio era anche un disegnatore superlativo: dal notevole corpus dei suoi disegni – il maggiore pervenuto a noi di un pittore veneziano del suo tempo – in mostra sono presenti numerosi studi su carta, spesso straordinari di per sé, che spaziano da rapidi schizzi compositivi d’insieme ad accurati studi preparatori di teste e pose. Carpaccio formò e alimentò la sua arte nella tradizione pittorica veneziana dei Bellini, dei Vivarini, nonché di altre influenti personalità e tendenze, come la lezione dei toscani, dei ferraresi, di Antonello da Messina, dei tedeschi (Dürer) e dei «primitivi» fiamminghi. Ne derivò una personalità subito originale e autonoma, soprattutto attratta dai particolari di flora, fauna e paesaggio, di architettura,

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arredo e decorazione, di abbigliamento ed esotismo. info https://palazzoducale. visitmuve.it FERRARA RINASCIMENTO A FERRARA. ERCOLE DE’ ROBERTI E LORENZO COSTA Palazzo dei Diamanti fino al 19 giugno

La rassegna tiene a battesimo la riapertura dei nuovi spazi espositivi di Palazzo dei Diamanti, oggetto di un complesso intervento di restauro e riqualificazione, e costituisce la prima tappa di un progetto piú ampio e ambizioso intitolato Rinascimento a Ferrara 14711598 da Borso ad Alfonso II d’Este, che indagherà la vicenda storico-artistica del periodo compreso tra l’elevazione della città a ducato e il suo passaggio dalla dinastia estense al diretto controllo dello Stato Pontificio. Gli altri momenti del percorso saranno dedicati ai grandi protagonisti di quella stagione: Mazzolino e Ortolano, Dosso e Garofalo, Girolamo da Carpi e Bastianino. Le oltre cento opere esposte, provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, offrono l’occasione di scoprire (o riscoprire) l’arte di due grandi interpreti del Rinascimento italiano, entrambi ferraresi: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Dotato di un incredibile talento compositivo, straordinario per qualità ed espressività emotiva, Ercole de’ Roberti (1450 circa1496) era l’erede dell’Officina ferrarese, il piú giovane e intelligente tra quanti parteciparono al clima culturale di Palazzo Schifanoia, negli ultimi anni del governo di Borso che proprio allora riceveva il titolo di duca (1471). Operò a piú riprese a

Bologna, dove lasciò una impronta profondissima, ma non vi è dubbio che a Ferrara trovò l’ambiente piú adatto in cui esprimersi durante l’ultimo decennio della sua vita, trascorso alle dipendenze della corte. Fu Lorenzo Costa (14601535), di dieci anni piú giovane, a raccoglierne l’eredità e a continuarne lo stile nelle opere giovanili. Ma durante un lungo soggiorno a Bologna la sua pittura mutò in direzione di una maggiore morbidezza, di una classicità calma e distesa. Il mondo stava cambiando, Leonardo e Perugino stavano imponendo una nuova «maniera», che Costa comprese subito e della quale fu tra i maggiori interpreti, anche dopo il trasferimento a Mantova alla corte dei Gonzaga. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www.palazzodiamanti.it

NAPOLI GLI SPAGNOLI A NAPOLI. IL RINASCIMENTO MERIDIONALE Museo e Real Bosco di Capodimonte, Sala Causa fino al 25 giugno

Il progetto espositivo è stato realizzato in partenariato con il Museo Nacional del Prado, dove una prima versione della mostra è stata inaugurata il 18 ottobre 2022. Grazie a questa importante collaborazione, tornerà a Napoli per la prima volta dopo 400 anni la Madonna del pesce eseguita da Raffaello. Il dipinto, destinato alla cappella della famiglia del Doce in S. Domenico Maggiore a Napoli, divenne un punto di riferimento fondamentale per gli artisti attivi a Napoli durante il Cinquecento. L’opera fu asportata dai governanti spagnoli e trasferita a Madrid intorno alla metà del Seicento. La mostra è dedicata a uno

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AGENDA DEL MESE dei momenti piú fecondi e meno conosciuti della civiltà artistica napoletana: il trentennio che va dal 1503 al 1532 circa. È il periodo che, sotto il profilo politico, vide l’estinguersi della dinastia aragonese, con il passaggio del Regno di Napoli sotto il dominio della Corona di Spagna; sotto il profilo culturale, il raggiungimento dell’apice della sua grande stagione umanistica, con il passaggio di consegne da Giovan Gioviano Pontano a Iacopo Sannazaro. Le novità artistiche elaborate in quegli anni da Leonardo, Michelangelo e Raffaello furono prontamente recepite e reinterpretate in modo originale in una Napoli ancora molto viva, per la quale la perdita della funzione di capitale autonoma non costituí un ostacolo allo sviluppo culturale, ma, al contrario, contribuí alla definizione di un nuovo ruolo di cinghia di trasmissione della cultura rinascimentale tra le due sponde del Mediterraneo. info tel. 081 7499111 oppure 7499130; e-mail: mu-cap@ cultura.gov.it; https:// capodimonte.cultura.gov.it/ ROMA RAFFAELLO E L’ANTICO NELLA VILLA DI AGOSTINO CHIGI Villa Farnesina fino al 2 luglio

L’esposizione mette in luce un aspetto cruciale del Rinascimento, finora non sufficientemente evidenziato: se la svolta classica di Raffaello nel secondo decennio del Cinquecento è ben nota grazie a numerosi studi, poca attenzione è stata finora riservata all’influenza che l’importante collezione di statue, sarcofagi, cammei, rilievi, libri e monete antiche

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raccolte nella Villa Farnesina da Agostino Chigi, hanno avuto sull’Urbinate. Chigi e Raffaello sono stati accomunati non solo da una triste coincidenza (il banchiere è morto cinque giorni dopo il Sanzio), ma da una profonda intesa fondata sull’amicizia e sul lavoro: dopo i papi Giulio II e Leone X, Agostino Chigi è stato il committente piú assiduo e munifico di Raffaello. Quest’ultimo ha frequentato la villa di Chigi, l’attuale Villa Farnesina, non solo come artista incaricato della decorazione a fresco della Loggia della Galatea e della Loggia di Amore e Psiche, ma anche come «familiare» del padrone di casa, ammirando e studiando le collezioni antiquarie che il banchiere andava raccogliendo nella villa e nei giardini (non solo statue, ma rilievi, medaglie e spettacolari cammei), modelli autorevoli per le invenzioni che l’Urbinate e la sua scuola diffondevano attraverso dipinti,

disegni, stampe, arazzi, vasellami. Le «magnifiche raccolte» dal ricco mecenate sono state disperse dopo la sua morte, andando a incrementare le altre grandi collezioni romane ed europee; e ulteriormente depauperate sia con il Sacco di Roma sia con i successivi spogli, fino alla vendita del Palazzo ai Farnese, avvenuta nel 1579. Grazie a importanti prestiti la mostra è l’occasione per riallestire, almeno in parte, la collezione di Agostino Chigi nel suo luogo originario e avere piena comprensione di quanto sia stata fonte d’ispirazione per lo stile classico di Raffaello e della sua scuola, di Peruzzi, di Sebastiano del Piombo e del Sodoma, contribuendo allo sviluppo del pieno Rinascimento. In tal modo, per la prima volta e dopo cinquecento anni, la «casa» di Agostino Chigi torna a essere quello «scrigno» capace di racchiudere in un luogo unico lo spirito del Rinascimento: un concentrato particolarmente suggestivo che solo la percezione fisica, pur limitata al tempo della mostra, può assicurare. info tel. 06 68027268; e-mail: farnesina@lincei.it; www.lincei.it, www.villafarnesina.it

cantiere dell’enorme basilica di S. Pietro, dopo la morte di Bramante nel 1514. Non solo le sue prime opere edilizie, per il banchiere senese Agostino Chigi, risalgono a tre anni prima, ma Raffaello architetto lo è sin dall’inizio della propria attività di artista. Lo provano indizi concreti nei suoi disegni e dipinti a partire dal 1501, e nelle sue opere figurative vive da subito una nuova e innovativa idea di spazio, alimentata dallo studio e dall’imitazione dell’architettura della Roma antica, che porta l’osservatore all’interno degli edifici dipinti, con vedute che oggi definiremmo «cinematografiche» e «immersive». In mostra disegni originali, fra cui preziosissimi autografi di Raffaello, provenienti dal Royal Institute of British Architects di Londra e dagli Uffizi, taccuini e manoscritti dalla Biblioteca Centrale di Firenze, sculture antiche e libri rinascimentali, presentano non solo le architetture costruite da

VICENZA RAFFAELLO. NATO ARCHITETTO Palladio Museum fino al 9 luglio

Tutti conoscono il Raffaello pittore, ma non tutti sanno che è stato un grandissimo architetto, uno dei piú influenti di tutto il Rinascimento. E la mostra, dunque, percorre venticinque anni della vita dell’Urbinate, decisa a dimostrare una tesi radicale: che Raffaello non nasce pittore e poi diviene architetto, quando gli viene affidato il

Raffaello ma anche quelle – non meno affascinanti – rimaste sulla carta o andate distrutte, come palazzo Branconio dell’Aquila. Due riproduzioni ad altissima fedeltà degli enormi, intrasportabili cartoni per gli maggio

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ricco immaginario e furono una grande fonte d’ispirazione per gli artisti. Oltre a quelli del Nuovo Testamento, Francesco è probabilmente il santo piú rappresentato nella storia dell’arte e la popolarità del movimento francescano è cresciuta di pari passo con la rapida diffusione dell’immaginario, da parte di alcuni dei piú grandi artisti, che raccontano la sua figura e leggenda. Gli storici dell’arte ritengono che, solamente nel secolo successivo alla sua morte, potrebbero essere comparse circa ventimila immagini di Francesco, senza contare quelle in manoscritti miniati. info www.nationalgallery.org.uk TORINO

BUDDHA10. FRAMMENTI, DERIVE E RIFRAZIONI DELL’IMMAGINARIO VISIVO BUDDHISTA MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 3 settembre

arazzi della Cappella Sistina, come il «Sacrificio di Listra» e la «Predica di San Paolo ad Atene», porteranno in mostra l’intreccio inscindibile del Raffaello pittore e architetto, realizzati dalla celebre Factum Arte di Madrid, il leader internazionale di queste produzioni in bilico fra tecnologia e arte. info tel. 0444 323014; e-mail: accoglienza@palladiomuseum.org; www.palladiomuseum.org LONDRA SAN FRANCESCO D’ASSISI National Gallery fino al 30 luglio

San Francesco viene per la prima volta celebrato da una mostra allestita nel Regno

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Unito, in occasione della quale sono riunite oltre quaranta opere d’arte provenienti da collezioni europee e statunitensi pubbliche e private, che coprono oltre sette secoli. Le opere spaziano da pannelli dipinti medievali a reliquie e manoscritti e persino un fumetto Marvel. La rassegna vuole far luce su come san Francesco ha catturato l’immaginazione degli artisti, su come la sua immagine si è evoluta nel corso dei secoli e su come il suo messaggio universale abbia trasceso i secoli, i continenti e le diverse tradizioni religiose. La vita e i miracoli di Francesco si prestarono alla creazione di un

Quali significati hanno gli oggetti rituali presenti nelle collezioni del MAO e come venivano utilizzati e percepiti nel loro contesto originario? Perché e come sono entrati a far parte del patrimonio del museo – cosí come di altri musei di arte asiatica in ambito europeo? E ancora: quali sono i problemi posti dalla conservazione e dal restauro, subordinati al gusto e alle tecniche che cambiano nel tempo? Qual è il rapporto fra buddhismo e nuove tecnologie? Da queste domande prende avvio la nuova mostra «Buddha10», un progetto che parte dalle opere presenti nelle collezioni per aprire prospettive piú ampie relative a questioni che riguardano il museo, le sue collezioni e su cosa significa gestire, custodire e valorizzare

un patrimonio di arte asiatica in ambito occidentale. Nelle sale dedicate alle esposizioni temporanee, in uno spazio essenziale ed evocativo, oltre venti grandi statue buddhiste in legno o pietra di epoche diverse (dal V al XIX secolo) delle collezioni del MAO sono accostate ad alcune sculture – tra cui oltre trenta bronzetti votivi della collezione Auriti e due straordinarie teste scultoree in pietra di epoca Tang (618-907 d.C.) – provenienti dal Museo delle Civiltà di Roma, con cui il museo ha avviato una proficua e articolata collaborazione, e a un importante prestito proveniente dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova. info tel. 011 4436927; www.maotorino.it FIRENZE GHIBERTI, VERROCCHIO E GIAMBOLOGNA. OSPITI «ILLUSTRI» DA ORSANMICHELE Museo Nazionale del Bargello fino al 4 settembre

Sono eccezionalmente riuniti nel Museo del Bargello il San Giovanni Battista di Lorenzo Ghiberti, l’Incredulità di san Tommaso di Andrea del Verrocchio e il San Luca del Giambologna, tre fra i massimi capolavori della statuaria bronzea rinascimentale, provenienti dal Museo di Orsanmichele. L’esposizione offre l’occasione per ammirare l’allestimento di tre opere del celebre ciclo scultoreo di Orsanmichele, trasferite presso l’antica sede del Palazzo del Podestà durante la temporanea chiusura del Complesso monumentale (12 dicembre 2022-22 settembre 2023) per lavori straordinari di restauro, messa in sicurezza, riallestimento e miglioria degli accessi. Noto come l’antica

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AGENDA DEL MESE loggia per il mercato e per il deposito del grano, il Complesso di Orsanmichele è uno dei piú importanti monumenti pubblici fiorentini ed è parte dei Musei del Bargello. Al primo piano del palazzo trecentesco dalla metà degli anni Novanta sono conservate le statue originali, marmoree e bronzee, raffiguranti i santi patroni delle Arti fiorentine, progressivamente rimosse dai tabernacoli esterni e sostituite da copie. Le opere selezionate per l’esposizione temporanea al Bargello provengono tutte dalle edicole situate sulla facciata orientale di via de’ Calzaiuoli: il San Giovanni Battista di Ghiberti (1413-1416), la prima statua monumentale del Rinascimento, viene dal tabernacolo dell’Arte di

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Calimala, mentre il San Luca del Giambologna (1602) fu commissionato dall’Arte dei Giudici e dei Notai. L’opera dello scultore fiammingo si contraddistingue per la grande potenza espressiva e, a differenza degli altri due bronzi, non aveva mai avuto altre occasioni fino a oggi per lasciare il palazzo di Orsanmichele, se non per la necessaria messa in sicurezza durante la seconda guerra mondiale e per il restauro del 2001. Infine, il gruppo verrocchiesco dell’Incredulità (1467-1483), scenograficamente allestito in mostra entro una nicchia sopraelevata a una altezza prossima a quella del tabernacolo originale, rappresenta l’Università della Mercanzia.

info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@cultura.gov.it; www. bargellomusei.beniculturali.it

SIENA DALLA SPADA ALLA CROCE. IL RELIQUIARIO DI SAN GALGANO RESTAURATO Cripta del Duomo fino al 5 novembre

Un furto clamoroso, nel lontano 1989, dal Museo del Seminario Arcivescovile di Siena. Uno straordinario recupero, oltre trent’anni piú tardi, grazie al Comando dei Carabinieri, Tutela Patrimonio Culturale. E infine il restauro, eseguito nei Laboratori dei Musei Vaticani. È questa l’occasione per inaugurare la mostra «Dalla Spada alla Croce». Al centro della vicenda, una croce liturgica, due pissidi, cinque calici e soprattutto un capolavoro della produzione orafa senese del XIV secolo, il Reliquiario di San Galgano, oggetto mirabile e di intensa devozione popolare. Su di esso, decorate finemente in preziosi smalti traslucidi, sono raffigurate le scene della vita del santo e della sua spada. Secondo la tradizione, Galgano sarebbe nato nel borgo senese di Chiusdino. Cavaliere appartenente alla piccola nobiltà locale, si convertí alla vita ascetica ed eremitica dopo le visioni dell’Arcangelo Michele, come rappresentato nelle sei scene del Reliquiario. Condusse la sua vita monastica nell’Eremo di Montesiepi, da lui edificato su una collina vicina al luogo dove sarebbe sorta l’Abbazia. Morí, secondo le fonti, il 30 novembre 1181. Appena quattro anni dopo, a seguito dei doverosi accertamenti canonici, papa Lucio III lo proclamò santo nel 1185. info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com

URBINO IL PALAZZO DUCALE DI URBINO. I FRAMMENTI E IL TUTTO Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino all’11 novembre

«Tra le altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito di Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sí ben lo forní, che non un palazzo ma una città in forma di palazzo esser pareva». Cosí scrisse Baldassarre Castiglione ne Il libro del cortegiano pubblicato nel 1528; in effetti, la ricchezza del Palazzo Ducale di Urbino non è data solo dalla sua qualità architettonica e decorativa, ma anche nell’essere un frammento di città, una sorta d’infrastruttura che si unisce a Urbino e genera una complessità unica tra gli spazi privati del Duca e della corte, i luoghi pubblici della città e il paesaggio verso il quale si apre. Nonostante il ruolo centrale e un’essenza da capolavoro indiscusso del Rinascimento italiano, il Palazzo Ducale di Urbino non ha l’attenzione e la comprensione pubblica che merita. Da qui l’idea di una grande mostra nell’edificio che ospita la Galleria Nazionale delle Marche, con l’obiettivo di far scoprire al grande pubblico il Palazzo Ducale, la sua importanza e complessità storica e architettonica, non solo come spazio di grande qualità che ospita importanti opere d’arte, ma anche come manufatto spaziale raffinato e complesso che può coinvolgere i visitatori con la ricchezza dei suoi dettagli e del suo impianto. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it maggio

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ANTE PRIMA

IOEVO MED Dossier

LO/MI.

MEDIOEVO DOSSIER

IA ST CI NA EDI I D M LA EI D

conv. L. 46/2004, art. 1, c.1,

UNA FAMIGLIA ALLA CONQUISTA DELL’EUROPA

orse originari del Mugello, i Medici costruirono la propria fortuna a Firenze e il loro nome finí quasi con il diventare sinonimo di quello della città del giglio. Alla loro straordinaria parabola è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo», che ripercorre l’intera storia della casata, a partire da quando, intorno alla metà del XII secolo, i suoi esponenti si mettono in luce dedicandosi con profitto alla mercatura e al cambio, attività che si trasformano nel trampolino dal quale i Medici spiccano il salto che li porta a scalare le gerarchie del potere politico. Divengono cosí i primi protagonisti di un sistema amministrativo assai complesso, che Cosimo il Vecchio e i suoi successori dimostrano di saper governare con estrema abilità. Un’egemonia rinsaldata da un sapiente gioco di alleanze, matrimoni combinati e partecipazione alla vita religiosa, che culmina, quest’ultima, con l’ascesa al soglio di Pietro di ben quattro discendenti di Giovanni di Bicci, artefice primo delle fortune medicee. Nel Dossier c’è spazio per tracciare il profilo di personaggi illustri, da Lorenzo il Magnifico a Caterina de’ Medici, che grazie al matrimonio con Enrico II, duca d’Orléans, divenne regina di Francia. Né manca, e non avrebbe potuto essere altrimenti, la documentazione della eccezionale fioritura delle arti di cui i Medici si fecero promotori, oggi testimoniata da monumenti eccelsi e da collezioni di valore inestimabile, prima fra tutte quella degli Uffizi.

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I MEDICI

N°55 Marzo/Aprile 2023 Rivista

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GLI ARGOMENTI

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• Le origini • Il quadro storico • I protagonisti: da Lorenzo il Magnifico a Savonarola • L’arte al tempo dei Medici maggio

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Il volo delle streghe, olio su tela di di Francisco Goya. 1797-1798. Madrid, Museo del Prado.

Firenze. Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. La parete Est, con il segmento della processione guidato da Gaspare: tra i personaggi alle sue spalle vi sono vari membri della famiglia Medici. Benozzo Gozzoli, che ne è l’autore, ultimò l’opera nel 1459. Nella pagina accanto busto in terracotta policroma di Lorenzo de’ Medici, opera di un artista ignoto, forse su modello di un originale di Andrea del Verrocchio e Orsino Benintendi. 1513-1520. Washington, National Gallery of Art.

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battaglie altenesch La battaglia combattuta nei pressi di Altenesch il 27 maggio 1234 in una xilografia realizzata per l’opera Illustrirte geschichte des deutschen volkes di Wilhelm Zimmermann. 1877.

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27 MAGGIO 1234

di Federico Canaccini

Meglio morti che schiavi! Fu questo il grido di battaglia degli Stedinger, contadini della Bassa Sassonia che, dichiarati eretici, furono attaccati dalle forze, soverchianti, mobilitate dall’arcivescovo di Brema. Cercarono di opporre una resistenza disperata, ma nella decisiva battaglia combattuta nei pressi di Altenesch vennero sopraffatti. Persero cosí le loro terre, che, assai piú della «redenzione», erano l’obiettivo della crociata organizzata per annientarli

L L’

idea di crociata, a ben guardare, nasce in primo luogo nella Penisola Iberica, nell’ambito della Reconquista, ben prima del famoso discorso pronunciato da Urbano II a Clermont-Férrand nel 1095: la lotta contro gli infedeli islamici, invasori, contrari alla fede di Cristo, violenti, empi era in quel caso ampiamente giustificata e ben comprensibile ai ferventi crociati. La reazione entusiasta dell’Europa cristiana all’appello di Clermont, con il quale il papa invitava tutti – re, principi, nobili e non – a partire alla volta di Gerusalemme non deve perciò sorprendere. Da allora, però, l’idea stessa di «crociata» andò trasformandosi, ampliandosi, complicandosi e, in piú di un caso, raggiunse livelli di alterazione tali da risultare difficilmente comprensibile agli occhi di lettori e interpreti moderni. Tuttavia, vi furono anche «spedizioni crociate» incomprensibili per i contemporanei stessi, perplessi di fronte a guerre di interesse politico o economico, mascherate sotto il signum crucis e che della crociata avevano a mala pena il titolo. Benché le grandi spedizioni armate, partite verso il Levante, siano state calcolate in numero di otto, dopo il

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battaglie altenesch 1099 ci furono molte piú «crociate», sia in Oriente che in Occidente. Anzi, una delle piú significative peculiarità di queste spedizioni è proprio il fatto che esse presero – o avrebbero dovuto prendere – anche altre strade oltre a quella che conduceva al Santo Sepolcro: la seconda crociata, in realtà, prevedeva un attacco simultaneo in Terra Santa, in Spagna e nel Baltico. A ciò si aggiunga, verso la metà del XII secolo, l’inclusione nel Decretum di Graziano – il primo vero corpus di diritto canonico – di norme volte a giustificare la violenza contro i nemici della Chiesa, recuperando idee agostiniane legate al concetto di bellum iustum. Proprio queste norme consentirono l’indizione di una serie sempre piú fitta di spedizioni armate contro eretici e nemici politici dei vari pontefici che si susseguirono sul soglio di Pietro. Non fu sempre facile per i canonisti trovare giustificazioni a spedizioni armate che, invece di rivolgersi contro gli infedeli, si indirizzavano non solo contro i pagani – anche se non islamici –, ma persino contro cristiani, ortodossi e perfino cattolici.

Guerra agli Albigesi

Siamo negli anni in cui, nel Sud della Francia, con l’avallo pontificio, si organizzano spedizioni armate contro un nuovo tipo di eretici: gli Albigesi. L’idea stessa di crociata è oramai già ampiamente evoluta e ha perduto la sua pristina originalità: grazie a zelanti canonisti e grazie anche all’azione dei nuovi Ordini mendicanti, la crociata contro gli eretici di Albi viene diffusa, predicata, incoraggiata. La Chiesa prospetta l’indulgenza

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Gerardo II di Lippe

Uomo di Chiesa e d’azione L’arcivescovo di Brema, Gerardo II, era figlio del nobile Bernardo II, principe di Lippe, in Westfalia. La casata aveva avuto origine, intorno al Mille, da Ermanno Jodoc di Lippe, il cui discendente, Bernardo I, diede effettivamente vita, nel 1123, al cosiddetto Stato di Lippe, un insieme di staterelli tedeschi alcuni dei quali sopravvissero fino al 1918. Nato intorno al 1190, Gerardo divenne principe-arcivescovo di Brema e Amburgo dal 1219, mantenendo la carica sino al 1258, anno della sua morte. Nel corso del Duecento, la sede arcivescovile A destra un gruppo di Stedinger viene condotto dinnanzi all’inquisitore Corrado di Marburgo, xilografia, poi colorata, da un originale di Anton Dietrich. 1860. In basso la regione di Stedingen in una carta geografica settecentesca.

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fu occupata alternativamente da membri delle grandi casate dell’area, che si contendevano l’ambito seggio: Gerardo di Oldenburg (1210-1219), il nostro Gerardo di Lippe (1219-1258), HiIdeboldo di Wunstorf (1258-1273), Gilberto di Brunckhorst (1274-1306). Durante il suo mandato Gerardo si scontrò piú volte con la popolazione di Brema, che tentava di emanciparsi dal potere del prelato, decisa a guadagnare

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una maggiore autonomia: gli scontri durarono vari anni, con alterne vicende, facendo registrare sconfitte e vittorie da ambo i lati. Negli stessi anni i conti di Neubruchhausen intrapresero la realizzazione del primo ponte sul Weser in città, mentre si deve a Gerardo il riavvio dei lavori di costruzione della grandiosa cattedrale urbana. L’interminabile cantiere, cosí come quello di molte altre chiese

cattedrali d’Europa, era iniziato decenni prima, in piena età romanica: ora ci si addentrava nel gotico e tale rivoluzione artistica si manifestava in vistose guglie, prima di allora inconcepibili. Fu dunque riaperto il cantiere che, nella prima metà del Duecento, si concentrò sui campanili occidentali, nonché sulle navate, i cui soffitti furono arditamente costruiti su volte a crociera, sostituendo i vecchi soffitti a capriate.

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battaglie altenesch enrico i di brabante

Una vita in armi L’esistenza di Enrico I di Brabante, il Guerriero, fu scandita da campagne militari e coronata da molti successi, dalle calde terre di Beirut alle brumose lande di Sassonia, senza dimenticare quelli ottenuti tramite la diplomazia e per via matrimoniale. Nato da Goffredo III, langravio e poi duca di Brabante, Enrico, raggiunta la maggiore età, divenne conte di Bruxelles nel 1179, titolo che fu «ampliato» pochi anni piú tardi da Federico Barbarossa. Neppure ventenne, era già crociato nell’Outremer, a fianco di suo padre e, nel 1190, alla di lui morte, poté succedergli. La sua prima grande campagna militare fu quella legata alla crociata del 1197, durante la quale riconquistò Beirut per poi puntare su Giaffa. Nel corso di queste operazioni moriva il re di Gerusalemme, Enrico II di Champagne, che il duca di Brabante sostituí sino alla elezione e all’insediamento del nuovo sovrano della Città Santa, Amalrico di Lusignano. Tornato dalla crociata, per Enrico fu il momento di schierarsi: la Germania era divisa fra coloro che sostenevano Ottone di Brunswick, re dei Romani, e quanti appoggiavano Filippo di Svevia. Il duca di Brabante non ebbe esitazioni e, tramite il fidanzamento della sua primogenita con Ottone, manifestò apertamente la propria posizione. Ne scaturí una guerra civile ed Enrico scese prontamente in battaglia contro l’esercito di Filippo, frattanto incoronato anch’egli a Magonza, per

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Enrico I di Brabante in una tavola realizzata per la Ducum Brabantiae chronica. 1600.

impedirgli di conquistare Colonia. Il confronto tra i due sovrani tedeschi si inserí nel piú ampio scacchiere politico dell’Europa, in anni in cui iniziavano a prendere forma le nazioni destinate a confrontarsi nella battaglia di Bouvines (1214):

se la fedeltà di Enrico era stata sino ad allora ferma – al punto da sottoscrivere la richiesta di incoronazione imperiale di Ottone a papa Innocenzo III –, proprio dopo il 1200 ebbero inizio i tentennamenti, dovuti a screzi e contenziosi con signori vicini, come il duca di Gheldria, ma soprattutto per il fatto che Ottone I non tenne fede alla promessa di matrimonio fatta anni addietro. È probabile che questa mancata stipula abbia

indotto Enrico a passare nel campo avversario, giurando fedeltà a Filippo di Svevia nel 1204. Venne raggiunta una pace ed Enrico fu proposto addirittura come nuovo pretendente alla corona di Germania dal re di Francia, Filippo Augusto, il quale puntava a un’alleanza con la Germania, paventando imminenti scontri di portata internazionale. La proposta non ebbe seguito e Ottone IV di Brunswick, rimasto praticamente unico candidato dopo la morte di Filippo (1208), ottenne la corona. In quegli anni convulsi Enrico cercò di barcamenarsi, appoggiando ora Filippo Augusto – che progettava l’invasione dell’Inghilterra – ora Ottone, pericolosamente schierato al fianco di Riccardo Cuor di Leone: a Bouvines scelse l’alleato sbagliato e, unitosi a Ottone IV, fu tra i primi a darsi alla fuga quando comprese che la battaglia era perduta. Dopo Bouvines, sorse l’astro di Federico II, nel quale Enrico ripose la propria fiducia: in questi stessi anni furono organizzate le campagne militari contro gli «eretici» Stedinger, conclusesi nella tragica battaglia di Altenesch. Nel 1235 Federico II, da poco vedovo, lo inviò in Inghilterra per incontrare e poi scortare sulla terraferma, la nuova consorte e futura imperatrice, Isabella d’Inghilterra. Stando agli Annales Parchenses, però, quello stesso anno «Heinricus dux Lotaringie» morí a Colonia, là dove aveva accompagnato la giovane promessa sposa di Federico, poi impalmata a Worms. maggio

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Gregorio IX approva le decretali, affresco del ciclo realizzato da Raffaello per la Stanza della Segnatura in Vaticano. 1508-1511. La scena allude alla decisione del pontefice di mettere a punto una raccolta completa e autentica di decretali, appunto, con la quale superare il regesto delle norme raccolte nel Decretum di Graziano.

per coloro che moriranno in battaglia contro i catari (il catarismo è l’eresia di cui gli Albigesi furono tra i principali sostenitori, n.d.r.), né piú né meno come si promette a coloro che si imbarcano per Tripoli, Giaffa o Acri. Se la crociata contro gli Albigesi è certamente nota, meno conosciuta è quella indetta contro gli abitanti della regione di Stedingen, l’area a ovest del corso del Weser, all’altezza di Brema, nella Bassa Sassonia. Sin dagli inizi del Duecento gli Stedinger erano entrati in contrasto con i conti di Oldenburg e con l’arcivescovo di Brema. L’area non era priva di tensioni: i signori di Oldenburg, per esempio, erano entrati in conflitto molte volte con la casata di Frisia, che aveva mire espansionistiche nell’area settentrionale dell’Oldenburg, cosí come con la vicina e potente città di Brema, retta da un principe-arcivescovo, nonché con il vescovo di Münster.

Esentati dalle imposte

La disputa con i contadini locali sorse, intorno al 1230, in primo luogo tra Gerardo II di Lippe, arcivescovo di Brema, e gli Stedinger, che, alle minacce del presule, protestarono vivamente, rifiutandosi di pagare una serie di tributi e balzelli, nonostante fosse stata loro concessa l’esenzione dalle imposte, considerato che avevano bonificato, non senza fatica, la regione paludosa del Wesermarsch. Sono gli anni in cui la teocrazia sta prendendo sempre piú piede e un rifiuto all’autorità ecclesiastica, in primis il papa, quale vicarius Christi, ma anche a un suo arcivescovo, inizia a essere percepito e descritto come una opposizione ai precetti dettati direttamente

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da Dio. Nella mentalità del principe-arcivescovo, il rifiuto dei contadini coincise dunque con una ribellione alla Chiesa, piú che nei confronti del ruolo laico che egli rappresentava. Nel marzo del 1230, durante un sinodo convocato a Brema, Gerardo II dichiarò dunque gli Stedinger «rebelles et hereticos», contrari ai dettami della Chiesa di Roma: essi furono poi accusati di aver incendiato chiese, conventi e altri luoghi di culto, di invocare gli spiriti demoniaci nel corso di riti diabolici, di praticare cerimonie magiche e divinatorie e di profanare le ostie consacrate. L’arcivescovo cercò il sostegno del papa, Gregorio IX, impegnato proprio in quegli anni nel propugnare leggi severe e giunto a scagliare l’anatema contro il figlio dell’imperatore Federico II, Enrico VII Hohenstaufen, accusato di favorire l’eresia. La lotta contro gli Stedinger fu pianificata con attenzione e, forte della posizione che occupava, Gerardo prospettò ai cittadini di Brema l’esenzione dalle tasse e molte altre facilitazioni economiche se avessero partecipato alla spedizione militare sotto il segno della croce. Ai commercianti della città, importante porto anseatico, fu promesso un terzo del bottino ottenuto a campagna militare conclusa, durante la quale – trattandosi di lotta contro eretici – sarebbe stato lecito utilizzare tutti i mezzi pur di estirpare ciò che venne presentato come il male. A confortare tale idea, il 29 ottobre del 1232, giunse il sostegno del pontefice, il quale dichiarò eretici gli Stedinger, chiamando egli stesso alla crociata e affermando che, a tutti coloro che avessero preso le armi contro gli eretici, sarebbero stati

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rimessi i peccati, cosí come avveniva con quanti partecipavano alle spedizioni armate in Terra Santa. Mentre i vescovi della Germania settentrionale e i Domenicani tuonavano nelle chiese e nelle piazze, invitando i fedeli a impugnare le armi, a Brema iniziavano a giungere navi e provviste per il sostentamento delle truppe che prendevano a concentrarsi in città.

Un’occasione da non perdere

In aiuto dell’arcivescovo e dei signori di Oldenburg giunse anche Enrico I, detto «il Guerriero», duca di Brabante e di Lorena: il duca aveva partecipato in gioventú alla crociata del 1184 e poi a quella successiva, durante la quale, intorno al 1195, riconquistò Beirut (vedi box a p. 26). Lo spirito di crociata aveva animato dunque Enrico da giovane, il quale, dopo la sconfitta patita a Bouvines (1214) accanto a Ottone di Brunswick, tentava di riconciliarsi con la Chiesa, all’epoca ancora in buoni rapporti con Federico II: partecipare alla crociata caldeggiata da Gregorio IX contro gli Stedinger era certamente un’ottima occasione per recuperare prestigio agli occhi del pontefice, creando anche buoni rapporti con i potenti

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signori della zona. A Brema si radunò dunque un grande esercito proveniente dalla Germania del Nord, dal Basso Reno, dal Brabante, dalle Fiandre e dall’Olanda. La Sächsische Weltchronik (XIII secolo) riporta la colossale cifra di 40 000 uomini, animati dallo spirito crociato: oggi gli storici optano per ridimensionare tale cifra, e parlano di circa 8000 armati. A capo della spedizione fu posto Enrico I, duca di Brabante, affiancato da altri nobili, tra i quali si distinguevano il conte Dietrich VI di Cleve, Ottone II di Guelders e Floris IV conte d’Olanda. In risposta a tale mobilitazione gli Stedinger, contadini e non certo cavalieri, si diedero dei comandanti, si armarono e si prepararono allo scontro: Emo di Wittewierum riporta la cifra di 11 000 uomini, ma anche in questo caso si tratta di numeri che sono stati ampiamente ridimensionati e ricondotti a non oltre i 2000 uomini, mantenendo comunque inalterato l’impressionante rapporto di 1:4, naturalmente a favore dell’esercito crociato. I contadini erano male equipaggiati e dovettero sostenere numerosi scontri in cui le picche e le corte spade che avevano a disposizione non potevano competere con le armi e le armature dei molti cavalieri professiomaggio

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L’obelisco innalzato per commemorare i caduti della battaglia di Altenesch. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la battaglia di Altenesch, da un’edizione della Sächsische Weltchronik. Fine del XIV sec. Brema, Biblioteca Statale e Universitaria.

nisti presenti nello schieramento crociato. Se si deve prestar fede alla narrazione di Alberto di Stade, i contadini avrebbero scelto come propri capi tre di loro, altrimenti ignoti: Bolke di Bardenflet, Tammo di Hunthorp e Tedmaro di Aggere. I primi mesi della campagna furono caratterizzati da una serie di devastazioni della regione. L’esercito crociato percorse la vallata, riportando alcune vittorie grazie alla superiorità numerica e tecnica. Sostanzialmente, nel 1233 l’area era stata già sottomessa ma l’armata dei contadini tentò fino all’ultimo la resistenza a oltranza, sapendo che l’alternativa sarebbe stata comunque la morte sul rogo.

L’aggiramento e poi la carica

Il 27 maggio del 1234 l’esercito crociato marciò lungo la costa occidentale del Weser verso la foce del fiume Ochtum: lí, presso Altenesch, venne approntato un ponte di barche, che permise ai soldati di attraversare il corso d’acqua, penetrando in terra nemica, là dove la povera e male armata truppa dei contadini attendeva gli eventi. La cavalleria crociata riuscí a compiere una manovra di aggiramento e cosí caricò gli Stedinger al-

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le spalle con una serie martellante di cariche prima di riuscire ad aver ragione della muraglia di lunghe lance dietro alle quali i contadini si erano asserragliati. Quando poi questi ultimi tentarono un’avanzata, aprendo pericolosamente i ranghi, il conte di Cleve vide l’opportunità di lanciare una carica dei suoi su uno dei fianchi dello schieramento avversario, che fu probabilmente il colpo decisivo. Le fila si scompaginarono e i crociati si riversarono in massa sul nemico, in inferiorità numerica e ormai allo stremo: fu una carneficina, nella quale non vennero risparmiate neppure le donne, né i bambini, colpevoli – a detta dell’arcivescovo di Brema – di eresia come i loro padri. Molti contadini riuscirono comunque a fuggire, trovando scampo nelle paludi vicine o addirittura raggiungendo la Frisia. L’obiettivo era raggiunto: gli eretici erano stati eliminati, ma, cosa ancor piú importante – e vero obiettivo della spedizione – i loro beni confiscati. Le terre degli Stedinger furono dunque suddivise in due grandi porzioni: quelle settentrionali, infatti, furono incamerate dai conti di Oldenburg, mentre quelle meridionali divennero di pertinenza del vescovo di Brema.

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Il volto del

mistero

di Valentina Ricci Vitiani

Nel brusio del dolore intorno alla Passione di Cristo emerge la figura – misteriosa e bellissima – di una donna dal profilo delicato, la posa aggraziata, le mani raccolte. Una suggestione interpretativa porta a identificarla con santa Margherita da Cortona, il cui culto iniziò proprio nel 1516, anno in cui la Confraternita dei Disciplinati commissionò la Deposizione dalla Croce di Umbertide a Luca Signorelli, devotissimo, come tutti i Cortonesi, alla patrona della sua città

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Studio di Cristo deposto dalla Croce, disegno di Luca Signorelli. 1516. Parigi, Fondation Custodia, Frits Lugt Collection.

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ra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, l’attività artistica del pittore Luca Signorelli nell’Alta Umbria fu copiosa e feconda di conseguenze, dettando formule e soluzioni iconografiche destinate a persistere a lungo nel territorio. La presenza dell’artista è documentata non solo attraverso opere magnifiche, ma anche da una quantità straordinaria di fonti d’archivio di grande interesse. Da questi documenti sappiamo, per esempio, che in questa parte di Umbria – che nel periodo che stiamo considerando è una sorta di ultimo lembo di Toscana – il pittore intrecciò legami strettissimi con la criptosignoria tifernate dei Vitelli e con la sua consorteria, licenziando i ritratti dei principali esponenti della preminente famiglia cosí come preziose pale d’altare, emblema del raggiunto prestigio di committenti raffinati. La presenza di opere del pittore non è circoscritta al capoluogo tifernate, ma punteggia tutta la valle. A Umbertide (Perugia), che nel XVI secolo era un incastellamen-

Nella pagina accanto Deposizione dalla croce, olio su tavola di Luca Signorelli, inserito in una elaborata macchina d’altare di gusto barocco. 1517. Umbertide, Museo di S. Croce.

to di 80 fuochi adagiato sulla riva destra del Tevere, «dove si lavora benissimo di archibugi et d’armi», si conserva una suggestiva pala d’altare realizzata dal maestro cortonese nel 1516 su commissione dei membri della Confraternita dei Disciplinati di Santa Croce, che al tempo officiavano la chiesa omonima. L’edificio è oggi diventato un museo e l’opera che stiamo considerando, a lungo ritenuta uno dei capolavori della vecchiaia del pittore, costituisce un raro esempio di pala di Signorelli ancora in situ.

Flagellarsi per espiare

L’origine della Confraternita è da ricondursi al propagarsi, nel territorio perugino, del movimento disciplinare legato al proselitismo di Raniero Fasani, un pio laico che, nel 1260, predicava l’espiazione delle colpe attraverso la pratica della flagellazione come rievocazione della maggio

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luca signorelli in umbria/3 Passione di Cristo (vedi anche a p. 66). Agli inizi del XVI secolo la congregazione rappresentava un centro politico, economico e sociale di notevole importanza: a Fratta e nei territori circostanti era proprietaria di diversi immobili, di una chiesa e di un ospedale: accoglieva i poveri, curava i malati, distribuiva le elemosine e forniva le doti alle ragazze delle famiglie meno abbienti. Il dipinto di Luca Signorelli, un olio su tavola incastonato all’interno di una elaborata macchina d’altare di gusto barocco, illustra contemporaneamente fatti accaduti in sequenza, assecondando l’inclinazione alla narrazione che è tra le cifre della pittura del grande maestro cortonese. In alto, a sinistra, l’artista colloca le tre croci sopra un’altura che allude al Golgota. Due croci contengono ancora i corpi penzolanti dei ladroni: quella piú esterna è già vuota e vi si appoggiano le scale con le quali è stato calato il corpo del Salvatore. All’estrema A sinistra veduta della Deposizione dalla croce senza la macchina d’altare. 1516. Umbertide, Museo di S. Croce. Sulle due pagine una veduta di Umbertide (Perugia), cittadina che, all’epoca in cui Signorelli dipinse la Deposizione, era rinomata per la produzione di «archibugi et d’armi».

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destra, invece, il corpo di Cristo irrigidito dalla morte viene trasportato all’interno del sepolcro. Nella parte centrale della tavola il pittore dipinge una teatrale scena di deposizione: il corpo di Cristo, fulcro dell’intera composizione, viene calato con cura dal Legno, mentre Maddalena, i lunghi capelli biondi sciolti sopra le vesti, raccoglie il suo sangue. San Giovanni, il discepolo che piú di ogni altro amava Gesú, l’unico tra gli apostoli a essere presente ai piedi della Croce, dall’aspetto giovane secondo una consuetudine iconografica che aderisce alle Scritture, allarga il braccio destro in segno di sconforto e, come un

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attore su un palco, guida l’attenzione di chi osserva il dipinto verso la scena del tragico martirio.

Lo studio preparatorio

Il corpo di Cristo, scolpito dalla luce, è indagato in ogni dettaglio: un bellissimo disegno a matita nera di mano di Luca Signorelli, preparatorio al dipinto di Umbertide, raffigurante il Salvatore al momento della deposizione, è oggi conservato presso la Collezione Frits Lugt di Parigi (vedi foto a p. 30). La Vergine ai piedi della Croce è svenuta e il suo corpo è sorretto da una delle pie donne cosí come tramandano i Vangeli. In questo fitto brusio di dolore

c’è un personaggio che cattura l’attenzione, proprio perché distante da ogni concitazione: è la donna piú bella, in primo piano, a sinistra del quadro, dal profilo delicatissimo e dalla posa aggraziata, con le mani raccolte. A proposito dell’identità di questa figura gli studiosi hanno avanzato proposte differenti, rimanendo però ogni volta nell’ambito della mera ipotesi per la sostanziale mancanza di indizi certi. È stato scritto, per esempio, che possa trattarsi di sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, alla quale si deve la scoperta della reliquia della Santa Croce. Ma questa idea è resa poco credibile dal fatto che nella bella predella sottostante

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Compianto sul Cristo morto, tempera su tavola di Luca Signorelli. 1502. Cortona, Museo Diocesano. La predella mostra quattro episodi degli eventi anteriori alla Passione: Orazione nell’orto, Ultima cena, Cattura di Cristo e Flagellazione. Nella pagina accanto Santa Margherita scopre il corpo del suo amante, olio su tela di Marco Benefial. XVIII sec. Ajaccio, Musée Fesch.

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la tavola principale lo stesso personaggio compare abbigliato con colori differenti; un’altra interpretazione è quella della figura allegorica, un simbolo della Santa Chiesa, coi colori delle vesti che potrebbero alludere a specifiche virtú: il bianco alla purezza della fede, il rosso alla carità, il verde alla speranza. Tutte qualità che, è stato scritto, definiscono l’ideale della vita della Chiesa. Ma anche questa interpretazione non sembra basata su elementi troppo solidi. A tutt’oggi dunque, non conosciamo con certezza l’identità della bella figura femminile. Alcune considerazioni in merito a certi dettagli del dipinto, insieme alle vicende relative alla sua committenza, hanno generato suggestioni che ci piace raccontare, attribuendo però a queste idee, per onestà intellettuale, il valore di semplici riflessioni.

Il mandato dei cittadini

Sappiamo che Luca Signorelli entrò in contatto con i committenti della Deposizione nel 1515: presso l’Archivio di Stato di Perugia si conserva ancora un atto rogato l’8 luglio di quell’anno dal notaio Berardino di Nicola di Costanzo, che ci dice che alcuni abitanti del borgo di Fratta, antico nome dell’odierna Umbertide, adunati nella chiesa di S. Croce, nominano come propri procuratori Orsino di Giovanni e Giacomo di Arcangelo, incaricandoli di recarsi a Cortona per scendere a patti con il pittore e ricevere dallo stesso le promesse «pro pingendo per ipsum unam tabulam sive cunam», stipulandone anche l’atto di allocazione. È facile immaginare che, una volta giunti nella città toscana, i delegati di Fratta siano stati accolti dal pittore, orgoglioso di far conoscere ai propri committenti quanto di meglio la sua città natale poteva esibire in sua rappresentanza, ovvero il capolavoro licenziato per decorare l’altare maggiore della chiesa

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dedicata a Margherita, la santa piú cara alla devozione cortonese. Come la pala di Umbertide, la tavola di Cortona, oggi conservata presso il Museo diocesano della città toscana, illustra in un unico spazio pittorico diversi momenti della Passione di Cristo, con la scena di «compianto» in primo piano e le croci sul Golgota con la Resurrezione ai lati, piú in lontananza. Che l’opera in questione possa aver fatto da modello alla tavola di Umbertide è indubbio. Spesso, anche nei documenti ufficiali, il fatto che una tavola dovesse essere eseguita alla maniera di un’opera già realizzata

era esplicito: a tale proposito, per esempio, sappiamo che nel 1504 Luca Signorelli viene incaricato da Giovannantonio di Luca da Matelica di dipingere «unam tabulam (…) figuris et aliis prout pinxit ac perfecit in tabula maioris altaris eccelsie Sancte Magherite de dicta civitate Cortone». Osservando il Compianto sul Cristo Morto, vero capolavoro di invenzione, plasticismo e cromia, ritroviamo sotto la Croce la stessa figura femminile dal profilo delicato colta in meditazione di fronte alla scena della Passione di Cristo e della Vergine dolente. (segue a p. 38)

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AL TEMPO DI COSTANTINO E DI SANT’ELENA Sotto la tavola principale con la Deposizione dalla Croce, la pala di Umbertide è arricchita da una pregevole predella, divisa in tre parti, che contiene cinque diverse storie: La disfatta di Massenzio, con l’esercito di Costantino che rincorre quello nemico; L’invenzione della Croce, alla presenza dell’imperatrice Elena e del vescovo di Gerusalemme Maccario, Il miracolo del giovane risuscitato dal contatto col Legno e, piú a destra, Sant’Elena che attraversa il fiume, con il seguito delle sue dame, e L’ingresso della reliquia in Gerusalemme.

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luca signorelli in umbria/3 Diventa suggestivo a questo punto indagare meglio la figura della santa dedicataria della chiesa per la quale la pala di Cortona venne realizzata. Margherita (1247-1297) nasce in una povera famiglia contadina a Laviano, un paesino dell’Umbria a metà strada fra le città toscane di Montepulciano e Cortona. A 18 anni scappò di casa per vivere more uxorio con Arsenio, un nobile di Montepulciano (identificato con Raniero del Pecora, dei signori di Valiano), insieme al quale condivise una vita ostentatamente sfarzosa. In questo contesto avrebbe amato mostrarsi vestita con abiti eleganti e gioielli, conducendo un’esistenza fatta di agio e di lussi, fino a quando il compagno, dal quale aveva avuto anche un figlio, perse la vita. Dopo la morte di Arsenio, Margherita, «colpevole» di concubinato, venne rifiutata dalla famiglia d’origine. Trovò allora accoglienza e solidarietà a Cortona, dove ricevette asilo presso due nobildonne e dove si adoperò, in cambio di un ricovero per sé e per il figlio, nell’accudimento delle donne che erano in procinto di partorire.

Una nuova vita

Da questo momento, secondo la tradizione, per lei inizia un’altra vita, tutta di penitenza e contemplazione, accanto ai poveri e ai malati bisognosi delle sue cure. Margherita riuscí a essere ammessa al Terz’Ordine, trasferendosi in una celletta, nella quale rimase per tredici anni. Nel frattempo, grazie alla generosità di alcuni ricchi proprietari, riuscí a ottenere l’utilizzo di una casa che trasformò in uno «spedale» destinato a soccorrere e ospitare tutti coloro che avevano necessità di cure. Dalle fonti sappiamo che, come appare dalle figure dall’identità misteriosa dipinte da Signorelli nella pala di Umbertide e in quella di Cortona, Margherita era di una

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straordinaria bellezza, che però subiva come una colpa terribile, al punto che, dopo la conversione, avrebbe voluto persino sfregiarsi il volto se il suo confessore Fra Giunta non glielo avesse impedito. Margherita da Cortona venne canonizzata il 16 maggio 1728 da papa Benedetto XIII; già a partire dal Cinquecento, però, l’immagine della santa iniziò a essere divulgata. Nel 1515 Leone X infatti ne autorizzò il culto. È proprio questo, lo ricordiamo, l’anno in cui i delegati della confraternita di Fratta giunsero a Cortona per siglare il contratto con Luca Signorelli, accolti dunque da una città in festa per l’approvazione ufficiale della devozione alla propria cara santa. Cosí, a partire dal XVI secolo, santa Margherita inizia a comparire in dipinti e affreschi che ne celebrano le virtú, la bellezza e la fede. È vero altresí che esistono immagini della santa piú antiche del periodo che stiamo considerando, ma di fatto sono poco numerose e ci sembra che non abbiano contribuito a costruire un’iconografia consolidata. Tuttavia, fatta eccezione per i rari esempi di dipinti che raccontano l’episodio laico del rinvenimento del corpo del compagno Arsenio, come accade per esempio nel capolavoro del pittore romano Marco Benefial, ante 1732, dove Margherita indossa un sontuoso abito rosso. L’attributo che compare ogni volta accanto alla santa nelle opere di ogni epoca e che ricorda e celebra la devozione di Margherita per la Passione di Gesú, è quello della croce che la santa tiene in mano e verso la quale rivolge di continuo le proprie preghiere. Dalla Legenda de vita et miraculis beatae Margheritae de Cortona, scritta dal citato Fra Giunta, sappiamo che la santa un giorno, mentre stava meditando sui vari misteri della Passione del Salvatore sulla Croce, cade in estasi e comincia a descri-

vere i differenti momenti del martirio, in modo cosí circostanziato come se fosse lí davanti, presente ai fatti che stava raccontando. Questa esperienza di Margherita che le fonti tramandano ci sembra straordinariamente vicina al racconto di Signorelli, a come il pittore colloca le figure femminili nella pala di Umbertide e in quella di Cortona di fronte al calvario di Cristo.

Quasi una testimone

È però pur vero che molti sono i dettagli della vita della santa che curiosamente richiamano le immagini piene di grazia dipinte da Luca Signorelli: non solo la meditazione davanti alla Croce, ma l’intero racconto sviluppato dall’artista nelle tavole di Umbertide e di Cortona sembra citare un celebre passo narrato nella Legenda, e cioè la lunga estasi già ricordata che mette la santa di Laviano di fronte a ogni singolo, doloroso momento dei tormenti di Cristo. Margherita ripercorre e racconta in maniera lucida, tappa dopo tappa, i momenti della Passione cosí come fa il grande pittore nelle due tavole. Anche se l’intento dell’artista in questo caso non è stato quello di raccontare in maniera esplicita il testo della visione mistica della santa, di certo quelle pagine forti avranno esercitato una gran suggestione nell’immaginario dei devoti cortonesi e del grande pittore, particolarmente vicino al culto del Terz’Ordine francescano. Un dettaglio che attrae e commuove, in merito al personaggio della Pala di Fratta, è lo sguardo del bellissimo volto che è rivolto sí alla scena centrale, ma, a essere piú puntuali, sembra indirizzato verso la Vergine svenuta: le fonti antiche ci parlano non solo della devozione di Margherita verso la Croce, ma anche del suo desiderio di poter rivivere lo strazio della Madonna ai piedi del corpo morto del Figlio. Sappiamo che per Margherita il culmaggio

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Città di Castello, il Campanile cilindrico del Duomo. Innalzato fra l’XI e il XII sec., è testimone unico delle lontane origini romaniche della cattedrale tifernate.

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luca signorelli in umbria/3 to della Vergine Madre fu particolarmente sentito, e questo può anche richiamare il suo impegno nel voler assistere e accudire le donne vicino al parto, per il quale la santa è oggi considerata anche protettrice delle madri e delle partorienti. A questo proposito ricordiamo inoltre che la santa fu protagonista di un episodio miracoloso, resuscitando il figlio di una povera donna disperata per la perdita della propria creatura.

Con l’oro fra i capelli...

Le visioni di Margherita erano davvero frequenti: durante una di queste le fu promesso di comparire, dopo la morte, di fronte al Signore coperta di una tunica intessuta d’oro: è ancora una coincidenza meravigliosa la veste preziosa raffinatamente dipinta dal Signorelli nella tavola di Cortona, cosí vicina alle promesse di quelle esperienze mistiche. E di oro e di vesti preziose si parla anche nei racconti della vita della santa che precedono la conversione: nella Legenda si narra infatti che «Nella città di Montepulciano [Margherita] incedeva adorna di tanti vestiti, con fermagli d’oro tra i capelli, a cavallo o a piedi, col viso dipinto, ostentando la ricchezza».

Nella pala di Umbertide il personaggio femminile alla sinistra del dipinto è abbigliato in maniera differente, piú in linea, magari, anche con quelle che potevano essere le possibilità economiche dei committenti di Fratta, per i quali l’oro avrebbe rappresentato probabilmente una spesa troppo ingente. Ma è ancora una volta emozionante l’analogia delle vesti con ulteriori dettagli della vita della santa, alla quale, durante una visione, Cristo si rivolge dicendo: «Sii bianca per innocenza, rossa per amore, perché tu sei la terza stella concessa all’Ordine del mio diletto Francesco: questi è infatti la prima nell’Ordine dei Frati Minori; Santa Chiara è la seconda nell’Ordine delle Monache; e tu la terza nell’Ordine dei Penitenti». Il bianco e il rosso, proprio i colori della tunica e del mantello della donna in preghiera nel dipinto di Umbertide, sono gli stessi peraltro, della Margherita rappresentata piú di duecento anni dopo da Marco Benefial. E ancora dalle fonti sappiamo che, quando santa Margherita morí, proprio una lunga veste color porpora avvolse il suo corpo prima che venisse esposto in pubblico. Oggi la santa, patrona di Cortona, la città

In basso, sulle due pagine un particolare dell’allestimento del Museo Burri negli Ex Seccatoi del Tabacco a Città di Castello.

gli struggenti paesaggi del territorio, lasciando dietro di sé opere senza tempo. Fino al prossimo mese di dicembre, con un unico biglietto ridotto sarà possibile godere di undici capolavori dei due maestri del Rinascimento racchiusi in una manciata di chilometri, da Città di Castello a Morra, fino a Umbertide, Montone, Citerna e San Giustino. L’inedito progetto abbraccia anche l’arte contemporanea grazie alla

presenza nel circuito culturale dei Musei Burri a Città di Castello. E sarà via via arricchito da un fitto calendario congiunto di animazioni, eventi e rievocazioni storiche. Il biglietto ridotto è stato

dove Signorelli nacque intorno al 1441, rappresenta per i Francescani la «terza luce», dopo san Francesco e santa Chiara. Abbiamo ricordato che dopo la conversione, Margherita dedicò tutta se stessa al prossimo sofferente, edificando un piccolo ospedale nel quale curare i malati, offrire sostegno ai poveri e fornire riparo ai pellegrini. Assieme ai devoti che pian piano si unirono alla donna, a Cortona Margherita fondò una confraternita dedicata a santa Maria della Misericordia, il cui scopo era la pratica di attività assistenziale, e partecipò alla costituzione della Confraternita delle Laudi in San Francesco, con sede nella cripta scavata nel 1289 sotto la chiesa omonima. La penitenza incessante praticata dopo la conversione e, soprattutto, lo spirito di carità e di assistenza con le quali la santa si mise a disposizione del prossimo, virtú per le quali è diventata patrona dei penitenti, richiamano ancora, curiosamente, il contesto della pala di Umbertide, com-

«la valle di signorelli» Maestri a confronto In Umbria un grande progetto culturale unisce 8 comuni dell’Alta valle del Tevere, la diocesi di Città di Castello e piú di 20 musei del territorio nel nome di Luca Signorelli e Raffaello Sanzio. «La valle di Signorelli» celebra un momento magico tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, quando i due grandi artisti, senza mai incontrarsi direttamente, condivisero la stessa città, le medesime strade e

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Città di Castello. Particolare della facciata del Palazzo Comunale (detto anche dei Priori), la cui costruzione fu avviata nel 1322.

missionata dai Disciplinati di S. Croce, che con le compagnie assistenziali fondate da Margherita di certo condividevano lo spirito di compassione, generosità e misericordia e, nel concreto, la gestione di ospedali dedicati alle cure di poveri e malati e all’accoglienza dei pellegrini.

esteso anche alle strutture museali di Cortona. Tutte le informazioni sono consultabili sul sito del RIM, www. rimaltotevere.it, la rete interattiva dei musei dell’Alta Valle del Tevere e su www.peruginoesignorelli.it

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Per amore di Dio

Non sappiamo quanto le caratteristiche delle immagini signorelliane e le vicende della santa siano davvero in relazione esplicita. E l’intento di chi scrive è quello di illustrarle unicamente come un affascinante condivisione di dettagli:

certamente il pittore, che per personale, profonda devozione quando dipinse il Compianto sul Cristo morto (1502) accettò dai committenti cortonesi solo la metà della cifra pattuita, rinunciando al resto per amore di Dio, lavorò sempre con l’immagine di santa Margherita spiritualmente accanto. «Non dubitare che e’ verranno gli Angeli da cielo [a pi]gliarti le braccia e t’aiuteranno»: cosí Luca Signorelli esorta Michelangelo di fronte alle difficoltà dell’impresa della tomba di papa Giulio II, esprimendo bene la convinzione che per lui l’arte fosse un’esperienza di idee, di tecnica e di fede.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/4

Astuti ma non troppo di Corrado Occhipinti Confalonieri

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Nelle sue novelle, Franco Sacchetti propone una variegata rassegna di mercatanti, un mondo che conosceva bene, per averne fatto parte. Sfilano dunque personaggi sempre attenti ai propri guadagni e pronti a piccoli e grandi sotterfugi per garantirseli. Ma non mancano colleghi meno smaliziati, destinati a diventare vittime di burle clamorose e decisamente privi del proverbiale «bernoccolo per gli affari»

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ranco Sacchetti condivide con Giovanni Boccaccio la dimestichezza con il mondo mercantile del Trecento. Rispetto al suo maestro letterario, che osserva i commercianti dall’esterno quando lavorava nella succursale della banca Bardi di Napoli, Franco li vive dall’interno, perché da giovane aveva esercitato la mercanzia come il padre. Nel Trecentonovelle, lo scrittore fiorentino fa dunque dei rappresentanti di questa classe sociale emergente i protagonisti di vivaci racconti. Nella novella CXLVIII, Bartolo Sonaglini (morto nel 1395) è un merciaio fiorentino «antiveduto e circunspetto»: quando apprende che il comune di Firenze ha intenzione di entrare in guerra contro Gian Galeazzo Visconti di Milano, si preoccupa: «Chiameranno quelli delle Settine [il consiglio di sette membri che decideva le imposte] e fiano una brigata che caricheranno pur li mercatanti, e la spesa fia tanta che chi non si fia argomentato [ingegnato] o sia da Dio aiutato serà diserto [rovinato]». Come forma di finanziamento, il comune ha intenzione di «acconciare gli estimi e le prestanze [fare nuove stime edilizie e dei beni mobili, per adeguarvi i prestiti di guerra]». Bartolo decide di presentarsi ogni mattina davanti all’uscio socchiuso di casa per confidare le sue inesistenti difficoltà economiche ai passanti: «Oimè! fratel mio, io sono disfatto; però che, mandando certa mercatantia oltre mare, il mare me la tolse, e sonne rimaso disfatto; però che, per voler pur sostenere il mio onore, debbo dare a certi buona somma di moneta, li quali, sentendo lo stato mio, il quale è tanto povero che a pena è alcuno che lo stimasse, vo-

Miniatura raffigurante una scena di mercato, con banchi nei quali sono in vendita vari prodotti, fra cui panni e stoffe, da un’edizione de Le chevalier errant. 1403-1404. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/4

gliono essere pagati, e volesse Dio che io avesse di che». Questa litania va avanti per un mese e in città si sparge la voce che il ricco mercante è rovinato. Quando il consiglio dei sette si raduna per stabilire le nuove imposte, al nome di Bartolo Sonaglini uno dei membri rivela agli altri colleghi: «Egli è diserto e guardasi per debito [sta nascosto per difendersi dai debitori]»; un altro conferma: «Egli è cotesto e anco sento che uno gli ha dato la mala pasqua [brutte notizie]»; e un altro ancora: «Una nave che andava a Torissi [Tauris,

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porto del Mar Nero] secondo che m’è detto, gli ha data la mala ventura». La vox populi ha arricchito di particolari fantasiosi la fandonia del commerciante messa in giro ad arte. Alla fine il consiglio stabilisce che le stime sui beni di Bartolo sono quelle che «si porrebbe a uno miserabile o poca piú». Terminati gli estimi, il mercante ricomincia a farsi vedere in città, a chi gli chiede il motivo di quella ricomparsa, risponde: «Io sono in alcuna convenga [transizione] co’ miei creditori, e mi converrà navicare secondo i venti». Bartolo non risente maggio

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un negozio nel quale si vendono stoffe e gioielli, da un’edizione del Livre des bonnes moeurs di Jacques Legrand. 1490 circa. Chantilly, Musée Condé. In basso capolettera miniato, dal Messale dell’Incoronazione di Gian Galeazzo Visconti, impreziosito dalle miniature eseguite dalla bottega di Anovelo da Imbonate. 1400. Milano, basilica di S. Ambrogio, Biblioteca Capitolare. La decisione del comune di Firenze di scendere in guerra contro il signore di Milano agitò i mercanti, preoccupati per l’imposizione di tasse eccezionali e per la possibile diminuzione del loro giro d’affari.

delle spese di guerra che invece gravano su molti altri cittadini «dentro poverissimi e di fuori pareano ricchi». Il giudizio di Sacchetti sull’operato del mercante non è negativo, lo è quello sui magistrati delle Settine, «considerato come la volontà avea sottomesso la discrezione di quelli [pensando a come l’arbitrio aveva vinto la loro competenza]». Il «mercatante aveduto» tutela cosí il suo patrimonio da quella guerra che gli costò «piccolissima cosa, dove molti altri piú ricchi di lui ne rimasono disfatti» a causa delle «smisurate prestanze [prestiti forzosi totalmente sproporzionati ai beni dei singoli]».

Un incedere goffo e sospetto

Non tutti i «mercatanti», però, sono previdenti come Bartolo. Un ricco fiorentino «piú misero e avaro che [re] Mida» si trova presso la sua tenuta agricola e vuole portare una trentina di uova in città (CXLVII). Antonio «il sopranome [cognome] non voglio dire, per onore de’ suoi parenti» non vuole pagare la misera gabella sulle uova e le nasconde nelle braghe. Il servitore lo sconsiglia: «O ove le mettete voi? O voi non potrete andare per la via». Antonio non lo ascolta e «intascato che ebbe l’uova, si mette in camino, e andava largo, come s’egli avesse aúto nelle brache due pettini da stoppa [attrezzi appuntiti per cardare filato grezzo di canapa o lino]». All’ingresso della città il fante precede l’impacciato Antonio e rivela «a uno gabelliere (...) in grandissimo segreto il fatto». L’indiscreto daziere chiama i colleghi a raccolta: «E’ ci è la piú bella novella che voi udisse [abbiate udito] mai ché ’l tale passerà testé di qui, che viene dal luogo [tenuta di campagna] suo e hassi piene le brache d’ova». Uno dei gabellieri propone allora di fare uno scherzo ad Antonio: insiste per offrigli da bere del vino. Il mercante all’inizio rifiuta, ma viene costretto a sedersi su una panca che «come si pone, e’ parve si

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ponessi a sedere in un sacco di vetri». I dazieri gli chiedono i motivi di quel rumore, ma Antonio nega di essere stato lui, sostiene che è la panca ad aver cigolato. Lo fanno alzare, vedono «certo giallore venir giú dalle calze» e scoprono le uova rotte nelle braghe. Antonio si giustifica dicendo di aver nascosto solo trenta uova, ma i funzionari lo rimproverano: «Voi frodate il Comune vostro d’una piccola cosa, ben lo faresti d’una grande; e sapete ch’e’ dice: “Can che lecchi cenere non gli affidar farina”. Or bene, lasciateci una ricordanza [testimonianza scritta] e domattina ci conviene andar a’ maestri [giudici della gabella] a dire a questo fatto». Antonio è disperato: «Ohimè! Per Dio, io sarei vituperato; togliete [prendete] ciò che voi volete». I gabellieri gli fanno pagare il dovuto e gli infliggono una pesante multa. Antonio torna a casa sconsolato, racconta quanto successo alla moglie che lo rimprovera aspramente: «Doh! Tristo sventurato, trovossi mai piú questo o in favola o in canzone? Benedetti sieno gli gabellieri che ti hanno vituperato, come eri degno». L’uomo si giustifica goffamente, implora la moglie di calmarsi, ma la donna insiste: «Che sto cheta? Che maledetto sia la ricchezza che tu hai, quando tu ti conduci a tanta miseria! Volevi tu covare l’uova, come le galline quando nascono i pulcini? Non ti vergogni tu, che anderà questa novella per tutta Firenze e sempre ne sarai vituperato?». Antonio cerca di tranquillizzare la donna

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il trecentonovelle di franco sacchetti/4 tante e non filosofo e come mercatante risponderò» (II, 9). La previsione della moglie di Antonio si avvera e «or cosí guadagnò questo tapino la gabella di trenta uova, ch’elli ne fu sí vituperato, che sempre di questo se ne disse e ancora oggi se ne dice piú che mai». La maggior parte dei mercanti però non si fanno mettere in difficoltà neppure dai buffoni che con la loro abilità dialettica sanno ottenere quello che vogliono. Arrivato a Firenze da Ferrara, Gonella si trova a casa di Mocceca, collega buffone che lo informa sulle attività dei commercianti: il ferrarese escogita «un nuovo modo di aver danari, e forse mai non piú usato» (CLXXIV). Una mattina Gonella si reca a «uno fondaco d’una buona compagnia in Porta Rossa; i quali forse non stavano bene, come altri pensava, però che cominciavono a mancare del credito». Il fondaco era una società di mercanti che nel Medioevo fungeva anche da banca e cambiavalute.

Gonella, buffone spavaldo

che però insiste: «Io me ne starò ben cheta, ma, e’ non se ne staranno cheti gli altri che ’l sanno. Io ti dico, marito mio, tu eri tenuto prima da poco, e ora serai tenuto quello che tu serai. Io fui data a una gran ricchezza, ma, e’ si potea dire, a una gran tristezza [meschinità]». Il mercante che «avea studiato e letto l’abicí in sul mellone [non era troppo intelligente]» capisce di aver sbagliato e prega la moglie di perdonarlo. La donna rassegnata gli risponde: «Va’ pur con tuo senno a’ mercato [vai a vendere la tua intelligenza, se puoi], che io me ne camperò il meglio che potrò». L’espressione «Avea studiato e letto l’abicí sul mellone» rappresenta un riferimento di Sacchetti a Boccaccio. Nella nona novella dell’ottava giornata del Decameron il pittore Buffalmacco prende in giro un medico borioso, dicendo: «Voi non apparaste miga l’abbicí in su la mela (...), anzi l’apparaste bene sul mellone». Nel Medioevo i genitori e i maestri incidevano le lettere dell’alfabeto sulle mele: se i bambini riconoscevano il segno potevano cibarsene come premio. L’abitudine era riservata in particolare agli allievi meno dotati, come nel caso del mercante Antonio. Con questo passaggio, Sacchetti mostra un limite dei mercanti, condiviso con Boccaccio: la mancanza di cultura che impedisce loro di sostenere una discussione filosofica o teologica. Nel Decameron, Bernabò Lomellin dichiara: «Io son merca-

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Tutto spavaldo, il buffone si presenta davanti al cassiere, pretende che gli vengano saldati duecento fiorini, in realtà non dovuti. L’impiegato gli chiede a nome di chi i denari sono registrati e Gonella si fa ancora piú impaziente: «Buono, buono! In me; e’ non pare che voi mi vedessi mai piú; cercate quel libro, voi mi troverete bene!». Il cassiere e i suoi colleghi cercano e ricercano nei registri, ma non trovano nulla e gli dicono di aspettare l’arrivo dei titolari per chiarire la faccenda. Gonella comincia a infuriarsi: «Io griderò tanto: “Accur’uomo” che ci trarrà [verrà qui] tutta Firenze; dunque mi mettete voi il mio in questione?». Per tranquillizzarlo, interviene il mercante di un fondaco vicino che gli suggerisce di passare dopo pranzo e di pensarci bene: magari ha sbagliato società. Il buffone finge di infuriarsi ulteriormente: «Non l’ho errato, no; io verrò bene a te per quelli che tu mi déi dare, che cotesta è un’altra ragione [un altro deposito] che io ho a fare teco». Il mercante se ne va dicendo: «Io ho fatto un bello acquisto; io volea levare la questione altrui, e holla recata a me». In questo caso, era meglio fare orecchie da mercante, un modo di dire già allora in uso! Nel frattempo, è arrivato uno dei titolari, che, vedendolo sbraitare in mezzo alla strada, convince Gonella a entrare nel «fondaco della mostra [negozio dove erano esposte le merci]» dicendo in senso ironico: «Questa è de l’altre mia venture [fortune]». Il commerciante si trova in difficoltà economiche e propone a Gonella un compromesso: è disposto a dargli cinquanta dei duecento fiorini pretesi per chiudere lí la faccenda. A Gonella non sembra vero e se ne va col denaro. Ma l’avidità e i soldi facili giocano brutti scherzi. Il giorno dopo il buffone va in un altro fondaco per ripetere la sceneggiata, ma il mercante aveva assistito alla scena e subodora la truffa. Alla richiesta dei duemaggio

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Tavoletta di biccherna raffigurante l’interno dell’omonimo ufficio amministrativo senese, gremito dai funzionari; in alto, la Madonna, fiancheggiata da due santi, offre la sua protezione. 1451-1452. Amsterdam, Rijksmuseum. Nella pagina accanto tavoletta di biccherna attribuita a Benvenuto di Giovanni. 1474 Siena, Archivio di Stato. Nella parte superiore si vede un’allegoria del Buon Governo, raffigurato come un uomo anziano con barba e lunghi capelli bianchi, seduto in trono, nell’ufficio della gabella; ai suoi lati, ai rispettivi tavoli di lavoro, si vedono lo scriba e il camarlingo.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/4 cento fiorini, l’uomo risponde di tornare dopo pranzo quando ci sarebbe stato anche il cassiere. Nell’attesa, Mocceca commenta con Gonella: «Questo mondo è degl’impronti [sfacciati]; io non ci avrò mai nulla» In realtà il mercante non ha nessuna intenzione di pagare anche lui cinquanta fiorini, si reca in «Mercato Vecchio a due suoi amici barattieri [dediti ai mestieri piú umili e per questo disposti a tutto per pochi spiccioli]» e gli dice di andar da lui dopo pranzo. I due hanno ricevuto l’incarico dal commerciante di prendere a pugni e a calci un certo mascalzone nel momento in cui dirà loro di consegnare i denari. Quando Gonella entra nel negozio pensando di riscuotere, trova un’amara sorpresa: «Costoro (...) cominciono a pagare colui di quella moneta che meritava; e dannogliene per sí fatta maniera che tutto il ruppono». Pesto e scornato, il buffone esce dal negozio dicendo: «O pagano i mercatanti a questo modo chi deve avere?». Mocceca gli chiede se ha riscosso ma il buffone risponde: «Mainò: ma io sono sodo [gonfiato di botte] molto bene, in forma che io non gli ho piú a domandare». L’amico gli sconsiglia di continuare sulla strada della truffa, perché i buffoni come loro devono «acquistare con piacevolezza, e non di rubare né di tòrre, se non come l’uomo vuole; Non con falsità [truffe], non con malizia, se non in quanto, con ogni modo che puoi, tu facci che ti sia donato; lascia andare queste falsità che sono da pericolare e te e altrui, e tòrnati dal marchese tuo da Ferrara, e statti pianamente e viviti di limatura [quel che raccatti alla corte de nobili] e non di rubatura». Il buffone ascolta il consiglio dell’amico e tutto contrito ritorna nella città estense. Sacchetti trae una morale da questa storia: si augura che la stessa lezione venga impartita a tutti quelli che chiedono senza averne diritto e provocano le liti, male molto diffuso nella sua epoca. In questo caso lo scrittore dimostra come i commercianti sanno difendersi con metodi spicci senza ricorrere alla giustizia che spesso cade in errore.

La trippa e il berretto

I «mercatanti» devono fare i propri interessi, ma sanno anche serrare i ranghi nel momento del bisogno. La novella XCVIII vede protagonista Benci Sacchetti, il padre di Franco, che con altri mercanti fiorentini si trova a Venezia per affari: «I quali per lunga dimora aveano presa amistà [amicizia] e compagnia insieme, per tale che (...) piú volte mangiavano insieme e spesso recava ciascuno la parte sua; e accozzavano insieme e faceano tanisca [facevano gruppo]». Una mattina tre di essi vanno al mer-

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante la preparazione di un pranzo, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

cato, vedono una bella trippa al banco del macellaio che però è insufficiente per l’intera brigata; stabiliscono di non dire nulla agli altri amici e di mangiarla da soli. Poco dopo anche Benci Sacchetti e altri mercanti vanno dallo stesso macellaio e scoprono che sono stati esclusi dal banchetto. Il padre dello scrittore pensa cosí di escogitare un piano per tirare una burla agli amici. Tornato a casa «va cercando d’uno fodero di cappellina vecchio bianco, e per aventura n’ebbe trovato uno d’una cappellina, il quale avea usato già il padre della donna sua che era grandissima e sucida [si riferisce alla cappellina]; levonne il panno e tolse il fodero e apparecchiò una bisaccia e entro vi mise il detto fodero; e trovò uno aguto [chiodo] di mezzo braccio e feceli dalla punta un poco d’oncino e misse nella bisaccia». Recuperata questa attrezzatura, Benci si trova con gli amici Noddo e Michele Cini e, dopo avergli rivelato che sono stati esclusi anche loro dalla cena, li coinvolge nel piano: Michele deve distrarre la cuoca che sta preparando la trippa alla fiorentina: «Tu anderai un poco inanzi e chiamerai la Benvegnuda che ti rechi la chiave del fondaco, e che tu voglia vedere qualche balla di mercatantia; Noddo e io intreremo dentro, e tu la tieni a bada a quanto puoi; volgi e rivolgi le balle, e digli che ti aiuti; e andremo su alla cucina e lascia fare a noi». Nel Medioevo i mercanti imprimevano il loro segno distintivo sulle balle affinché fosse evidente la proprietà. La Benvegnuda casca nel tranello e intanto Benci con un suo servitore «in mantello [cosí da nascondere gli oggetti preparati e la bisaccia]» e Noddo entrano nella cucina dove sul fuoco «messer Gherardo [Ventraia, nome e cognome scherzoso della trippa], (...) bollia forte e Benci subito recasi in mano le masserizie, che parea volesse travagliare, e cava fuori l’aguto uncinuto [il chiodo a uncino, la rima scherzosa è voluta] e lo fodero della cappellina; e cacciato nella pentola il detto uncino, piglia messer Gherardo con la sua donna monna Muletta [l’intestino della vitella, cotto assieme agli stomaci che A sinistra miniatura raffigurante la grottesca immagine di un uomo seduto su un cumulo di uova, da un’edizione manoscritta dei romanzi arturiani. 1290-1300. New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and Manuscript Library. maggio

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costituiscono la vera e propria trippa]; e traendolo fuori del laveggio [dalla pentola] il mise nella bisaccia e dielo al fante» con l’ordine di tornare a casa e di non dire nulla a nessuno. Benci mette il fodero del berretto al posto del ventre della vitella nella pentola, «pisciovi entro e, coperta com’ella stava, s’uscirono dalla cucina». Benci e Noddo vanno a prendere l’amico nel magazzino dove si trovava ancora con la Benvegnuda e se ne vanno via. Quando la cuoca porta a tavola la presunta trippa, i commensali cercano inutilmente di tagliarla, si chiedono cosa sia e scoprono che in realtà si tratta di un berretto. Con l’aiuto di Benvenuta i mercanti ricostruiscono la vicenda: «I nostri compagni ce l’hanno calata

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[ce l’hanno tirata]» ma capiscono che «ci abbiano fatto la piú sudicia beffa che noi avessimo mai, ma (...) ch’abbiano fatto molto bene; avevamo diviso la compagnia per uno ventre». Fanno recapitare agli altri amici la berretta, dicendo che gli regalano la trippa alla fiorentina e il Benci gli manda a dire: «Di’ che gran merzè [molti ringraziamenti]; ma che ’l tavernaio l’ingannò, ché cotesto è di pecora [è di lana riferendosi al fodero] e non è di vitella». Ricevuta l’ambasciata, gli amici ammettono: «Ed egli ben ci ha trattato come pecore». La vicenda finisce con una grassa risata da parte di tutti e Sacchetti commenta amaramente che per uno scherzo del genere «oggi se ne ucciderebbono gli uomini». maggio

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Miniatura raffigurante muli carichi di mercanzie, particolare dell’Apparizione della Madonna a Papa Callisto III, tempera su tavola di Sano di Pietro. 1456. Siena, Pinacoteca Nazionale.

Il gruppo dei mercanti si ricompatta proprio grazie allo spirito critico degli ingordi pentiti. Da queste novelle possiamo trarre alcune considerazioni e metterle a confronto con le novelle decameroniane dedicate ai mercanti. Avremo cosí un’idea piú precisa delle similitudini e delle differenze evidenziate dai due autori riguardo a questa classe sociale. Nel Decameron (II,5), l’inesperto Andreuccio da Perugia aguzza l’ingegno dopo essere stato vittima di una frode e, sollecitato dalla necessità, tira fuori il suo spirito d’iniziativa. Non troviamo alcuna condanna morale quando profana la tomba del vescovo, anzi Boccaccio mostra simpatia per l’intraprendenza mercantile di

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Andreuccio. Nella novella lo scrittore fa intendere che il rubino rubato al cadavere del sacerdote dal giovane mercante compensa il denaro perso nella truffa e gli porterà fortuna perché nella cultura medievale questa pietra è simbolo di felicità.

Il piú avaro di tutti

Tuttavia, Boccaccio non si mostra sempre cosí benevolo verso i commercianti. Quando alcuni di essi cercano di migliorare il loro status sociale attraverso il matrimonio con una moglie nobile, possibilmente di una nobiltà decaduta, condanna questa aspirazione. Cosí si comporta il «ricchissimo mercatante» Arriguccio Berlinghieri (VII, 8) «il quale scioccamente, sí come ancora oggi fanno tutto ’l dí i mercatanti, pensò di volere ingentilire per moglie [nobilitarsi sposando una donna dell’aristocrazia]; e prese una giovane gentil donna male a lui convenientesi». Il male peggiore dei mercanti per Boccaccio è la cupidigia che contagia anche i nobili. Il gentiluomo genovese, Erminio Grimaldi (I, 8), «di grandissime possessioni e di denari di gran lunga trapassava la ricchezza d’ogni altro ricchissimo cittadino che allora si sapesse in Italia», supera però anche tutti i commercianti per miseria e avarizia: tiene chiusa la borsa, non spende, «contra il general costume de’ genovesi che usi sono» nel vestire bene, nel mangiare e nel bere. Anche Sacchetti sottolinea come l’avarizia dei mercanti sia un peccato grave, che porta a conseguenze estreme: la pubblica ingiuria, come succede ad Antonio, che non è piú neppure degno di avere un cognome per non offendere i suoi avi. Per gli uomini e le donne del Medioevo l’essere avari impediva la carità che permetteva di acquisire meriti per l’aldilà, riducendo cosí la permanenza in Purgatorio prima di assurgere in Paradiso. Nel Trecentonovelle non troviamo l’astuzia premiata, l’ingegno mercantile che riscatta dalla malasorte come nel Decameron. Per Sacchetti, il comportamento di Bartolo Sonaglini è corretto perché sono i magistrati delle Settine a sbagliare con le «smisurate prestanze», nonostante lo scrittore sostenga la guerra di Firenze contro Milano. Troviamo quindi una corrispondenza fra il pragmatismo del mercante e gli ideali di Franco. L’egoismo degli amici di Benci Sacchetti, che non vogliono dividere il banchetto con i compagni, è superato con la goliardia che sgombera il campo dall’astio e rinsalda l’amicizia fra il gruppo. Secondo Sacchetti, la caratteristica principale dei mercanti è la «discrezione»: hanno la capacità pratica di compiere delle distinzioni per poi comportarsi di conseguenza. La difesa deve essere sempre proporzionata all’offesa e la burla rappresenta uno scudo dall’efficacia disarmante.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Artigiani e prestatori di servizi

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storie farnese

Un grande amore nel segno della fede di Romualdo Luzi

In tempi nei quali i matrimoni erano assai spesso combinati, Angelo Farnese e Lella Orsini diedero vita a un’unione cementata da sincera passione e da un altrettanto forte trasporto religioso. Una vicenda di cui non ci sono giunti echi roboanti, ma che sembra significativamente testimoniata da un affresco conservato in una piccola chiesa di Valentano, nel Viterbese 54

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l tempo del cardinale Rodrigo Borgia – il futuro papa Alessandro VI (1492-1503) – la storia della famiglia Farnese visse un momento difficile e delicato a causa della relazione che legava l’attempato prelato spagnolo alla giovane Giulia Farnese andata in sposa a Orsino Orsini di Bassanello (oggi Vasanello). Per queste nozze, Pier Luigi Farnese il Vecchio aveva concordato con il futuro consuocero Ludovico Orsini di Bassanello, padre di Orsino, una consistente dote da assegnare alla figlia e che, nei patti come poi sottoscritti, sarebbe stata costituita da ben «tremila cinquecento ducati d’oro di camera al valore di 72 lire a ducato». Prima della stipula del conseguente contratto notarile, erano venuti a mancare sia Ludovico Orsini († 1489), sia Pier Luigi il Vecchio († 1487), cosicché i patti nuziali furono sottoscritti, per Orsino, dalla madre-tutrice Adriana de Mila (cugina di Rodrigo Borgia) e, in rappresentanza di Giulia, dal fratello maggiore Angelo, non essendo potuto intervenire Alessandro secondogenito della famiglia Farnese. La stipula dei patti ebbe luogo il 20 maggio 1489 a Roma, nel palazzo della Cancelleria Vecchia (l’attuale Palazzo Sforza Cesarini, allora residenza del cardinale Borgia). Seguí, il giorno successivo, il contratto di matrimonio, mentre le nozze solen-

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maggio

L’Isola Bisentina, nel lago di Bolsena (Capodimonte, Viterbo). Qui, nella chiesa di S. Giovanni Battista, Ranuccio Farnese il Vecchio dispose la realizzazione di un mausoleo destinato ad accogliere le spoglie dei membri della sua casata.

ni furono celebrate il 9 maggio 1490, sempre nello stesso palazzo, nella sala detta «delle Stelle». Giulia aveva appena quindici anni e, da quel momento, divise le sue giornate tra il Castello Orsini di Vasanello e, in compagnia della suocera, la residenza di Monte Giordano, a Roma, dove, il 30 novembre 1492, dette alla luce la figlia Laura. Gli storici sono certi che la bambina fosse figlia di Orsino, ma alcune malevole voci la volevano figlia del cardinale Borgia, il quale, solo dopo questo evento, sessantatreenne, sarebbe diventato l’amante della Farnese.

Sulla bocca di tutti

La vicenda si trasformò presto nello «scandalo» romano per eccellenza, anche perché la tresca non cessò quando il cardinale divenne papa e cosí non fu difficile sentir chiamare la Farnese «Venere Papale», «Sponsa Christi» e via dicendo. A Giulia non fu perdonato nulla, anche se poi la sua relazione con il Borgia fu controversa e durò due anni o poco piú, interrotta da frequenti viaggi fuori Roma, per por-

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storie farnese tarsi nei possessi farnesiani a ovest del lago di Bolsena, ma, soprattutto, dal lungo viaggio fatto a Pesaro per accompagnare Lucrezia Borgia e il marito Giovanni Sforza, che, iniziato il 31 maggio 1494, permise alla comitiva di giungere a destinazione l’8 giugno. Di fatto, il soggiorno pesarese fu piuttosto breve e dovette interrompersi, perché da Capodimonte era giunta, da parte di Alessandro, la notizia che Angelo, il primogenito, sposato a Lella Orsini di Pitigliano, era stato colto da peste ed era gravissimo. La sorella Giulia aveva perciò deciso di raggiungere quanto prima il lago di Bolsena, ma, al suo arrivo a Capodimonte, verso la fine di luglio, trovò che Angelo era già morto. Svolte le solenni esequie a Capodimonte e sepolto Angelo nella primitiva chiesa farnesiana dell’Isola Bisentina, dedicata a san Giovanni Battista, Giulia, accompagnata dalla sorella Girolama – sposata al fiorentino Puccio Pucci – e dalla suocera Adriana de Mila, dovette assecondare le insistenti missive di papa Alessandro Borgia che richiedeva il suo urgente ritorno a Roma. Cosí la comitiva prese la via di Montefiascone la mattina del 29 novembre, scortata da trenta soldati a cavallo, con l’intento di arrivare presto a Viterbo, ove la attendeva il cardinale Alessandro Farnese. Di lí avrebbero proseguito per Roma, ma, percorse poche miglia, si imbatté in un drappello di cavalieri francesi al servizio di Carlo VIII, che catturò le tre donne e tutto il loro seguito e le condusse a Montefiascone. Appresa la notizia della cattura di Giulia e delle sue compagne, Alessandro VI si attivò con tutte le sue co-

noscenze, finché Carlo VIII, davanti a tante pressioni, decise di lasciar libere le prigioniere e il 30 novembre, dietro il pagamento di un riscatto, le donne poterono riprendere la strada verso Roma, dove giunsero nella tarda serata del 1° dicembre. Accompagnate da una scorta d’onore di ben quattrocento cavalieri francesi messi a disposizione da Carlo VIII, entrarono in città al lume delle torce, giungendo infine in Vaticano ove erano attese da Alessandro VI.

Un mausoleo principesco

Quanto fin qui detto costituisce una necessaria premessa storica per comprendere un momento forse meno noto, ma tra i piú difficili della storia farnesiana: la vicenda che, contemporaneamente allo scandalo suscitato dalle avventure di Giulia «la Bella», portò alla successione della dinastia Farnese dopo la morte di Ranuccio il Vecchio (1450), colui che, secondo la storia ebbe per primo l’impulso di progettare un «nobile futuro» per la sua discendenza. A cominciare dalla realizzazione di un degno sepolcro per accogliere i suoi avi e i suoi eredi: fu scelta a tale scopo la già citata chiesa di S. Giovanni Battista, sull’Isola Bisentina, nella quale fu disposta la costruzione di un mausoleo principesco, la cui fattura viene attribuita allo scultore Isaia da Pisa. Fu ancora Ranuccio il Vecchio a scegliere per primo il simbolo araldico della casata, individuandolo nel giglio. Nel suo scudo apparve, all’inizio, un solo giglio; poi, come si vede per esempio dipinto nel soffitto ligneo della Rocca di Valentano, i gigli divennero dap-

Una veduta di Valentano (Viterbo), dominata dalla mole della Rocca Farnese, teatro di molti degli eventi narrati nell’articolo. Nella pagina accanto cartina del lago di Bolsena e del territorio circostante, nel quale sono compresi numerosi luoghi un tempo appartenenti alla famiglia Farnese.

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maggio

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maggio

Sugano

San Lorenzo Nuovo

Onano

Castel Giorgio

Poggio Landro

Poggio del Torrone

584 m

691 m

Grotte di Castro

Bolsena

Gradoli Latera

Poggio Monterado

Poggio Montione

691 m

611 m

Lago di Bolsena

Sant’Antonio

Isola Bisentina Valentano Isola Martana

Capodimonte Marta

Poggio di Cellere

Zepponami

Piansano arta

565 m

Montefiascone

F. M

prima tre, disposti quasi a formare un triangolo rovesciato, per essere poi elevati a ben sei, disposti dall’alto in basso in ordine decrescente. Sopra lo scudo, in quello che si ritiene il piú antico e composito stemma farnesiano esistente, nella Rocca di Farnese (vedi foto a p. 61, in basso), sul lato affacciato verso il viadotto ducale, si rinviene già un’ulteriore aggiunta: lo scudo appare sormontato da un elmo (in questo caso la lettura non è semplice), completato da un unicorno, l’animale mitico che da allora è presente in molti elementi araldici sparsi nelle terre farnesiane, con fasce svolazzanti attorno al collo. Nel mito l’unicorno rappresentava forza e purezza. Forse proprio a Farnese è documentato il debutto di questa variante, poiché la lastra di travertino presenta questo particolare che, per la non perfetta scultura della testa dell’unicorno, potrebbe appunto provare il primo inserimento del nuovo elemento nella rappresentazione dell’emblema familiare. Se cosí fosse, lo scudo dei Farnese anticiperebbe alla fine del Trecento o ai primi del secolo seguente l’introduzione della variante. Alla metà del Quattrocento, a seguito dell’acquisizione di nuovi possedimenti, lo scudo era invece interamente ornato di gigli, tanto che, secondo le regole araldiche, è definito con «gigli seminati», sormontati dalla figura dell’unicorno con fasce svolazzanti poste attorno al collo, esattamente come nei due pannelli laterali del sepolcro-monumento commissionato da Ranuccio Farnese nel 1449 a Isaia da Pisa nell’Isola Bisentina, ai lati del pannello centrale che reca

la seguente iscrizione: «HOC SEPVCRUM FIERI FECIT MAGNIFICVS D[OMI]N[V]S RANUTIVS DE FARNESIO P[RO] SE ET ALIORVM DE DOMO SVA A.D. MCCCCXLVIIII ET DIE XX MAII COMPLETVM FVIT». Da allora, tutti gli emblemi collocati a ornamento dei monumenti farnesiani dell’area del lago di Bolsena hanno utilizzato quel modello, che infatti ritroviamo

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storie farnese nella torre ottagonale della Rocca di Valentano, all’interno del cortile della Rocca di Farnese, sopra la struttura dell’ingresso monumentale della Rocca di Ischia di Castro, sulla torre dell’orologio di Capodimonte, sulla torre della Rocca di Marta.

Le ultime volontà del capostipite

Prima di morire, Ranuccio Farnese aveva in parte rinunciato al diritto di maggiorasco (in latino majoratus), cioè al dettato legale che consentiva al primogenito di ereditare tutto il patrimonio familiare. In sostanza l’eredità andava di norma al figlio maschio piú grande per età, mentre tutti gli altri ne restavano esclusi, compresa la parte femminile. In questo caso, il capofamiglia, all’indomani del completamento del citato mausoleo, con testamento dettato al notaio Angelo fu Nicola di Montepulciano nella Rocca di Ischia il 2 luglio 1450, con il duplice intento di mantenere comunque il territorio soggetto alla signoria della famiglia e per non diseredare il fratello Bartolomeo, aveva lasciato allo stesso la signoria delle cittadine di Latera e Farnese da cui era nato il ramo cadetto. Da questo momento, quindi, si ebbe un ramo minore della famiglia con Bartolomeo capostipite. Da Pier Luigi il Seniore (1435?-1478), del ramo principale, sposato con Giovannella Caetani, dei duchi di Sermoneta, erano nati a Canino i figli Angelo (1465), Gerolama (Ieronima, tra gli anni 14661467), Alessandro (1468), Giulia (detta «la Bella), nata quasi certamente a Capodimonte nel 1475. Nel 1488 Angelo sposò Lella, figlia di Niccolò III Orsini, conte di Pitigliano e, in quanto primogenito, intraprese la carriera delle armi, mentre Alessandro, il secondogenito, scelse la via ecclesiastica, divenendo presto cardinale, vescovo di varie città, tra cui Parma – ove, nella notte di Natale del 1515, celebrò la prima messa – e quindi, come presbitero, venne eletto papa nel 1534. Gerolama sposò dapprima il giureconsulto fiorentino Puccio Pucci, che morí di peste il 31 agosto 1494. Passata a nuove nozze il 15 febbraio 1495, con il conte Giuliano Anguillara Girolama si stabilí nel castello di Stabia. Ma anche questa unione si trasformò in tragedia perché Giovan Batti-

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sta Anguillara, figlio di primo letto del conte, in odio della nuova moglie del padre, la fece uccidere la sera del 1° novembre1505. I colpevoli furono arrestati e la Farnese fu sepolta nel Castello Orsini di Bassanello (oggi Vignanello), residenza di Giulia. Di Giulia la Bella si è già ampiamente detto, ma qui possiamo aggiungere che, rimasta vedova per la disgrazia accaduta a Orsino – morto sotto il crollo del soffitto della sua camera nel Castello di Vasanello (31 luglio 1503) –, divenne poi signora di Carbognano e sposò il nobile napoletano Giovanni Capece Bozzato (o Bozzuto) nel 1506. Fece restaurare e ornare con vari affreschi lo stesso Castello e fece costruire la chiesa di S. Maria (ma non riuscí a farla completare). Giulia morí a Roma nel 1524, senza purtroppo poter assistere all’elezione del fratello prediletto Alessandro, che fu eletto papa il 13 ottobre 1534. I primi anni della dinastia Farnese appaiono dunque abbastanza movimentati, ma la situazione andò progressivamente assestandosi, in quanto ognuno ricopriva il proprio ruolo. Angelo, primogenito in quel momento, piú grande di Alessandro (pur avendo intrapreso la via delle armi), era sostanzialmente sempre presente nel territorio avito, risiedendo a Canino, Capodimonte, Valentano, Ischia di Castro, Marta, Farnese (con soggiorni piú o meno lunghi sulle residenze presenti nelle Isole Bisentina e Martana).

Disavventura in famiglia

Nel frattempo, Viterbo aveva concesso la cittadinanza onoraria della città allo stesso Ranuccio (1434), il quale, nel 1431, aveva fatto edificare un monumentale palazzo signorile affacciato lungo la via San Lorenzo e posto all’inizio del Ponte del Duomo. Anche sull’architrave del portale di questo edificio (che nel tempo diverrà parte dell’Ospedale Grande degli Infermi di Viterbo) fu inserito lo stemma di famiglia con giglio e unicorno, ora parzialmente distrutto rispetto a come venne disegnato da Andrea Scriattoli, mentre sono tuttora ottimamente conservati gli stemmi scolpiti sopra le bifore poste sulla facciata del lato verso la valle, con una serie di gigli da uno a sei, e seminati. maggio

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Ritratto del cardinale Alessandro Farnese, olio su tavola di Raffaello. Post 1509-ante 1511. Napoli, Museo di Capodimonte. Nella pagina accanto l’arme dei Farnese nella versione con sedici gigli, sormontato da un elmo a sua volta completato dall’unicorno. 1545-1547. Caprarola, Palazzo Farnese.

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storie farnese Ranuccio signore di Ischia, viene investito da Urbano V, con il fratello Pepo, del feudo di Valentano (1368); sp. Pantasilea Salimbeni dei signori di Siena; sp. Giachelina dei Baschi dei signori di Orvieto

I FARNESE, UNA DINASTIA ILLUSTRE

Francesco (†1395)

Imperia (?)

Puccio (†1395)

Angelo (†1395) sp. Angela Orsini di Pitigliano

Lodovico e Giorgio Signori di Canino

Caterina

Eugenia sp. Stefanello Colonna di Palestrina

Pantasilea

Agnese sp. Paolo Savelli

Violante

Ranuccio (1390?-1450) generale dell’esercito pontificio sotto Eugenio IV; senatore di Roma nel 1419 sp. Agnese Monaldeschi della Cervara

Pier Luigi (1435?-1478?) sp. Giovannella Caetani (n. 1446?) dei duchi di Sermoneta

Giulia (†1511) (terziaria francescana)

Pietro Bartolomeo (1350-1415) condottiero cap. generale di Siena sp. Pantasilea Dolci dei conti di Corbara Montemarte

Francesca sp. Gentile Monaldeschi

Nicola

Giovanni Montanina Pierfrancesco Alessandro Caterina Vittoria

Angelo (1465-1494) sposa nel 1488 Lella Orsini di Pitigliano

Gabriello Francesca (†1496) sp. Guido Sforza di Santa Fiora Cecilia

Alessandro (papa Paolo III) (1468-1549) relaz. con Silvia Ruffini

Isabella sp. Galeazzo Farnese duca di Latera

Giulia (1475-1524) sp. Orsino Orsini (1473-1500) Laura (1492-1529?) sp. Niccolò della Rovere (†1531)

Giulio (1512-1577) sp. Aurelia Orsini di Nerola

Aurelia Zenobia Giulia Marzia Federico

Pier Luigi (1503-1547) duca di Castro e Ronciglione duca di Parma e Piacenza sp. Gerolama Orsini di Pitigliano (1503-1569)

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Gerolama (†1504) sp. Puccio Pucci (†1494) sp. Giuliano Anguillara

Agnese sp. Andrea Piccolomini

Paolo (1504-1505)

Costanza (1500-1545) sp. Bosio Sforza di Santa Fiora

Ranuccio (1509-1529)

card. Guido Ascanio (1518-1564)

Sforza (1520-1575)

Francesca sp. Girol.Orsini (1520-1540)

Mario (†1593)

card. Alessandro (1534-1581)

Giacomo (†1564)

Elena (1514-1577) sp. Stefano IV Colonna

Stefano V (†1567) sp. Virginia Savelli

Faustina sp. Muzio Sforza di Caravaggio

maggio

Giulia sp. Sforza Pallavicini

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Nicola e Pier Bertoldo. Investiti dal feudo di Latera nel 1408

Giovanni, Pepo e Sciarra, Signori d’Ischia Leonardo Antonio Ludovico Francesco Magnantino

Puccio

Gabriele Francesco Lucrezia (†1475), generale della (1430-1487) repubblica di Siena sp. sp. Isabella Orsini di Francesco Pitigliano Anguillara

Ranuccio sp. Ippolita Pallavicino?

Giovanni

Dolce Battistina sp. Pier Bertoldo Farnese di Latera

Pietro Paolo protonotario apost.

Federico (1480?-1511) sp. nel 1507 Ippolita Sforza di Santa Fiora

In alto Valentano, torre ottagonale del Castello Farnese. Stemma con elmo piumato e unicorno con fasce decorative. Unico esemplare scolpito in marmo; se ne conosce uno a Farnese in tufo, mentre gli altri sono in travertino.

Camilla

Lavinia (1521-1601) sp. Paolo Orsini di Mentana

Francesco II sp. Cornelia Baglioni

Giulio Cesare sp. Artemisia Orsini di Pitigliano

Giulia (sp. Muzio Tuttavilla) Caterina (monaca) Cecilia

Giacomo, abate

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Francesco III sp. Ersilia Sforza di Santa Fiora

Come accennato, da adolescente Alessandro ebbe anche una disavventura in famiglia, in quanto, per il suo carattere ribelle, sarebbe venuto in lite con la madre, Giovannella Caetani di Sermoneta: avendogli quest’ultima rifiutato l’ennesima richiesta di danaro, il figlio accusò la madre di adulterio, mentre altri dicono che la fece rinchiudere sull’Isola Bisentina. Questo comportamento sarebbe costato ad Alessandro qualche giorno di prigione in Castel Sant’Angelo, per decisione di papa Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo, salito al soglio pontificio nel 1484, n.d.r.). Si tratta, tuttavia, di una vicenda ancora da chiarire, perché le versioni pervenuteci divergono sensibilmente l’una dall’altra. In ogni caso, i Farnese, che non avevano affatto gradito l’umiliazione a cui il papa aveva sottoposto Alessandro, fecero sí che il giovane potesse lasciare le carceri pontificie dopo qualche giorno e raggiungesse la corte di Lorenzo de’ Medici a Firenze, presso la quale rimase per diverso tempo. Nella città frequentò la scuola di importanti maestri che erano chiamati in quella nobile famiglia, come Pico della Mirandola, Pomponio Leto e altri umanisti del tempo. All’Università di Pisa conobbe il Ficino, il Poliziano, e, fra gli altri, il politico e umanista inglese Tommaso Moro.

Amore a prima vista

Nel frattempo, vivendo nelle terre del Castrense, Angelo aveva assidui rapporti con i vicini Orsini della contea di Pitigliano, con i quali aveva stretto legami di amicizia e frequentazione. Occasioni di incontri erano le frequenti feste tra le famiglie e, soprattutto, le battute di caccia, che si tenevano specialmente nella Selva del Lamone, territorio sotto la giurisdizione del ramo cadetto della famiglia, ma confinante con le terre degli Orsini. La storia ci dice che, in questi frangenti, Angelo Farnese, figlio di Pier Luigi il Seniore, e Lella Orsini, figlia del conte Niccolò Orsini di Pitigliano, ebbero la ventura di incontrarsi e di innamorarsi. Farnese, Rocca, lato prospiciente il viadotto ducale. Probabile primo stemma Farnese con unicorno e scudo con gigli «seminati». Prima metà del XV sec.

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storie farnese Viterbo. Il palazzo fatto costruire nel 1431 da Ranuccio Farnese lungo la via San Lorenzo, all’inizio del Ponte del Duomo. Nella pagina accanto Giovane donna con Unicorno,olio su tavola, di Luca Longhi. 1535-40. Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo. L’opera viene tradizionalmente identificata come ritratto di Giulia Farnese, detta «la Bella».

In un periodo in cui i matrimoni venivano concordati fra gli appartenenti alle famiglie nobili, questa vicenda ha, invece, tutt’altro sapore. Fu una vera e propria storia d’amore, sbocciata tra i due giovani che s’erano conosciuti ad amati. Il matrimonio venne fissato e, per l’occasione, i Farnese disposero la ristrutturazione della avita Rocca di Valentano, tanto che fu parzialmente demolita un’area della struttura abitativa perché si potesse creare un bel cortile con colonnato inferiore e loggia superiore. I vari ambienti furono abbelliti con fascioni dipinti sui quali apparivano, entro clipei, ritratti di vari personaggi delle famiglie interessate, di cui oggi restano poche ma significative testimonianze. Fra le maestranze impegnate nell’esecuzione di questi lavori si possono citare i maestri muratori Giorgio e Giovannetto Franchini, mastro Gerolamo, muratore lombardo, mentre ai capitelli del colonnato inferiore, tutti dissimili tra di loro, lavorò tale magistro Laurentio Florentinus scarpellinus. Nei capitelli sono raffigurate allegorie benauguranti prosperità e benessere, come la fioritura dei gigli farnesiani, che si trasformano in palme, spighe di grano, boccioli di fiori, elementi araldici – come scudi incrociati e appesi –, mentre il capitello posto sulla destra del portale d’ingresso, anch’esso decorato da una corona costituita da elementi vegetali con stemma centrale, presenta tutti e quattro i lati scolpiti, con volti in rilievo e i rispettivi stemmi (i tradizionali sei gigli per i Farnese e la rosa degli Orsini) e con bande sottostanti. Il matrimonio fu celebrato nella chiesa collegiata

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di Valentano (jus patronato di casa Farnese) nel 1488. Fra le promesse di matrimonio, i nubendi siglarono un patto singolare: gli sposi si promisero, vicendevolmente, che chi dei due fosse rimasto vedovo o vedova, avrebbe preso i voti: lo sposo vestendo l’abito di san Francesco, con l’impegno a entrare in convento, e la sposa indossando l’abito di suora clarissa e chiudendosi in un monastero dello stesso Ordine.

Un altare per i viaggi

La coppia era religiosissima, tanto che chiese espressamente al pontefice di essere autorizzata a detenere un altare portatile, affinché ovunque si fosse trovata potesse ascoltare la santa messa. Papa Innocenzo VIII accolse la singolare richiesta e con proprio decreto sottoscritto nel 1491 concesse il beneficio alla coppia Farnese-Orsini, riconoscendone la grande devozione. Lo stesso Angelo, per essersi salvato dopo essere malamente caduto da cavallo, donò alla Madonna della Quercia una «Pace d’argento con incisa l’arme dei Farnese» (trattasi di un ex voto), «ab salute servata». Molti si sono interrogati su quali potessero essere i rapporti tra la religiosissima Lella, moglie di Angelo, e la cognata Giulia e che cosa fosse realmente accaduto nel corso della cena organizzata in occasione delle nozze di Lucrezia Borgia con Giovanni Sforza: nella circostanza, si sarebbe svolta una festa, chiacchierata per via dei confetti gettati o caduti nelle ampie scollature delle dame presenti, narrata dal cronista romano Stefano Infessura (1436-ante 1500), «dal quale si è derivato il pepato racconto [che] non ha una voce molto atmaggio

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storie farnese Nei primi anni della loro unione avevano avuto la soddisfazione della nascita di due figli: una femmina, Francesca, e un maschio, Gabriello, che però era morto nel 1496, a soli due anni appena dalla perdita del padre. Vigeva allora, per i Farnese, il già ricordato maggiorasco, norma che riservava al primogenito erede vivente il diritto di «ereditare tutto il patrimonio familiare, unitamente ai titoli nobiliari acquisiti». Se Gabriello non fosse morto, il problema non sarebbe insorto, ma ormai la scomparsa di questo unico figlio maschio aveva, per cosí dire, rimescolato le carte.

Alessandro, cardinale impenitente

tendibile nella storia». Cosí ha scritto in proposito una delle studiose piú serie della nostra letteratura, Maria Bellonci (1902-1986), che nella biografia su Lucrezia Borgia in proposito afferma: «Da aggiungere che tra le dame invitate, Lella Orsini Farnese era nota come un modello di amor coniugale, tanto di aver stabilito con il marito (e sembra una storia da ballata romantica), che, quale dei due fosse sopravvissuto all’altro, avrebbe dovuto chiudersi in un monastero, morire al mondo; e toccò a lei, giovane ancora, appena l’anno dopo le nozze di Lucrezia. ». Il matrimonio di Angelo e Lella non fu fortunato.

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C’è da aggiungere che, nel frattempo, nel 1493, il secondogenito della famiglia, Alessandro, era stato nominato cardinale diacono, con tutti i vincoli legati a tale carica. Il neocardinale Farnese, quindi, secondo quanto prescritto dalle antiche norme del diritto ecclesiastico – poi confermate nelle decisioni adottate nel successivo Concilio di Trento –, doveva essere cattolico, maschio, non poteva contrarre vincoli matrimoniali, ed era tenuto ad attenersi al voto di castità per tutta la vita. Prescrizioni e obblighi, che, visti i comportamenti poi assunti da Alessandro, lasciano perplessi circa la valenza della carica acquisita. Ma si direbbe che a lui tutto fosse permesso. Quale ultimo Farnese rimasto, era sicuramente tenuto ad adempiere, per conto della famiglia, agli impegni assunti prima del matrimonio dal fratello e a regolarizzare con il conte Nicola Orsini di Pitigliano la sistemazione formale della dote di Lella Orsini, compreso l’obbligo di provvedere alla restituzione dei 600 ducati consegnati ai Farnese come prima quota della dote della sposa («pro parte dotium domine lelle uxoris olim bone memorie domini Angelis»). Un obbligo che Alessandro regolarizzò con atto notarile stipulato nel Castello di Valentano. Risolte le questioni contabili tra le due casate, Lella rientrò a Pitigliano presso la famiglia d’origine, insieme alla figlia Francesca Farnese. Quest’ultima, della quale si conosce un ritratto, non aveva la facoltà di essere capostipite della dinastia Farnese a causa del succitato maggiorasco, e cosí, tornata a Pitigliano dai nonni, finí per sposare Guido Sforza di Santa Fiora, figlio di Bosio I Sforza. La coppia ebbe un solo figlio maschio, Federico, e figlie femmine. Dal canto suo, fedele alla promessa che si era scambiata con il marito al momento del matrimonio, Lella Orsini, chiese e ottenne l’autorizzazione alla vestizione di suora clarissa di clausura e fu ammessa nel monastero delle Murate di Firenze, assumendo il nome di Suor Helena. Il diritto di capostipite della dinastia fu quindi assunto dall’ormai cardinale Alessandro Farnese, il quale, dalla sua stabile relazione con Silvia Ruffini – vedova di Giovanni Battista Crispo e già madre di Tiberio maggio

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Uno scorcio del cortile della Rocca Farnese di Valentano che fu ingentilito dall’aggiunta di un porticato e di un loggiato in occasione delle nozze di Angelo Farnese e Lella Orsini. Nella pagina accanto la facciata della chiesa collegiata di Valentano, nella quale fu celebrato il matrimonio tra Angelo Farnese e Lella Orsini.

Crispo –, ebbe quattro figli naturali: Costanza (1500 ca), Pier Luigi (1503), Paolo (1504) e Ranuccio (1509), che assicurarono la continuità della stirpe farnesiana, anche perché papa Giulio II gli legittimò i primi due figli maschi (1505); una legittimazione che papa Leone X estese poi anche al terzogenito, Ranuccio (1518). Con ciò si garantivano ad Alessandro Farnese la facoltà di tramandare i propri beni ai figli naturali e la possibilità dell’investitura dei feudi stessi, nonché la successione delle proprietà di famiglia anche in caso di morte di fratelli e nipoti. Nel frattempo, dall’unione tra Pier Luigi (1519) e Gerolama Orsini, figlia di Ludovico Orsini della contea di Pitigliano, nel Castello di Valentano, nacquero i figli: Vittoria (1519), duchessa d’Urbino, Alessandro (1520), futuro «gran» cardinale, Ottavio (1524) sposo di Margherita d’Austria, Ranuccio (1530) cardinale anch’egli e, infine Orazio (1532), sposo di Diana di Francia. S’era andata cosí ricostituendo la garanzia della continuità della stessa dinastia, nonostante i figli Paolo e Ranuccio fossero mancati in giovane età. La rassegna della discendenza dei Farnese potrebbe dirsi conclusa se non avessimo da aggiungere un altro

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particolare della storia intercorsa tra Angelo e Lella, sposi a Valentano, pieni di entusiasmo e di religiosità. Al tempo del loro matrimonio esisteva a Valentano la Confraternita dei Disciplinati (detti anche Flagellanti o Battenti) e sicuramente gli sposi avevano richiesto e ottenuto di entrare a farne parte.

L’adesione alla Confraternita

All’epoca della fondazione della Confraternita, quindi al tempo del matrimonio di Angelo e Lella, prima del 1488, è attestata, come detto in precedenza, l’esistenza di un piú antico e modesto sacello, costituito da un piccolo luogo di culto nel quale era probabilmente dipinta una Madonna. Solo piú tardi, verosimilmente nei primi anni del XVI secolo, gli stessi sposi, avrebbero fatto realizzare una chiesuola, sia per ampliare gli spazi esistenti, sia per preservare l’antica struttura. Sulla parete ristrutturata gli sposi fecero eseguire da un ignoto pittore un pregevole affresco (di 130 x 170 cm circa), tuttora abbastanza ben conservato, anche perché, in tempi successivi, attorno alla chiesetta, forse nel XVII secolo, venne edificata la chiesa di S. Croce, che da allora ha funzionato come una sorta di «teca».

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storie farnese La Confraternita dei Disciplinati

300 uomini coperti di sacchi... Fra le prove dell’esistenza della Confraternita dei Disciplinati (o dei Battenti) della quale avrebbero fatto parte anche Angelo Farnese e Lella Orsini, vi è il testamento di tal Apollonio Trippa, rogato a Valentano il 19 novembre 1575, nell’abitazione dello stesso, posta nella contrada della Piazzetta. Il benefattore dispose un lascito alla società chiamata di Santae Mariae Verberentium, cioè quella dei Battenti. Inoltre, nella cronaca lasciataci da Benedetto Zucchi, nel 1630, si descrive come «Il Venerdi Santo per solito antico costume, si fa una processione, e si gira il Monte, visitando una Chiesa alle sue pedate, chiamata la “Madonna Salute” (...) ed in un’altra Chiesa pure alle pendici di detto monte verso ponente, chiamata Madonna dell’Eschio (...) ed in detta processione già nominata vi stanno 300 uomini, quali si battono tutti coperti di sacchi di compagnie a piedi nudi senza camicia, con disciplina di ferro e di altre spine pungenti, che tutti spisciano sangue (...) e la quaresima del presente anno andarono alla Madonna di Valentano e della Quercia di Viterbo». Negli ultimi anni (i lavori hanno avuto inizio nel 2021) la competente Soprintendenza sta provvedendo al consolidamento e al restauro del sito, che dovrebbe garantire la salvaguardia dell’intera chiesa, il rifacimento della copertura a tetto, nonché il risanamento dell’antico affresco e delle altre decorazioni posteriori. La chiesa attuale misura 14,12 x 6,85 m ed è coperta da un tetto a doppio spiovente che raggiunge il culmine a 13 m circa. Sulla sinistra, nella parte anteriore, è collocato un campaniletto a vela con la sua antica campana. In occasione del suo innalzamento furono probabilmente aggiunte altre decorazioni, costituite da un grande angelo che sembra voler sorreggere l’affresco originale, con l’aggiunta di finte trabeazioni e colonne, probabilmente eseguite a tempera, che si sviluppano su di un’ampia superficie (20 mq circa). L’affresco, posto al centro della parete, in alto, rappresenta la Vergine in trono che sorregge con un

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braccio il Bambino e nell’altra mano porta una mela granata (segno augurale di prosperità e abbondanza), mentre il Bambino con la destra tiene tre ciliegie (il frutto del paradiso e dei beati) e con l’altra sorregge un uccellino (probabilmente un cardellino), secondo un modello iconografico molto diffuso. Due angeli oranti stanno ai lati della Vergine, mentre ai suoi piedi sono inginocchiati due membri della Confraternita, con la tunica bianca, in atto di flagellarsi.

Un’ipotesi suggestiva

Considerata la religiosità, piú volte fin qui sottolineata, dei committenti dell’opera, non ci sembra affatto azzardato avanzare l’ipotesi che i due personaggi, rappresentanti la componente maschile e femminile dei soci della Confraternita, siano proprio Angelo Farnese, alla destra della Vergine, e Lella Orsini. Un’ipotesi corroborata dal fatto che una committenza cosí costosa avrebbe potuto essere assunta solo dai nostri due sposi, in quanto gli altri confratelli, probabilmente, non avevano sufficienti disponibilità economiche. D’altronde, recenti restauri eseguiti


Veduta d’insieme dell’affresco in cui i flagellanti ritratti ai piedi della Vergine potrebbero essere identificati con Angelo Farnese e Lella Orsini. XV sec. Valentano, S. Croce. In basso, a destra il possibile ritratto di Lella Orsini affrescato nel palazzo di famiglia di Pitigliano. In basso, sulle due pagine capitello con elementi augurali della fioritura del giglio farnesiano e di boccioli nel cortille della Rocca Farnese di Valentano.

nel Palazzo Orsini di Pitigliano hanno messo in evidenza come alcuni affreschi siano stati ordinati da Elena Conti di Montelanico, moglie di Niccolò III, ed eseguiti nel periodo di servizio dell’Orsini al seguito di Lorenzo il Magnifico come Capitano Generale delle Milizie di Firenze tra il 1483 e il 1489. Per questo, fra i decori dipinti, figurano sia lo stemma mediceo, sia il giglio fiorentino. Nel commentare questi lavori, lo storico Angelo Biondi lega la concomitante presenza dello stemma dei Farnese con quello caniforte di Niccolò III, che sembra rimandare alle nozze della figlia Lella Orsini con Angelo Farnese del 1488. Il fascione ornamentale presente nella sala in cui appare il ritratto di Lella è sormontato dallo stemma Farnese. Tali lavori vengono posti in relazione a quelli coevi eseguiti a Valentano per la realizzazione del cortile-porticato, nel quale appaiono le figurazioni scolpite sui capitelli che alludono allo stesso matrimonio e che, quindi, potrebbero essere ascritti alle medesime maestranze operanti a Pitigliano. Pur non avendo ritrovato alcun documento relativo alla committenza di un affresco di cosí alto livello, non ci pare fuori luogo proporre un raffronto tra i due ritratti di Lella (quello delle sale di Pitigliano e quello di Valentano), nei quali sembra possibile intravedere una sicura rassomiglianza. Resta da dire che nel Palazzo Orsini di Pitigliano si conserva un ritratto ad affresco di Elena Conti,

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eseguito intorno al 1467, al tempo cioè del matrimonio con Niccolò III, che si ritiene essere frutto della committenza affidata a un ignoto pittore senese. Considerato questo dato, si può ipotizzare che forse furono opera dello stesso artista i ritratti successivamente eseguiti e, perché no, che a lui si debba anche l’affresco principale dipinto nella chiesa di S. Croce a Valentano. Sul lato sinistro, a fianco del ritratto pitiglianese di Lella si ritrova, secondo chi scrive, un altro ritratto di Elena Conti, che ha le stesse caratteristiche del primo dipinto, recentemente pubblicato nel volume I Volti di Niccolò III e i conti Orsini di Pitigliano, a cura di Barbara Adamanti e Marco Monari, nel contributo curato da Fabio Torchio, Niccolò III conte di Pitigliano tra memoria dell’antico e culto dell’immagine.

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l’uomo della sindone

Quella sacra

di Michele Salcito

coincidenza

Il confronto tra le narrazioni della sepoltura di Gesú Cristo tramandate dai Vangeli e le tracce dell’Uomo della Sindone, osservabili sul sacro lenzuolo, offre indicazioni puntuali sul trattamento riservato al corpo del Salvatore dopo la deposizione dalla Croce, che appare pienamente in linea con le norme della tradizione ebraica In alto, sulle due pagine Ostensione con Madonna e angeli, olio su tavola. Torino, Museo della Sindone.

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LE FASI DELLA SEPOLTURA EBRAICA 1

1. Prima fase A poche ore dalla morte, si procede alla pulizia e alla vestizione della salma 2

2. S econda fase Copertura del defunto fino al collo. 3. Terza fase Un sottile sudario viene posto sul volto.

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125 anni dalle prime fotografie (scattate il 25 maggio del 1898 dal fotografo dilettante Secondo Pia) e nonostante le numerose perizie di medici, chimici, biologi, fisici e altri specialisti di oltre cinquanta discipline, la Sindone custodisce ancora oggi alcuni misteri. L’enigma principale è certamente quello relativo alla formazione dell’immagine corporea, ma ci sono anche altri quesiti non del tutto risolti, ai quali sono state date differenti spiegazioni. Ciò è dovuto anche al fatto che dal 1988 – anno del prelievo di alcuni campioni del tessuto per l’esame del C14 – a parte scansioni, fotografie ad alta risoluzione, il lavoro di restauro del 2002 e le ricerche sui polimorfismi del DNA sulle tracce ematiche, ufficialmente non sono piú state effettuate direttamente sulla veneranda tela analisi strumentali o prelievi a scopo scientifico. Uno dei misteri non del tutto svelati è quello del corredo funerario dell’Uomo della Sindone. Poiché vi è una straordinaria coincidenza fra ciò che i Vangeli raccontano a proposito della Passione e della morte di Gesú Cristo e le sofferenze patite dall’Uomo della

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4.Q uarta fase Avvolgimento nel telo funebre, legature e sepoltura definitiva.

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l’uomo della sindone

Sindone, possiamo allora utilizzare quella narrazione anche per quanto riguarda la sepoltura. Tuttavia, analizzando il Nuovo Testamento, si nota una differenza apparentemente insormontabile proprio fra quanto narrano i Vangeli sinottici e il Vangelo secondo Giovanni. Una versione escluderebbe l’altra. Molti di coloro che ritengono la Sindone il lenzuolo che avvolse Gesú nel sepolcro non danno credito alle informazioni offerte dall’evangelista Giovanni, perché non parla di un lenzuolo funebre. Però, se si analizza bene la mo-

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dalità di «parcheggio» momentaneo della salma nella tomba di Giuseppe d’Arimatea, le informazioni del quarto evangelista non vanno in contrasto con quanto riportato negli altri Vangeli, ma offrono una visione trasversale della sepoltura proprio in riferimento alle tradizioni ebraiche antiche. Trattandosi di una frettolosa e provvisoria tumulazione sul far della sera che inaugurava la Pasqua, un prezioso telo di lino venne utilizzato come lenzuolo funebre, in segno di grande devozione verso il venemaggio

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A sinistra, sulle due pagine Il sacro sudario (particolare), olio su tela attribuito a Giulio Clovio. XVI sec. Torino, Galleria Sabauda. A destra Il volto dell’Uomo della Sindone, in un negativo fotografico del 2003. Nel maggio del 1898, l’avvocato torinese Secondo Pia, incaricato di scattare le fotografie ufficiali della Sindone, si accorse per primo che l’immagine aveva le caratteristiche di un negativo. Osservandolo, si distingueva chiaramente l’impronta dell’uomo del sudario.

rabile corpo di Gesú, ma senza rispettare in maniera rigida la prassi ebraica, poiché si trattava di una sepoltura temporanea. Abbiamo buone ragioni per ritenere che gli Ebrei utilizzassero modalità di sepoltura differenti a seconda del rango e del sesso del defunto. Sebbene siano scarse le notizie storiche e archeologiche sulle usanze funebri nella Giudea contemporanea a Gesú, si possono presumere quali fossero, con grande probabilità, le fasi della tipica sepoltura di un uomo.

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Nel XII secolo, l’ebreo Mosè Maimonide raccolse informazioni sulle tradizioni funebri ebraiche in un trattato dedicato alla pratica del lutto. Egli riportava che il defunto veniva avvolto in una tela bianca, ma che veniva anche coperto al volto con un sudario. Queste due operazioni sembrerebbero in contrasto fra loro. Se il corpo era coperto dal lenzuolo che senso avrebbe avuto un ulteriore sudario sul volto già coperto? Ancora meno probabile sarebbe l’ipotesi che il sudario fosse stato posto esternamente sulla Sindone, all’altezza del volto. La logica ci suggerisce di considerare la possibilità che Maimonide abbia raccolto notizie frammentarie e che sarebbe stata una consuetudine funebre coprire il corpo con un lenzuolo bianco partendo dai piedi alla testa e non dalla testa ai piedi. Ecco, allora, una possibile e sintetica ricostruzione delle cure che riceveva il defunto.

La pulitura e la vestizione

Nello stesso giorno della morte veniva spogliato, lavato e gli si accorciavano barba e capelli. Poi veniva deterso con profumi e aromi e vestito del suo indumento piú bello. Rimaneva adagiato in posizione supina sulla metà di un lungo lenzuolo bianco con i piedi orientati verso la porta di casa. Dal medesimo lenzuolo veniva asportata una lunga striscia laterale poi ulteriormente tagliata in piú parti, appunto per creare le bende necessarie per

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l’uomo della sindone SIMULAZIONI E CONFRONTI

In alto servendosi di un manichino, è stata simulata la sistemazione dell’Uomo della Sindone sul piano sepolcrale, poi messa a confronto con il sacro lenzuolo (in basso).

legare i piedi per le caviglie e fare le altre legature del telo attorno al corpo alla chiusura definitiva della tomba. Le mani, invece, non venivano legate fra loro per appoggiare gli arti superiori sull’addome, ma le braccia venivano lasciate cadere ai lati del corpo. Il lenzuolo veniva poi tirato dai piedi fino alla base del collo, lasciando il volto scoperto al quale, se era necessario tenergli serrata la bocca, veniva legata una mentoniera, un grosso fazzoletto che passava sotto il mento e veniva annodato al vertice del capo. Sopra il volto del defunto veniva posto un sudario. Si ritiene che questi sudari avessero uno spessore ben inferiore al lenzuolo funebre, per cui risultavano quasi trasparenti proprio come il Velo conservato a Manoppello, in provincia di Pescara. Considerando le caratteristiche delle povere abitazioni della Palestina di allora, a eccezione delle case dei ricchi (Mc 5,38-40), non vi era lo spazio per creare una momentanea camera mortuaria. Inoltre, gli Ebrei avevano il terrore delle contaminazioni. Quindi, seguendo anche l’interpretazione estensiva del comandamento contenuto nella Torah (Dt 21,22-23) con la quale i rabbini sostenevano necessaria la sepoltura, per

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tutti i defunti, entro la giornata della morte, prima del calare del sole, il morto veniva portato in processione alla tomba scavata nella roccia oppure al luogo dell’inumazione. Infine, ribaltavano i lati esterni del lenzuolo sul corpo e annodavano delle bende all’altezza del collo, del torace, delle ginocchia e dei piedi. Ecco perché, a differenza degli altri evangelisti, Giovanni, seppure non parli di un lenzuolo, sottolinea piú volte la presenza di bende (Gv 19,40). Come ultimo atto, prima della chiusura del sepolcro, versavano sul piano sepolcrale, alle pareti della tomba e sopra la salma racchiusa nel suo telo, una mistura in polvere di aloe e mirra o altre sostanze, a seconda di quello che avevano a disposizione, per la conservazione dei cadaveri. Si veda l’apparente esagerata quantità di aloe e mirra portata da Nicodemo in vista della sepoltura di Gesú (Gv 19,39).

La regione del vertice del capo nella quale non si è impressa l’immagine somatica per la presenza di un copricapo.

Il lenzuolo

Le notizie sulla sepoltura di Gesú ci sono state tramandate dagli evangelisti. Rileggiamo cosa c’è scritto nei Vangeli sinottici. Matteo: «Giuseppe, preso il corpo di Gesú, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò» (Mt 27,59-60). Marco: «Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò giú dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro» (Mc 15,44-46). Luca: «Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto» (Lc 23,53). Si tenga presente che l’uso ebraico di seppellire i morti utilizzando un lenzuolo è anche riportato negli Atti degli Apostoli alla morte improvvisa di un certo Anania: «Si alzarono allora i piú giovani e, avvoltolo in un lenzuolo, lo portarono fuori e lo seppellirono» (At 5,6). Nella sepoltura di Gesú, dopo averlo sommariamente deterso sulla pietra dell’unzione (rammentiamo che ai condannati non si poteva rimuovere il sangue delle ferite), la parte del lenzuolo che doveva coprire la porzione anteriore del corpo non venne ribattuta dai piedi, ma dalla testa, semplicemente perché si trattava di una sistemazione momentanea. Mentre nella miniatura del Clovio l’Uomo della Sindone è coperto ai fianchi per sacro pudore, nella realtà, dopo la sommaria detersione, egli era rimasto senza indumenti e senza alcun sudario sul volto, se non un copricapo, anche perché le altre cure sarebbero state fatte la domenica successiva. Siccome i crocifissi morivano con un’estrema rigidità degli arti, soprattutto delle braccia, che rimanevano aperte verso l’alto, per vincere la forza dei muscoli contratti e piegarle ai lati del corpo, come si sarebbe dovuto fare per rispettare l’usanza ebraica, ci voleva troppo tempo. A quel punto, per immobilizzare le braccia velocemente, stando attenti a non toccare le ferite dei polsi e del torace, i suoi cari amici forzarono gli arti superiori verso l’addome provocando una lussazione della spalla destra. Nemmeno i piedi vennero legati in quanto il sinistro, a causa della rigidità dei muscoli, era già quasi sopra al collo del piede destro, come quando il soggetto era in croce.

Il copricapo

Prima di ricoprirlo con la Sindone dalla testa ai piedi, uno dei suoi seguaci, forse lo stesso Nicodemo, come gesto di sacrale rispetto, gli mise sulla testa un

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l’uomo della sindone IL CORREDO FUNEBRE

copricapo come simbolo di regalità divina. Lo spazio corrispondente al vertice del capo che non ha lasciato impronta sulla Sindone ha una lunghezza proporzionata alla realtà di un ostacolo piatto sulla volta cranica. Qualora, invece, vi fosse stato il nodo di una mentoniera, lo spazio tra la fronte e la nuca sarebbe dovuto essere piú ampio di almeno 4 cm. L’ipotesi di un nodo sotto il mento è da scartare in quanto il capo era completamente flesso contro il torace e quindi non ci sarebbe stato lo spazio necessario per fare una legatura del genere. Ove fu collocato il copricapo, l’impronta del vertice della testa non si è riprodotta.

Teli e sudario In alto, a sinistra esternamente al capo, sotto la tela doveva esservi un sudario arrotolato e collocato a mo’ di cuscino. In alto, a destra simulazione dell’Uomo della Sindone visto dal dorso e coperto dal lenzuolo. A sinistra particolare del Sudario di Oviedo (53 x 84 cm). Si notino le macchie di sangue e di liquidi organici.

Oltre la Sindone, fra le reliquie cristiane legate alla sepoltura di Gesú Cristo è molto conosciuto il Sudario di Oviedo. Si tratta di un telo di lino macchiato di sangue che sarebbe stato utilizzato per coprire il capo durante il trasporto dalla croce alla pietra dell’unzione. Se si considerano le macchie di quel telo, inzuppato di sangue e liquidi organici è assai improbabile che sia stato posto sul volto di Gesú nel sepolcro. Sembrerebbe piú probabile che fosse stato arrotolato e posto sotto la nuca, esternamente alla Sindone che avvolgeva il corpo. A corroborare questa ipotesi c’è il fatto che le macchie di sangue della nuca del crocifisso, provocate dalla corona di spine, oltre che essersi fissate molto bene sulla Sindone si ritrovano, in parte, ovviamente in misura meno marcata, anche su questo sudario, che potrebbe essere proprio quello citato dall’evangelista Giovanni. Ancora un altro telo, forse usato sotto la schiena nel trasporto dalla croce alla pietra dell’unzione, venne lasciato ripiegato al lato destro del corpo. Infatti, sulla Sindone, in corrispondenza della regione posteriore della coscia destra, vi è una porzione priva di impronta somatica.

Le bende

Lungo il bordo superiore della Sindone, in posizione ostensiva, si nota la striscia che venne staccata e ricucita nella stessa posizione. Alle sue estremità era consumata poiché proprio dai bordi la Sindone veniva tenuta dai prelati per mostrarla al popolo durante le ostensioni. Questa foto presenta ancora le toppe asportate nel restauro tessile del 2002.

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L’evangelista Giovanni, parlando della sepoltura, narra che «Essi presero allora il corpo di Gesú, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei» (Gv 19,40). Inoltre, raccontando di come Pietro e un altro discepolo si fossero recati al sepolcro scrive: «Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse piú veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò» (Gv 20,4-5). Perché Giovanni non parla di un lenzuolo funebre, ma di bende? Parla certamente anche di un sudario, ma non si riferisce ad alcun lenzuolo se non a un telo di limitate proporzioni. Premettiamo che questo evangelista non era quel Giovanni apostolo che visse con Gesú durante la missione evangelica, che seguí la crocifissione insieme alle pie donne e partecipò alla sepoltura. Il Vangelo secondo maggio

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Giovanni si chiama appunto «secondo» in quanto venne composto da un redattore della scuola giovannea di Efeso, che aveva utilizzato testi certamente scritti dall’apostolo. Probabilmente le informazioni sulla sepoltura non erano complete, cosí com’è successo con gli altri vangeli e quindi costui, che non era ebreo, raccolse da terze persone il particolare di un sudario sul capo di Gesú durante il trasporto della salma dalla croce verso la tomba e altre informazioni sulle usanze di sepoltura dei Giudei. Egli ne parla anche quando descrive la risurrezione di Lazzaro (Gv 11,44). Non essendogli pervenute notizie sull’esistenza di un lenzuolo (di cui se ne serbava certamente il massimo silenzio per proteggerlo dagli avversari dei cristiani), l’autore era convinto che tali usanze fossero state rispettate per la sepoltura di Gesú. Non si deve trascurare il fatto che questo evangelista scrisse il suo vangelo lontano dalla Palestina, in una regione (che oggi è Turchia) dove s’ignoravano le usanze ebraiche e non c’erano piú testimoni dei fatti veramente accaduti oltre sessant’anni prima. Un’ulteriore prova che la sepoltura di Gesú non avvenne secondo la prassi ebraica, come invece pensava l’evangelista Giovanni, ce la offre proprio la Sindone. Infatti, non si tratta di un unico telo, ma di due pezzi, uno principale – quello sul quale scorgiamo le impron-

Il Volto Santo, olio su tavola di Dirck Bouts. 1450-1460. Bayonne, Musée Bonnat. In basso il corredo funebre dell’Uomo della Sindone.

COPRICAPO

LENZUOLO (SINDONE)

BENDE TELI (FRA CUI IL SUDARIO)

te fisiche e le ferite del crocifisso – e una striscia laterale lunga quattro metri che venne tagliata e ricucita successivamente allo stesso posto. Da quella striscia, larga 8 cm. si sarebbero dovute ricavare delle bende per legare il lenzuolo funebre attorno al corpo nel momento della sepoltura definitiva. Quella lunga benda di lino, invece, non venne utilizzata perché non fu piú ritrovato il corpo nella tomba. Settimane dopo, coloro che potrebbero aver messo in salvo la Sindone avrebbero avuto cura di trattenere anche la striscia da ricongiungere a quel sacro ricordo. Dietro quel gesto premuroso vi doveva essere certamente una sensibilità femminile. Fra il taglio e la ricucitura della striscia alla porzione principale della Sindone non passò molto tempo; lo

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si deduce dal fatto che si produssero poi leggere deformazioni del tessuto che consentirono un aggiustamento perfetto della ricongiunzione dei due pezzi. Le piú antiche pieghe vanno a cavallo fra la tela principale e la striscia laterale, come se le parti non fossero mai state divise e ricongiunte. In conclusione, questa ricostruzione della sepoltura di Gesú rimette in sintonia tutti gli evangelisti, i quali, scrivendo i Vangeli, non si erano prefissati l’obiettivo di redigere una biografia o una relazione giornalistica dei fatti accaduti durante la vita di Gesú e nemmeno un’esatta cronistoria dei suoi ultimi giorni di vita. La Sindone rimarrà sempre un’eccellente icona della Passione e morte di Cristo, dalla cui umanità trascende l’amore piú grande.

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Comunedi Li v or no

ENGLI SH HERI TAGE


di Riccardo Montenegro

Il Paradiso nella formella della Porta omonima realizzata da Lorenzo Ghiberti per l’ingresso orientale del Battistero di S. Giovanni a Firenze. Bronzo dorato, 1425-1452. Firenze, Museo dell’opera del Duomo. L’opera, molto danneggiata dall’esondazione dell’Arno del 1966 è stata restaurata dall’Opificio delle Pietre Dure e sostituita, sul posto, da una replica.

Nel giardino di Dio Luogo di beatitudine e di luce, contrapposte ai tormenti e all’oscurità dell’Inferno, il Paradiso è stato celebrato, esaltato, ma anche a lungo – e inutilmente – ricercato in Terra. Ma come si è formata l’idea del regno dei cieli? E quali riflessioni teologiche e dottrinarie hanno maggiormente influenzato la sua rappresentazione?


Dossier

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l pari di altre storie risalenti a un passato remoto, delle quali il racconto del diluvio universale è l’esempio piú eclatante, il «mito» del Paradiso terrestre non appartiene soltanto alla tradizione cristiana: esso ha avuto origine in Oriente, sviluppandosi in numerose civiltà precristiane, in un’area geografica molto estesa. La sua esistenza deriva dalla convinzione di una ciclicità della storia dell’umanità che vedeva seguire a un’età felice, segnata dall’amorevole vicinanza con la divinità e dal possesso della conoscenza – la favolosa età dell’oro –, un’epoca di estremo tra-

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A destra La punizione dei dannati, particolare del mosaico del Giudizio Universale nella basilica di S. Maria Assunta a Torcello (Venezia). XI-XII sec.

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A destra La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, affresco di Masaccio (al secolo, Tommaso di Ser Giovanni Cassai). 1423-1427. Firenze, chiesa di S. Maria del Carmine, Cappella Brancacci. Alla scena fa da contraltare la rappresentazione del Peccato originale, dipinta da Masolino da Panicale. In basso, sulle due pagine affresco raffigurante uno scorcio dei Campi Elisi popolato da bimbi intenti a giocare e a cogliere rose gigantesche, al cospetto di Ermes (dio dei morti), dall’ipogeo degli Ottavi (Roma). III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

vaglio, causata dai gravissimi peccati del genere umano e origine di tutte le catastrofi naturali. Col diffondersi delle religioni monoteiste, l’idea del Paradiso ha assunto un’importanza teologica fondamentale e, a parte alcune ovvie differenze, nel giudaismo, nel cristianesimo e nell’islamismo il «giardino di Dio» è concepito in modo significativamente analogo, tanto che molte leggende che lo riguardano si sono travasate da un culto all’altro; non a caso, il termine utilizzato per indicare questo luogo di delizie ha la stessa radice etimologica: dalla parola persiana pairidaeza deriva il greco paradeisos, che gli Ebrei tradussero in pardes e i Latini in paradisus.

Un modello binario

In tutti i sistemi religiosi dell’antichità, oltre all’evocazione di una perduta età dell’oro – nella quale peraltro si rispecchiano alcune condizioni ambientali del Paradiso cristiano –, il mondo dell’Aldilà era caratterizzato da due luoghi sotterranei, uno riservato ai buoni, l’altro destinato ai cattivi, che Greci e Romani chiamavano rispettivamente Campi Elisi e Ade (ma gli Inferi avevano anche i nomi di Tartaro e Averno). Nel VI Libro dell’Eneide, Virgilio, adottando una convinzione diffusa nel I secolo a.C., sposta il sito dei Campi Elisi all’estremità occidentale della Terra, ponendolo nei pressi dell’oceano e in superficie; l’Elisio pagano fu chiamato anche «isole dei Beati». Il cristianesimo adottò questo modello bi-

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Dossier modelli precedenti, determinando una sorta di partecipazione salvifica dei credenti al destino ultraterreno dei peccatori.

Il luogo dell’attesa

nario, contrapponendo il Paradiso cristiano a un luogo di tormenti per le anime dannate, l’Inferno, situato anch’esso nelle viscere della Terra, regno incontrastato di Satana, il principe dei demoni. Tale dualismo fu però presto modificato con l’inserimento nella mappa dell’Aldilà di un terzo luogo ultraterreno, il Purgatorio, che rendeva conto della maggiore complessità e profondità spirituale della religione cristiana rispetto ai

Dopo alcuni secoli di discussioni teologiche, alla fine del XII la Chiesa accolse ufficialmente il Purgatorio nel suo sistema religioso, facendone un luogo di espiazione destinato ai morti in grazia di Dio ma in attesa di redenzione; il «fuoco purgatorio» infliggeva tormenti temporanei in ragione dei peccati commessi, delle preghiere e delle in-dulgenze che i vivi destinavano a questi defunti in transito. A questi tre Aldilà se ne aggiunsero altri due, detti Limbo, il primo destinato ai bambini morti senza battesimo, il secondo ai patriarchi. Quest’ultimo, però, fu svuotato da Cristo, che ne liberò le anime dopo la sua resurrezione. Secondo tale sistema il Purgatorio avrà termine con il Giudizio Universale, grandioso e terrificante atto che segna la fine dei tempi: solo allora Cristo giudicherà i non redenti sprofondandoli negli abissi

dell’Inferno, e gli eletti ascenderanno al Paradiso. Fin dalle sue prime descrizioni (la Genesi ed Ezechiele) e le successive citazioni (il Vangelo di Luca, Lettera agli Ebrei e Apocalisse), il Paradiso assume due diverse connotazioni: nella prima è chiaramente un luogo fisico, la cui area geografica è indicata nell’Antico Testamento con i nomi di due regioni e di quattro fiumi, alcuni dei quali sconosciuti, la cui ricerca e localizzazione ha impegnato per secoli, inutilmente, viaggiatori, eruditi e uomini di Chiesa; quest’area, dopo la cacciata di Adamo ed Eva, fu considerata un territorio disabitato. Nella seconda interpretazione esso appare in una dimensione del tutto immateriale ed escatologica, un luogo celeste fatto di luce, che può assumere anche le sembianze di una città perfetta – la nuova Gerusalemme –, destinato agli Angeli e ai Beati, definito anche «Regno dei Cieli» e «Regno di Dio». Il Paradiso celeste si caratterizza per la sua incorporeità, per l’estasi che permea i suoi abitanti, per il rigido ordine gerarchico, per

La creazione di Adamo (a sinistra) e il peccato originale, in un affresco staccato e trasferito su tela, dalla Ermita de la Vera Cruz di Maderuelo (Segovia). XII sec. Madrid, Museo del Prado.

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Raffigurazione del peccato originale, particolare del soffitto dipinto a tempera su legno nella chiesa di S. Michele a Hildesheim. 1200 circa. Nella pagina accanto, in alto pagina miniata della Bibbia di Moutier-Grandval. 830-840 circa. Londra, British Library. Dall’alto: la creazione di Adamo ed Eva; Dio mette in guardia Adamo ed Eva dal nutrirsi dei frutti dell’albero della conoscenza; i due ignorano il divieto e vengono cacciati dall’Eden; sulla terra, Adamo lavora la terra, mentre Eva allatta un bambino.

lo schema geometrico entro cui si collocano le varie figure angeliche e i Beati, posti sempre simmetricamente ai lati delle figure divine. Anche Dante non si sottrae a questa impostazione e colloca il Paradiso ultraterreno nelle nove sfere celesti, che riducono il loro movimento concentrico e circolare man mano che si avvicinano all’immobile Empireo, la sfera piú alta del sistema divino che contiene tutte le altre, dove Dio assiso in trono offre ai beati il dono supremo dell’estatica visione di sé.

La collocazione

Questa duplice idea del Paradiso quale luogo e non-luogo – geografico e ultraterreno («in ogni dove / in cielo è paradiso» scrive Dante) – alimentò disquisizioni di ogni tipo per

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molti secoli fin oltre la fine del Medioevo. Ma se tutti erano d’accordo che il Paradiso celeste si trovasse in cielo, dov’era il Paradiso terrestre? La tradizionale collocazione del Paradiso terrestre a Oriente, in Mesopotamia, come la stessa Genesi suggerisce, o in India – convinzione derivata da antichissime mitologie solari –, non è stata l’unica a circolare, essendoci chi riteneva che si trovasse in un’isola sulla costa africana o in una terra situata in qualche zona dell’Etiopia, oppure che coincidesse o fosse nelle vicinanze del misterioso regno del Prete Gianni (personaggio su cui esiste una vastissima letteratura; vedi box a p. 84), immaginato prima in vari luoghi dell’Asia e dal XIII secolo in una regione dell’Abissinia, ma mai precisamente localizzato; altri in-

vece erano convinti che si trovasse in Occidente. Ancora nel XV secolo i geografi Andrea Bianco, il cui Atlante nautico (1436) è conservato nella Biblioteca Marciana a Venezia, e Giovanni Leardo, autore di un Mappamondo (1448) conservato nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza, si rifanno alla convinzione allora piú diffusa ponendo il Paradiso in India o nei suoi pressi; convinzione che fu anche di Cristoforo Colombo il quale, pensando di essere in India, in una lettera si dice certo di trovarsi nei pressi del Paradiso. Ulteriore elemento di discussione fu se il Paradiso si trovasse su un’isola della terra abitata ma divisa da questa dal mare – idea molto diffusa che si appoggiava a una lunga tradizione di isole mitiche

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Dossier considerate luoghi di beatitudini: dall’Atlantide di Platone all’isola dei Feaci descritta da Omero, dall’isola di Pancaja ricordata da Diodoro Siculo ai Campi Elisi dell’Aldilà pagano localizzati nelle cosiddette «isole dei Beati» –, o se fosse in un luogo lontano e sconosciuto, separato dal mondo abitato da un oceano non navigabile. Nel VI secolo circolò una teoria, ripresa dal geografo Cosma Indicopleuste, che spiegava come la Terra fosse divisa in due parti, una interna circondata dall’oceano, l’altra esterna sconfinante in un cielo a forma di volta: il Paradiso si trovava a oriente nella terra esterna, e qui rimasero gli uomini fino al diluvio universale, quando Noè con la sua Arca, attraversando l’oceano, li portò in salvo nella terra interna approdando in Persia e lasciando quella esterna disabitata. Altri ancora, seguendo le indicazioni profetiche del Libro di Ezechiele, erano convinti che il Paradiso, visto come la nuova Gerusalemme, fosse sopra un’alta montagna, che qualcuno individuò nel

La Gerusalemme celeste, da un’edizione del De civitate Dei di sant’Agostino. 1200-1210. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la Gerusalemme celeste, da un’edizione manoscritta del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liébana. 1047. Madrid, Biblioteca Nacional de España.

La Gerusalemme celeste

Al centro del mondo Nelle sue visioni profetiche Ezechiele descrive il Paradiso come la nuova Gerusalemme, nella quale colloca il Tempio perfetto. Seguendo tale idea, anche Giovanni, nell’Apocalisse, immagina un Paradiso-Regno dei Cieli rappresentato simbolicamente dalla città di Dio, la Gerusalemme celeste, verso la quale sono diretti i Beati: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era piú. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo».

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E ancora: «Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come il cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dall’Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni». A sua volta sant’Agostino, nella Città di Dio, si collega chiaramente all’Apocalisse quando definisce e illustra le due città simboliche del cristianesimo: quella terrena e quella celeste. L’importanza simbolico-religiosa di Gerusalemme, celeste o terrena che

fosse, era cosí grande che spesso nelle carte geografiche era posta al centro del mondo, oppure era identificata tout court con il Paradiso: nel già citato Mappamondo di Giovanni Leardo il Paradiso è disegnato come una piazza della città di Dio, con una colonna nel mezzo; invece nella mappa di Fra Mauro (1459), conservata nel Palazzo Ducale di Venezia, è indicato ancora come un giardino ma con caratteristiche urbane: uno spazio circolare circondato da mura merlate provviste di quattro torri, come in genere si disegnavano schematicamente le città. maggio

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Dossier il prete gianni/1

Quel leggendario baluardo della cristianità Figura tanto misteriosa quanto popolare, il Prete Gianni o Giovanni o ancora Pretejanni estendeva il suo dominio in diversi luoghi dell’Asia centrale mai precisamente individuati per poi crederlo, nel XIV secolo, re dell’Abissinia e dell’Etiopia; dovunque si trovasse, il suo regno lo si credeva vicino al Paradiso terrestre o che un tempo fosse stato il Paradiso stesso. Alcuni ricercatori hanno voluto vedere nel Prete Gianni, o meglio nella sua dinastia, visto che lo stesso nome è citato ininterrottamente dal XII al XVI secolo, altrettanti re cristiani, il cui capostipite per alcuni potrebbe essere Gur Khan, vincitore dei Turchi nel 1141, per altri il principe nestoriano dei Keraiti, Togril, sconfitto nel 1203 da Gengis Khan e ucciso durante la fuga. In Occidente ne parla, forse per la prima volta, Ottone di Frisinga nella sua Chronica del 1147; in seguito molti ne faranno oggetto di testi poetici e resoconti di viaggio, compreso Marco Polo, che ne descrive le imprese nel Milione (1298-99). La vasta letteratura che lo riguarda ne ha fatto uno dei personaggi piú leggendari del Medioevo (ne parla anche Boccaccio nel Decameron): esaltato per la sua bontà, la straordinaria bellezza del suo regno e per la ricchezza del suo palazzo tempestato d’oro e di gemme, fu considerato un baluardo della cristianità contro i miscredenti. Alcune fonti storiche narrano che nel 1165 il Prete Gianni inviò all’imperatore romano d’Oriente Manuele I Comneno un documento noto come «Lettera del Prete Gianni», che l’imperatore inviò poi a Federico Barbarossa e a papa Alessandro III. Costoro nel 1177 risposero alla missiva, ma la spedizione che si recava a consegnarla non fece piú ritorno.

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Il Prete Gianni, leggendario monarca cristiano di un favoloso regno posto a Oriente, particolare della carta dell’Oceano Indiano da un portolano del portoghese Diego Homem. 1558 circa. Londra, British Library.

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monte sul quale si fermò l’Arca di Noè quando le acque del diluvio defluirono. Accettando il dettato di Ezechiele, Dante pose il Paradiso terrestre sopra il monte piú alto della Terra, quello del Purgatorio. La connessione del mondo ultraterreno con il mondo reale, tra i quali esistevano continui interscambi, era nel Medioevo un fatto comunemente accettato; il reale era spiegato con l’irreale e viceversa, non stupisce quindi la puntigliosa ricerca del Paradiso terrestre e la sua frequente localizzazione – peraltro sempre diversa – in opere che pretendevano di documentare il vero: mappe e racconti di viaggio contenenti indicazioni spesso tanto dettagliate, quanto fantasiose, da sconfinare in visioni oniriche non lontane da ciò che noi oggi chiamiamo surrealismo.

La versione di Cosma

Una delle piú antiche rappresentazioni dell’Universo in cui è visibile anche il Paradiso terrestre è forse quella, decisamente bizzarra, contenuta nella Topographia Christiana del già citato geografo bizantino Cosma Indicopleuste, scrittore vissuto nel VI secolo al tempo di Giustiniano; in essa è rappresentato l’Universo come una sorta di parallelepipedo nel quale la Terra ha la forma di una montagna circondata dall’oceano, al cui esterno è collocato il Paradiso terreste; in alto, sulla volta del cielo, Dio contempla il mondo da lui creato. Nelle carte geografiche redatte tra l’XI e il XIV secolo, il luogo del Paradiso terrestre era spesso segnalato con le figure di Adamo ed Eva e dell’albero del bene e del male, sul quale si avviluppa il serpente. Tra queste, è assai indicativa la «Mappa del Beato» (il cui originale risalente al 776 è andato perduto, mentre ne esistono varie copie posteriori), inserita in un codice dell’XI secolo conservato a Torino, nella Biblioteca Nazionale

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Il Prete Gianni/2

Geografia di un mito Curiosamente, in due importanti testi in cui si parla del Prete Gianni, Il Milione di Marco Polo e le Relationi universali di Giovanni Botero, scritti a distanza di circa 300 anni, ben poco cambia nell’aura che avvolge il personaggio, che appare sempre concreto e sfuggente al tempo stesso. L’unica sostanziale differenza risiede nel luogo in cui il regno viene collocato: in Asia nel Milione e in Africa nelle Relationi. Cosí lo descrive Marco Polo: «È fu vero che gli Tarteri dimoravano in tramontana intra Ciorcia. E in quelle contrade ha grandi piaggie, ove non ha abitazione, cioè di castella e di cittadi, ma havvi buone pasture e acque assai. Egli è vero ch’eglino non avevano signore, ma faceano rendita a un signore, che vale a dire in francesco Preste Giovanni; e di sua grandezza favellava tutto il mondo». Nel 1595 lo scrittore politico Giovanni Botero pubblica l’edizione ampliata delle sue Relationi universali, in cui descrive minuziosamente tutto il mondo allora conosciuto, e dedica un lungo capitolo all’Abissinia, impero del Prete Gianni: «Abessini si addimandono i popoli sudditi al Preste Gianni: il cui imperio, se noi consideriamo i titoli de i Regni, che egli usa nelle sue lettere, hebbe già amplissimi confini: conciosia ch’egli si intitola Re di Goiame, che giace tra il Nilo, e il Zaire, e di Vangue, Regno posto oltre il Zaire: e di Damut (...) Il Preste, dall’amministratione de i Sacramenti, e dall’ordinatione dei chierici al Sacerdotio in poi, governa assolutamente ogni cosa. Dà, e toglie i beneficij à suo beneplacito: e nel punire non fa differenza tra i chierici, e laici». Piú avanti Botero spiega come tale potere in parte gli sia stato tolto: «I Maomettani hanno ridotto questo Prencipe (come abbiamo detto sopra) à grande estremità. Ma prima, quando egli fioriva, viveva con tanta grandezza, che non parlava se non per interprete: né si lasciava vedere fuori che nei giorni solenni». Un’altra raffigurazione del Prete Gianni, in una carta geografica cinquecentesca.

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Dossier Adamo ed Eva

Sette ore per commettere il peccato Adamo ed Eva sono considerati i progenitori del genere umano, simbolo di una felicità perduta, ma anche della capacità di determinare liberamente il proprio destino. È sempre Adamo a prevalere nei miti e nella letteratura: spesso considerato un uomo di grande sapienza, a lui si attribuiscono libri su ogni argomento, mentre per Eva si è creduto avesse scritto soltanto un Vangelo. A lungo si pensò che Adamo fosse stato sepolto sul Golgota, tanto che nelle Crocifissioni gli artisti dipingevano spesso il teschio di Adamo ai piedi della Croce, anche per ricordare che il legno era stato tagliato dall’albero del bene e del male. Tra le mille e più domande che nel Medioevo si fecero su Adamo ed Eva, una ci sembra davvero singolare: quanto rimasero nel Paradiso terrestre? Secondo san Giovanni Crisostomo, forse neppure un giorno. Sull’argomento Dante scrive con decisione che Adamo rimase in Paradiso sette ore, mentre visse sulla Terra novecentotrenta anni e attese nel Limbo la discesa di Cristo ben quattromilatrecentodue anni.

A sinistra Eva e Adamo nel Paradiso terrestre, particolare del mosaico della Creazione nella basilica di S. Marco, a Venezia. XII sec.

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Universitaria; come pure la mappa disegnata su pergamena intorno al 1300 da Riccardo di Haldingam, conservata nella cattedrale di Hereford in Inghilterra, in cui all’estremo limite della parte orientale della Terra, posta in alto, è indicato il Paradiso terrestre con l’Angelo che scaccia Adamo ed Eva; al di sopra, è rappresentato il Giudizio Universale che si svolge nel Regno dei Cieli, con a sinistra la schiera dei beati risorti dalle tombe che salgono all’Empireo, a destra i dannati che vengono scaraventati nell’Inferno, e al centro Cristo be-

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nedicente circondato dagli Angeli (vedi foto a p. 89). Nelle antiche rappresentazioni figurative, in linea con la sensibilità estetica del tempo, il giardino paradisiaco è rappresentato con un linguaggio molto sintetico: un esempio assai espressivo risalente alla fine del XII secolo è il rilievo bronzeo del portale della chiesa di S. Zeno a Verona che illustra alcuni episodi della Genesi, tra cui per l’appunto la cacciata dal Paradiso. In seguito il bagaglio iconografico degli artisti si arricchirà sempre piú, grazie a una nuova visione

San Brandano e i suoi monaci dicono messa sul dorso di Iasconio, fantastica creatura simile a una balena, incisione tratta da una miniatura medievale.

estetica che si fa piú attenta alla descrizione dei particolari. Sicché tutti i miti, le descrizioni letterarie, i racconti di viaggio, le disquisizioni teologiche e filosofiche accumulati nell’arco di una decina di secoli costituiranno una miniera di stimoli per rappresentare questa sorta di «paese delle meraviglie» il quale, pur se ignoto a tutti e con una localizzazione geografica molto confu-

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Dossier nell’immaginario medievale

Piante sempre verdi e acqua dell’eterna giovinezza La puntigliosa ricerca del Paradiso terrestre e la sua frequente localizzazione – peraltro sempre diversa – nelle mappe, nei racconti di viaggio e in opere letterarie con indicazioni spesso tanto dettagliate quanto fantasiose da parte di geografi, viaggiatori e scrittori portò alla descrizione di una sorta di «paese delle meraviglie», un supermondo nel quale la natura conosciuta assumeva spesso forme superlative e fantastiche. Alle piante descritte dalla Genesi, l’albero del bene e del male, l’albero della vita (dal primo, secondo alcune leggende, si ricavò il legno della Croce) e il fico, le cui foglie coprirono le vergogne di Adamo ed Eva, se ne aggiunsero presto altre, cercando di interpretare la natura dei due primi alberi, non specificata dalla Bibbia; cosí si parlò della vite, del tamarindo, del banano (detto anche frutto del Paradiso), che poi rimasero comunque alberi dell’Eden; a questi Ezechiele unisce gli abeti, i platani e i cedri. Altri autori aggiunsero le piante aromatiche e le spezie, come la cannella, l’aloe, lo zenzero, il rabarbaro; l’erba, sempre rigogliosa, era punteggiata di meravigliosi fiori di ogni specie, piú vividi e colorati di quelli comuni – rose, gigli, giacinti, viole, garofani, ecc. –; sa, risultò conosciuto fin nei minimi particolari: abitanti, clima, flora, fauna, delizie e via elencando. Una forma letteraria tra le piú diffuse in ogni tempo è il racconto di viaggio. Tra i moltissimi testi che descrivono una rotta verso l’ignoto alla ricerca del Paradiso, si individuano due filoni principali: nel primo i viaggiatori riescono a entrare nel giardino incantato, nel secon-

ne immaginarono elenchi di stupefacente precisione tra gli altri Tertulliano, sant’Anastasio, Michele Psello, Giovanni di Mandeville; infine, nel Paradiso si trovano una gran quantità di piante medicinali che curano ogni tipo di malattia. Tali piante non dovevano essere mai coltivate e, pur non essendo bagnate dalla pioggia, le foglie si conservavano sempre verdi e fresche, i fiori sembravano appena sbocciati e i frutti erano sempre maturi. Di pari ricchezza e varietà era poi la fauna, boschi ricchi di selvaggina, acque popolate di ogni tipo di pesci e, ovviamente, di serpenti. Ma non è solo la flora meravigliosa e la fauna abbondante il vanto del Paradiso. In esso, oltre all’albero della vita, troviamo un fiume e una fontana della vita, le cui acque sono in grado di donare l’eterna giovinezza a chi ne beve o si bagna in esse. Ne fa cenno l’Apocalisse, affiancando nella Gerusalemme celeste all’albero della vita un fiume della vita; anche sant’Agostino, nel suo trattato De origine animae, afferma che un lebbroso bevendo acqua miracolosa tornò in vita e Dante nel Paradiso descrive due ruscelli, Lete ed Eunoé, capaci di donare la vita eterna all’anima.

do vengono fermati e costretti a tornare indietro. Ecco due esempi di viaggio, molto noti, il cui esito è opposto. Il primo, di cui esistono tre versioni, è un poema del IX secolo, scritto in anglo-normanno, intitolato Il viaggio di San Brandano.

Il santo viaggiatore

Il protagonista, un santo irlandese vissuto tra il 484 e il 576, fu abate Particolare del Mappamondo catalano estense nel quale il Paradiso terrestre appare collocato nell’Africa centrale. 1460 circa. Modena, Gallerie Estensi, Biblioteca Estense Universitaria.

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di Llancarvan e di Clonfert e, forse, nel 561 effettivamente viaggiò; secondo alcune fonti fu autore di un De Fortunatis Insulis, andato perduto. Nel poema che narra le sue avventure, dopo un lungo peregrinare tra mari e terre misteriose abitate da uomini e animali fantastici, Brandano e alcuni suoi confratelli giungono in Paradiso, descritto come un’isola luminosissima cinta da mura fatte di pietre preziose, il cui clima è eternamente primaverile; in questo luogo fantastico privo di malattie mangiano frutti dolcissimi e bevono acqua deliziosa. In altri autori troviamo alcune varianti: le mura che cingono il Paradiso, infatti, possono essere d’oro, d’argento, di bronzo, di diamante o anche di fuoco; le mura fiammeggianti probabilmente derivano dalla Genesi, ispirate alla spada di fuoco brandita dal Cherubino per impedire a chiunque l’accesso all’Eden. maggio

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La mappa mundi della cattedrale di Hereford, disegnata su pergamena da Riccardo di Haldingham intorno al 1300. Nella parte alta, corrispondente alle regioni orientali della Terra, compare la scena dell’Angelo che caccia Adamo ed Eva dall’Eden e, al di sopra, troneggia la raffigurazione del Giudizio Universale.

Il secondo racconto ha origine da un’antica leggenda greca e narra di tre monaci, Teofilo, Sergio e Igino, che partono alla ricerca del Paradiso andando verso Oriente e vivendo avventure di ogni tipo in Paesi reali come la Persia e l’India, e fantasiosi come la terra dei Cinocefali, dei Pichiti, luoghi selvaggi e terrificanti dove vivono mostri orrendi; durante il viaggio i tre si imbattono in un lago abitato da anime dannate, poi incontrano un gigante incatenato fra due monti e altri personaggi in luoghi strani e paurosi. Infine giungono in un posto bellissimo custodito da quattro vecchi, oltrepassati i quali scoprono una terra meravigliosa ove sorge un tempio che sembra di cristallo. All’interno una moltitudine di santi intona canti mentre da una fonte sull’altare zampilla del latte. Superato il tempio, i monaci giungono alla grotta dove vive un anacoreta, san Macario. Si trova-

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no a sole venti miglia dal Paradiso terrestre, ma questi dice loro di non procedere oltre, perché il Paradiso è vietato ai mortali. Al che i tre monaci tornano indietro.

Frutti meravigliosi

Quasi tutte le leggende che fiorirono nel corso del Medioevo hanno trame che si rifanno a strutture piú o meno analoghe, con varianti che passavano da una storia all’altra. Tra i racconti che narrano dell’ingresso al giardino dell’Eden, questo del XIV secolo è tra i piú conosciuti: tre monaci, vivendo in un monastero sulle rive del fiume Ghicon, uno dei quattro corsi d’acqua del Paradiso, trovano un giorno un bellissimo ramo trasportato dalla corrente – «l’una foglia pareva d’oro battuto, l’altra pareva d’ariento, l’altra pareva d’azzurro fino, l’altra vermiglia, l’altra era bianca, e cosí era svariato d’ogni colore» –, da cui pendevano frut-

ti meravigliosi. I monaci, colti dal desiderio di conoscere il luogo da cui proveniva il ramo, si mettono in viaggio. Dopo qualche tempo arrivano alla porta del Paradiso, sorvegliata da un Cherubino. Ottenuto il permesso di entrare, visitano il giardino meraviglioso mangiando frutta e bevendo l’acqua miracolosa dell’eterna giovinezza. Uscendo dal Paradiso, i monaci sono convinti di avervi trascorso soltanto tre giorni e invece sono passati tre lunghi secoli. Tornati nel loro convento, trovano con meraviglia nuove generazioni di religiosi ai quali narrano la loro storia straordinaria, ma dopo quaranta giorni improvvisamente i loro corpi si inceneriscono ed essi salgono in cielo. Anche la perdita del senso del tempo, una volta usciti dal Paradiso, è un elemento assai ricorrente in queste storie, perché sottolinea la dimensione miracolistica e salvifica di quel luogo che prelude l’ascesa al Paradiso celeste. La convinzione dell’esistenza dell’Eden fu davvero profonda almeno fino al XVII secolo, quando l’uso di metodi scientifici iniziò lentamente a surclassare la pseudoscienza empirica, e quando le scoperte geografiche fecero emergere dall’ombra e dal mito un numero sempre piú grande di terre e di mari; il Paradiso terrestre cessò progressivamente di essere un luogo reale per trasformarsi in uno spazio della mente, un archetipo ancestrale dell’innocenza originaria del genere umano, un simbolo universale che ci ha fatto sognare per millenni e che oggi, forse, qualcuno sogna ancora.

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Dossier

VISIONI DI UN ALTRO MONDO

L’

arte ha sempre trovato nei temi religiosi una delle piú significative forme di espressione. Dalle origini del cristianesimo e per tutto il Medioevo (e oltre), le storie bibliche hanno alimentato la fantasia degli artisti, producendo spesso straordinari cicli figurativi. Uno dei libri della Bibbia che è stato oggetto delle trasposizioni piú numerose è probabilmente quello della Genesi. La scena iniziale – e finale – di questo mistero è il Paradiso, un luogo-non luogo che ha esercitato un fascino straordinario: da una parte sottolineando la condizione di una perdita definitiva e irrimediabile (l’Eden),

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Giudizio Universale, tempera su tavola del Beato Angelico. 1425-1428. Firenze, Museo di San Marco. Il tema del Giudizio è qui trattato in maniera insolita, con il Cristo giudice, attorniato da angeli, in un cerchio celestiale che domina dalla sommità: con la mano destra levata invita i fedeli risorti verso i cancelli della Gerusalemme Celeste; la sinistra, rivolta verso il basso, consegna i peccatori alle fauci pietrose dell’Inferno.

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dall’altra esaltando l’aspirazione a uno stato di beatitudine eterna (il Paradiso celeste). Le immagini del Paradiso realizzate dagli artisti medievali nell’arco di molti secoli scorrono

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su questi due binari che non s’incontreranno mai, divise tra la visione di un luogo fantasmagorico ma verosimile, e un luogo astratto, impalpabile e forse impossibile da immaginare e rappresentare. Nell’Alto Medioevo, quando non si era ancora perduto il senso descrittivo della realtà – come avverrà nei secoli successivi almeno fino all’inizio dell’epoca romanica –, le raffigurazioni paradisiache esprimevano con notevole efficacia la nostalgia e la speranza di un mondo felice e pacificato. Ne è un bell’esempio il mosaico ab-

sidale (VI secolo) di S. Apollinare in Classe a Ravenna: al centro del giardino paradisiaco verde smeraldo, giganteggia la figura di sant’Apollinare in preghiera, circondato da bianchi agnelli (vedi foto a p. 92, in basso). Dopo il Mille, il Paradiso terrestre cominciò a essere pensato, al pari di quasi tutta l’arte dell’epoca, in modo didattico e descrittivo, come un trattato enciclopedico. Rinunciando allo sviluppo temporale delle storie, la rappresentazione sinteticamente vi alludeva soltanto, lasciando spazio anche ad altre figure che, pur non appartenendo al tema principale, allargavano il campo della conoscenza dei fruitori. È quanto accade nel pavimento musivo della cattedrale di Otranto, l’albero della vita (1163-65), opera del prete Pantaleone (vedi foto a p. 92, in alto); su questo albero paradisiaco, a fianco di figure e storie bibliche,

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Dossier Otranto, cattedrale dell’Annunziata. Il mosaico pavimentale dell’Albero della Vita, realizzato tra il 1163 e il 1165. In basso la visione di un paesaggio paradisiaco proposta dal mosaico dell’abside di S. Apollinare in Classe (Ravenna). VI sec.

Adamo ed Eva, Noè, Salomone, Sansone, il diluvio universale e la torre di Babele, sono stati inseriti personaggi letterari e animali, alcuni dei quali mostruosi, a comporre un bestiario figurato che trascina il visitatore nel meraviglioso e nel fantastico. Un analogo intento didattico si ritrova nel Paradiso terrestre della cupola della Genesi (XIII secolo) di S. Marco a Venezia (vedi foto a p. 86 e in queste pagine).

Quasi come una fiaba

Nel XIV secolo si afferma una rappresentazione meno attenta ai particolari realistici in favore di un simbolismo che tende a semplificare le immagini, sicché le storie del Paradiso terrestre assumono spesso i caratteri di un racconto fiabesco e popolare come nella Caduta e Cacciata dal Paradiso terrestre (1372) affrescate da Niccolò di Tommaso nell’ospizio di S. Antonio a Pistoia, dove la vegetazione del Paradiso è tutta uguale, generica e decorativa, e le figure di Adamo ed Eva hanno una gestualità priva di carattere, una semplificazione cui non sfugge neppure il serpente con la testa di donna, attorcigliato attorno all’albero della conoscenza. Con il profondo rinnovamento culturale che si sviluppa tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo l’arte sposta di nuovo l’attenzione verso il reale, sicché il Paradiso terrestre rinnova la sua immagine trasformandosi in un meraviglioso paesaggio o in un giardino straordinariamente fiorito, talmente verosimile da far pensare che l’Eden non sia piú quel luogo lontano e inaccessibile della tradizione, ma la terra in cui si vive o il giardino

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In alto, sulle due pagine un altro particolare del mosaico della Creazione nella basilica marciana di Venezia raffigurante la punizione di Adamo e la maledizione del serpente. XII sec.

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Nelle Sacre Scritture

Un racconto sobrio

del principe (è interessante notare che la denominazione dell’Italia quale «giardino d’Europa» nasce in questo periodo, grazie alla pittura e ai primi entusiasti viaggiatori). Cosí il tema del Paradiso terrestre, come altri soggetti sacri, tende a secolarizzarsi trasferendo caratteri iconografici profani (le vedute e l’atteggiamento naturale di molti personaggi) nelle composizioni religiose; una contaminazione culturale non univoca, ma che va anche nella direzione opposta. Particolarmente interessanti, per individuare questo processo, sono le scene con la Vergine in giardino, da sola o circondata da

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angeli e santi, tema molto diffuso per tutto il XV secolo; il giardino è spesso l’ambientazione preferita anche per le Annunciazioni (Filippo Lippi, Leonardo), per le Madonne col Bambino. Una svolta questa che non fu della sola arte italiana, poiché ne furono partecipi anche artisti fiamminghi, francesi e tedeschi. Tra i tanti esempi che si possono citare, due dipinti sono particolarmente significativi: Il piccolo giardino del Paradiso (vedi foto alle pp. 94/95), opera di un maestro renano, che appare come una scena di intrattenimento cortese dove la Vergine ha una corona regale sulla testa e l’unico elemento sacro è rappre-

«Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden a oriente, e quivi pose l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden (...) poi di lí si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il Paese di Avila, dove c’è l’oro (...); qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il Paese d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate. Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”». La Genesi, da cui è tratto questo brano, il cui scarno linguaggio nulla concede ai dettagli, è la piú ampia descrizione geografica del Paradiso terrestre contenuta nella Bibbia. Nel Libro di Ezechiele e nell’Apocalisse, il Paradiso modifica significato e aspetto, trasformandosi in senso profetico ed escatologico, assumendo la fantasmagorica forma urbana della città della luce, quella Gerusalemme celeste centro del mondo e coincidente con il Regno dei Cieli, interpretata anche come uno spazio incommensurabile e privo di forma.

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sentato da un angelo seduto, e la Madonna del roseto, attribuita a Michelino da Besozzo o a Stefano da Verona, conservata nel Museo di Castelvecchio a Verona, dove l’idea del Paradiso terrestre è sottolineata dalla presenza di numerosi angeli e dalla fontana della giovinezza (vedi foto a p. 95). Ulteriore conferma di questa tendenza ci viene da un famoso capolavoro fiammingo, il Polittico di Gand (1424-32 circa) di Jan

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Van Eyck conservato nella chiesa di S. Bavone a Gand, nel quale il pannello centrale raffigura l’Adorazione dell’Agnello mistico, opera di grande complessità contenutistica ispirata all’Apocalisse e ambientata in un Paradiso terrestre di straordinaria bellezza che altri non è che il paesaggio di Gand, sullo sfondo del quale si intravvede il profilo della città; i personaggi, i fiori e le piante sono descritti con una precisione

assoluta: un realismo che oggi definiremmo fotografico. A differenza dei Fiamminghi, gli artisti italiani preferiscono però restare sul terreno della «pittura» rifiutando l’illusione del vero, al quale, tuttavia, si avvicinano grazie alla visione prospettica, mantenendo un perfetto equilibrio tra costruzione dell’immagine, invenzione iconografica e resa coloristica. Analogo spirito permea la sculmaggio

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Madonna del roseto, tempera su tavola trasportata su tela da alcuni attribuita a Stefano da Verona, da altri a Michelino da Besozzo. 1410 circa. Verona, Museo di Castelvecchio.

italiani, della pittura sullo sguardo, si può fare – e a maggior ragione – per la scena del Paradiso inserita dal Beato Angelico nel suo Giudizio Universale (vedi foto alle pp. 90-91), conservato a Firenze nel Museo di San Marco, nel quale il pittore ritrae, con sublime senso cromatico, un vero e proprio giardino di corte sul quale sono schierati numerosi angeli e beati.

Un nuovo Eden

A sinistra Il piccolo giardino del Paradiso, tecnica mista su tavola di un anonimo artista renano. 1410-1420 circa. Francoforte, Städel Museum.

tura, specialmente nel bassorilievo, dove spesso la resa plastica assume caratteri sensibilmente pittorici, come nella Porta del Paradiso, realizzata da Lorenzo Ghiberti per il Battistero di Firenze, dove la formella del Paradiso (vedi foto a p. 77), in cui è condensata tutta la storia della Creazione fino alla cacciata di Adamo ed Eva, mostra una forte narratività, utilizzando lo spazio prospettico per far muovere perso-

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naggi e cose con straordinaria scioltezza ed eleganza. La predella con La creazione del mondo e La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre (1445 circa) di Giovanni di Paolo, conservato al Metropolitan Museum, Leheman Collection, di New York, ha lo stesso soggetto di quello della formella del Ghiberti, ma nella predella i due episodi, seppure accostati con un gusto ancora gotico, non si curano del racconto, lo congelano facendone una sorta di «fermo immagine»: il primo è dominato dai grandi centri concentrici dell’Universo che racchiudono la Terra, il secondo, pur contenendo molti elementi simbolici, si distingue per l’accuratezza con la quale sono dipinti i personaggi e il giardino e per la singolare nudità del cherubino che caccia i nostri progenitori, ovviamente nudi anche loro. Analoga riflessione, a proposito della prevalenza, negli artisti

Nel corso del XV secolo, lo spirito con il quale gli artisti del primo Rinascimento stavano trasformando l’arte nel suo insieme, con il recupero del mondo classico, non trascura il Paradiso terrestre, che anzi sembra essere stato pienamente ritrovato nell’ideale umanistico dei «giardini segreti» dei palazzi signorili. Tale riscoperta ha il suo massimo esempio nella Primavera (1478) di Botticelli, conservata agli Uffizi di Firenze, nella quale ritroviamo tutti i caratteri dell’Eden, ma quello di Botticelli – come vedremo alcuni anni piú tardi anche nella serie di arazzi detti Millefiori e in particolare in quelli che hanno come soggetto la Dama con l’unicorno – è un Paradiso desacralizzato, sottratto all’idea cristiana e restituito alle sue origini mitiche dell’età dell’oro. Idea, questa, che Raffaello porterà alle estreme conseguenze dipingendo, nell’affresco La scuola di Atene (1510-11) del Palazzo Apostolico Vaticano, un luogo di ordine e bellezza rappresentato come un Paradiso umanistico nel quale si ritrovano le piú grandi menti di ogni tempo, un luogo dove i meriti religiosi lasciano il posto ai meriti dell’intelletto. Il tema del Paradiso celeste, per l’intrinseca difficoltà di dare cor-

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Dossier la mandorla

Nella cornice il simbolo Nel Medioevo il Cristo e la Vergine, ma anche l’Agnus Dei, lo Spirito Santo con l’aspetto di una colomba bianca, gli Evangelisti, alcuni santi e persino gli imperatori venivano spesso dipinti e scolpiti entro la forma di una mandorla, che a volte assumeva un aspetto ovoidale o a volte circolare; questo contenitore, che poteva apparire come un’aureola splendente di luce o come una cornice di angeli, segnalava i personaggi piú eminenti della gerarchia religiosa, in special modo nelle opere che raffiguravano il Paradiso celeste, il Giudizio finale, le assunzioni in Cielo o anche i miracoli (San Nicola che placa la tempesta, predella del secondo Polittico Quaratesi di Gentile da Fabriano).

In alto Immacolata Concezione, tempera e olio sulla faccia interna di una tavoletta utilizzata come copertina di libro, attribuita al Pinturicchio (al secolo, Bernardino Betti o di Betto). XV-XVI sec. Stoccolma, Nationalmuseum. A destra Nascita di Venere (particolare), tempera su tela di Sandro Botticelli. 1482-1485. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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po a un pensiero cosí complesso, è stato trattato meno rispetto a quello del Paradiso terrestre. Inizialmente era raffigurato come la «Gerusalemme celeste» profetizzata dall’Apocalisse: queste immagini ci mostrano un alto muro di cinta, circolare, quadrangolare o a forma di mandorla disposta orizzontalmente, su cui svettano

quattro o piú torri: nel centro a volte è raffigurato il Cristo (l’affresco dell’XI secolo Cristo in trono al centro della Gerusalemme celeste nella chiesa di S. Pietro al Monte di Civate), altre l’Agnus Dei (la miniatura dell’Apocalisse di Reichenau risalente all’XI secolo). Alla raffigurazione di Gerusalemme si accompagnò quella del maggio

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Il mosaico che orna l’interno della cupola del battistero di S. Giovanni a Firenze. Fine del XIII sec. L’opera si articola in registri, dedicati a Storie di san Giovanni Battista, dell’Antico e del Nuovo Testamento. In basso domina il Cristo Giudice.

Detta anche vesica pisces, la mandorla non appartiene solo alla tradizione cristiana, ma è presente anche in altre religioni; la sua costruzione geometrica si ottiene con l’intersecazione di due circonferenze tangenti sui due centri; da questa forma deriva l’arco acuto gotico. Inoltre per la sua analogia formale con l’organo femminile veniva interpretato anche come simbolo della nascita,

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e per questo il primo Rinascimento l’associerà, con la riscoperta del mondo classico, all’uovo e alla conchiglia (l’uovo di struzzo della Sacra conversazione di Piero della Francesca conservato a Brera, e la conchiglia della Nascita di Venere di Botticelli conservata agli Uffizi). Nel corso del XV secolo la mandorla,

in virtú di un linguaggio sempre piú conscio della realtà e di un apparato simbolico molto complesso, dal significato spesso esoterico, verrà usata assai meno fino a scomparire del tutto; la Resurrezione del Polittico di San Zeno del Mantegna, nel Musée des Beaux-Arts di Tours, è forse una delle ultime utilizzazioni della mandorla, vista qui in forma di cornice angelica.

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Dossier

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Geometrie celesti

Rappresentare l’ordine sovrano Nel Medioevo la geometria era compresa nel cosiddetto Quadrivio, denominazione che indicava le quattro parti della matematica: aritmetica, geometria, astronomia e musica. La disciplina geometrica fu considerata tra le piú nobili e significative forme di conoscenza, e per questo inserita nel IX secolo tra le sette Arti liberali. Nella geometria si ritrovavano non solo l’ordine e la precisione del cosmo, ma, sulla scia di alcuni filosofi arabi che tra il IX e il X secolo avevano approfondito il tema, anche una valenza religiosa e filosofica, riaffermata nel Duecento da molti studiosi e uomini di Chiesa; seguendo la lezione di Boezio e san Tommaso, Dante ha scritto che «la Geometria è bianchissima in quanto è sanza macula d’errore e certissima». L’immagine del Paradiso celeste segue quasi sempre una rigida impostazione geometrica: regolarità, staticità, simmetria ed equilibrio, elementi che, pur essendo eminentemente compositivi, acquistano in questa specifica rappresentazione sacra una ulteriore valenza, trasformandosi in un vero e proprio Padova, Battistero. La volta della cupola, affrescata da Giusto de’ Menabuoi. 1375-1377. Al centro, il Cristo benedicente, che regge un libro sulle cui pagine è scritto «Io sono l’Alfa e l’Omega».

Paradiso celeste, piú astratta della precedente in quanto la scena in genere allineava Cristo, gli angeli e i santi su uno sfondo sempre rigorosamente piatto, di colore dorato o azzurro (Cristo e i Santi, mosaico del catino absidale di S. Cecilia in Trastevere, a Roma, del IX secolo). Ma il tema del Paradiso celeste, cosí come era stato rappresentato per lungo tempo, non rispondeva piú alle esigenze della Chiesa e al rinnovamento del linguaggio artistico: l’impianto rigidamente geometrico che esigeva il tema era legato a schemi ormai superati, anche se non mancano esempi suggestivi come il Paradiso (1376) dipinto da Giusto de’ Menabuoi nel Battistero di Padova, nel quale l’ossessiva presenza del cerchio si

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elemento linguistico. L’estasi suprema di Dio può avvenire solo in un ordine gerarchico: l’ordine celeste, dove i ruoli sono fissati per sempre e gli animi pacificati in eterno, è una metafora dell’ordine sociale in Terra: «La pace della città è l’ordinata concordia di comandare e di ubbidire tra i cittadini. La pace della città celeste è l’ordinatissima e concordissima società di godere Dio, e insieme in Dio. La pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine…», scriverà sant’Agostino. Se questo è il dettato teologico per le rappresentazioni del Paradiso celeste (evidente, per esempio, nel Paradiso di Giusto de’ Menabuoi nel Battistero di Padova), nelle scene del Giudizio Universale la differenza tra i mondi ultraterreni deve risultare nettamente sia dal punto di vista iconografico che compositivo (come nel mosaico della cupola del Battistero di Firenze), dove il tormento scomposto delle anime dannate nella profondità dell’Inferno e la confusione delle anime del Purgatorio sono agli antipodi dalla ieratica compostezza dei beati e degli angeli raccolti attorno a Gesú.

trasfigura in una visione ipnotica che si concentra nella grande figura del Cristo (vedi foto a p. 98); meno riuscito è invece il Paradiso (1354-57) di Nardo di Cione in S. Maria Novella a Firenze: preda di un evidente horror vacui, il maestro concede ben poco all’invenzione mostrandoci un affollatissimo Regno dei Cieli.

Una presenza costante

Fu cosí che il Paradiso celeste perse la sua autonomia e fu inglobato in diversi temi: nelle assunzioni in Cielo, nelle incoronazioni della Vergine, nelle rappresentazioni della Chiesa trionfante, ecc. Ma dove trovò la sua collocazione piú naturale fu nel Giudizio Universale, nel quale si contrappone dialetticamente all’Inferno: un contrasto straordinariamente suggestivo tra ordine e caos, tra la divina geometria dello spazio e le scomposte sofferenze dei dannati. In Europa non vi fu cattedrale

gotica che non avesse il Giudizio sul portale d’ingresso, affinché i devoti ricordassero di pentirsi per poter essere accolti in Paradiso (rappresentato simbolicamente dalla cattedrale stessa); in Italia si preferí decorare le pareti degli altari, delle navate e delle volte. Molti furono i pittori che in Europa si cimentarono con questo tema: da Giotto a Nardo di Cione, dal Beato Angelico a Roger van der Weyden, da Hans Memling a Luca Signorelli fino al celeberrimo Giudizio di Michelangelo, che probabilmente ne fu una delle ultime raffigurazioni. Nel corso del Rinascimento il Paradiso celeste si riempí di nuvole sulle quali appoggiare i personaggi divini, come pure fu abbandonata la visione frontale per sperimentare nuove viste prospettiche, come quella stupefacente della Assunzione della Vergine (1524-30) del Correggio, che anticipa le vertiginose vedute barocche di Andrea Pozzo.

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L’opera è compiuta

CARTOLINE • Tornata inaspettatamente alla luce

pochi decenni fa, la Creazione della Collegiata altoatesina di San Candido è una sorta di manifesto della potenza divina. Alla quale, sembrano voler dire le pitture, si deve tutto quel che di buono esiste in Terra Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono all’affresco della Creazione della Collegiata di San Candido (Bolzano). Fine del XIII sec. circa.

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lla fine degli anni Sessanta del Novecento, scrostando l’intonaco del tiburio sopra l’altare della Collegiata di San Candido (Bolzano), vennero alla luce gli affreschi della Creazione, databili all’incirca alla fine del XIII secolo. La scoperta fu sorprendente per lo stato relativamente buono dell’opera, scampata ai disastrosi incendi del 1413 e del 1554. maggio

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Dall’alto Dio separa le acque e crea la terra e la vegetazione, rappresentata dai due alberi; Dio separa la luce dal buio; la rappresentazione del giorno e della notte. Al centro della rappresentazione vediamo uno stellato firmamento notturno, circondato da una larga cornice azzurro-grigia sul cui bordo, appena accennata, si intravede la terra velata da foschie. Fra le nuvole compare per sei volte il Padre Eterno, che illustra la sua opera con alcuni cartigli. Appare soddisfatto: ha fatto bene ogni cosa e tutto il creato nasce dalla sua parola.

Il giorno e la notte La narrazione comincia sul lato orientale del tiburio; sull’iscrizione leggiamo Et primum fiat celum. Con la mano sinistra, il Signore colloca una stella nel cielo, mentre con l’indice e il medio della destra alzati, segno della parola, separa la luce dal buio. Il giorno e la notte hanno sembianze umane e, di primo acchito, potrebbero sembrare due figure femminili: in realtà, almeno il giorno è un uomo, perché porta la cuffia e dies in latino è sostantivo maschile. Anche il sole e la luna hanno volti umani e sono collocati ai lati opposti del cielo. La seconda raffigurazione, Fiat firmamentum, coerente con la

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CALEIDO SCOPIO La luna (qui accanto) e il sole, che sono collocati ai lati opposti del cielo dipinto nell’affresco.

cosmologia riportata nella Bibbia, rappresenta Dio che separa le acque, crea la terra e la vegetazione, simboleggiata dai due alberi. Nelle pitture medievali il singolo albero rappresenta un’intera foresta, come negli affreschi della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi: nella scena del Compianto di Chiara vediamo un bimbo che sventola un ramo di ulivo sopra una sola pianta. Nella terza scena del tiburio affrescato, sul rotulo si legge Fiant volatilia: il Signore crea gli uccelli e i pesci, fra cui appare una sirenauccello con la corona che arpiona un pesce. Notiamo varie specie di volatili disegnati a coppie, fra cui pavoni, pappagalli e colombe. Sul lato occidentale osserviamo le restanti tre scene. Il Creatore

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indica gli animali: Fiant animalia. Ci troviamo nel paradiso terrestre e specie reali e immaginarie, carnivore ed erbivore, convivono ancora pacificamente. Scopriamo fra gli altri due unicorni, uno scoiattolo, un elefante e un leone.

Le miniature come modello Per rappresentare il mondo animale, fantastico ed esotico, il pittore deve aver consultato miniature medievali, perché riporta gli stessi errori morfologici, come l’elefante che ha orecchie molto piccole o lo smilzo corpo del leone con un muso quasi di un volto umano. Il personaggio che cavalca l’unicorno simboleggia il dominio dell’uomo sulla natura, perché considerato animale ferocissimo e imprendibile. L’artista potrebbe aver tratto l’ispirazione dagli acquamanili con la forma di questo destriero, come per esempio da quello del XIII secolo proveniente dalla Bassa Sassonia, conservato al Musée des Beaux-arts di Besançon. Ha scritto la storica del Medioevo Chiara Frugoni, per far comprendere come l’uomo medievale esorcizzasse la paura verso l’unicorno: «Si realizzava un desiderio di sopraffazione su un animale ritenuto invincibile (...) con (...) un versatoio di solito in bronzo con ampio manico, utilizzato nei grandi banchetti per detergere le dita dei commensali, usate in abbondanza per cibarsi (...) Si può pensare alla piccola soddisfazione nell’impiego di un oggetto che mostra un animale temibile ridotto a cosí umile funzione, maneggiato con tanta facilità. Quando poi è aggiunto il cavaliere (...) il sogno di dominio è aumentato perché il destriero con il suo bel corno a spirale non solo è stato catturato ma è addirittura costretto a rispondere alle briglie tenute da chi lo padroneggia e che ne dirige i passi». La quinta scena illustra la creazione dell’uomo: Fiat Adam. Dio impone

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In alto cavalcando un unicorno, l’uomo simboleggia il suo dominio sulla natura. In basso nella scena accompagnata dal cartiglio Fiat volatilia si possono riconoscere numerose specie di uccelli, disegnati a coppie.

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CALEIDO SCOPIO San Nicola salva tre innocenti condannati a morte, affresco attribuito al Maestro di San Nicola, da alcuni identificato con Palmerino di Guido. 1308-1310. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore, cappella di S. Nicola. In basso la cacciata di Adamo ed Eva nell’affresco della Creazione di San Candido. le mani sul capo e sul mento di Adamo, secondo la Bibbia segno di amicizia, di benedizione e di concessione del potere spirituale. Adamo preme una mano sul cuore in segno di obbedienza. Nell’ultima rappresentazione, il Creatore trae con la mano sinistra Eva dal fianco di Adamo e col segno della parola della destra dice: Fiat Eva ex Adam. Nel Talmud, la grande raccolta delle tradizioni religiose giudaiche, troviamo questo appello: «La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere calpestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale, un po’ piú in basso del braccio per essere protetta e da lato del cuore per essere amata».

La cacciata dall’Eden Il loro posizionamento alla fine di questo affresco significa che Adamo ed Eva sono il coronamento della Creazione. L’assenza della rappresentazione del peccato originale dimostra come, alla fine del XIII secolo, non si guardasse tanto all’atto del peccato in sé,

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quanto alle sue conseguenze: la cacciata dal paradiso terrestre dei nostri progenitori. L’Angelo di Dio ad ali spiegate si leva dall’albero del bene e del male, con la mano destra impugna una spada mentre con la sinistra sfiora la guancia di Adamo. Con questo gesto caccia i nostri progenitori che si coprono le nudità mentre guardano con tristezza al paradiso ormai perduto. Adamo si trova alle spalle di Eva che entra in una curiosa costruzione. Ancora secondo Chiara Frugoni,

essa potrebbe rappresentare una città, come nell’affresco del Miracolo di san Nicola nella Chiesa Inferiore della basilica francescana di Assisi, in cui il pittore unisce spezzoni di piú costruzioni per indicare la città. La parte centrale della costruzione potrebbe essere una casa-bottega, come suggerisce il bancone che sporge sulla destra. Nel Basso Medioevo il lavoro non era piú considerato come un castigo divino per il peccato di Adamo ed Eva, bensí come uno strumento attraverso il quale si poteva, grazie al denaro guadagnato, fare la carità, che accelerava la permanenza dei peccatori in purgatorio. Il messaggio di questo affresco è di salvifica bellezza: in fondo i nostri progenitori sono come noi. Corrado Occhipinti Confalonieri

DA LEGGERE

Franz Eppacher, La Collegiata di San Candido, Tappeiner, Bolzano 2011 Chiara Frugoni, Uomini e animali nel Medioevo, il Mulino, Bologna 2018 Chiara Frugoni, Una lontana città, Einaudi, Torino 1982 Nicolò Rasmo, La Collegiata di San Candido, Saturnia, Trento 1969 maggio

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CALEIDO SCOPIO

Quando i santi prendevano le armi

Pronto al martirio pur di non combattere di Paolo Pinti

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sant’Eucherio, che fu vescovo di Lione alla metà del V secolo, dobbiamo le notizie su san Maurizio, contenute sulla sua (o comunque a lui attribuita) Passio Martyrum Acaunensium, ricavata da racconti orali ricevuti da san Teodoro (o Teodulo) di Octodurum (l’odierna Martigny nel Canton Vallese), primo vescovo del Vallese nel IV secolo. Maurizio nasce in Egitto da una famiglia pagana, nei pressi della città di Tebe, intorno all’anno 250 d.C. Da qui, a partire dalla fine del Medioevo, l’uso di raffigurare il santo, a volte, come di pelle scura, con tratti addirittura negroidi. Piú precisamente, lo storico francese Jean Devisse (1923-1996) ha dimostrato che un san Maurizio moro compare solo dopo il 1240, mentre prima di allora veniva ritratto di pelle chiara e con tratti somatici caucasici. Si sa che, da giovane, abbracciò la carriera militare, diventando presto primicerius, un grado equiparabile a quello di un moderno colonnello (peraltro esiste, anche se desueta, la qualifica di primicerio in ambito ecclesiastico, ma con tutt’altro significato). Arrivò a comandare la Legione Tebea, una legione

Nella pagina accanto Il Martirio di San Maurizio, olio su tela del Greco (al secolo Domínikos Theotokòpulos). 1582-1584. Madrid, Monasterio de San Lorenzo de El Escorial. Qui il martire ha connotati europei ed è rappresentato con un’armatura in cuoio bollito del tipo detto «all’eroica», che di solito è accompagnata

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San Maurizio, dipinto del pittore boemo Teodorico di Praga. 1360-1369. Praga, Castello di Karlštejn, Cappella della S. Croce.

da elmi di fantasia, molto appariscenti, mentre in questo caso compare, nelle mani di un giovane paggio, un elmetto molto ben descritto, rispondente a modelli concreti. Un fatto insolito. Da notare anche le armi in asta alle spalle del santo, con i ferri decorati in oro, che ricordano quelli sui quadri di Franz Hals. maggio

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CALEIDO SCOPIO Statua raffigurante san Maurizio vestito come un soldato africano. Fine del XIII sec. Magdeburgo, Duomo. Per gli studi sulle armi antiche si tratta di una delle opere piú importanti a oggi note, perché descrive in modo analitico le difese del periodo e rappresenta forse il primo esempio dell’impiego delle «piastre» metalliche – qui a protezione della schiena – destinate a sostituire l’armatura di anelli in ferro. formata da un centinaio di uomini (la leggenda vuole che fossero addirittura 6666), che godeva di notevole prestigio. Mentre era di stanza per l’inverno a Gerusalemme, Maurizio, entrò a contatto con la comunità cristiana locale, convertendosi in breve tempo e riuscendo a sua volta a convertire i suoi commilitoni.

Ordini tassativi A un certo punto, l’imperatore Massimiano ordinò a Maurizio di recarsi in Italia, per unirsi al resto dell’esercito e andare nelle Gallie a combattere contro i Bagaudi, contadini, pastori e nomadi della Gallia, ancora legati alle loro tradizioni celtiche. Lungo la strada Maurizio e i suoi soldati si fermarono a Roma e qui ricevettero la Santa Cresima da papa san Marcellino. Una sommaria ricerca permette di accertare che un pontefice santo con questo nome regnò dal 296 al 304 e, quindi, se il fatto è veritiero, dovremmo trovarci in questo ambito. Ripartirono per la Svizzera e giunsero nella Valesia (Canton Vallese, nella Svizzera del Sud) presso Acaunum (Agaune, oggi Saint-Maurice-en-Valais), dove l’imperatore ordinò una sosta, disponendo che tutti i soldati assistessero ai sacrifici agli dèi e che giurassero di far strage di tutti i cristiani. Per altri, i fatti si sarebbero svolti nella già citata Octodurum, mentre ad Agaunum si sarebbero recati in un secondo tempo.

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Ben sapendo a cosa sarebbero andati incontro, Maurizio e i suoi si rifiutarono: l’imperatore reagí disponendo la decimazione delle truppe (i generali italiani della prima guerra mondiale s’ispirarono a questo metodo in varie occasioni), ma senza risultati. Anche una seconda decimazione non ebbe esito migliore e Massimiano comandò a un’altra legione di circondare la Tebea, e di uccidere tutti coloro che si ostinavano a disobbedire agli ordini, proclamandosi cristiani. Da notare che, sempre secondo questa tradizione – che ricorda non poco quella di sant’Alessandro (vedi «Medioevo» n. 309, ottobre 2022; on line su issuu.com) –, i legionari non intesero difendersi con le armi, delle quali avrebbero saputo fare certo buon uso, preferendo accettare il martirio pur di non spargere sangue. Il martirio avrebbe avuto luogo nel 302, mentre per altri nel 286 (una data, questa, che non sarebbe però coerente con la ricezione della cresima a Roma).

Il santo dei Savoia Proprio in questa zona sorse e si affermò il culto vivissimo di san Maurizio, che fu addirittura il patrono del Sacro Romano Impero; quando il Vallese occidentale entrò a far parte dei possedimenti dei Savoia, il culto dei martiri della Legione Tebea si legò strettamente alla loro dinastia. Tanto che nel 1434 Amedeo VIII istituí l’Ordine Cavalleresco di San Maurizio, unito nel 1572 da Emanuele Filiberto con quello di San Lazzaro. Il luogo del martirio sarebbe stato individuato miracolosamente da san Martino di Tours (vedi «Medioevo» n. 310, novembre 2022), il quale, mentre visitava la regione vide la terra sudare sangue. Fece recuperare i resti dei martiri e li distribuí in varie chiese. Proprio ad Agaunum, Teodoro, il primo vescovo di Martigny, fece erigere una chiesa che poi divenne l’abbazia di Saint

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Il martirio di san Maurizio, olio su tela di Romolo Cincinnato. 1583. Madrid, Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.

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CALEIDO SCOPIO I santi Erasmo e Maurizio, olio su tavola di Matthias Grünewald. 1520-1254. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek. Anche qui Maurizio appare con marcati tratti somatici africani. Indossa un’armatura molto ben descritta e impugna una spada da una mano e mezza con lama stretta e acuminata, adatta ai colpi di punta (stoccate). Dietro di lui stanno un arciere (si vede solo l’arco) e un balestriere, con l’arma in spalla e una verretta in mano. In basso la spada di san Maurizio. Torino, Armeria Reale di Torino. Spada e fodero si datano al 1200-1250, mentre la custodia risulta fabbricata nel 1434-1438.

Maurice, dove ancora oggi è vivo il culto del santo, onorato anche in moltissime località a lui intitolate, su entrambi i versanti delle Alpi. San Maurizio è patrono del Corpo degli Alpini e di numerosi comuni italiani ed esteri.

Un cimelio prezioso Nel campo delle armi antiche, la spada detta «di San Maurizio», conservata nell’Armeria Reale di Torino, è notoriamente uno dei cimeli piú importanti, oggetto di studi da parte

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dei piú noti esperti del settore (vedi foto in questa pagina). Si tratta di una spada che, in un primo tempo, fu ospitata nell’abbazia di S. Maurizio d’Agauno, insieme alle ossa del martire: qui, l’abate Pietro Forneri ne fece costruire la custodia, che quindi possiamo far risalire al 14341438, cioè al periodo in cui restò in carica l’abate stesso. Il fodero vero e proprio, invece, è contemporaneo all’arma, che è databile tra il 1200 e il 1250. Nel 1591 il duca Carlo Emanuele fece trasferire la spada e parte delle ossa nella cappella ducale di Torino. Sulla lama è incisa un’iscrizione in caratteri gotici, che recita: «.BONE. MAURICII. DEFENDE. TUI. COR. AMICI. UT. NUMQUAM. SUBICI. LAQUEIS. POSSIT. INIMICI.». L’arma non è certo appartenuta a san Maurizio, essendo di quasi mille anni piú tarda, ma l’accostamento resta affascinante e conserva il suo nome legato al martire. Sebbene chiaramente legato alle armi (un gladio, nel caso concreto), quale soldato di professione e in quanto martirizzato quasi certamente con una spada, per decapitazione, san Maurizio viene raramente raffigurato con una spada o una lancia – che sono i suoi simboli riconosciuti –, forse per esaltare il suo estremo rifiuto della violenza, che gli fece affrontare la morte da vero martire. maggio

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Alessandro Ballarin Piero Adriatico

a cura di Elena Cera, Officina Libraria, Roma, 2 volumi indivisibili, 800 pp. totali, 312 tavv. col.

80,00 euro ISBN 978-88-3367-211-3 www.officinalibraria.net

Già professore ordinario di storia dell’arte moderna dell’Università degli Studi di Padova, Alessandro Ballarin – considerato uno dei piú autorevoli studiosi dell’arte rinascimantale – scrive nella postfazione di quest’opera imponente di essersi accinto all’impresa per via di una sorta

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di ripensamento: in origine, infatti, aveva avviato una ricerca sulla Trasfigurazione di Cristo di Giovanni Bellini, ma poi – complice il lockdown imposto dal Covid – ha ampliato la sua indagine, che ha finito con il coinvolgere, elevandolo al ruolo di protagonista, Piero della Francesca. Cuore dell’opera è il periodo giovanile del maestro di Borgo Sansepolcro, collocabile fra gli anni Quaranta e Cinquanta del Quattrocento, epoca nella quale il percorso dell’artista si sviluppa sullo sfondo di eventi storici decisivi – sul piano politico, ideologico e religioso – che si riverberano nella sua produzione. Il pittore è qui definito «Adriatico» perché, nel momento considerato, operò appunto nell’area bagnata dalle acque di quel mare (soggiornando, fra le altre, a Loreto, Ferrara, Venezia, Ancona e Rimini), ma, in realtà, l’analisi delle opere ascrivibili a questa fase non può prescindere dalla piú ampia

considerazione di ciò che Piero realizzò anche in altri contesti. Non sorprende, quindi, che la stesura definitiva abbia generato una pubblicazione di simili proporzioni, alla cui edizione finale ha collaborato in maniera decisiva Elena Cera. Non meno importante è l’apparato iconografico, forte di oltre 300 tavole, a colori, molte delle quali realizzate per l’occasione da

Mauro Magliani. In particolare, si segnala la campagna condotta nella cappella Bacci di Arezzo, per la quale Piero della Francesca realizzò lo straordinario ciclo sulla Leggenda della Vera Croce. Riprese che, oltre a fornire una nuova e dettagliata documentazione dell’opera, hanno anche permesso di coglierne particolari inediti. Stefano Mammini

Resurrezione di Cristo, affresco rifinito a tempera (staccato a massello con la sua struttura muraria tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento) di Piero della Francesca, dal Palazzo dei Conservatori di Sansepolcro (Arezzo). 1457-1458. Sansepolcro, Museo Civico.

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CERVETERI e TARQUINIA capitali d’ etruria

UNA GUIDA AL PARCO ARCHEOLOGICO DI CERVETERI E TARQUINIA

Cerveteri e Tarquinia sono state città etrusche di primaria importanza e hanno lasciato straordinarie testimonianze di quel glorioso passato, tanto che sono state entrambe inserite dall’UNESCO nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Una «comunanza» ribadita, in tempi piú recenti, dall’istituzione del PACT, il Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia, ai cui tesori è dunque dedicata la nuova Monografia di «Archeo». L’ampia trattazione – questa volta il fascicolo ha un numero di pagine maggiore del consueto, 160 – è un viaggio alla scoperta dei due siti, ciascuno dei quali comprende aree archeologiche e musei. Si comincia quindi con Cerveteri, la cui attrattiva maggiore è costituita dalle monumentali tombe a tumulo della necropoli della Banditaccia. Complessi che provano la maestria sviluppata dagli architetti e dagli scalpellini etruschi nell’esaltare le proprietà plastiche del tufo, la roccia vulcanica tipica della zona. Nell’arco di oltre quattro secoli, presero forma tombe magnifiche che sono anche uno specchio fedele di come le case dovevano essere strutturate. Corollario irrinunciabile dell’esperienza en plein air è la visita del Museo allestito nel Castello Ruspoli, divenuto casa, fra gli altri, del prezioso cratere di Eufronio.

IN EDICOLA

Altrettanto emozionante e suggestiva è la rassegna dei monumenti tarquiniesi, fra i quali spiccano le splendide tombe dipinte della necropoli dei Monterozzi, che, in un tripudio di colori, restituiscono scene allegoriche, episodi mitologici e vivaci spaccati della vita quotidiana. Anche in questo caso, non può mancare la visita del Museo, che ha sede nell’elegante Palazzo Vitelleschi e vanta collezioni di primissimo piano.




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