Medioevo n. 315, Aprile 2023

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SOMMARIO

Aprile 2023 ANTEPRIMA

CALEIDOSCOPIO

ITINERARI La Commedia dal finestrino

CARTOLINE Natura, cultura e... ravioli di Chiara Parente

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di Stefania Romani

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MOSTRE Le meraviglie dell’homo sanza lettere

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RESTAURI Porgi l’altra faccia

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Quando la fede colpisce al cuore di Paolo Pinti 106

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

LIBRI Lo Scaffale

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MUSICA Al tempo di Cracovia capitale di Franco Bruni 112

STORIE BATTAGLIE Adrianopoli Nella piana fatale di Federico Canaccini

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54 COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/3 Giustizia (non) è fatta di Corrado Occhipinti Confalonieri

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LUCA SIGNORELLI IN UMBRIA/2 Il capolavoro di Montone di Valentina Ricci Vitiani

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LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Campania

Come una fenice

di Marco Ambrogi

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Dossier

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LANCILLOTTO Il primo cavaliere 65 di Domenico Sebastiani


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Hanno collaborato a questo numero: Marco Ambrogi è Direttore dei Musei della Diocesi di TeggianoPolicastro. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Chiara Parente è giornalista. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Valentina Ricci Vitiani è storica dell’arte. Stefania Romani è giornalista. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali.

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MEDIOEVO Anno XXVII, n. 315 - aprile 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 27, 28 (basso), 29, 30-33, 53, 65-69, 71, 72/73, 77, 78, 81, 82/83, 106 (basso) – Cortesia Archivio Il Treno di Dante s.r.l.: pp. 6 (alto) – Cortesia Archivio APT Servizi Regione Emilia-Romagna: pp. 6 (basso), 7, 8 (alto e basso); MIC: p. 8 (centro), 9 – Cortesia Sara Stangoni Comunicazione: pp. 10-13, 14 (sinistra) – Mondadori Portfolio: The Print Collector/Heritage Images: p. 35; Electa/Sergio Anelli: pp. 46/47, 74; AKG Images: pp. 54/55, 62; Erich Lessing/K&K Achive: copertina p. 57; Album/Coll. Jean Vigne/KharbineTapabor: p. 58; Fototeca Gilardi: pp. 59, 60, 76, 83; Album/Fine Art Images: pp. 61, 75; Album/Florilegius: p. 70; Album/British Library: pp. 80/81, 86/87; New Yorker Films/Album: p. 84 – Shutterstock: pp. 36-37, 43, 52, 63, 94 – Cortesia degli autori: pp. 41, 42, 44/45, 48/49, 50, 88/89, 90/91, 91, 93, 95, 96-99, 106 (alto), 107, 108-109 – da: Pasquale Natella, Paolo Peduto, Pixous-Policastro, in «L’Universo», Firenze 1973: rielaborazione grafica di Marco Ambrogi: p. 92 – Cortesia Archivio fotografico Alexala, Alessandria: pp. 100/101, 101 (basso), 102-105 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 28, 34, 90 e 101. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina miniatura raffigurante l’arrivo dei soldati alla reggia di Camelot, da un’edizione del Livre de Messire Lancelot du Lac. XV sec. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Prossimamente maggio 1233

ALTENESCH La crociata dimenticata

medioevo nascosto

dossier

Nel duomo di San Candido

La leggenda della nave bianca



ANTE PRIMA

La Commedia dal finestrino ITINERARI • Inaugurato in occasione del

settimo centenario della morte del poeta, il Treno di Dante corre da Firenze a Ravenna e offre l’opportunità di fare tappa nei luoghi in cui si svolsero gli episodi piú significativi della sua esistenza

S

ono 136 i chilometri che, toccando sei Comuni, si snodano lungo una tratta ferroviaria del 1893, per ripercorrere i luoghi di Dante da Firenze a Ravenna. L’itinerario, messo a punto per il settimo centenario dalla morte del sommo poeta, caduto nel 2021, attraversa l’Appennino Tosco-Emiliano con il convoglio «100 porte», che ha gli interni in legno, proprio come le prime carrozze. Il circuito, che alla fine dell’Ottocento metteva finalmente in comunicazione il Tirreno e l’Adriatico, si inserisce in panorami verdi, segnati da ulivi, vigneti, case coloniche, distese di faggi e castagni. Il treno storico muove da Firenze, la città natale di Dante, all’epoca in pieno fermento, quasi come un

Il profilo dell’Alighieri nella versione realizzata dallo street artist brasiliano Kobra in via Pasolini, a Ravenna, tappa finale del Treno di Dante. aprile

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cantiere a cielo aperto, ma lacerata da conflitti interni, per i quali l’autore della Divina Commedia fu condannato all’esilio. Il percorso sulle sue orme comincia da S. Maria Novella, dove il giovane letterato frequentò lo Studium dell’Ordine domenicano, un centro fra i piú prestigiosi a livello europeo per la filosofia e la teologia; nella basilica, quasi certamente, l’Alighieri ha avuto l’opportunità di vedere il crocifisso ligneo di Giotto, che sintetizza novità figurative di portata rivoluzionaria.

Una realtà intermedia Non lontano si ergono S. Trinita, la chiesa in cui fu deliberata la condanna all’esilio del poeta, e la piccola struttura romanica dei Ss. Apostoli, in piazza del Limbo, l’antico cimitero dei piccoli non battezzati, che si riteneva vivessero nella realtà intermedia, riprodotta nella prima cantica della Commedia. Piazza della Signoria è il cuore

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politico di Firenze, mentre attorno alla Torre dei Cerchi si snoda il Quartiere Dantesco, con case-torri caratteristiche del Duecento e un fitto impianto viario di impronta medievale. È quindi il turno del «mio bel San Giovanni», il battistero

In alto la Tomba di Dante a Ravenna, realizzata tra il 1780 e il 1781 su progetto dell’architetto Camillo Morigia. In basso veduta di Brisighella (Ravenna), con due dei suoi monumenti simbolo: la Rocca Manfrediana (a sinistra) e la Torre dell’Orologio.

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ANTE PRIMA

INFO

in cui lo scrittore ricevette il primo sacramento, accanto alla cattedrale di S. Maria del Fiore, poi del monastero della Badia Fiorentina, in cui si riunivano i Priori e i Magistrati prima che fosse edificato Palazzo Vecchio, quindi del Bargello, la piú antica architettura civile della città. Infine vanno viste piazza Santa Croce, che fra il XIII e il XIV secolo era una zona periferica in cui si insediarono i Francescani, e la salita per San Miniato al Monte, paragonata dall’autore all’ascesa verso il Monte del Purgatorio. La seconda e la terza tappa del treno sono Borgo San Lorenzo, centro principale del Mugello, il territorio fra Toscana e Romagna solcato da Dante, e Marradi, chiamato anche

L’iniziativa del Treno di Dante è finanziata dalla Regione Emilia-Romagna, sviluppata da Apt Servizi EmiliaRomagna con Toscana Promozione Turistica e con la società Il Treno di Dante. Vi sono varie formule di viaggio, da 1 a 7 giorni, fino al 1° novembre con pausa estiva dal 4 giugno al 2 settembre. Info www.iltrenodidante.it In alto una sala di Palazzo Milzetti, a Faenza, oggi sede del Museo Nazionale dell’età neoclassica in Romagna. A destra vasi esposti nel Museo Internazionale della Ceramica di Faenza. In basso il Castello Estense di Ferrara.

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Bologna. Palazzo d’Accursio e la Fontana del Nettuno.

«castello», perché accoglieva per una pausa i viandanti: la leggenda vuole che il fiorentino nei primi anni di esilio abbia denunciato in loco il furto del proprio cavallo. La linea ferroviaria taglia quindi Brisighella, con un labirinto di viottoli, tratti di fortificazioni e scalinate ricavate nel gesso; il centro è uno dei «Borghi piú belli d’Italia», che l’Alighieri nel canto XXVII dell’Inferno stigmatizza per l’indirizzo politico contradditorio, con le parole «Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco che muta parte da la state al verno». La tappa successiva è la patria della ceramica artistica, Faenza, che il poeta conosceva

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bene: distingueva infatti il suo volgare da quello ravennate e inserí vari Faentini nella Commedia.

L’ultima dimora La destinazione della tratta è Ravenna, dove il letterato morí da esule. Le sue tracce sono numerose, a partire da Casa dei Polentani, nella quale fu ospite, per proseguire al Museo di Dante, allestito nei Chiostri Francescani con immagini e apparati multimediali che coinvolgono il fruitore nel racconto della sua vita travagliata e della sua produzione. Nella basilica di S. Francesco lo scrittore si ritirava spesso in preghiera o in meditazione e ricevette gli onori funebri. Nel

giardino, a pochi passi dalla settecentesca Tomba di gusto neoclassico, con le spoglie, si trovano le rovine di un muro in cui furono nascoste le ossa di Dante agli inizi dell’Ottocento e un cumulo di terra in cui furono celati i suoi resti durante il secondo conflitto mondiale. L’iniziativa del treno storico ha avuto un riscontro talmente positivo da indurre gli organizzatori a proporre diverse formule di viaggio e spostamenti confortevoli, fra legni e velluti, con a bordo guide specializzate nelle vicende dantesche, disponibili ad approfondimenti. Stefania Romani

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ANTE PRIMA

Le meraviglie dell’homo sanza lettere MOSTRE • Cosí si

volle definire Leonardo da Vinci, alla cui prodigiosa inventiva si devono macchine d’ogni genere. Fatte «rivivere» dai modelli esposti nel Palazzo dei Consoli di Gubbio Autoritratto di Leonardo, disegno a sanguigna su carta. 1517. Torino, Biblioteca Reale.

L’

arte e il genio di Leonardo da Vinci sono protagonisti della mostra allestita nel Palazzo dei Consoli di Gubbio, forte di oltre 50 ricostruzioni interattive, e fedelmente realizzate a mano, delle sue lungimiranti macchine e invenzioni, provenienti dal Museo Leonardo da Vinci di Firenze. Nato il 15 aprile 1452, Leonardo fu un pioniere nella ricerca e negli studi della tecnologia. Con le sue idee ha saputo coniugare in maniera mirabile l’attività artistica e l’attività scientifica, applicando le sue conoscenze di meccanica a opere di ingegneria civile e militare e dedicandosi con passione agli studi di anatomia, biologia, matematica e fisica. La famiglia fiorentina

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Ricostruzione in scala di un carro armato progettato da Leonardo (vedi disegno).

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Una collezione a regola d’arte La storia della collezione Niccolai nasce molto lontano nel tempo. Intorno al 1960 fu Carlo che coraggiosamente decise di trasformare il suo laboratorio di oggetti per gli accessori dell’alta moda italiana in una vera e propria fucina dove la maestria manuale produceva macchine di Leonardo di alto livello di artigianato. Un po’ per passione, un po’ per provare una nuova avventura, Carlo modello dopo modello diede inizio a una vera e propria collezione di macchine, funzionanti, di Leonardo da Vinci. Dopo aver acquistato e letto attentamente alcune pagine dei Codici di Leonardo, iniziò a replicare i progetti in scala piú larga, addirittura a grandezza naturale, trasformandosi letteralmente in un falegname. Lavorare il legno non è un mestiere semplice, soprattutto se si vuole dare vita attraverso il lavoro manuale a progetti elaborati secoli fa, oltretutto senza che nessuno li abbia mai realizzati. Carlo però non si è dato per vinto e grazie all’intraprendenza del figlio Gabriele si è fatto conoscere nell’ambito accademico. Senza l’apporto di studiosi capaci di leggere, decifrare e riportare alla maestria artigianale gli appunti scritti da Leonardo di fianco ai modelli nei Codici, Carlo non avrebbe mai affinato i suoi modelli. Tra gli illustri «collaboratori», ricordiamo Carlo Pedretti, grazie al cui contributo fu possibile ricostruire il robot capace di suonare il tamburo. In alto ricostruzione di un girarrosto a vapore.

In basso progetto per un carro armato. Londra, British Museum. Niccolai, a partire dal 1960, ha deciso di dare vita alle macchine disegnate da Leonardo nei suoi Codici (vedi box in alto).

Con i materiali dell’epoca Nella mostra si possono ammirare e anche «azionare» in autonomia, modelli in scala di varie dimensioni, realizzati utilizzando i materiali dell’epoca cioè legno, cotone, ottone, ferro e corde. Si tratta di macchine militari, di ingegneria civile e idraulica, accanto a studi per il volo umano e oggetti curiosi, pronti a meravigliare i visitatori. Alcune ricostruzioni di macchine leonardesche sono esposte anche in suggestivi spazi esterni del centro storico cittadino.

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ANTE PRIMA Ricostruzione di un dispositivo da poter utilizzare come contatore per l’acqua. In basso, a sinistra disegni di vari tipi di ingranaggi. Madrid, Biblioteca Nazionale di Spagna. In basso, a destra ricostruzione basata sullo studio per un’ala di un possibile velivolo.

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Ricostruzione di un cannone navale. In basso la sezione didattica della mostra.

DOVE E QUANDO

«L’ingegno di Leonardo. Le macchine» Gubbio, Palazzo dei Consoli fino al 1° maggio Orario lu-ve, 10,00-13,00 e 14,30-17,30; sa-do e festivi, 10,00-18,30 Info tel. 075 9274298; e-mail: museo@gubbioculturamultiservizi. it; www.palazzodeiconsoli.it

Leonardo ha disegnato i progetti di alcune delle piú importanti innovazioni nella storia dell’ingegneria. I modelli esposti in mostra sono opera di Carlo Niccolai prima e del figlio Gabriele oggi, titolare del Museo delle Macchine di Leonardo di Firenze. Si possono ammirare, tra gli altri: l’odometro, il girarrosto a vapore, il primo modello di carro armato, il ponte arcuato di tipo militare, il

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cannone navale, la scala mobile, il robot, il riflettore e ancora l’elica, il deltaplano e il paracadute. Sono parte di una prestigiosa collezione che conta oltre 400 modelli unici, ricostruiti in oltre 50 anni di ricerche e lavorazioni artigianali. Si tratta attualmente della collezione piú grande dedicata alle macchine di Leonardo da Vinci ed è richiesta per esposizioni che hanno toccato, tra gli altri,

Stati Uniti, Brasile, Corea del Sud e Giappone, curate da Niccolai srl e Teknoart Firenze. La mostra di Gubbio è la seconda tappa di un grande tour itinerante che proseguirà per i prossimi dieci anni.

«Vietato non toccare» Parola d’ordine della mostra a Gubbio è «vietato non toccare»: i visitatori diventano infatti protagonisti attivi, potendo azionare in modo autonomo le macchine attraverso il movimento di maniglie e manovelle cosí da scoprirne il facile funzionamento.

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ANTE PRIMA

Legnano, una città per la storia D

Ricostruzione di un prototipo di paracadute disegnato da Leonardo. Accanto a ogni macchina è visibile l’immagine della pagina del codice con il disegno eseguito da Leonardo, utilizzata per la ricostruzione fedele del modello. I suoi manoscritti testimoniano, infatti, gli esperimenti compiuti, dalle soluzioni ideate per risolvere problemi pratici del tempo alle intuizioni per possibilità future. Pochissimi sono i progetti di Leonardo arrivati alla costruzione, tanto da essere ritenuti da alcuni studiosi solo oggetti di fantasia. Ci sono documentazioni e prove, invece, che ne realizzò diversi, come il contatore d’acqua di cui è presente il modello costruito per Villa Rucellai a Firenze. Verso il 1510 il padrone di casa chiese a Leonardo un disegno per un macchinario capace di calcolare l’acqua da erogare nel suo giardino botanico. Altri non era che una ruota dispensatrice di acqua a ritmo costante: oggi la conosciamo grazie a un disegno, riprodotto sull’originale di Leonardo, da Benvenuto Della Volpaia, abile costruttore di orologi e altri meccanismi per la misurazione. (red.)

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al 14 al 16 aprile 2023 si tiene a Legnano «La storia tra le righe», prima edizione di un Festival di Letteratura Storica che nasce su impulso di Fondazione Palio e del Comune di Legnano. A Legnano, nel maggio del 1176, le truppe della Lega Lombarda riuscirono nell’impresa di arrestare la calata dell’esercito imperiale di Federico Barbarossa, in una leggendaria battaglia ricordata secoli dopo anche in un’opera di Giuseppe Verdi e nell’Inno di Mameli. Ed è il legame con un avvenimento del passato cosí importante per la storia d’Italia – celebrato annualmente sin dal 1935 con la rievocazione storica del Palio di Legnano – che fa della città lombarda, non lontana da Milano, la sede ideale per ospitare un festival dedicato alla storia antica, moderna e contemporanea in tutte le sue diverse declinazioni, dalla narrativa alla saggistica, dai laboratori per bambini ai libri per ragazzi, dai testi accademici alle graphic novel, dalle inchieste giornalistiche alle riflessioni sulle questioni dell’attualità.

Un ricco calendario di incontri A inaugurare il Festival, venerdí 14 aprile alle 21,00, sarà Marcello Simoni, che guiderà gli spettatori alla scoperta della magia del romanzo storico. Le mattine di sabato e domenica saranno dedicate a incontri accademici organizzati in collaborazione con le due università milanesi partner della manifestazione, con Laura Pepe e Duccio Balestracci, e a laboratori a tema storico dedicati ai piú piccoli, con Fausto Vitaliano e Luca Crovi, mentre nei pomeriggi sono previsti incontri con autori di narrativa e saggistica storica fra i piú noti e apprezzati: Luigi Barnaba Frigoli, Marco Buticchi, Federico Canaccini, Paola Cereda, Fulvio Ferrario, Alessandro Milan, Carla Maria Russo. L’incontro di chiusura del Festival, domenica 16 aprile alle 21, è affidato invece all’ex magistrato, giurista e saggista Gherardo Colombo, con una riflessione sulla Carta costituzionale. Due sedi, cariche anch’esse di storia, ospitano gli incontri: il Castello Visconteo e Villa Jucker, sede dell’associazione Famiglia Legnanese, trasformando la città in un laboratorio di idee, un luogo dove autori, editori e lettori possano convergere condividendo la passione per la storia. La rassegna è ideata e curata da Incipit Eventi culturali e letterari di Amanda Colombo, con la collaborazione di Università Cattolica del Sacro Cuore, Università Statale di Milano, Università degli Studi Milano Bicocca e Fondazione Arte della Seta Lisio-Firenze. Info www.fondazionepalio. org/la-storia-tra-le-righe; e-mail: segreteria@fondazionepalio.org; Facebook: @paliodilegnano.official; Instagram: @paliodilegnano_official; Twitter: @PaliodiLegnano; Youtube: @paliolegnano (red.)



ANTE PRIMA

Porgi l’altra faccia RESTAURI • Il magnifico

stendardo dipinto da Antonio Alberti per la confraternita urbinate di Sant’Antonio Abate si accinge a mostrarsi, finalmente, in tutti i suoi particolari. Compreso il lato posteriore, finora sacrificato

In alto Crocefissione, recto dello stendardo dipinto da Antonio Alberti da Ferrara. 1438. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. A sinistra la movimentazione del dipinto in vista della sua esposizione a Roma.

L

a mostra «Arte liberata 19371947. Capolavori salvati dalla guerra» (visitabile fino al 10 aprile presso le Scuderie del Quirinale, a Roma) ha avuto nella Galleria Nazionale delle Marche il partner principale. E ora, a fronte degli importanti prestiti concessi dal museo urbinate, l’istituto romano ha sottoscritto un accordo con il quale si è impegnato a finanziare il restauro dello stendardo di

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Antonio di Guido di Giovanni Recchi, piú noto come Antonio Alberti da Ferrara, rappresentante la Crocefissione (recto) e i Santi Giacomo Maggiore e Antonio Abate (verso). Il lavoro è stato affidato al restauratore Giacomo Maranesi. Lo stendardo fu realizzato nel 1438 per la Confraternita di Sant’Antonio Abate di Urbino; tuttavia nel 1831, quando il cardinale Giuseppe Albani fece costruire il nuovo palazzo

di famiglia demolendo gli edifici preesistenti tra cui l’Oratorio della Confraternita, gli arredi e gli oggetti d’arte, compreso lo stendardo, furono trasferiti nell’Oratorio di S. Giovanni Battista. Negli anni Sessanta dell’Ottocento l’opera fu trasferita nel Museo dell’Istituto di Belle Arti delle Marche, presso l’ex convento di S. Benedetto, per poi passare dal 1883 nel Palazzo Ducale di Urbino, nuova sede di quel Museo aprile

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solitamente gli appartiene, per lasciare maggior spazio a una narratività piú scarna e didascalica. A causa dell’eccessiva esposizione devozionale e di evidenti ridipinture, l’opera ha in parte perso le caratteristiche originali, pur mantenendo la solidità dell’impianto primitivo. Pur non presentando fenomeni di degrado in progressione, la lettura del dipinto è oggi disturbata dalla presenza dall’alterazione dei vecchi interventi di restauro, mentre, il verso dell’opera, nella collocazione attuale, non è visibile. Il restauro mirerà a eliminare i potenziali fattori di degrado e le interferenze visive attraverso la rimozione dei materiali obsoleti legati ai precedenti interventi, risanando le lacerazioni, distendendo il supporto e pulendo le superfici pittoriche. Al termine delle operazioni, approfittando anche del riallestimento del piano nobile del Palazzo Ducale, l’opera sarà collocata in modo tale da rendere visibili ambedue le facce dipinte. (red.) DOVE E QUANDO

Galleria Nazionale delle Marche Urbino, Palazzo Ducale Info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it che, nel 1912, sarebbe diventato Galleria Nazionale delle Marche.

Ai piedi della Croce Come detto, le due facce dello stendardo raffigurano, sul recto, la Crocefissione, con Longino che trafigge il costato del Cristo e, ai piedi della Croce, la Madonna, San Giovanni Apostolo e la Maddalena Genuflessa; mentre, sul retro, si riconoscono i santi Giacomo Maggiore e Antonio Abate. In quest’opera l’autore appare meno legato al decorativismo tardo-gotico, che

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In questa pagina un altro momento della movimentazione dello stendardo e la struttura nella quale è attualmente montato, che impedisce di vederne il verso, raffigurante i santi Giacomo Maggiore e Antonio Abate. Dopo il restauro e il rientro a Urbino, sarà invece possibile ammirare entrambe le facce del dipinto.

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AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA ROMA MEDIEVALE. IL VOLTO PERDUTO DELLA CITTÀ Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 16 aprile

Riscoprire il volto perduto della Roma fra VI e XIV secolo e il suo ruolo cardine nell’Europa cristiana e medievale sia per i semplici pellegrini sia per regnanti e imperatori. Questo l’obiettivo della nuova mostra allestita negli spazi del Museo di Roma in Palazzo Braschi. Articolato in 9 sezioni, il percorso espositivo nasce con lo scopo di far conoscere aspetti poco noti del patrimonio dell’Urbe, attraverso una selezione di oltre 160 opere tra mosaici, affreschi e opere mobili, provenienti prevalentemente da raccolte e collezioni pubbliche romane e da luoghi

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di culto, oltre che da prestigiose istituzioni museali come i Musei Vaticani. Parte, infatti, dalla scoperta della città medievale attraverso i suoi luoghi piú iconici, quali basiliche e palazzi, ma anche dal contesto ambientale, oggi profondamente modificato, come il corso del Tevere con porti e ponti dove si svolgevano vita e attività urbane. L’immersione nella realtà del Medioevo romano si approfondisce poi esaminando le ricche committenze di papi e cardinali, l’attività di artisti e botteghe, il fascino della città come imprescindibile méta di pellegrinaggio anche per re e imperatori. Ricchi apparati didattici illustreranno in mostra i molteplici volti dell’indiscussa capitale dell’Europa medievale. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museodiroma.it

GUBBIO

ROVERETO

L’INGEGNO DI LEONARDO. LE MACCHINE Palazzo dei Consoli fino al 1° maggio

GIOTTO E IL NOVECENTO MartRovereto fino al 1° maggio

Ospitata nei magnifici spazi del Palazzo dei Consoli, la mostra offre l’occasione di scoprire la genialità di Leonardo da Vinci, un pioniere nella ricerca e negli studi della tecnologia. Con le sue idee ha saputo coniugare in maniera mirabile l’attività artistica e l’attività scientifica, applicando le sue conoscenze di meccanica a opere di ingegneria civile e militare e dedicandosi con passione agli studi di anatomia, biologia, matematica e fisica. La famiglia fiorentina Niccolai, a partire dal 1960, ha deciso di dare vita alle macchine disegnate da Leonardo nei suoi Codici, unendo il sapere artigiano alla ricerca accademica. Nella mostra a Palazzo dei Consoli di Gubbio si possono ammirare e anche «azionare» in autonomia, modelli in scala di varie dimensioni, realizzati utilizzando i materiali dell’epoca cioè legno, cotone, ottone, ferro e corde. Si tratta di macchine militari, di ingegneria civile e idraulica, accanto a studi per il volo umano e oggetti curiosi, pronti a meravigliare visitatori di ogni età. Alcune ricostruzioni di macchine leonardesche sono esposte anche in suggestivi spazi esterni del centro storico cittadino. info tel. 075 9274298; e-mail: museo@gubbioculturamultiservizi. it; www.palazzodeiconsoli.it

Il museo roveretano presenta 200 opere di artisti moderni e contemporanei ispirate a Giotto, il maestro che rivoluzionò la pittura medievale. Il percorso comincia con una grande installazione immersiva che riproduce la Cappella degli Scrovegni di Padova, capolavoro assoluto del pittore toscano, e

continua fra le creazioni di grandi autori e autrici del XX secolo accomunati dalla passione per la figura di Giotto, studiato, imitato, o preso a modello di perfezione e spiritualità. Nel primo Novecento Carlo Carrà, Mario Sironi e Arturo Martini, ma anche Gino Severini, Massimo Campigli, Achille Funi, Ubaldo aprile

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Oppi, rintracciarono in Giotto il principale testimone di un’eternità alla quale guardare. Pochi decenni piú tardi, gli insegnamenti giotteschi influenzano l’opera di alcuni protagonisti dell’arte italiana come Giorgio Morandi, Fausto Melotti, Mario Radice, Lucio Fontana, ma anche il lavoro di grandi artisti internazionali come Henri Matisse, Yves Klein, Mark Rothko, Josef Albers e Tacita Dean. info tel. 800 397760 oppure 0464 438887; e-mail: info@ mart.trento.it; www.mart.trento.it BASSANO DEL GRAPPA I BASSANO. STORIA DI UNA FAMIGLIA DI PITTORI Museo Civico fino al 2 maggio

A raccontare le vicende della dinastia dei Bassano non sono soltanto le loro opere, ma anche le parole di Melania Mazzucco: il tutto a creare un’inedita «mostra racconto». Nessun pannello storicoartistico, nessuna didascalia che vada oltre l’essenzialità, solo le meravigliose creazioni dei Bassano e l’intenso filo del racconto della vita dei Dal Ponte, poi noti al mondo appunto come «i Bassano», protagonisti indiscussi della pittura del Rinascimento veneto. La loro epopea ebbe inizio con la discesa, correva l’anno 1464, a Bassano di Jacopo di Berto, conciatore di Gallio, nell’Altopiano di Asiago. Giunto sulle rive del Brenta, Jacopo trovò dimora in Contra’ del Ponte da cui deriverà il cognome futuro della celebre famiglia di pittori. Suo figlio Francesco, poi detto il Vecchio perché primo della dinastia, cominciò ad avventurarsi nell’arte della pittura. Alchimista dilettante, cartografo e decoratore piú che grande artista, Francesco dette vita a

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creazioni d’arte sacra che rispondevano alle richieste del mercato locale avviando un’eterogenea, attivissima bottega. Qui collaborano i figli, Giambattista e Jacopo, giovane di immenso talento che, con il suo pennello, avrebbe scritto pagine indelebili della storia dell’arte e della pittura italiana e non solo. Genio mite e riservato, è a lui che si deve il cambio di passo: quella che sino ad allora era soprattutto una forma di artigianato decorativo prende la valenza di grande arte. Arte coltivata, con successo, anche dai suoi figli – il talentuoso e melanconico Francesco il Giovane, Giambattista, e poi i diligenti Leandro e Gerolamo, fino al nipote Jacopo Apollonio che disegnava di nascosto – ai quali «il Bassano» seppe trasmettere amorevolmente la sapienza e la poesia della sua arte. I loro dipinti, ammantati da un ineffabile «mistero del quotidiano», conquistarono il mercato internazionale: grandi quadri di devozione sacra destinati alle chiese, ma anche ritratti, commoventi notturni e intense pastorali che, dalla

piccola Bassano, giunsero ad arricchire le grandi collezioni reali, da quella di Rodolfo II a Praga, alla Madrid di Filippo II, giungendo fino alle Americhe. Una storia che si conclude quando Jacopo Apollonio, formatosi sotto la guida dello zio Leandro, realizza le ultime repliche prodotte sui disegni e i modelli del nonno Jacopo. La storia dei Bassano, una vera e propria epopea per immagini iniziata sul finire del Quattrocento, esce cosí di scena avendo all’attivo oltre un secolo di grandissima fortuna. info tel. 0424 519901; e-mail: biglietteriamusei@comune. bassano.vi.it; www.museibassano.it TERAMO LA CAMERA DELLE MERAVIGLIE Castello Della Monica fino al 7 maggio

Il Castello Della Monica, una prestigiosa residenza neogotica riconsegnata alla collettività dopo importanti interventi di restauro, inaugura la sua stagione espositiva con una mostra che propone una selezione di preziosi e insoliti oggetti di arredo tardorinascimentali collezionati alla

metà dell’Ottocento dai fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi per la loro casa nel cuore di Milano. Suppellettili, armature, cassoni finemente decorati e intagliati, cofanetti in avorio, formano una vera e propria Wunderkammer, piccole camere delle meraviglie tutte da scoprire che entrano in dialogo con le suggestive sale della storica dimora teramana, tra pareti affrescate e vetrate policrome. Tra gli oggetti che si possono ammirare vi sono alcuni pregevoli manufatti legati alla storia e all’arte dell’Abruzzo e del Regno, come il cassone di legno di pioppo realizzato negli ultimi anni del Quattrocento che presenta un coperchio convesso, frutto di una ricostruzione ottocentesca. L’arredo ligneo è riccamente decorato in pastiglia dorata e

dipinta con lo stemma senese della famiglia Piccolomini, importante famiglia che godeva di ampi feudi anche in Abruzzo. O anche l’armatura cinquecentesca che rievoca l’uso bizzarro dei nobili che amavano fare i loro viaggi in terre sconosciute o presso i loro amici altolocati con i quali indossavano armature durante ricche feste celebrative. info tel 0861 250873 o 338 3901759; www.comune.teramo.it

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SAINT-GERMAIN-EN-LAYE IL MONDO DI CLODOVEO Musée d’Archéologie nationale fino al 22 maggio

Il Museo d’archeologia nazionale si trasforma in un grande gioco di fuga collettivo, facendo di ciascun visitatore l’eroe di un’avventura inedita, che ha luogo all’epoca dei Franchi: è questo il sorprendente risultato della mostra attualmente allestita negli spazi del castello di SaintGermain-en-Laye, che propone un approccio decisamente inconsueto al tema affrontato, che è quello dell’età merovingia e del suo primo sovrano, Clodoveo. Il percorso espositivo, ludico e interattivo al tempo stesso, rievoca dunque i tratti distintivi del primo Medioevo,

dispensando nozioni di storia e archeologia. Ai visitatori è data la possibilità di vestire i panni di un personaggio vissuto al tempo dei Merovingi e di costruire un proprio «percorso di vita», grazie a un’applicazione web o a libri-gioco. La fruizione delle diverse risorse – giochi, libri, video – è totalmente libera e ciascuno può scegliere la soluzione che preferisce, diventando attore della visita ed eroe della storia che ha confezionato. info www.museearcheologienationale.fr

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ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il

fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it TORINO LUSTRO E LUSSO DALLA SPAGNA ISLAMICA. FRONTIERE LIQUIDE E MONDI IN CONNESSIONE MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 28 maggio

Mare Nostrum, Mediterraneus,

Mar Bianco, Hayam Hatikhon, Grande Verde: tanti nomi per indicare un luogo di incontro, di scontro, di scambio, di battaglie e di dialogo fra popoli e culture diversi fra loro ma accomunati da una prossimità profonda. Il Mediterraneo ha sempre esercitato una forza d’attrazione a cui nessun popolo ha potuto sottrarsi: per lunghi secoli merci, tradizioni, invenzioni, scoperte sono nate o sono transitate da qui. Perché questo non è solo un mare e soprattutto non è solo Europa: è stato – e per certi versi è ancora – una possibilità dall’identità mutevole. Ciò che nasce sulle sponde del Mediterraneo si contamina per prossimità e si radica per necessità, innestandosi sull’esistente e assumendo identità e forme nuove. Cosí è accaduto con la lingua araba, ma soprattutto con le arti figurative, in particolare con la produzione tessile e ceramica: diverse raffigurazioni e tecniche della produzione di tappeti, tessuti e vasellame, custodite come segreti preziosi nei territori del Medio Oriente e del Nord Africa, sono approdate nella penisola iberica insieme ai

conquistatori, quasi un “effetto collaterale” della secolare dominazione, dando origine a una straordinaria produzione autoctona ibridata. Pregiati tappeti e frammenti tessili e ceramiche ispano-moresche di provenienze diverse datati tra il X e il XVI secolo, capaci di trasportare il visitatore in territori poco esplorati, aprono diverse traiettorie di conoscenza e riflessione e mettono in evidenza la relazione tra il mondo ispanico europeo e quello islamico nel contesto del Mediterraneo. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it TORINO ALL’OMBRA DI LEONARDO. ARAZZI E CERIMONIE ALLA CORTE DEI PAPI Reggia di Venaria, Sale delle Arti fino al 18 giugno

La nuova stagione della Reggia di Venaria si apre con una mostra che offre l’occasione di compiere un viaggio all’interno di alcune fra le piú importanti cerimonie papali: la Lavanda dei piedi e la Coena Domini che si svolgevano il Giovedí Santo nel cuore del Palazzo Vaticano, in ambienti solenni impreziositi da straordinarie opere d’arte, legate ai nomi di aprile

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Leonardo e Raffaello. Cogliendo il senso di antiche cerimonie, ricche di simboli e di significati, arazzi, quadri, incisioni e oggetti raccontano una storia che affonda le sue radici lontano nel tempo, immergendo il visitatore in un mondo di tradizioni e antichi riti. Non solo atti esteriori, ma importanti testimonianze della Chiesa romana. La storia che si racconta ebbe inizio nel

panno, interamente tessuto in oro e seta, l’Ultima Cena milanese è trasposta con assoluta fedeltà, ma con un’importante variazione. Lo sfondo – che nell’originale è quasi un’astrazione – diviene un’architettura rinascimentale: come se l’Ultima Cena si svolgesse alla corte di Francia. Francesco I era un grande estimatore di Leonardo, tanto da averlo chiamato alla sua

1533 quando, in occasione del matrimonio di Caterina de’ Medici, nipote di papa Clemente VII, ed Enrico di Valois, secondogenito del re di Francia Francesco I, quest’ultimo donò al pontefice un prezioso arazzo raffigurante l’Ultima Cena di Leonardo. Un matrimonio e un regalo importante che suggellavano l’alleanza tra la Francia e il papato contro l’imperatore Carlo V (responsabile del sacco di Roma, avvenuto solo sei anni prima, nel 1527). L’opera fu realizzata dopo il 1516 su ordine dello stesso Francesco I e di sua madre Luisa di Savoia. Questo spiega la presenza di simboli sabaudi lungo tutta la bordura dell’arazzo. Nel prezioso

corte, ed è ormai opinione di molti che il cartone dell’arazzo, su cui fu poi effettuata la successiva tessitura, sia stato realizzato in Francia sotto la supervisione dello stesso Leonardo. info www.lavenaria.it

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aprile

VENEZIA VITTORE CARPACCIO. DIPINTI E DISEGNI Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 18 giugno

Frutto di una proficua collaborazione fra musei ed enti italiani e stranieri, la retrospettiva riunisce soprattutto opere oggi in musei e collezioni internazionali, oppure in chiese degli antichi territori della

Serenissima, dalla Lombardia all’Istria e alla Dalmazia: opere che illustrano compiutamente la varietà e l’altezza della pittura di Carpaccio, seguendone anche l’evoluzione; fino al capitolo conclusivo della sua carriera, tra secondo e terzo decennio del Cinquecento, quando l’arte del maturo maestro, pur rimanendo colta e suggestiva, pare non tenere il passo delle

novità tematiche e tecniche introdotte da Giorgione. Carpaccio era anche un disegnatore superlativo: dal notevole corpus dei suoi disegni – il maggiore pervenuto a noi di un pittore veneziano del suo tempo – in mostra sono presenti numerosi studi su carta, spesso straordinari di per sé, che spaziano da rapidi schizzi compositivi d’insieme ad accurati studi preparatori di teste e pose. Carpaccio formò e alimentò la sua arte nella tradizione pittorica veneziana dei Bellini, dei Vivarini, nonché di altre influenti personalità e tendenze, come la lezione dei toscani, dei ferraresi, di Antonello da Messina, dei tedeschi (Dürer) e dei «primitivi» fiamminghi. Ne derivò una personalità subito originale e autonoma, soprattutto attratta dai particolari di flora, fauna e paesaggio, di architettura, arredo e decorazione, di abbigliamento ed esotismo. info https://palazzoducale. visitmuve.it


AGENDA DEL MESE Leonardo e Perugino stavano imponendo una nuova «maniera», che Costa comprese subito e della quale fu tra i maggiori interpreti, anche dopo il trasferimento a Mantova alla corte dei Gonzaga. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www.palazzodiamanti.it TORINO

BUDDHA10. FRAMMENTI, DERIVE E RIFRAZIONI DELL’IMMAGINARIO VISIVO BUDDHISTA MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 3 settembre

FERRARA RINASCIMENTO A FERRARA. ERCOLE DE’ ROBERTI E LORENZO COSTA Palazzo dei Diamanti fino al 19 giugno

La rassegna tiene a battesimo la riapertura dei nuovi spazi espositivi di Palazzo dei Diamanti, oggetto di un complesso intervento di restauro e riqualificazione, e costituisce la prima tappa di un progetto piú ampio e ambizioso intitolato Rinascimento a Ferrara 1471-1598 da Borso ad Alfonso II d’Este, che indagherà la vicenda storicoartistica del periodo compreso tra l’elevazione della città a ducato e il suo passaggio dalla dinastia estense al diretto controllo dello Stato Pontificio. Gli altri momenti del percorso saranno dedicati ai grandi protagonisti di quella stagione: Mazzolino e Ortolano, Dosso e Garofalo, Girolamo da Carpi e Bastianino. Le oltre cento opere esposte, provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, offrono l’occasione di scoprire (o riscoprire) l’arte di due

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grandi interpreti del Rinascimento italiano, entrambi ferraresi: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Dotato di un incredibile talento compositivo, straordinario per qualità ed espressività emotiva, Ercole de’ Roberti (1450 circa-1496) era l’erede dell’Officina ferrarese, il piú giovane e intelligente tra quanti parteciparono al clima culturale di Palazzo Schifanoia, negli ultimi anni del governo di Borso che proprio allora riceveva il titolo di duca (1471). Operò a piú riprese a Bologna, dove lasciò una impronta profondissima, ma non vi è dubbio che a Ferrara trovò l’ambiente piú adatto in cui esprimersi durante l’ultimo decennio della sua vita, trascorso alle dipendenze della corte. Fu Lorenzo Costa (14601535), di dieci anni piú giovane, a raccoglierne l’eredità e a continuarne lo stile nelle opere giovanili. Ma durante un lungo soggiorno a Bologna la sua pittura mutò in direzione di una maggiore morbidezza, di una classicità calma e distesa. Il mondo stava cambiando,

Quali significati hanno gli oggetti rituali presenti nelle collezioni del MAO e come venivano utilizzati e percepiti nel loro contesto originario? Perché e come sono entrati a far parte del patrimonio del museo – cosí come di altri musei di arte asiatica in ambito europeo? E ancora: quali sono i problemi posti dalla conservazione e dal restauro, subordinati al gusto e alle tecniche che cambiano nel tempo? Qual è il rapporto fra

buddhismo e nuove tecnologie? Da queste domande prende avvio la nuova mostra «Buddha10», un progetto che parte dalle opere presenti nelle collezioni per aprire prospettive piú ampie relative a questioni che riguardano il museo, le sue collezioni e su cosa significa gestire, custodire e valorizzare un patrimonio di arte asiatica in ambito occidentale. Nelle sale dedicate alle esposizioni temporanee, in uno spazio essenziale ed evocativo, oltre venti grandi statue buddhiste in legno o pietra di epoche diverse (dal V al XIX secolo) delle collezioni del MAO sono accostate ad alcune sculture – tra cui oltre trenta bronzetti votivi della collezione Auriti e due straordinarie teste scultoree in pietra di epoca Tang (618-907 d.C.) – provenienti dal Museo delle Civiltà di Roma, con cui il Museo ha avviato una proficua e articolata collaborazione, e a un importante prestito proveniente dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova.

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Secondo la tradizione, Galgano sarebbe nato nel borgo senese di Chiusdino. Cavaliere appartenente alla piccola nobiltà locale, si convertí alla vita ascetica ed eremitica dopo le visioni dell’Arcangelo Michele, come rappresentato nelle sei scene del Reliquiario. Condusse la sua vita monastica nell’Eremo di Montesiepi, da lui edificato su una collina vicina al luogo dove sarebbe sorta l’Abbazia. Morí, secondo le fonti, il 30 novembre 1181. Appena quattro anni dopo, a seguito dei doverosi accertamenti canonici, papa Lucio III lo proclamò santo nel 1185. info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com info tel. 011 4436927; www.maotorino.it

Roma – Teatro Argentina 16 aprile info www.teatrodiroma.net

SIENA DALLA SPADA ALLA CROCE. IL RELIQUIARIO DI SAN GALGANO RESTAURATO Cripta del Duomo fino al 5 novembre

Un furto clamoroso, nel lontano 1989, dal Museo del Seminario Arcivescovile di Siena. Uno straordinario recupero, oltre trent’anni piú tardi, grazie al Comando dei Carabinieri, Tutela Patrimonio Culturale. E infine il restauro, eseguito nei Laboratori dei Musei Vaticani. È questa l’occasione per inaugurare la mostra «Dalla Spada alla Croce». Al centro della vicenda, una croce liturgica, due pissidi, cinque calici e soprattutto un capolavoro della produzione orafa senese del XIV secolo, il Reliquiario di San Galgano, oggetto mirabile e di intensa devozione popolare. Su di esso, decorate finemente in preziosi smalti traslucidi, sono raffigurate le scene della vita del santo e della sua spada.

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APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. IX Edizione

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ltimo appuntamento con «Luce sull’archeologia», la cui nona edizione, «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato», ha proposto un percorso tematico di grande suggestione, che ha esaminato l’aspirazione delle classi piú elevate della società romana a ricreare i lussi delle corti ellenistiche come segno di prestigio sia politico che personale. Esigenze di rappresentanza e ostentazione del lusso e di una cultura arricchita e accresciuta dal contatto con le altre genti del Mediterraneo e del Lazio antico, una visione dell’arte dunque come sentimento del sublime, come esperienza di bellezza, di civiltà, di identità civile, base del linguaggio dei ricchi e potenti ottimati romani, che presero il sopravvento nonostante la fiera condanna dei moralisti e le severe leggi suntuarie. Il progetto «Luce sull’archeologia» è stato curato dal Teatro di Roma-Teatro Nazionale, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Romani, la rivista «Archeo» e la società Dialogues. Raccontare L’Arte. Ciascun incontro è stato arricchito dai contributi di storia dell’arte proposti da Claudio Strinati, dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner e dalle introduzioni di Massimiliano Ghilardi. Questo il programma dell’appuntamento in programma domenica 16 aprile: Maurizio Bettini, Una parola magnifica e potente; Paolo Di Paolo, La parola oltre il sipario; Adriano La Regina, Teatro: spazio urbano della politica e del consenso.

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ANTE PRIMA

IOEVO MED Dossier

LO/MI.

MEDIOEVO DOSSIER

IA ST CI NA EDI I D M LA EI D

conv. L. 46/2004, art. 1, c.1,

UNA FAMIGLIA ALLA CONQUISTA DELL’EUROPA

orse originari del Mugello, i Medici costruirono la propria fortuna a Firenze e il loro nome finí quasi con il diventare sinonimo di quello della città del giglio. Alla loro straordinaria parabola è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo», che ripercorre l’intera storia della casata, a partire da quando, intorno alla metà del XII secolo, i suoi esponenti si mettono in luce dedicandosi con profitto alla mercatura e al cambio, attività che si trasformano nel trampolino dal quale i Medici spiccano il salto che li porta a scalare le gerarchie del potere politico. Divengono cosí i primi protagonisti di un sistema amministrativo assai complesso, che Cosimo il Vecchio e i suoi successori dimostrano di saper governare con estrema abilità. Un’egemonia rinsaldata da un sapiente gioco di alleanze, matrimoni combinati e partecipazione alla vita religiosa, che culmina, quest’ultima, con l’ascesa al soglio di Pietro di ben quattro discendenti di Giovanni di Bicci, artefice primo delle fortune medicee. Nel Dossier c’è spazio per tracciare il profilo di personaggi illustri, da Lorenzo il Magnifico a Caterina de’ Medici, che grazie al matrimonio con Enrico II, duca d’Orléans, divenne regina di Francia. Né manca, e non avrebbe potuto essere altrimenti, la documentazione della eccezionale fioritura delle arti di cui i Medici si fecero promotori, oggi testimoniata da monumenti eccelsi e da collezioni di valore inestimabile, prima fra tutte quella degli Uffizi.

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UNA FAMIGLIA ALLA CONQUISTA DELL’ EUROPA

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I MEDICI

N°55 Marzo/Aprile 2023 Rivista

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GLI ARGOMENTI

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• Le origini • Il quadro storico • I protagonisti: da Lorenzo il Magnifico a Savonarola • L’arte al tempo dei Medici aprile

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Il volo delle streghe, olio su tela di di Francisco Goya. 1797-1798. Madrid, Museo del Prado.

Firenze. Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. La parete Est, con il segmento della processione guidato da Gaspare: tra i personaggi alle sue spalle vi sono vari membri della famiglia Medici. Benozzo Gozzoli, che ne è l’autore, ultimò l’opera nel 1459. Nella pagina accanto busto in terracotta policroma di Lorenzo de’ Medici, opera di un artista ignoto, forse su modello di un originale di Andrea del Verrocchio e Orsino Benintendi. 1513-1520. Washington, National Gallery of Art.

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battaglie adrianopoli

Nella piana 14 APRILE 1205

fatale

di Federico Canaccini

Il tristemente famoso saccheggio di Costantinopoli del 1204 segnò una delle pagine meno gloriose dell’avventura crociata e sconvolse gli equilibri geopolitici delle regioni sulle quali aveva fino a quel momento regnato Bisanzio. Turbolenze di cui approfittò, fra gli altri, lo zar bulgaro Kalojan, che, un anno piú tardi, inflisse una pesante sconfitta alle truppe dell’impero latino nei pressi della città di Adrianopoli

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a posizione di Adrianopoli, l’attuale Edirne, in Tracia (Turchia), è ancora oggi particolarmente significativa, trovandosi al confine tra Turchia, Grecia e Bulgaria, vera cerniera fra l’Europa e l’Asia: per questo motivo, la piana prospiciente la città che sino al XX secolo ha portato il nome dell’imperatore Adriano (che l’aveva rifondata nel 125 d.C.) – fu teatro, nel corso dei secoli, di oltre una decina di battaglie, la piú famosa delle quali fu quella combattuta nel 378 d.C. tra l’esercito romano, guidato dall’imperatore Valente, e una coalizione di popoli barbarici, capeggiati dal re dei Visigoti Fritigerno. In quell’occasione Roma subí una delle sconfitte piú disastrose della sua storia e lo stesso imperatore morí in battaglia. Nel 1050, poi, si affrontarono l’impero bizantino e un esercito di Peceneghi, una tribú seminomade di lingua turca, abilissima nel tirare con l’arco dal dorso dei piccoli cavalli di origine caucasica: 15 000 di loro, addestrati da Costantino Monomaco per una campagna contro i Turchi Selgiuchidi, si rivoltarono contro i Bizantini e si scontrarono poco fuori Adrianopoli. Un altro scontro memorabile si combatté a seguito della cosiddetta IV crociata, la spedizione che, partita nel 1204, è passata alla storia per essersi di fatto risolta in un trionfo veneziano piú che crociato. Capitanati da famosi condottieri, i crociati erano radunati ormai sin dal giugno del 1202 presso la chiesa veneziana di S. Nicolò di Lido e attendevano impazientemente di essere imbarcati: per farlo, però, era necessario che qualcuno pagasse 85 000 marchi, la cifra pattuita per il trasbordo

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Nella pagina accanto L’imperatore bizantino Alessio IV Angelo davanti al Doge di Venezia, Enrico Dandolo, chiede l’aiuto dei crociati, olio su tela di Andrea Vicentino (al secolo Andrea Michieli). 1578. Venezia, Palazzo Ducale.

fino in Terra Santa di quella enorme massa umana. In settembre i crociati iniziarono a temere di vedersi tagliare i rifornimenti se non avessero pagato e perciò, considerato che sarebbe stato difficile reperire quella quantità di denari d’argento, si accordarono con la Repubblica su una dilazione del debito tramite la loro partecipazione alla conquista della città di Zara, porto nell’Adriatico di strategica importanza, da poco passata in mano agli Ungheresi. Il pontefice si oppose a tale proposta, ma Bonifacio di Monferrato, leader crociato, ed Enrico Dandolo, doge di Venezia, non andarono molto per il sottile e stipularono l’accordo.

Un terribile inganno

L’8 novembre del 1202, finalmente, la flotta salpò e, due giorni piú tardi, giunse in vista di Zara, che fu circondata, espugnata e saccheggiata, provocando l’ira di papa Innocenzo, che scomunicò i Veneziani per avere ordito quello che si palesò come un arguto quanto terribile inganno ai danni dei crociati e della cristianità. Il doge non si lasciò però intimidire e, anzi, cercò di trarre profitto dalla situazione e contattò il re di Germania Filippo di Svevia, anch’egli scomunicato, prospettandogli un ardito piano. Ai primi del 1203 al cospetto di Bonifacio di Monferrato – che aveva assunto il comando delaprile

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Regno di Cipro (dal 1192)

L’impero all’avvento dei Comneni (1081) Riconquiste di Alessio I dal 1081 al 1097 Riconquiste di Alessio I dal 1097 al 1118 Riconquiste di Giovanni II e di Manuele I dal 1118 al 1180 L’impero alla scomparsa dei Comneni (1185) L’impero al crollo degli Angeli (1204) Tentativi di conquista normanni Invasioni di Peceneghi e Cumani Invasione di Turchi Selgiuchidi

Erzurum

Amasya

Pergamo

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Trebisonda

Adrianopoli Costantinopoli

Gallipoli

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Cartina che mostra l’assetto geopolitico della regione greco-turca all’epoca in cui si svolsero la battaglia di Adrianopoli e i fatti che la precedettero. A sinistra, in basso frammento di mosaico nella basilica di S. Giovanni Evangelista a Ravenna raffigurante papa Innocenzo III che incontra il giovane Alessio, figlio del deposto Isacco II e futuro imperatore Alessio IV. 1213 circa.

le truppe crociate – si presentò un araldo dalla Svevia, recante una proposta del principe bizantino Alessio IV Angelo, cognato di Filippo: se, grazie ai crociati, avesse ottenuto il trono di Bisanzio, costui si impegnava ad assicurare ai crociati viveri e paghe, a fornire loro truppe armate ausiliarie, e – soprattutto! – a pagare la somma rimasta per saldare i Veneziani. Altre clausole della proposta erano un contingente stabile di 500 cavalieri bizantini in Terra Santa e, argomento di interesse per il papa, prometteva la sottomissione della Chiesa di Bisanzio a quella di Roma. La proposta piacque praticamente a tutti: coloro tra i crociati che erano rimasti inorriditi da ciò che era palesemente lontano dai progetti iniziali, si defilarono o furono comprati a suon di monete d’oro elargite dai Veneziani. E quella che avrebbe dovuto configurarsi

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come una spedizione contro gli infedeli iniziò a essere presentata come una nuova crociata contro gli scismatici bizantini che, da sempre – a detta dei sobillatori – avrebbero ostacolato i piani dei crociati e del pontefice. Quest’ultimo non cambiò opinione, pur comprendendo che l’eventuale successo della spedizione organizzata dai nobili scomunicati avrebbe in qualche modo favorito la Chiesa di Roma: l’ordine emanato di non combattere altri cristiani cadde nel vuoto e quando, il 25 aprile, giunse a Zara anche Alessio, la spedizione prese il largo. Sostarono a Durazzo, dove Alessio fu riconosciuto imperatore, poi a Corfú, poi ad Andro e infine, superato lo stretto dei Dardanelli, giunsero di fronte a Costantinopoli il 24 giugno del 1204.

La fuga dell’usurpatore

Alessio III Angelo, che allora sedeva sul trono bizantino dopo averlo usurpato grazie a un complotto, poteva fare affidamento su alcuni reparti della guardia imperiale, su reggimenti franchi, peceneghi, slavi e vareghi, tutti – a dire il vero – di traballante fedeltà di fronte all’arrivo dei crociati e consapevoli della debolezza di cui il sovrano aveva in quegli anni dato prova. Dopo aver circondato la città, i Veneziani aprirono una breccia nelle mura lungo il Corno d’Oro il 17 luglio: l’imperatore fuggí in Tracia, trascindando con sé la figlia e alcuni preziosi e riparando a Mosynopolis (città i cui resti si conservano presso l’odierna Komotini, in Grecia, n.d.r.). In tutta fretta i Bizantini posero sul trono l’anziano e cieco imperatore detronizzato Isacco, padre del nuovo pretendente Alessio, il quale, non potendo ignorare la figura paterna, una volta entrato in città, fu incoronato in S. Sofia il 1 agosto del 1203, con il titolo di co-imperatore di Costantinopoli. Il giovane e inesperto nuovo sovrano tentò immediatamente di imporre il proprio dominio, elargendo grandi favori ai baroni crociati, promettendo il denaro da versare ai Veneziani, che però non aveva: sul finire dell’anno l’atmosfera divenne ben presto insopportabile, dal momento che i Bizantini venivano continuamente vessati dai cavalieri crociati e dai baroni franchi,

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Ritratto dell’imperatore Alessio IV Angelo, da una pagina dell’edizione manoscritta delle opere di Giovanni Zonara contenuta nel Codex Mutinensis graecus 122. XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

spesso ubriachi, violenti e incuranti di qualsiasi regola, frustrati dall’inadempienza delle promesse fatte loro riguardo agli armati e al denaro. Ben presto i crociati compresero che l’inesperto Alessio IV non avrebbe mai soddisfatto le loro aspettative e organizzarono quindi un tumulto con lo scopo di cacciarlo: la fine fu ben peggiore, giacché, catturato dalla folla, il neoimperatore fu gettato in un sotterraneo e strangolato. Il potere passò a un popolano, ma poi ne approfittò Alessio V, detto Murzuflo («dalle folte sopracciglia»), protovestiario dell’appena defunto Alessio IV e apertamente ostile agli occupanti latini. Per i Veneziani fu l’occasione per convincere il resto dell’esercito a occupare militarmente la città, insediandovi finalmente un imperatore occidentale, che fu individuato nell’ambizioso Bonifacio del Monferrato. L’esercito crociato si organizzò rapidamente per conquistare la Nuova Roma: il primo assalto venne sferrato il 6 aprile, ma fu respinto. Poi, in un crescendo di furia, sei giorni dopo venne aperta una breccia nelle mura e i Franchi si riversarono nella città, mettendola a ferro e fuoco per giorni: Murzuflo era fuggito da giorni e il potere era passato a Teodoro Lascaris, che assistette impotente a uno dei piú feroci saccheggi che la storia d’Europa ricordi. La città era ricca di opere d’arte di provenienza greca: se molti manufatti furono presi dai Veneziani, molti altri divennero oggetto di vile distruzione da parte di altri cavalieri, sopratutto fiamminghi e franchi che si lasciarono andare a ogni sorta di violenza. Per tre giorni la città fu in preda a orde di ubriaconi, violenti, invasati che uccisero, stuprarono e distrussero senza discriminazione. «Persino i Saraceni – scrisse lo storico bizantino Niceta Coniate – sarebbero stati piú magnanimi». I comandanti cristiani riuscirono in qualche modo a ripristinare l’ordine e richiesero di restituire i beni rubati: venne raccolta una quantità impressionante di (segue a p. 32)

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battaglie adrianopoli In questa pagina altri frammenti del mosaico della basilica ravennate di S. Giovanni Evangelista raffigurante episodi della quarta crociata. 1213 circa. A sinistra, un marinaio suona un corno dalla coffa di una nave, in segno di allarme: potrebbe trattarsi di un episodio accaduto il 1° gennaio 1204, quando Alessio V Ducas, alla rada del Corno d’Oro, tentò di dar fuoco alla flotta nemica con navi incendiarie che i Veneziani riuscirono a neutralizzare; in basso, la caduta di Costantinopoli. A destra Il doge di Venezia Enrico Dandolo e i suoi crociati assediano la città di Zara nel 1202, olio su tela di Andrea Vicentino (al secolo Andrea Michieli). 1578. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.

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battaglie adrianopoli oro, argento, vasi preziosi, gioielli e tessuti pregiati al punto che il cronista Goffredo di Villehardouin scrisse che «mai, dalla creazione del mondo, era stato preso tanto bottino in una sola città». Recuperato in gran parte dagli stessi abitanti di Bisanzio, costretti con la violenza a consegnare il maltolto, il favoloso tesoro fu spartito tra i crociati e i Veneziani, mentre una parte fu destinata al futuro imperatore. A quel punto, infatti, s’imponeva la nomina di un nuovo imperatore per una inedita Costantinopoli latina. La scelta cadde su Baldovino IX, conte di Fiandra e di Hainaut, uomo di indubbia ricchezza e di alto lignaggio (vedi box a p. 34), dal carattere probabilmente piú malleabile rispetto a quello di Bonifacio del Monferrato, il quale, in vista di tale momento, aveva addirittura sposato la vedova del decaduto imperatore Isacco. A Baldovino andarono dunque una grande porzione dell’impero bizantino, comprese alcune isole dell’Egeo, la Tracia, la Bitinia e la Misia: Costantinopoli invece sarebbe stata divisa tra i crociati, i Veneziani e il dominio privato del novello imperatore. I Veneziani reclamarono la parte che comprendeva la grandiosa basilica di S. Sofia, in cui insediarono il veneziano Tommaso Morosini come nuovo patriarca di Bisanzio. Nasceva cosí, a seguito di questo colpo di mano, l’impero veneziano nell’Egeo, che comprendeva le coste occidentali della Grecia continentale, l’Eubea, il Peloponneso, e altre importnati città portuali sul Mar di Marmara e sull’Adriatico.

La resa di Costantinopoli, olio su tela attribuito al Tintoretto (al secolo, Domenico Robusti). 1594 circa. Venezia, Palazzo Ducale. Sala del Maggior Consiglio.

Una pletora di incarichi

Il 16 maggio del 1204 ebbe luogo in S. Sofia l’incoronazione di Baldovino, che subito si diede a investire di titoli onorifici centinaia di propri vassalli, mentre i giuristi si davano da fare per elaborare una costituzione giuridica conforme a quella del regno di Gerusalemme. Venne dunque formato un consiglio composto dai vassalli principali, coadiuvato da un podestà veneziano messo alla guida della città che consigliava l’imperatore nelle decisioni politiche, nelle operazioni militari. A questo consiglio ne fu affiancato un altro che avrebbe dovuto regolare i rapporti dell’imperatore coi propri vassalli. Di fatto la Romània, denominazione adottata dai Latini per l’impero latino d’Oriente, non ebbe mai un’unità politica, né territoriale: i Veneziani sottomisero ciò che avrebbero potuto difendere, mentre Bonifacio di Monferrato conquistò la maggior parte della Grecia continentale, ripartendo i territori tra vari nobili di origine francese. Ancor prima della caduta di Bisanzio in mano franca, sotto il dominio dei Comneni era nato il cosiddetto impero di Trebisonda: fu lí che, dopo la caduta di Andronico I, furono condotti Alessio e David, suoi nipoti che, nell’aprile del 1204, conquistarono Trebisonda e da lí assunsero il controllo della Paflagonia e di una parte della fascia costiera anatolica, corrispondente, grosso

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battaglie adrianopoli baldovino ix di fiandra

Il primo imperatore latino d’Oriente

Didascalia aliquatur adi odis Nato a Valenciennes intorno que vero ent qui doloreium conectu al 1171, una volta divenuto rehendebis eatur conte di Fiandra e di Hainaut, tendamusam Baldovino IX, intorno ai vent’anni, consent, perspiti tentò di contenere l’espansione conseque del re dinisFrancia, Filippo II Augusto, maxim eaquis con il sovrano inglese e alleandosi earuntia cones con l’imperatore. Nel 1202 partecipò apienda. alla IV crociata assieme al fratello

Enrico di Fiandra, con un ampio seguito di armati.

L’esercito conquistò Zara e poi si diresse verso la capitale dell’impero bizantino, che fu conquistata e sottomessa dai crociati: a seguito di tale operazione, l’impero fu diviso tra i vari signori dell’esercito d’Occidente. Bisanzio fu saccheggiata dai Latini per giorni e, dopo aver riportato l’ordine, si passò alla nomina del nuovo sovrano: in lizza c’erano Baldovino e Bonifacio di Monferrato.

Esercito bu

lgaro (Kalojan)

pesante Fanteria

Luigi di Blois

Baldovino I

Cavalleria pesante

Cavalleria leggera

Cavalleria leggera (Cumani)

Assedio di Goffredo di Villehardouin

Adrianopoli

Esercito dell’impero latino (Baldovino I)

Schema dei movimenti delle truppe che si fronteggiarono nella battaglia combattuta nella piana di Adrianopoli nel 1205. Lo scontro si risolse con la netta affermazione delle truppe capitanate dallo zar di Bulgaria Kalojan.

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Una commissione composta da sei Veneziani – protagonisti economici della spedizione – e sei crociati, elesse Baldovino, che poté cosí fregiarsi del titolo di primo imperatore latino d’Oriente. Egli tentò di fornire una prima organizzazione, provando a conciliare le varie forze centrifughe che animavano la traballante realtà politica, in primis Venezia e poi altre città marinare

modo, alla regione storica del Ponto. Il controllo bizantino dell’Asia Minore avrebbe ben presto condannato il neonato impero latino: Bonifacio di Monferrato aveva di fatto abbandonato l’Asia Minore in mano a forze bizantine, preoccupandosi appena di Tessalonica, la città che aveva eretto a capitale del suo dominio. I primi tentativi di rivalsa bizantina, in realtà, furono fallimentari e a salvare Bisanzio dalla catastrofe totale fu un’inedita alleanza con i Bulgari, antichi rivali.

L’indipendenza del regno bulgaro

Dopo la presa di Costantinopoli, dunque, i vari territori di pertinenza bizantina furono divisi tra vari signori franchi, ma già in precedenza, anche se nominalmente sottoposti alla corona di Bisanzio, molti di essi vivevano in una parziale autonomia o in alcuni casi erano addirittura soggetti ad altri potentati. In particolare, nell’area continentale, a nord del Peloponneso, premeva da tempo un potente Stato valacco-bulgaro, guidato da un energico sovrano, lo zar Kalojan, detto anche Ioannitza. Dopo aver sottomesso i Serbi, nel 1201, e avere sconfitto i Bizantini, Kalojan riuscí a rendere indipendente il regno bulgaro, emancipandosi dalla Chiesa greca, e avviando un processo di avvicinamento a quella di Roma, allora guidata da Innocenzo III, il quale diede vita al patriarcato bulgaro con sede a Tirnovo e conferí a Kalojan il titolo di re. Dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai Veneziani e ai crociati, l’energico sovranò riuscí a conquistare la Macedonia e proprio questa mossa creò i primi attriti con Baldovino di Fiandra, il quale rivendicava diritti sui territori di pertinenza bizantina. In breve il divario si allargò e Kalojan accarezzò addirittura l’idea di conquistare la stessa Bisanzio, cacciandone quelli che considerava poco piú che meri invasori. In primo luogo cercò di accattivarsi le simpatie dei nobili bizanaprile

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e altri principi. Quando i Bizantini chiesero l’aiuto militare ai Bulgari, Baldovino decise di scendere in campo militarmente, schierando le proprie forze contro lo zar Kalojan. Fatto prigioniero nella battaglia combattuta ad Adrianopoli nel 1205 da allora di lui non si ebbero piú notizie: forse fu condotto in un castello nei Balcani dove trovò la morte dopo una lunga prigionia.

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Baldovino di Fiandra guida l’assalto di Costantinopoli, tavola realizzata per l’opera di Emdund Ollier Cassell’s Illustrated Universal History, Vol. III-The Middle Ages. 1890.

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battaglie adrianopoli tini che ancora si trovavano nel territorio, decisamente insoddisfatti della gestione politico-economica degli ultimi venuti, e ora favorevoli a una alleanza, sino ad allora impensabile, con i Bulgari. Grazie agli alleati cumani, Kalojan iniziò a razziare la Tracia, approfittando della parziale ritirata delle forze crociate. Nella primavera del 1205, però, Baldovino – probabilmente per mostrare che il suo ruolo era tutt’altro che simbolico – volle dare un forte segnale nel proprio Consiglio ai Bizantini sottomessi – col fine di farli sentire tutelati – e infine allo stesso Kalojan, del quale voleva sbarazzarsi ingaggiando una battaglia campale. La caduta della città di Adrianopoli nelle mani dello zar bulgaro fu il casus belli. Narratore d’eccezione degli eventi è il già citato illustre partecipante alla IV crociata, Goffredo di Villehardouin, che ha lasciato un resoconto dettagliato dei fatti di cui fu testimone. L’armata principale di Kalojan era costituita da Varna (Bulgaria). La statua equestre dello zar Kalojan che corona il monumento eretto in suo onore, inaugurato nel 2008. Nella pagina accanto veduta di Edirne (Turchia), l’antica Adrianopoli.

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Re dei Bulgari e dei Valacchi Il suo nome, nella forma latinizzata, suona come Kaloiohannes, e una sua traduzione è quella di Giovanni il Bello, un epiteto utilizzato dai sovrani comneni di nome Giovanni. Kalojan fu lo zar bulgaro che, per la prima volta, venne riconosciuto dalla Chiesa di Roma come re dei Bulgari e dei Valacchi (Rex Bulgarorum et Blachorum). Dovette comunque nascere nella seconda metà del XII secolo: era figlio di una nobile stirpe e aveva almeno due fratelli, Ivan Asen e Pietro. Fu inviato come nobile ostaggio a Costantinopoli nel 1187, ma già nel 1189 era rientrato in Bulgaria, dopo essere riuscito a fuggire. Dopo l’assassinio di Ivan Asen I (1196), zar di Bulgaria, subentrò per un anno al trono il fratello Pietro e solo nel 1197, quando anche Pietro fu assassinato, lo scettro passò a Kalojan. Il territorio sotto il dominio bulgaro non fu riconosciuto da Bisanzio per molti decenni e solo nel 1201, dopo aver sconfitto militarmente sia i Serbi che i Bizantini, Kalojan ottenne il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza del suo regno. Anziché legarsi alla Chiesa ortodossa, il lungimirante sovrano puntò decisamente su quella di Roma, emancipandosi il piú possibile dalle spire di Costantinopoli e chiese a papa Innocenzo III di creare un patriarcato bulgaro autonomo: quando

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però il cardinale Brancaleone giunse in Bulgaria, si limitò a nominare il capo della chiesa locale, l’arcivescovo di Tirnovo, con il titolo di primate di Bulgaria. Nel 1202 però Emerico, sovrano d’Ungheria, riuscí a impossessarsi di ampie aree del suo dominio, tra cui le città di Nandorfehervar, l’attuale Belgrado, Nis e Branicevo. Alla luce di questo successo diplomatico lo stesso pontefice, nel 1204, lo investí del titolo di re dei Bulgari e dei Valacchi. Dopo la conquista crociata di Costantinopoli e il conseguente parziale disfacimento dell’apparato militare bizantino, Kalojan approfittò della situazione per conquistare la Macedonia. Avrebbe probabimente optato per un’alleanza con i Latini, contro gli avanzi dell’impero d’Oriente, ma Baldovino accampò pretese su alcuni territori occupati dai Bulgari e il patriarca latino, il veneziano Tommaso Morosini, tentò di affermare la propria autorità sulla Chiesa ortodossa bulgara. L’esule imperatore di Bisanzio si trovò quindi ad avere un inaspettato alleato contro i Latini e insieme sconfissero l’esercito crociato presso Adrianopoli nel 1205, facendo prigioniero lo stesso Baldovino I, neosovrano dell’impero latino d’Oriente. Due anni dopo si impegnò in una nuova campagna contro i crociati, assediando Tessalonica dove, nel 1207, trovò la morte.

mercenari cumani che combinavano corpi di cavalleria, alternandoli a gruppi di arcieri montati, abili a tirare con i loro archi compositi dalla sella dei propri destrieri, tanto all’attacco che in ritirate simulate: un tipo di strategia tipica dei popoli della steppa, dagli Unni ai Mongoli, dai Cumani agli Ungari. L’armata crociata si era già accampata il 13 di aprile, quando venne inaspettatamente attaccata dai cavalieri cumani: il campo fu razziato e i cavalieri franchi furono spinti a inseguire il nemico in quella che si sarebbe rivelata una terribile imboscata. Il risultato fu una pesante sconfitta. L’indomani l’esercito crociato rimanente, guidato da Baldovino in persona, si organizzò per non cadere nello

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stesso tranello: ciononostante, il 14 aprile 1205, dopo un pesante attacco cumano contro l’accampamento crociato, ancora una volta i cavalieri franchi furono indotti a inseguire i nemici che credevano in difficoltà, mentre invece stavano solo simulando una rotta. Condotti lí dove Bulgari e Cumani avevano prestabilito, i crociati furono ben presto accerchiati e la battaglia si trasformò in una carneficina. Lo stesso Baldovino venne ferito in battaglia e catturato, mentre Villehardouin non riuscí a liberare molti dei cavalieri da quella che si rivelò una tenaglia mortale.

Vittorie a ripetizione

La sconfitta fiaccò il morale e decimò le forze dei crociati nei territori bizantini. Baldovino fu condotto in una prigione dei Balcani e, probabimente, vi finí i propri giorni. Il fratello minore di Baldovino, Enrico di Fiandra, tentò di rinvigorire l’impero latino d’Oriente, nato decisamente sotto una cattiva stella, mentre dall’altro lato della barricata lo zar Kalojan aveva avviato una campagna militare senza incontrare quasi alcun impedimento, approfittando della vittoria ottenuta nella piana di Adrianopoli. Forte di questi successi lo zar bulgaro volse la propria attenzione verso l’importante città di Tessalonica, scelta come sede da uno dei nobili franchi fedeli al defunto imperatore Baldovino, Bonifacio di Monferrato, l’altro candidato al trono imperiale che venne ucciso in battaglia sotto le mura della città di cui si era insignorito.

Tuttavia Kalojan non poté godere a lungo di questo effimero successo: la morte, infatti, lo colse nell’ottobre del 1207. Sulla sua fine le fonti divergono: alcuni affermano che sia stato stroncato da una crisi respiratoria, altri che fu ucciso nel sonno da un vendicatore inviato dall’ira di Dio, talvolta addirittura da san Demetrio in persona, apparso improvvisamente al suo fianco. La figura di questo miterioso «sicario inviato da Dio» è stata identificata, da alcuni studiosi, in Manastras, uno degli alleati cumani del sovrano bulgaro, con buona probabilità assoldato da sua moglie e da suo nipote Boril che, dopo l’ennesimo regicidio, divenne nuovo zar di Bulgaria, sposò la vedova di Kalojan, anch’ella cumana, regnando fino al 1218.

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luca signorelli in umbria/2

Il capolavoro di

Montone

di Valentina Ricci Vitiani

La Vergine col Bambino e santi di Luca Signorelli, ora alla National Gallery di Londra, fu dipinta nel 1515 nella chiesa di S. Francesco a Montone, nel Perugino. L’artista donò l’opera «propter bonam, mutuam et cordialem amicitiam» in cambio delle cure mediche ricevute dal committente, un medico francese emigrato nel paese dell’alta valle del Tevere

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uando accanto alle immagini meravigliose di antiche pale d’altare anche le carte d’archivio ci raccontano in maniera diretta e onestissima le storie e i dettagli che stanno dietro la commissione di un dipinto, allora riusciamo non solo a conoscere in maniera certa i fatti che hanno portato all’esecuzione di una determinata opera, ma anche a comprenderne meglio i sentimenti che l’hanno concepita. Sentimenti di devozione, di gratitudine, a volte, magari, di affermazione di un ruolo o di uno status particolare. Nel caso della Vergine col Bambino e i santi Sebastiano, Cristina, Gerolamo, Nicola da Bari e due angeli, realizzata a Montone (Perugia) da Luca Signorelli e oggi conservata alla National Gallery di Londra, una straordinaria ricchezza di documenti coevi al dipinto ci permette di ricostruire nel dettaglio le vicende, peraltro curiose, che portarono alla sua realizzazione. L’immagine sacra fu dipinta su tavola per la chiesa montonese di S. Francesco. In età napoleonica se ne persero le tracce e, nel 1826, lo sto-

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rico e collezionista Giacomo Mancini la ritrovò in una «umidissima cantina» e la fece restaurare dal pittore tifernate Vincenzo Chialli. Il prezioso dipinto venne poi acquistato da Elia Volpi, un antiquario internazionale, anch’egli di origini altotiberine, celebre per aver creato la collezione di Palazzo Davanzati a Firenze. Nel 1901 il grande mercante d’arte vendette la splendida pala d’altare alla National Gallery, per una cifra imprecisata.

Un ricco committente

Il dipinto era stato realizzato nel 1515 dal pittore toscano per un ricco committente di nome Alovisio de Rutanis, un medico proveniente dalla città francese di Rodez, che in quegli anni risiedeva a Montone, un piccolo, affascinante borgo che conserva ancora oggi una facies medievale di grande suggestione. Lí mastro Alovisio aveva sposato la nobile Tomassina di Silvestro di Ciuccio. Luca Signorelli approdò nel paese – patria del condottiero Braccio Fortebraccio – dopo una fervida attività nell’alta valle del Tevere, concentrata negli anni No-

Vergine col Bambino e santi, olio su tavola di Luca Signorelli. 1515. Londra, National Gallery.

vanta del Quattrocento. All’epoca era già stato incoronato come pittore di corte della preminente famiglia Vitelli di Città di Castello, sotto la cui diretta giurisdizione Montone ricadeva ancora nei primi decenni del XVI secolo. L’archivio storico locale, scrigno prezioso che custodisce documenti che dal Medioevo ripercorrono l’intera storia del territorio, conserva un atto notarile piuttosto curioso e illuminante riguardo i rapporti fra il committente e il grande artista: alla presenza di due abitanti del luogo, Piergaspare di ser Cristoforo e Giuliano Giovanni Ubaldi, Luca Signorelli dichiara di non pretendere alcuna ricompensa per il lavoro, eseguito «propter bonam, mutuam et cordialem amicitiam et benevolentiam» e, soprattutto, «pro bonis et gratis servitii (...) recepitis et que in futurum recipere sperat». Nessun pagamento in denaro dunque, per l’amicizia e la benevolenza che l’artista e il committente aprile

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luca signorelli in umbria/2 Un paesaggio insolito La Vergine col Bambino e santi di Montone mostra, nella parte bassa, al centro, un tipo di paesaggio insolito nelle pale del Signorelli, piú presente invece in alcune opere di Perugino o Pintoricchio o nelle prime prove del giovane Raffaello. La veduta di uno specchio d’acqua che ricorda il Trasimeno evoca

il martirio di santa Cristina, gravata da una macina intorno al collo e gettata nel lago di Bolsena. Sul prato appaiono anche due Francescani che leggono, con il saio tirato in su, forse per ricordare il grande caldo che nell’estate del 1515 afflisse l’Italia centrale.

E G R E G I U M. Q U O D. CERNIS. OPVS. MAGISTER. / ALOYSIVS. PHISICVS. EX GALLIA. ET TOMASINA EIVS. VXOR. EX DEVOTIONE. SVIS. / SVMPIBVS. PONI. CVRAVERVNT. LVCA. SI/G N O R E L L O. D E CO R T O N A. P I C T O R E INSIGNI. FORMAS. INDVCENTE. AN[N]O. D[OMIN]I. M.D. XV.

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Nel cartiglio che Signorelli ha posto in primo piano, alla base del dipinto, vengono citati sia il medico Louis de Rodez che sua moglie, la montonese Tomassina di Silvestro di Ciuccio. L’iscrizione non riporta invece la notizia della rinuncia al compenso da parte dell’artista «pro bonis et gratis servitiis receptis et que in futurum recipere». aprile

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si dichiararono a vicenda. Il pittore donò l’opera in cambio delle cure mediche, i «graditi servizi ricevuti» e gli altri che sperava di ricevere in futuro in caso di ulteriori necessità. Nella grande tavola, realizzata per decorare l’altare di patronato della famiglia del medico francese, la Vergine col Bambino è inserita all’interno di uno spazio unico: una soluzione iconografica piuttosto consueta nel Rinascimento e che trae le sue origini dall’evoluzione dell’impianto del polittico medievale, in cui la Madonna e le singole figure di santi sono invece sistemate in spazi fisici e pittorici separati. La Vergine, col viso pensoso, sorregge il Bambino con il braccio sinistro senza mostrare alcuno sforzo. La mano destra stringe lo scapolare, emblema di protezione materna, di salvezza e di sostegno nelle avversità. Attorno alla Ma-

donna il pittore colloca in maniera paratattica e su piani distinti le figure dei santi: sulla sinistra, in alto, san Sebastiano rivolge alla Vergine uno sguardo carico di dolore e mostra il corpo, vigoroso, trafitto dalle frecce; piú sotto il pittore ritrae un intenso san Girolamo con l’attributo del libro, riconoscibile altresí dalla veste purpurea e dal galero ai suoi piedi.

Ritratti e simboli

Speculare a questi personaggi emerge l’immagine di santa Cristina con gli attributi del suo martirio (una freccia e la grande ruota di pietra appesa al collo). Piú in basso, san Nicola di Bari, protettore dei fanciulli e delle giovani nubili, è riconoscibile dal prezioso paludamento vescovile e dalle tre sfere d’oro poggiate a terra. Sopra il gruppo dei santi, due angeli di-

sposti ad assecondare la forma centinata della tavola, incoronano la Vergine e mostrano due gigli, simbolo cristiano di purezza e candore. Il paesaggio dal sapore di fiaba alle spalle dei santi è descritto con l’attenzione del miniatore ed è reso vivace dalla presenza di pastori, animali, cavalieri e da due fraticelli con gli abiti scomposti e intenti nella lettura. Nelle dolci colline che incastonano il villaggio, circondato da mura e lambito da un lago, è evidente il richiamo a tanta pittura umbra contemporanea. Ai piedi dei santi, nella parte centrale della tavola, è inserito un cartiglio contenente i nomi dei committenti e la data di realizzazione del dipinto. La tavola era in origine fornita di una predella, attualmente conservata presso la Pinacoteca di Brera a Milano, nella quale vengono raccontati gli episodi della vita di

Una veduta del lago Trasimeno, il cui paesaggio compare nella pala d’altare dipinta da Signorelli per la chiesa di S. Francesco a Montone (vedi foto alla pagina accanto).

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luca signorelli in umbria/2 santa Cristina, vissuta nel III-IV secolo. Con carattere squisitamente narrativo, nella tavola rettangolare che una volta era alla base della pala, vengono descritti gli episodi salienti della biografia della martire. La predella di certo è opera di un anonimo apprendista signorelliano, perlomeno a giudicare dalla qualità inferiore della pittura.

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Santa Cristina era figlia di Urbano, governatore imperiale della città di Bolsena e fervente nemico dei cristiani. La leggenda narra che la giovane si convertí in segreto alla nuova fede: impietosita di fronte ad alcuni poveri che chiedevano l’elemosina, spezzò gli idoli d’oro e d’argento del potente genitore e li distribuí ai mendicanti come atto di

carità. Il padre, infuriato, la sottopose a torture ferocissime. Dapprima fece percuotere la figlia con le verghe, poi la rinchiuse in prigione, la sottopose alla ruota di fuoco e la fece gettare nel lago con una grossa pietra appesa al collo. Ma ogni volta la giovane uscí indenne dai supplizi. Subí allora numerose altre violenze: ven-

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ne sottoposta nuovamente al fuoco, fu imprigionata in una gabbia insieme a vari serpenti e le venne anche strappata la lingua. Di fronte agli arcieri pronti a infliggerle nuove torture, supplicando che le fosse finalmente concessa la corona del martirio, Cristina morí infine trafitta dalle frecce. Un documento d’archivio rin-

tracciato tra i rogiti dei notai attivi nel borgo all’inizio del Cinquecento permette di individuare l’originaria collocazione del dipinto di Luca Signorelli all’interno della suggestiva chiesa di S. Francesco. E ci offre la possibilità di ricostruire idealmente una parte dell’edificio al tempo in cui il nostro pittore intratteneva rapporti col committen-

te medico (la chiesa è stata infatti rimaneggiata nel corso dei secoli e il suo aspetto attuale, sempre di grande fascino, non coincide con l’allestimento cinquecentesco). Nel 1515 la tavola venne sistemata sopra l’altare della cappella «facta et dedicata ad honorem et laudem Sancte Cristine». Dal documen(segue a p. 49)

Una veduta di Montone, paese nel quale Luca Signorelli operò dopo aver già lavorato a piú riprese nell’area dell’alta valle del Tevere.

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luca signorelli in umbria/2 La predella che in origine completava la Vergine col Bambino e santi dipinta da Luca Signorelli per il medico francese Alovisio de Rutanis (Louis de Rodez). 1515. Milano, Pinacoteca di Brera. Le tavole mostrano episodi della vita e del martirio di santa Cristina e la loro realizzazione può essere assegnata a un anonimo apprendista signorelliano.

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Il chiostro del convento annesso alla chiesa di S. Francesco a Montone.

to sappiamo che i frati «dederunt et concesserunt (…) magistro Alovisio de Rutanis medico galleo et nunc habitatori montoni et domine Tomassine eius uxori»: lo spazio fu assegnato all’interno dell’edificio sacro affinché il medico e sua moglie potessero omaggiare la santa con le loro preghiere. La cappella della nobile famiglia doveva collocarsi tra la scomparsa cappella di S. Bernardino, la prima sulla sinistra rispetto a chi entrava in chiesa, e la cappella di S. Antonio Confessore, che apparteneva alla preminente famiglia Fortebracci e che invece ancora oggi rende visibili al visitatore le delicate pitture di Bartolomeo Caporali: un Sant’Antonio da Padova racchiuso in una mandorla e attorniato da quattro angeli, san Giovanni Battista, l’arcangelo Raffaele e Tobiolo.

Una devozione profonda

L’archivio storico di Montone ha restituito numerose altre informazioni sui coniugi committenti: sappiamo per esempio che la moglie del medico francese, Tomassina, appartenente a una facoltosa famiglia di Montone le cui ricchezze sono ampiamente documentate in diversi atti notarili, elenchi di doti nuziali e testamenti, aveva dato alla luce una figlia per la quale era stato scelto proprio il nome di Cristina, a conferma della profonda devozione verso la santa martire. Non solo: fu proprio la famiglia della donna a finanziare i lavori di ammodernamento dell’edificio francescano per il quale Luca Signorelli licenziò il suo capolavoro. Oltre a raccontarci in maniera puntuale le vicende intorno alla commissione della Vergine col Bambino e i santi, i documenti dell’Archivio Storico Notarile di Montone fanno anche luce sulla feconda at-

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vittorio anderlini

Il «Pictor de Montone» e Papacello Sappiamo che a realizzare la Vergine col Bambino e santi insieme a buona parte di altri dipinti che Luca Signorelli ha lasciato nell’alta valle del Tevere (da Città di Castello all’incantevole paese di Morra fino a Citerna e Umbertide) contribuí il giovane e poco noto «Vittorio de Ciurello», che le fonti citano come «pictor de Montone». Vittorio Anderlini de’ Cirelli si avviò alla pittura proprio negli anni in cui Signorelli dipinse la pala migrata alla National Gallery che certamente il giovane montonese aiutò a portare a compimento. Dopo gli anni di affiliazione con il maestro di Cortona, Anderlini continuò a realizzare monumentali pale d’altare per il suo paese natale. Le opere, straordinariamente corredate di documenti originali, ci permettono di ricucire la storia dell’artista e delle sue opere. Vittorio Anderlini è un pittore certamente lontano dal calibro del maestro cortonese e i suoi lavori denunciano soluzioni semplificate nell’impaginazione, cosí come nel linguaggio. Ma a ben guardare non sembrano per nulla scontati nelle scelte iconografiche a volte inconsuete e accattivanti. L’Annunciazione e i Santi Fedele e Lazzaro conservata a Montone, presso il Museo Comunale di San Francesco, fu realizzata a quattro mani nel 1532 dal Cirelli insieme ad un altro allievo di Signorelli, Tommaso Bernabei, conosciuto con il soprannome di Papacello. L’opera appare molto interessante per alcuni suoi dettagli iconografici. Sotto un portico impreziosito da decori che richiamano l’antichità classica, i due artisti inseriscono la scena dell’annuncio con l’angelo appena planato – le sue vesti sono ancora svolazzanti – e la Vergine, sorpresa alle parole del messaggero divino. In basso, due figure di santi intrecciano con lo spettatore un dialogo di sguardi che rimane misterioso e ricco di suggestioni. Annunciazione e i santi Fedele e Lazzaro, dipinto su tavola di Vittorio Anderlini e Tommaso Bernabei detto il Papacello. 1532. Montone, Museo Comunale di San Francesco.

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Il santo sulla destra può essere agevolmente identificato come Lazzaro mendicante, il personaggio protagonista della parabola del ricco Epulone, emblema delle sofferenze accolte e, per questo, premiate, come ricorda il Vangelo di Luca: «Vi era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e ogni giorno faceva splendidi banchetti. Un mendicante di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco e nessuno gliene dava; perfino i cani venivano a leccargli le piaghe». I dettagli della frutta e della verdura ai piedi della figura simbolica del santo e l’immagine del cane rappresentano il colto richiamo dei due artisti al testo evangelico. Lazzaro indica il santo vescovo che sta alla sua destra, il quale rafforza il gesto del compagno indicandosi a sua volta, quasi a voler confermare ciò che il povero mendicante ci vuole raccontare. Fra le numerose e interessanti informazioni restituite dalle fonti d’archivio sappiamo che riguardo al compenso ricevuto dal nostro Vittorio Cirelli per certe pitture realizzate per la chiesa di S. Fedele, il montonese Fabrizio di Andrea di Piero rilasciò la quietanza del pagamento proprio a Giovan Francesco, figlio di Alovisio, il medico che aveva commissionato al maestro Luca Signorelli la Vergine col Bambino e santi: «per florenos octo ad dicta ratione de mandato dictus Fabritius solvisse Victorio Anderlini ser Johannis de Montone pro parte et solutionis pretii picture et tabule». È molto probabile che il documento faccia riferimento proprio alla Annunciazione insieme ad alcuni altri affreschi, realizzati all’interno della bella chiesa montonese, che recentemente sono stati oggetto di un intervento di restauro. (V. R. V.)

tività di bottega che Signorelli avviò nell’alta valle del Tevere. Luoghi di grande fascino che, nell’ambito della pittura del primo Cinquecento, si connotano proprio per un marcato reimpiego di formule e soluzioni assolutamente tipiche del pittore di Cortona, alle quali si ispirò anche il giovane Raffaello Sanzio, che proprio a Città di Castello realizzò i suoi primi capolavori, per raggiungere piú libertà e scioltezza di composizione e di maniera.

Le persistenze signorelliane che connotano il panorama artistico locale per buona parte del Cinquecento sono infatti imputabili alla forte influenza dell’arte toscana in questi territori di confine, ma anche al nutrito lavoro di squadra impiantato dal maestro cortonese che permise il coinvolgimento diretto di allievi locali e fece sí che l’artista potesse seguire le numerose commissioni che gli erano state affidate, offrendo con-

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Sulle due pagine uno scorcio del centro storico di Montone (nella pagina accanto) e una veduta esterna del complesso composto dalla chiesa e dal convento di S. Francesco, oggi sede museale.

temporaneamente ad alcuni giovani pittori la possibilità di una solida e fruttuosa formazione secondo le prassi della parcellizzazione del lavoro e di una certa serialità tipica dell’atelier signorelliano.

Una nuova pala

La grande quantità di materiale custodito in archivio, che ci parla ancora della presenza del grande artista toscano a Montone, ha suggerito agli abitanti del borgo, da sempre innamorati del proprio territorio e delle gesta dei personaggi che ne hanno popolato la storia, un nuovo e affascinante progetto culturale: l’amministrazione comunale è al lavoro per ricollocare all’interno della chiesa di S. Francesco una riproduzione

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della Vergine col Bambino e i santi, da realizzare con la tecnica della pictografia, che prevede l’impiego di metodi, materiali e pigmenti analoghi a quelli utilizzati all’interno degli atelier rinascimentali. Cosí, una fedele riproduzione della splendida pala migrata all’alba del Novecento da Montone alla National Gallery di Londra è stata recentemente commissionata a una bottega artigiana di Città di Castello. L’operazione culturale intende celebrare l’attività del pittore in questo pezzetto d’Umbria pregno d’arte e ci parla dell’orgoglio con il quale la comunità locale coltiva le proprie radici, riconosce il valore della propria memoria e se ne prende garbatamente cura.

Il medico della peste

Dai registri di Consigli e Riformanze custoditi presso l’Archivio di Stato di Perugia sappiamo che nel 1504 Alovisio, «nell’arte medicha (…) ottimamente istructo, già ha-

bitante a Montone» chiese di esercitare la propria attività professionale a Perugia. Nella «supplica» inviata ai maggiorenti della città, il medico che dieci anni dopo avrebbe affidato a Luca Signorelli la realizzazione della Vergine col Bambino e santi specificò di voler mettere il proprio lavoro al servizio di chiunque ne avesse avuto bisogno. E promise in modo solenne «in nelli tempi che fosse morbo nella ciptà de Peroscia non partirse da essa ciptà ma provedere a l’inferme che lo rechiederano de li rimey et medicine opportune a loro spese». I priori, verificate le ottime referenze di mastro Alovisio, gli assegnarono l’incarico per un salario annuo di 60 fiorini. Con una condizione apposta nell’atto pubblico: in caso di una epidemia di peste il medico non avrebbe potuto allontanarsi dalla città ma rimanere in servizio per fornire tutti i rimedi opportuni agli abitanti di Perugia e del suo territorio.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/3

Giustizia (non) è fatta

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Rappresentazione della Giustizia, nelle cui mani stanno i piatti della bilancia, ciascuno dei quali accoglie un angelo, particolare del ciclo affrescato Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339.

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Facendosi forte della propria esperienza personale, Franco Sacchetti pone al centro di piú di una novella magistrati e notai. E traccia profili che spesso li fanno somigliare a veri e propri azzeccagarbugli e non a esperti del diritto

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il trecentonovelle di franco sacchetti/3

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all’inizio del Duecento, i comuni italiani sperimentano una nuova formula di governo: affidano il potere politico a un magistrato unico, il podestà. Si tratta di un personaggio di famiglia nobile, per lo piú cavaliere, a volte giurista, ma comunque competente in questioni militari e giudiziarie. Il podestà deve essere un forestiero e rimane in carica solo per un anno; cedendo il governo della città e il comando dei suoi armati a un’autorità super partes, il comune cerca di evitare le sanguinose lotte tra le fazioni cittadine. Il gran numero di comuni dell’Italia centrosettentrionale e la rapida alternanza dei podestà, nonché il numero limitato di famiglie con membri illustri a cui conferire l’incarico, fa sí che molti di essi svolgano il loro ruolo in modo professionale passando ogni anno da una città all’altra. Lo stesso Franco Sacchetti fu chiamato come podestà molte volte nel Casentinese e nel Valdarno e, nel 1385, proprio mentre era magistrato unico a Bibbiena concepí l’idea del Trecentonovelle. Da questa posizione privilegiata nascono le sue novelle che vedono come protagonisti gli uomini di legge. A Pietrasanta, Vitale «abiente e orrevole [di buon livello sociale] contadino» decide di mandare il figlio di vent’anni «bonissimo gramatico [che conosceva assai bene il latino]» a studiare diritto a Bologna (novella CXXIII). Fondata nel 1088, ancora nel Trecento quella felsinea era la piú prestigiosa facoltà italiana: nelle chiese cittadine venivano dedicate tombe monumentali ai professori per indicare l’importante ruolo sociale dell’insegnamento e il prestigio che i docenti davano alla città. Vitale non rimane da solo: ha due figlie di sette e dieci anni e, dopo la scomparsa della prima moglie, si è da poco risposato. Le notizie da Bologna appaiono confortanti: «Questo suo figliolo diveniva valentissimo; e quando bisognava danari pe’ libri, e quando per le spese per la sua vita, e ’l padre mandava quando quaranta e quando cinquanta fiorini; e molto di danari si votava la casa». Il continuo invio di denari «diminuiva la prebenda [le entrate]» della matrigna, che si lamenta con Vitale: «Or getta ben via questi parecchi denari che ci sono; mandagli bene, e non sai a cui [non sai che fine fanno]». Il marito protesta: «Donna mia, che è quel che tu di’? O non pensi tu quello che ci varrà, e l’onore e l’utile? Se questo mio figliolo sarà giudico [giudice, il contadino Vitale storpia la parola], potrà poi esser dottorio conventinato [laureato con cerimonia pubblica, anche qui Vitale fa uno strafalcione], che ne saremo saltati [esaltati, comicamente ridotta a “saltati”] in perpetuo seculo!». La donna rimane scettica: «Io non so che secolo; io mi credo che tu se’ ingannato e che costui a cui tu mandi ciò che puoi fare e dire, sia un corpo morto [un buono a nulla] e consumiti per lui». Il giovane viene a conoscenza del soprannome «corpo morto» e se lo «tenne a mente». Trascorso qualche anno «bene inanzi nella legge ci-

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un confronto fra giudici ed esperti di diritto, da un’edizione della Novella super Sextum del giureconsulto canonico Giovanni d’Andrea. 1340-1345. Cambrai, cattedrale di Notre-Dame.

vile» il neodottore torna a Pietrasanta in visita alla famiglia. Vitale è molto contento di rivederlo, «fa tirare il collo a un cappone e disse lo facesse arrosto e invitò il prete loro parrocchiano [parroco] a cena». La presenza del parroco alla cena di famiglia è indispensabile per intavolare un dialogo di profilo elevato. Al desco il sacerdote si siede a capotavola, a lato Vitale, la matrigna e le due fanciulle «ch’erano da marito», mentre lo studente «si pose a sedere di fuori [fuori dalla panca fissata alla tavola]». Si tratta del posto riservato ai piú giovani, o a coloro che dividevano le vivande, gli scalchi.

La cresta è per il prete

Quando compare il cappone arrosto, la matrigna guarda in cagnesco il figliastro e propone al marito: «Che non gli di’ tu che tagli questo cappone per gramatica [con le nozioni apprese per esercitare la sua scienza], e vedrai s’egli ha apparato [imparato] nulla?». Vitale invita il figlio a tagliare il cappone con cognizione di causa, ed egli accetta volentieri perché «avea quasi compreso il fatto». Taglia la cresta del cappone, la posa su un tagliere e la offre al prete: «Voi siete nostro padre spirituale e portate la cherica; e però [per questo] vi do la cherica del cappone, cioè la cresta». Nel Medioevo le pietanze asciutte si disponevano su un tagliere di legno, di solito in comune ogni due commensali. Poi lo studente taglia la testa del pollo e la offre al padre: «E voi siete il capo della famiglia, e però [perciò] vi do il capo». Affetta le zampe e le dà alla matrigna: «A voi s’appartiene andare faccendo la masserizia [le faccende] della casa e andare e giú e su, questo non si può fare senza le gambe; e però ve le do per vostra parte». Offre le ali del cappone alle sorelle: «Costoro hanno tosto a uscire di casa e volare fuori; e però conviene abbino l’alie [le ali], e cosí le do loro». Infine aggiunge: «Io sono un corpo morto: essendo cosí e cosí confesso [dichiaro pubblicamente], per mia parte mi torrò [terrò] questo corpo morto» e comincia a mangiare il cappone di gusto. La matrigna che fino a poco prima l’aveva guardato in cagnesco, in quel momento lo fissa a «squarciasacco [con uno sguardo che avrebbe tagliato una tela robusta]». Il prete sembra che abbia il «mitrito [convulsioni]», gli altri familiari rimangono senza parole. Prima di ripartire per Bologna, il giovane «fece piacevolmente certo [informò] tutti il perché aveva partito [diviso] il cappone per siffatta forma. E spezialmente con una mezza piacevolezza dimostrò la matrigna al suo errore; e partissi e dagli altri e da lei con amore». Inutile aggiungere che la matrigna in cuor suo si era augurata che il giovane non tornasse piú a casa. aprile

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il trecentonovelle di franco sacchetti/3 A sinistra miniatura raffigurante un giudice che arbitra una lite fra un uomo e una donna, da un’edizione del Decretum Gratiani. 1380-1395. Parigi, abbazia di Saint-Victor. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’amministrazione della giustizia: un giudice siede al centro e altri due si consultano; sulla destra, un notaio redige un atto. XIV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Ma non tutti i giovani giuristi sono astuti e brillanti come lo studente di Pietrasanta. Massaleo degli Albizi «nuovo uomo [bizzarro] e con molte nuove piacevolezze» (CXXXIX) si trova alle Stinche di Firenze, la prigione dei debitori. Nello stesso carcere finisce anche un giudice «assai giovane e pulito e chiaro [ingenuo]» del tribunale della Grascia, competente per le frodi commerciali, perché «nel tempo del suo sindicato, per certa cosa accusato, non potendo per quella dare mallevadore [non aveva un garante che si assumesse la responsabilità della sua persona e il presunto danno]». I due fanno amicizia, cenano insieme e Massaleo «veggendo che ’l giudice ancora non era fornito del suo letto, lo invitò a dormire con lui; e ’l giudice ancora, vegendo la domestichezza di Massaleo si coricò nel letto».

E il giudice si svegliò di soprassalto

Dopo aver finito di chiacchierare, il giudice si appisola e Massaleo «mosso piú per piacevolezza che per vizio, e per comprendere un poco de’ modi del giudice, però che [poiché] a lui stesso parea un bigolone [sempliciotto] disteso il braccio per lo letto verso lui, gli pigliò il picciuolo [membro virile] e, cominciandolo a rimenare». Il giudice era già mezzo addormentato, si desta all’improvviso e gli chiede il motivo di quel gesto. «Perdonatemi, che io credea che fosse il mio», risponde Massaleo. Il giudice appare imbarazzato: «In fé di Dio, vo’ smarriresti bene un’altra cosa, quan-

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do voi smarrite questa». Massaleo si scusa ancora, nel dormiveglia si era scordato di non essere solo nel letto e aggiunge in latino grossolano: «Domine iudex, reputate non esse malitiam sed errorem [Signor giudice, credete che non è malizia ma errore]». Il giudice ha solo un vago sospetto che Massaleo lo stia prendendo in giro e lo prega di lasciarlo dormire. La notizia si sparge per la città e «li piú valenti uomini che v’erano scoppiarono dalle risa». L’ingenuo giudice quando pensa al gesto di Massaleo «parea quasi un uomo invasato», si fa portare un letto in cui si corica fino a quando deve restare in prigione, affinché «Massaleo piú non cadesse in simile errore». Sacchetti in questa novella dimostra come questo giudice perde per sempre autorevolezza, e non certo a causa dell’errore giudiziario che lo ha portato in carcere. Massaleo non è il solo a prendersi gioco di un giudice. A Firenze il buffone Dolcibene (CXLV) ospita una sua nipote «bellissima e pulcella [non sposata, illibata]», ma essendo «come li piú delli suoi pari tenuto [considerato] anzi [piú] scelerato che no», i parenti della fanciulla da parte di madre vogliono che venga loro affidata. Dolcibene si oppone e si trovano davanti a un giudice originario di Rieti «collaterale [assistente]» del podestà: «Parea il piú nuovo squasimodeo [allocco] che si vedesse mai. Egli avea una foggia [cappello] alta presso a una spanaprile

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A destra miniatura raffigurante una donna messa alla gogna, dai Coutumes de Toulouse. 1295-1297. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto capolettera miniato raffigurante il Tribunale delle Cause Civili: al centro, un giudice, in primo piano due notai, ai lati due personaggi che si contendono una causa, dal IV libro degli Statuti bolognesi del 1376. Bologna, Archivio di Stato.

na, con uno gattafodero [fodero in pelle di gatto] che parea una pelle d’orsa, tanto era morbido, e avea uno collaretto a un suo guarnaccione [giaccone] o vero colaraccio che era sí largo e spadato [consunto] che avrebbe tenuto due staia alla larga [unità di misura toscana, uno staio corrisponde a 24,36 litri], e avea uno occhio piccolo e uno grande, piú in su l’uno che l’altro, e uno naso che parea una carota». Durante un’affollata udienza del processo, Dolcibene sostiene che la fanciulla «appartenea piú a lui che a loro e la dovea tenere elli»; il giudice risponde: «Messer Dolcibene, nos volumus conservare virginitatem suam [noi vogliamo conservare la sua verginità]». A questa grottesca dichiarazione d’intenti, il giullare ribatte: «Faciatis facere unam bertescam super culum suum [fate costruire una bertesca (corpo di guardia difeso da mura) sopra il suo culo]». Il giudice rimane stupefatto: «Che parole son quesse? Favellaci onesto, nella mal’ora!». Domenico, il procuratore amico di Dolcibene, «tira un peto che stordí il giudice con tutti quelli che erano al banco». Il giudice si guarda intorno e chiede a gran voce: «Per le budella di Dio! Se posso sapere chi buffa [soffia] a questo modo io lo farò savía [subito] buffare per altro verso». Domenico gli dice che vuole una copia della petizione e «tirare un altro peto fu tutt’uno».

Condannati alla «colla»

Scoppia il putiferio, interviene Dolcibene: «Messer lo giudice, sono questi che m’hanno mosso questione quelli che vi suonano queste trombe; vo’ farete bene a punirli». Domenico rincara la dose: «Egli è gran villania e poco onore a chi fa sí brutte cose dinanzi a tanto uomo quanto è questo giudice». Il magistrato riferisce la situazione al podestà, Dolcibene è suo amico e i principali sospettati dell’oltraggio diventano i parenti della fanciulla. Il podestà ordina che venga dato loro «un poco di colla la sera, si ché apparassino [imparassero] di spetezzare al banco». La «colla» era una tortura medievale: consisteva nella sospensione del corpo per le braccia legate dietro il dorso e di solito accompagnava l’interrogatorio dei sospetti. I parenti della ragazza vengono legati, protestano la loro innocenza, ma il giudice risponde stizzito: «Come non ci foste voi, nella mal’ora? Onde credete che io sia? Avetemi sí per orbo che io non veggia lume? Io ci fo come la lepre, che dorme con gli occhi aperti». I soldati tirano la corda e i malcapitati urlano dal dolore; il podestà «udendo il lamento mandò a dire al giudice non

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gli collasse piú, ché, se ci avevano col fiato di sotto offeso che con quello di sopra erano ben stati puniti». Il giudice ritiene che il podestà sia stato fin troppo clemente, i parenti della ragazza accusano invano Dolcibene e Domenico ma, visto come si sono messe le cose, decidono di rinunciare ai loro diritti. La mattina seguente in tribunale Dolcibene sostiene: «Guardate ben, messer lo giudice, questi cattivi uomeni che istamane non ce n’è alcuno e ieri mattina credeano vincere la questione con le peta; e’ son di mala condizione e voleano questa fanciulla a mal fine». Domenico rincara la dose: «Messer lo giudice istamane pare il banco vostro una cosa riposata, come vuole la ragione, ma iermattina ci si udiano truoni e bombarde; ora potete comprendere che uomeni siano coloro che hanno la questione con messer Dolcibene, che veramente e’ son di quelli che non si vorrebbono udire». Il giudice si pavoneggia: «Ego dedi bene eis discipinam [Io ho dato loro una buona lezione]; ma, se non fossi il meo Podestà, peggio ci facea a issi [a loro]». Dolcibene vince la causa, ma Sacchetti trae una morale dalla vicenda: mai come nella sua epoca se i giudici non sono prudenti e cauti – sia in buona fede, sia in malafede –, condannano gli innocenti e assolvono i colpevoli; meglio quindi avere poco a che fare con le corti di giustizia. Anche Rinaldello, un cavaliere di Metz, in Lorena, che si trova a Firenze la pensa come Sacchetti (CXXVII). Durante un matrimonio, il nobile nota un «gran numero di cittadini, tra’ quali, come interviene, dinanzi andavono molti adobbati con vaio [tipo di scoiattolo, delle cui code si adornavano i giubboni e i berretti dei nobili, dei giudici e dei medici]». Il gentiluomo stranie-

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il trecentonovelle di franco sacchetti/3 ro rimane stupito dal gran numero di giudici presenti a Firenze, si fa il segno della croce: «Oh che miracolo è questo, che in questa città sia alcuna casa che non sia disfatta e sia per terra!». Gli altri invitati sono stupiti, chiedono a Rinaldello di cosa si meravigli: «Io vel dirò. Io sono d’una città (...) la quale è stata grande e nobile (...); e in tale maledetta ora e punto uno ricco uomo di quella mandò sua figliuolo a studiare a Bologna e fecelo giudice; che, tornando in quella terra, già mai non abbiamo sentito che bene sia [non abbiamo mai piú provato che cosa sia il benessere]; in discordia ci ha messi; la pace che solevamo avere è convertita in guerra; noi stiamo tanto male, quanto mai stemo [siamo stati] bene; e questo tutto viene da questo iudicio, che in quella è venuto. E però pensando che voi mi dite la quantità che di questi giudici qui avete, io mi maraviglio che, avendo un solo cosí guasta la nostra terra, che questi che tanti avete qui abbiano lasciato pietra sopra pietra». Tavola ottocentesca raffigurante un contadino medievale al cospetto di un giudice.

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Anche Sacchetti è d’accordo con il ragionamento del cavaliere straniero e conclude la novella: «E quando io considero bene chi sono ne’ presenti tempi questi con li vai in testa, io penso messer Rinaldello avere detto il vero; e considero potere avere poca pace il luogo dove stanno, e meno chi a lor crede; e la prova il dimostra: che quella terra marina [Venezia], che tanto è stata nel suo buon regimento, già mai non ebbe alcuna iudice; già mai viniziano non ne fu alcuno. E Norcia, che è piccola terra a rispetto di quella, mai non volle di questi giudici, né chi sotto coverta di scienza l’avesse voluta guastare; per tal segnale che ne’ loro consigli non vogliono alcun troppo savio». Da questo passaggio, scopriamo come Sacchetti abbia una conoscenza molto precisa, forgiata dall’esperienza, delle realtà giudiziali anche di altri comuni.

Nel solco del Decameron

Per stabilire un’ideale continuità di pensiero su podestà e giudici con Giovanni Boccaccio, che sostiene, «Bene che i cittadini non abbiano a fare cosa col mondo del palagio [quello del podestà per antonomasia ]», Sacchetti prende in prestito il personaggio di Ribi (XLIX) e gli fa compiere un’altra burla ai danni di un giudice marchigiano, fratello di quel Niccola di Sant’Elpidio a cui il buffone aveva tirato giú i pantaloni in aula (Decameron, giornata VIII, novella 9). Non è un caso che Sacchetti e Boccaccio canzonino i podestà che arrivano a Firenze dalle Marche: «Nella nostra città vengono molto spesso rettori marchigiani, li quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto misera [di animo gretto, misero e di vita tanto ristretta] che altro non pare ogni loro fatto che una pidocchieria: e per questa loro innata miseria e avarizia menan seco e giudici e notari che paiono uomini levati piú tosto dall’aratro o tratti dalla calzoleria che delle scuole delle leggi» (VIII,9). I podestà portavano con sé questi «famigli», fidati collaboratori per il disbrigo delle funzioni. Oltre ai giudici, meglio frequentare poco anche i notai. Ser Buonavere «uomo grande e grosso di sua persona e molto giallo, quasi impolminato [giallastro di colorito come i malati di itterizia] e malfatto siccome fosse stato dirozzato col piccone» è anche molto disordinato: non porta mai con sé l’astuccio con penna, inchiostro e calamaio legato alla cintura (CLXIII). Nel Medioevo il notaio spesso rogitava anche nei chiostri delle chiese e perfino per strada, per questo doveva sempre portare con sé gli strumenti del mestiere. aprile

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Firenze. Il Palazzo del Bargello, che, nel tempo, fu sede di vari uffici giudiziari e amministrativi e fu anche adibito a carcere.

Un giorno Buonavere si trova a passare per una via di Firenze, alcune persone lo chiamano da una finestra: un uomo molto ricco è in punto di morte e vuole fare subito testamento. Il notaio non ha con sé il calamaio, si precipita a casa per cercarlo ma perde un’ora di tempo: quando torna con l’attrezzatura necessaria, scopre che l’atto è stato stipulato da un suo collega piú pronto di lui. L’umiliato Buonavere si reca dallo speziale e «comperò un quaderno di fogli [quattro grandi fogli, che era poi compito dell’acquirente piegare e ridurre alla misura voluta] e, legandogli stretti, se gli misse nel canaiuolo [borsa]; e comperò un’ampolla con la cassa piena d’inchiostro e appiccossela alla correggia [cintura]; e comperò non una penna ma un mazzo di penne e penonne a temperare una gran brigata [un gran numero] (...); e in un sacchettino di cuoio da tenere spezie se l’appiccò a lato». Cosí ben fornito si reca al palazzo del podestà da un giudice che porta «una berretta attorniata intorno con pance di vaio tutte intere, ed era vestito d’un rosato di grana [un panno tinto di rosso carminio]» per una impugnazione di competenza. Buonavere si fa largo tra la ressa davanti al banco del giudice con il calamaio in una mano e il foglio dell’impugnazione nell’altra. Le due parti

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in causa vengono alle mani, Buonavere viene urtato, rompe l’ampolla e l’inchiostro finisce sulla «cioppa [sopraveste]» del giudice. Il goffo notaio si accorge del danno e nella confusione se la dà a gambe levate. Il prezioso abito del giudice è rovinato, tanto che è costretto a tagliarlo nella parte bassa e con gli scampoli fa «calcetti [calzetti] e guanti». Anche Buonavere ha tutto il «gonnellone e su le calze» macchiate, cerca di lavarli ma «la medicina migliore fu darsene pace». Notiamo come nonostante sia svagato, il notaio non si assume la responsabilità del danno provocato al giudice: scappa dal tribunale come un ladro. Lo scrittore afferma: «Serebbe stato meglio che ’l detto ser Buonavere non fosse stato notaio, e se pur fu, andar avisato e fornito con l’arte sua, come gli altri che sono circunspetti [avveduti] vanno». Sacchetti si mostra intransigente verso le ingiustizie, davanti al formalismo del potere e nei confronti di questi pubblici ufficiali che non sanno guardare al di là del proprio naso. Beffarsi di questi personaggi non è solo divertente, ma anche istruttivo, perché ci ricorda che, al di là del potere che amministrano, peraltro transitorio, sono uomini come tutti gli altri, con le loro debolezze e i loro limiti.

NEL PROSSIMO NUMERO ● I mercanti

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di Domenico Sebastiani

LANCILLOTTO

Il primo cavaliere Fra i prodi personaggi ammessi alla Tavola Rotonda, Lancillotto è senza dubbio il piú famoso. Ma come si è formata la figura di un personaggio reso immortale dalle gesta narrate nei poemi e nei romanzi composti a partire dal XIII secolo? E quali archetipi ne hanno ispirato la costruzione?

Miniatura raffigurante Lancillotto che attraversa il Ponte della Spada per raggiungere il castello in cui Ginevra è tenuta prigioniera (che qui vediamo alla finestra insieme a Baudemagu), da un’edizione manoscritta del Lancelot du Lac realizzata per il duca di Nemours Jacques d’Armagnac. 1475 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


Dossier

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L’

insieme dei testi che inquadrano originariamente la figura di Artú non menziona colui che è destinato a diventare il cavaliere piú importante della Tavola Rotonda, Lancillotto. La sua figura compare per la prima volta nei romanzi in versi di Chrétien de Troyes, attivo nelle corti di Champagne e di Fiandra nella seconda metà del XII secolo, e in particolare nel Cavaliere della Carretta (Chevalier de la charrette), opera composta tra il 1177 e il 1181, rimasta interrotta e portata a termine da Goffredo di Leigni. Nel momento in cui la materia di Lancillotto arriva tra le mani di Chrétien, essa è già il risultato di numerose stratificazioni, anche se i tentativi di ricollegare la figura letteraria alla tradizione indoeuropea o al mito celtico, al dio Lug ovvero a tradizioni locali (come la leggenda dell’eremita Frambaldo di Lassay, vissuto vicino a Domfront in Normandia), non

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Lancillotto e Ginevra, olio su tela di Herbert James Draper. 1890 circa. Collezione privata.

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Dossier hanno portato a risposte decisive (vedi box in questa pagina). La sola cosa che il poeta riferisce, è quella di aver composto l’opera su commissione della contessa Marie di Champagne, che le aveva fornito «la materia e il senso». Che già circolassero storie su Lancillotto, è testimoniato senza dubbio dal fatto che quasi contemporaneamente, tra il 1194 e il 1204, il chierico Ulrich di Zatzikhoven compose in tedesco antico il

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Lanzelet, traduzione a suo dire di un libro gallese, probabilmente un poema in anglo-normanno. Mentre però il Lanzelet sviluppa il racconto della vita di Lancillotto dalla nascita fino alla morte, anticipando alcuni episodi che verranno poi sviluppati nel ciclo del Miniatura raffigurante l’arrivo dei soldati alla reggia di Camelot, da un’edizione del Livre de Messire Lancelot du Lac. XV sec. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.

Le origini

Ipotesi a confronto Quella di Lancillotto è stata vista come il residuo di una figura piú remota e precristiana. Il medievista statunitense Roger Sherman Loomis (1887-1966) ipotizzava un suo legame col dio celtico Lug, «il luminoso», sulla base di alcune corrispondenze: sia Lug che Lancillotto si configurano come eroi liberatori; entrambi sono allevati da una nutrice; Lug inoltre trascorre un periodo della sua infanzia presso Manannan, dio legato alle acque del mare, similmente a Lancillotto con la Dama del Lago. Sulla stessa posizione si è posto il celtista Jean Markale (1928-2008), che ha aggiunto altri tre elementi: a suo dire Lancillotto, oltre ad Artú, può toccare la spada Excalibur, corrispondente all’arma Kaletfulch nel racconto irlandese della Seconda battaglia di Mag Tured, e che, nella storia cimrica di Kulch e Olwen, può essere impugnata soltanto da Lleenleawg (variante cimrica di Lug). Il nome di Lancillotto potrebbe essere interpretato come Lance-Loth, ove la forma Loth corrisponderebbe, nella lingua gallese, a Lug; infine, la denominazione Lancillotto del lago potrebbe derivare da una traduzione di Llwch, altra variante fonetica cimrica per Lug. Markale evidenzia anche tratti comuni tra Lancillotto, l’eroe irlandese Cú Chulainn e Batraz, personaggio appartenente alla mitologia dei Narti, a testimonianza di una matrice mitica indoeuropea comune. Il medievista francese Dominique Boutet (19492021), invece, ha sostenuto l’ipotesi che il personaggio indoeuropeo che si nasconde dietro a Lancillotto possa ricomprendere, oltre che il Lug celtico, anche (segue a p. 70) aprile

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Frontespizio di un’edizione del Livre de Messire Lancelot du Lac, illustrata dal Maître des Cleres Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Dall’alto, in senso orario,

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i riquadri mostrano episodi della vita di Lancillotto: la nascita; Viviana che si occupa della sua educazione; l’investitura a cavaliere; l’arrivo alla cappella del Santo Graal.

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Dossier il dio indiano Bhisma e il norreno Heimdallr. Visione comune ai vari studiosi è che Lug, dio celtico al di sopra degli dèi, e che riassume in sé tutte le altre funzioni, appartenendo contemporaneamente alla classe sacerdotale (è indovino, poeta, astrologo, stregone, medico), a quella dei guerrieri (è campione di molte battaglie), a quella dei produttori (è carpentiere, fabbro, artigiano), avrebbe in comune con Lancillotto una polivalenza funzionale. Ad avviso del filologo romanzo e celtico Francesco Benozzo, gli studiosi citati hanno avuto il merito di spiegare alcune caratteristiche dell’eroe, ma hanno trascurato quella che racchiude il mistero del personaggio, ossia il suo rapporto con Ginevra (tutte le azioni e le imprese di Lancillotto sono infatti dettate dal trasporto per Ginevra) e la sua infedeltà al re. Ebbene, secondo la sua tesi, nella tradizione celtica esiste un personaggio, Angus (o Aengus, Óengus) Mac Oc, il figlio del Dagda (capo supremo dei Tuatha de Danaan), che può essere definito il dio celtico dell’amore e che, come Lancillotto, cerca costantemente di unirsi con una donna, Caer, la figlia di un re del Sidhe, cioè dell’Altro Mondo. A parte questioni etimologiche e fonetiche, la possibile derivazione di Lancillotto da Angus potrebbe essere spiegata come «una delle attualizzazioni narrative dell’antico dio celtico dell’amore, che in certi racconti irlandesi assume proprio l’aspetto trasognante, tipico anche del figlio di re Ban, del guerriero che non sa opporsi e resistere alla propria passione, un richiamo ineluttabile che diviene alla fine preponderante sul resto». Alcuni nessi strutturali delle vicende dei due personaggi renderebbero ancora piú convincente, ad avviso di Benozzo, questa interpretazione. La funzione di sovranità, nei testi gaelici in cui compare Angus, è infatti incarnata da Midhir, signore dell’Oltretomba e delle metamorfosi

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che, come è in certo senso Artú per Lancillotto, è padre adottivo del dio. In alcuni racconti irlandesi medievali, come nel Tochmarc Étaine (Il corteggiamento di Étain), che narra dell’amore di Midhir per Etain, figlia di Ailill, re dell’Ulaid, compare un elemento di conflittualità tra questo e Angus dovuto proprio alla fanciulla, e tale «rivalità tra il giovane dio e il signore dell’Oltretomba, rivalità causata dall’amore per una fanciulla che è anche regina, può essere accostata al conflitto che oppone Lancillotto ad Artú passando attraverso

Ginevra, conflitto descrivibile appunto come una lotta contro il re-padre per la regina». Interessante è inoltre l’attitudine al fantasticare di Angus quando pensa all’amata, caratteristica che risulta l’argomento di un intero racconto (Il sogno di Óengus, redatto nella prima metà dell’VIII secolo), nel quale per tre anni egli vaga, in una sorta di sogno da cui non può uscire, alla ricerca di Caer; ciò ricorda molto l’atteggiamento amoroso di Lancillotto che lo fa cavalcare trasognato, dimentico di se stesso e di ciò che lo circonda, nell’unico pensiero di Ginevra. aprile

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Miniatura raffigurante Lancillotto che viaggia sulla carretta guidata da un nano, simbolo di infamia, pur di raggiungere Ginevra, da un’edizione del Lancelot du Lac illustrata dal Maître des Clères Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto cromolitografia raffigurante il dio celtico Angus che riceve in sogno la visita di una fata, da un originale ad acquarello di Ernest Charles Wallcousins. 1900.

Lancelot-Graal (come il rapimento da parte di una fata), il romanzo di Chrétien de Troyes si concentra su un numero ristretto di avventure di Lancillotto in età matura, che lo vedono alle prese con la regina Ginevra, moglie di Artú.

La carretta del disonore

Lo Chevalier de la charrette si basa sul motivo, tipicamente celtico (l’aithed irlandese) della ricerca della Regina, consistente nel caso di un misterioso cavaliere che rapisce una donna sposata di alto rango e la porta con sé nel suo regno soprannaturale, mentre il marito, dopo aver superato difficili prove, penetra nella sua terra, che sembrava inaccessibile, e riesce a liberarla. Già prima di Chrétien, nell’ambito della tradizione arturiana, Gine-

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vra sembra essere protagonista di un rapimento: a questo rimandano le scene scolpite nell’archivolto del portale nord della cattedrale di Modena (prima metà del XII secolo), nonché la Vita sancti Gildae, scritta dal chierico gallese Caradoc di Llancarvan tra il 1136 e il 1160, in cui Melwas, re del paese dell’estate, rapisce Guennuvar, moglie di Artú, e la conduce a Glastonbury, nella Città di Vetro (Urbs Vitrea). Nel romanzo di Chrétien, uno sconosciuto (che si rivelerà essere Meleagant) arriva alla corte di Artú, dichiarando di aver fatto prigionieri nel suo regno dame e cavalieri, e di essere disposto a liberarli se la regina Ginevra lo seguirà nella foresta. Ciò avviene e numerosi cavalieri (non Artú, però) si lanciano all’inseguimento del ra-

pitore e della regina. Tra questi vi è Lancillotto, di cui ancora non si rivela il nome, che incontra un orribile nano il quale gli dice che lo condurrà dalla regina se accetterà di salire su una carretta, dove sono soliti essere trasportati assassini e delinquenti. Combattuto tra Ragione, che lo ammonisce contro il disonore, e Amore, che lo spinge a salire, il cavaliere esita per due passi, poi sale. A differenza di Galvano, che rifiuta, Lancillotto accetta quindi l’onta pur di essere condotto al castello. Meleagant, il rapitore, ha imprigionato la regina nel reame di Gorre, un vero Altromondo, al quale si giunge solo attraversando due ponti: o il Ponte sott’acqua o il Ponte della Spada. Il secondo è (segue a p. 74)

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Dossier Un’altra miniatura raffigurante Lancillotto che attraversa il Ponte della Spada per raggiungere Ginevra, da un’edizione del Lancelot du Lac. 1310-1315. New York, The Morgan Library and Museum. Nella scena si distinguono tutti i dettagli della vicenda: le due belve feroci che attendono al varco il cavaliere, e l’amata che assiste all’impresa insieme alle damigelle.

una lettura etnografica

Quasi come uno sciamano Nello Chevalier de la charrette, Lancillotto affronta situazioni e prove che richiamano l’esperienza sciamanica, come ha sottolineato piú di un autore, da Mircea Eliade (1907-1986) a Heinrich Zimmer (1890-1943), Mario Mancini, Alvaro Barbieri e Anna Airò. L’esperienza sciamanica infatti implica all’inizio una crisi profonda e un periodo di labilità psichica, il superamento di sofferenze fisiche e della solitudine, fino ad arrivare alla risoluzione della crisi e alla consapevolezza di essere l’eletto, tutte situazioni riscontrabili nel cavaliere del romanzo di Chrétien de Troyes. Come lo sciamano, il Lancillotto della Carretta, alla ricerca dell’amata Ginevra, viene a caratterizzarsi per due elementi, la mortificazione del corpo e la morte sociale. Egli infatti dimostra quasi

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disprezzo per il proprio corpo e si procura varie ferite, mettendo alla prova la propria capacità di resistenza al dolore. Per esempio, si ferisce con lame taglienti, si taglia di netto le falangi quando deve divellere le sbarre della finestra che lo separa da Ginevra e, soprattutto, si ferisce quando attraversa il Ponte della Spada. Lancillotto si denuda mani e piedi e lo attraversa, senza curarsi del dolore che viene lenito dal pensiero per la regina («Non si preoccupava affatto / di ferirsi le mani e i piedi / preferiva mutilarsi»). Similmente anche lo sciamano deve sottoporsi a una sorta di «smembramento rituale», che rappresenta il passaggio morte-rinascita a cui il neofita deve sottostare. La morte sociale di Lancillotto prende avvio dal fatto di essere un cavaliere appiedato, aprile

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senza cavallo, ma raggiunge il culmine quando egli decide di accettare l’invito del nano a salire sulla carretta: chi sale su di essa, infatti, è considerato morto dalla società perché la carretta spetta a malfattori, ladri, traditori e assassini, cioè coloro che vivono al di fuori della società cortese. Come scrive Anna Airò, un «ulteriore elemento che accomuna Lancillotto agli sciamani è una certa propensione all’estasi, alla perdita di coscienza di sé perché immerso nella beatitudine. Emblematici in questo senso sono gli episodi del Pettine, della Torre e del Guado, in cui vediamo il cavaliere assorto nei pensieri d’amore per la regina Ginevra al punto da essere completamente dimentico di sé. Nel primo caso, la sola vista dei capelli d’oro della regina intrecciati in

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un pettine abbandonato su una pietra causano una fuga dall’autoconsapevolezza, fuga che diventa persino paradossale nel caso dell’episodio del Guado, quando Lancillotto viene scalzato dalla sella dal cavaliere guardiano del guado, il quale dopo averlo chiamato ripetutamente e non aver avuto risposta, lo colpisce e lo fa cadere in acqua». Come il corpo dello sciamano si trova in uno stato catalettico in cui egli raggiunge la trance e l’estasi e instaura un diverso rapporto con il mondo, come se vivesse una temporanea assenza della coscienza o dell’anima, allo stesso modo, in vari episodi del Cavaliere della Carretta, Lancillotto sembra venirsi a trovare in uno stato di ipoattività, in cui il suo pensiero si fissa su alcuni particolari e gli consente di separarsi temporaneamente dalla realtà circostante.

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Dossier La Dama del Lago e Lancillotto

Donne guerriere addestratrici di eroi Se esaminiamo gli antichi racconti irlandesi e gallesi, riscontriamo l’immagine di donne addestratrici di futuri guerrieri. Gli esempi sono numerosi: Finn mac Cumaill, il principale eroe del ciclo ossianico, orfano del padre ucciso in battaglia, viene sottratto alla madre e allevato al sicuro nei boschi da due donne con poteri a loro modo magici, la druidessa Bodbmall e Líath Lúacra, che ne hanno cura fino a quando il ragazzo non sarà pronto per essere un guerriero. Nell’arcaizzante Peredur gallese, l’omonimo protagonista riceve una sorta di iniziazione da donne guerriere fatate, le streghe di Caer Lloyw. Anche Cú Chulainn, il maggiore eroe irlandese, viene addestrato da Scáthach, la piú famosa di tutte le maestre d’armi celtiche, la quale, maga

e profetessa, tiene una vera scuola di eroi. Presso di lei Cú Chulainn apprende le straordinarie tecniche guerriere che sa padroneggiare, compreso l’uso del gaebolga, giavellotto che gli permette di uscire sempre vittorioso dagli scontri. Giovanni Picchiura ha evidenziato come anche nei romanzi cortesi arturiani sia leggibile un’evidente traccia di tale arcaica attitudine delle donne celtiche ad addestratrici d’arme. Nel Lancelot en prose, infatti, Lancillotto viene allevato dalla Dama del Lago, donna fatata che si occuperà della sua formazione cavalleresca, la cui propensione a rivestire il ruolo di madrina dei cavalieri è confermato dalla tradizione che la vuole custode della spada di Artú. Tale veste viene ribadita da Laurence Harf-Lancner, la quale, in questi casi, parla di «infanzia ferica»: l’eroe, solitamente, viene rapito in tenera età da una dama che, prima di sceglierlo come amante, ne fa un perfetto cavaliere. Nel rapporto tra Lancillotto e la sua educatrice però, prevale un amore materno e filiale, in quanto la Dama del Lago si pone nei confronti dell’eroe sempre in veste protettiva, soccorritrice e rassicurante, rivestendo a tutti gli effetti il ruolo di «fata madrina». costituito da una spada lunga due lance che varca un corso d’acqua vorticoso e terribile, simile a un fiume dell’inferno; al di là del ponte sembra che vi siano delle belve feroci. Lancillotto, contro il parere dei compagni, si denuda e attraversa il ponte ferendosi, ma, sorretto da Amore, riesce a superare la prova, non priva di elementi sciamanici (vedi box alle pp. 72-73), e giunge a un’alta torre. Qui viene benevolmente accolto da Baudemagu, padre del crudele Meleagant, e dopo varie vicissitudini, può incontrare Ginevra, la quale, all’inizio, lo accoglie freddamente per l’esitazione avuta nel salire sulla carretta. Dopo tutta una serie di peripezie, l’eroe sconfigge definitivamente Meleagant, libera sia la regina che tutti gli altri prigionieri nel regno di Gorre, e può tornare alla corte di Artú ove viene portato in trionfo.

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Cú Chulainn sul suo carro, tavola realizzata da Joseph Christian Leyendecker per l’opera Myths and Legends of the Celtic Race di Thomas Rolleston. 1911. Nella pagina accanto disegno a penna raffigurante Tristano e Lancillotto che giocano a scacchi nel castello della Dama del lago, dal Manoscritto Palatino 556. 1146. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

Nel romanzo, come scrive la filologa romanza Arianna Punzi, ci si trova al cospetto di un racconto di totale dedizione da parte di Lancillotto all’essere amato, che diviene un’obbedienza che non va letta come sudditanza, ma come assoluta adesione alla volontà dell’altro. In nome dell’amore per la regina, Lancillotto accetta umiliazioni (la carretta, la partecipazione a un torneo «al peggio»), oppure compie imprese straordinarie. Nel racconto, peraltro, Lancillotto

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e Ginevra non dichiarano mai l’amore reciproco che provano, che rimane sottinteso perché preesiste all’episodio ed è considerato noto. Chrétien de Troyes, infatti, sfrutta un canovaccio all’epoca ben risaputo, anche se egli è stato il primo a farcelo conoscere.

La nascita e l’educazione

L’intera storia di Lancillotto, dalla nascita alla morte, è narrata invece nel grande ciclo in prosa del Lancelot-Graal (o Vulgata), di uno

o piú autori anonimi e databile attorno nella prima metà del XIII secolo (forse tra il 1214 e il 1224), in particolare nel Lancelot en prose, che si divide nel Lancelot propre, nella Queste e nella Mort Artu (a questa triade furono poi aggiunti, con funzione di preambolo, l’Estoire du Saint Graal, il Merlin, e la Suite Merlin). Come molti eroi, Lancillotto è orfano. Il padre, Ban di Benoïc, fedele vassallo di Artú, viene attaccato dal malvagio Claudas e, vedendo la fortezza di Tre-

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Miniatura raffigurante Galahad condotto al Seggio Periglioso, da un’edizione della Quête du Saint Graal (erroneamente attribuita a Walter Map) illustrata dal Maître du Lancelot. 1380-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

bes ormai in fiamme, muore per il dolore. Mentre sua moglie si dispera, il figlio che stringe al petto le cade dalle braccia e una misteriosa fanciulla, una fata, lo prende e scompare nel lago. Quel bimbo è Lancillotto, a cui era stato dato come nome di battesimo Galaad.

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Uno dei temi fondanti del racconto infatti, è la conquista dell’identità da parte del protagonista, intesa nel vero senso del nome: l’eroe saprà come si chiama solo piú avanti, quando si imbatterà in una lastra cimiteriale, dopo l’avventura della Dolorosa Guardia.

Un bimbo bellissimo

La misteriosa donna che lo ha rapito è Ninienne, la Dama del Lago che, quale fata madrina, lo alleva amorevolmente, in quella che Laurence Harf-Lancner ha

definito un’«infanzia ferica» (vedi box a p. 74); il bambino si mostra già d’aspetto il fanciullo piú bello che si possa immaginare, di una bellezza quasi femminile che fa innamorare sia donne che uomini. Nell’armonia delle membra, l’unico elemento fuori misura è il suo petto, smisuratamente ampio, ma tale da contenere un cuore altrettanto smisurato. Lancillotto, come si vedrà, sa amare piú di ogni altro la sua donna e i suoi amici, ed è capace delle piú forti emozioni, compresi eccesaprile

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In alto miniatura raffigurante, sulla sinistra, Artú che conversa con i suoi baroni, mentre Lancillotto e Ginevra parlano sotto voce alle sue spalle, e, sulla destra il re e la regina che presenziano a un banchetto, da un’edizione del Lancelot du Lac realizzata in Francia. Inizi del XIV sec. Londra, British Library. A destra miniatura raffigurante un gruppo di cavalieri che parte per la crociata, da un’edizione della Quête du Saint Graal. 1280 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

si d’ira che talvolta lo invadono. Cresciuto ed educato insieme ai cugini Bohort e Lionello nel regno fatato, che agli occhi altrui sembra un lago, all’età di diciotto anni il ragazzo, ormai uomo, manifesta la volontà di andarsene per approdare alla corte di re Artú. La fata, pur piena di dolore, acconsente a che il giovane segua la sua libertà, non prima di averlo ammonito e istruito sui principi piú nobili che la cavalleria deve seguire. Vuole inoltre che egli sia tutto di bianco vestito per presentarsi a corte. Il colo-

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Miniatura raffigurante Giuseppe d’Arimatea che raccoglie in un calice il sangue di Cristo, da un’edizione della Quête du Saint Graal illustrata dal Maître des Cleres Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

re candido dell’intero vestiario di Lancillotto, compreso il cavallo che egli monta, è simbolo di purezza, e caratterizza tutto il corteo che, alla vigilia della festa di san Giovanni, si mette in cammino in una sorta di rito di passaggio. Non appena arriva alla corte di

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re Artú, ogni gesto e ogni movimento di Lancillotto vengono inscritti sotto il segno dell’amore per la regina, che lo chiama «amico» (in francese ami ha anche un’accezione amorosa), e di cui si innamora perdutamente. Prima che il suo amore possa rivelarsi, il cavaliere deve superare una serie di prove iniziatiche, tutte all’insegna del meraviglioso. Tra le piú impegnative, vi è la liberazione del castello della Dolorosa Guardia, dove sono tenuti prigionieri, in base a un sortilegio, uomini e donne. Tutti i

cavalieri che hanno in precedenza tentato l’impresa, peraltro, sono rimasti uccisi.

Il migliore di tutti

La Dama del Lago veglia sul suo amato figlio adottivo anche in questa circostanza, donandogli tre scudi magici. Lo conduce anche in un cimitero dove finalmente potrà conoscere la sua identità: l’epitaffio di una tomba recita che la lastra potrà essere sollevata solo da colui che conquisterà il castello doloroso, e di cui è riportato il aprile

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nome. Lancillotto, naturalmente, riesce a sollevare la pesante lastra e legge finalmente: «Qui giacerà Lancillotto del Lago, il figlio del re Ban di Benoïc». Naturalmente, sarà lui a liberare il castello dal sortilegio, dimostrando il suo eccezionale valore, tanto che Galvano ne tesserà le lodi ad Artú, definendolo il miglior cavaliere del mondo. Nel regno di Artú arriva quindi Galeotto: preceduto da sogni spaventosi che tormentano il sovrano, giunge dalle Isole Lontane (dunque spazi isolati e luoghi dell’alterità, circondati dall’acqua) per conquistare il regno un uomo dal corpo smisurato, figlio della Gigantessa, caratterizzato per di piú da un animo prode e giusto. Al suo confronto, Artú appare improvvisamente rimpicciolito, incapace di difendere i suoi sudditi. La corte, inoltre, è orfana di Lancillotto, che si trova prigioniero nel castello della dama di Malehaut, che lo ama e cerca di trattenerlo, ma alla fine acconsente a lasciarlo partire per raggiungere la corte di Artú, dove infuria la guerra con Galeotto. Nel momento in cui quest’ultimo si trova al cospetto del giovanissimo cavaliere che è l’unico capace di tenergli testa, riconosce la sua superiorità, ne ammira la grandezza e depone le armi, decidendo di porsi al suo servizio per il resto della vita, come un vassallo di fronte a un re.

Amore incondizionato

In quello che a tutti gli effetti si presenta come un amore totale, volto solo a ottenere la gioia dell’amico, Galeotto cerca di unire Lancillotto alla regina, consapevole che anche lei lo ricambia del suo amore, e combina un incontro tra i due. Lancillotto si presenta di fronte a Ginevra pallido e tremante, e riesce a stento a salutarla. Poi si inginocchia. Ginevra vuol sapere da lui che nome abbia e gli domanda, in un dialogo che diventa sempre piú serrato, per chi compia con tan-

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ta prodezza gesta cosí eccezionali. L’eroe, a questo punto, confessa di fare tutto ciò per la regina, manifestando il suo incondizionato amore nei confronti di Ginevra, la quale, in cuor suo, già lo sa. Galeotto incoraggia la regina a baciare Lancillotto, lei lo prende per il mento e lo bacia a lungo (a differenza di quanto racconta Dante, dove è Lancillotto a baciare la regina; vedi box a p. 81). Come Tristano e Isotta, Lancillotto e Ginevra iniziano una relazione caratterizzata da un amore cieco e prepotente; approfittando poi dell’assenza di Artú, sedotto dalla maga Gamille e tenuto prigioniero nel suo castello, i due amanti possono finalmente congiungersi, abbandonandosi alla passione dei sensi. Il racconto, pertanto, attribuisce a Galeotto una funzione strategica, quella di favorire l’amore tra Lancillotto e la regina, cosí ben descritta da Dante nel V canto dell’Inferno. Il gigante, prode e valoroso, però, consegnando l’amato amico all’amore di Ginevra, costruisce la sua fine. È consapevole che l’amore che unisce i due è totale e tale da escludere qualsiasi altro; consapevole che perderà Lancillotto, in lui si insinuano i germi della malattia del mal d’amore e della malinconia che in breve lo porteranno alla morte. A questo punto del LancelotGraal, si inserisce l’episodio della falsa Ginevra: una fanciulla misteriosa giunge a corte, rivendicando di essere la vera Ginevra e di essere stata sostituita con l’inganno la prima notte di nozze. Il fatto non solo turba Artú; egli infatti viene sedotto dalla giovane, grazie anche a pozioni magiche, e, convinto che essa sia la vera Ginevra, comincia a trattarla come legittima sposa. L’amore del re per la falsa regina è portatore di disordine sociale a corte, il peccato della carne del regnante rendono consapevole anche Ginevra che il male si è

abbattuto sul regno per colpa della sua relazione per Lancillotto. Artú fa spodestare la vera Ginevra e Lancillotto si offre come campione della regina in un duello giudiziario e vince consecutivamente tre avversari. A ogni modo, a seconda delle versioni dei manoscritti, che sul punto divergono, la falsa Ginevra verrà alla fine smascherata e condannata al rogo, ovvero si pentirà dell’inganno e perirà per una malattia. Dopo due anni di esilio, Lancillotto convince la vera Ginevra a tornare presso Artú, e la regina accetta, ottenendo che Lancillotto rimanga cavaliere della Tavola Rotonda.

La Valle senza Ritorno

Altra impresa che Lancillotto deve superare per costruire la propria identità e che ne sancirà il ruolo di amante per eccellenza, fedele alla sua dama fino a sconfiggere la magia, è la prigionia presso Morgana e la successiva liberazione. La maga infatti, ferita dal fatto che, anche su consiglio di Ginevra, fosse stata abbandonata da Guiomar – un cavaliere di cui si era invaghita –, medita di vendicarsi contro entrambi, e, piena di rabbia, provoca un sortilegio creando uno spazio infernale, la Valle senza Ritorno (o Valle dei Folli Amanti), dalla quale nessun cavaliere che abbia ingannato la sua amica può uscire vivo. Lancillotto rimane prigioniero di Morgana, che cerca inutilmente di piegarlo con le sue imposizioni; alla fine la stessa è costretta ad arrendersi, riconoscendo che egli è il cavaliere piú affidabile ed è il piú fedele in amore. Dall’altro lato la sorellastra di Artú cerca di gettare discredito sulla regina, e invia alla corte del re una damigella, la quale annuncia che Lancillotto non tornerà piú, e che, ferito gravemente, ha confessato il vile peccato commesso contro il suo signore per averlo a lungo disonorato unendosi

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Dossier alla sua sposa. Ginevra però, con una certa abilità, si difende dalle accuse, affermando di non aver mai amato Lancillotto di amore illecito, ma di averlo apprezzato e avergli fatto dei doni in quanto egli era il cavaliere piú bello e valente di tutti, spesosi tra l’altro piú volte per salvare il suo sovrano. Nel frattempo, Lancillotto viene liberato da Morgana, che ottiene da lui la promessa di non vedere la regina fino al Natale successivo (gli fa infatti bere una pozione drogata con la quale gli fa credere che Ginevra lo abbia tradito con un altro cavaliere), ma a corte tutti cominciano a dubitare del suo ritorno e a credere che sia morto. A quella notizia Galeotto, l’amico innamorato di amore puro verso Lancillotto, cade in uno stato di assoluta accidia, smette di mangiare e di bere e, causa anche una ferita infetta a una gamba, si lascia morire. L’amore di Galeotto per Lancillotto, caratterizzato da un sentimento totalmente gratuito che lo porta all’estremo sacrificio di sé, si contrappone ad altri tipi di amore non ugualmente puri. Tra questi rientra anche quello di Lancillotto per Ginevra: alla totale dedizione per la donna amata si accompagnano, infatti, il tradimento e la menzogna.

L’avvento di Galaad

Proprio la relazione adulterina con la moglie del suo re preclude a Lancillotto di portare a compimento la cerca del Graal, che sarà perseguita invece con successo da suo figlio Galaad, concepito unendosi alla figlia del re Pellés con la volontà soggiogata dagli effetti di una bevanda magica somministrata dalla nutrice Brisane. Il concepimento del figlio di Lancillotto viene però inquadrato in una cornice provvidenziale, «in cui il peccato carnale è sublimato da un disegno piú alto e si proietta verso un tempo altro, il tempo del Graal, avvi-

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cinando cosí la nascita di Galaad alla nascita per eccellenza, quella di Cristo». Galaad continua l’opera lí ove Lancillotto si deve fermare, a causa del suo peccato di lussuria. In questo senso, l’avvento del figlio puro e casto sta a significare la contrapposizione di una cavalleria tutta terrena, la quale, pur fondata su valori meritevoli – coraggio, lealtà, difesa dei deboli – è destinata a fare i conti con la fragilità dell’essere umano, a una cavalleria celeste protesa verso il cielo. È nella Queste, databile attorno al 1225-1230, che

è raccontato l’avvento di Galaad a corte, un fanciullo dalla straordinaria bellezza e somiglianza con Lancillotto, che non passano inosservate a nessuno dei presenti. La legittimazione al suo futuro radioso è rafforzata dal superamento di una prova che appare quasi identica a quella a cui fu sottoposto re Artú per diventare re di Bretagna: appare per miracolo una roccia con una spada conficcata, e con la scritta che annuncia che colui che riuscirà a estrarla sarà il miglior cavaliere del mondo. Lancillotto, pur se esortato aprile

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Un modello per Paolo e Francesca Dante Alighieri colloca nel V canto dell’Inferno, nel girone dei lussuriosi, le figure di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, una tra le coppie di amanti piú note dell’immaginario collettivo. In vita essi furono cognati, Francesca era infatti sposata con Gianciotto, fratello di Paolo, e il loro amore li condusse alla morte per mano del marito di Francesca. In quelli che sono ormai versi immortali della letteratura, Francesca spiega la nascita del loro amore, avvenuta leggendo il libro che narrava la relazione di due amanti altrettanto famosi, Lancillotto e Ginevra, appunto. E fa riferimento al bacio che i due si scambiarono (vv. 127-29 e 133-38): Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. [...] Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: quel giorno piú non vi leggemmo avante. (segue a p. 82)

Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione del Livre de Lancelot du Lac realizzata in Francia. 1316 circa. Londra, British Library. In alto, il bacio fra Lancillotto e Ginevra; a destra, Lancillotto, nel letto, racconta a Ginevra di come, durante il torneo, la sua forza fosse venuta meno dopo essersi accorto che la regina lo stava guardando.

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Dossier

Diversi studiosi si sono interrogati sull’interpretazione del passo, soprattutto in relazione alla divergenza tra Dante, secondo il quale sarebbe stato Lancillotto a prendere l’iniziativa del bacio, e la sua fonte francese, in cui è invece Ginevra a baciare Lancillotto. Sono state avanzate varie ipotesi: che Dante avesse letto copie italiane del Lancelot-Graal nelle quali era presente una versione differente dell’episodio, o che avesse peccato di frettolosità, dando priorità alle rubriche di alcuni manoscritti da cui – se non si va a leggere tutto il passo − si può desumere che sia stato Lancillotto a baciare per primo, o che abbia manipolato la fonte di sua volontà. La questione però rimane aperta e forse, come evidenzia Claudio Lagomarsini, Dante attribuí a Lancillotto il coraggio che, per una volta, era mancato al piú grande dei cavalieri. In ogni caso, il bacio tra Ginevra e Lancillotto ha il significato di un pegno e assume un preciso valore giuridico, in quanto è il segnale dell’inizio di un patto d’amore. Nella vicenda un ruolo determinante, da vero «mediatore», è quello rappresentato da Galeotto: infatti, nel passo dantesco, Paolo e Francesca non leggono

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soltanto un libro in cui si racconta di come la regina Ginevra baci Lancillotto, tradendo il marito, ma anche di come Galeotto abbia favorito l’incontro. I due innamorati, infatti, hanno bisogno di qualcuno che faccia da tramite per la concretizzazione del loro amore; in altri termini, nel paragone dantesco, Galeotto sta al libro che leggono Paolo e Francesca. Il bacio tra Ginevra e Lancillotto ha avuto una larga fortuna iconografica: esso è presente già in diverse miniature medievali, come quella del manoscritto Add. 10293 della British Library (metà del XIV secolo), nel ms. français, 117-120, 118, della Bibliothèque Nationale de France, f. 219v, e in quella del ms. Add. 10293 (f. 312v) della British Library di Londra che, oltre a ritrarre la regina che bacia Lancillotto in presenza di Galeotto, raffigura anche Ginevra e Lancillotto a letto (vedi foto a p. 81). Altre raffigurazioni medievali dell’amore tra Ginevra e Lancillotto si ritrovano nella torre Frugarolo, nel Piemonte meridionale (XIV-XV secolo), costruita per volere della famiglia Trotti, per sigillare il suo ingresso nel ceto cavalleresco. Venendo a tempi molto piú recenti, si può citare il caso di Julia Margaret Cameron (1815-1879), fotografa inglese aprile

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che, su richiesta di Alfred Lord Tennyson, fotografò Andrew Hichens e Mary Prinsep in una posa romantica, che doveva rappresentare Ginevra e Lancillotto (vedi foto in alto). La foto corredò le pagine degli Idylls of the King and Other Poems di Alfred Tennyson (1859), ispirati ai personaggi arturiani tratti dalla Morte di Artú di Thomas Malory. Il preraffaellita Dante Gabriel Rossetti, nella metà dell’Ottocento, dipinse un acquarello dal titolo La tomba di Re Artú (vedi foto sulle due pagine) raffigurante l’ultimo incontro tra i due amanti sulla tomba di re Artú, un sarcofago che ai lati reca delle scene delle imprese arturiane. I due amanti si danno l’addio, e la presenza del serpente in basso potrebbe indicare la presa di consapevolezza dei due amanti di separarsi per aver riconosciuto l’atto peccaminoso che condusse al deterioramento del regno arturiano. Ancor piú recente, in chiave cinematografica, il bacio fu immortalato nel noto film Il primo cavaliere (1995), per la regia di Jerry Zucker, i cui ruoli di Lancillotto e di Ginevra sono interpretati da Richard Gere e Julia Ormond, mentre quello di Artú da Sean Connery.

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In alto Lancillotto e Ginevra, fotografia all’albume della fotografa inglese Julia Margaret Cameron (1815-1879). A sinistra, sulle due pagine La tomba di Re Artú, acquerello su carta di Dante Gabriel Rossetti. 1860. Londra, Tate Gallery.

da Artú, si rifiuta, considerandosi indegno, mentre Galaad riesce facilmente, rivelando il suo futuro destino di prescelto. L’avvento del figlio dimostra che Lancillotto non è piú il migliore di tutti, e ne denuncia i limiti. Galaad, novello Cristo, è venuto per ristabilire l’armonia, e per guidare i cavalieri di Artú verso una nuova avventura, dalla quale sono esclusi coloro che non sono puri, e quindi il padre stesso. Lancillotto, infatti, dopo essersi incontrato in una foresta con il figlio, senza riconoscerlo, lo segue e arriva a una cappella, dove si addormenta, e non può assistere alla visione del Graal. Una voce lo rimprovera, e capisce che i suoi peccati e la vita disonesta lo hanno condannato a questa condizione; incontra un eremita e gli confessa che, per amore di una donna, egli è riuscito in grandi imprese, ma è sempre vissuto nel peccato mortale. Si pente e fa promessa di vivere in castità da quel momento in poi. Padre e figlio si ritrovano, e colmi di gioia passano mesi insieme all’insegna del compimento di imprese straordinarie, in virtú del loro valore e dello Spirito Santo che li aiuta. Galaad però è destinato a separarsi dal padre, per accedere ai segreti del Graal e a morire santamente dopo averlo contemplato. La sua avventura terrena e il compito per il quale era venuto al mondo sono compiuti, e i due non si vedranno piú. L’avventura di Lancillotto nel mondo invece continua, ma sarà caratterizzata, nell’ultima sezione del ciclo, la Mort Artu, dalla ricaduta nella follia d’amore.

Il re tradito

La storia d’amore tra il cavaliere e la regina infatti, riprende, fra tradimento e vincolo di fedeltà, piú prepotente di prima, e non può piú passare sottaciuta a corte. Agravain, fratello di Galvano,

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Dossier Cinema

La versione di Bresson

Uno dei film piú singolari sulla figura del cavaliere arturiano è stato Lancelot du Lac (distribuito in Italia con il titolo di Lancillotto e Ginevra), per la regia di Robert Bresson, che elaborò il progetto almeno per una ventina d’anni prima di portarlo a termine nel 1974. Il risultato fu un film che non fu ben accolto dalla critica e dal pubblico, tanto da risultare uno dei piú grandi insuccessi della carriera dell’autore. L’opera, piú che essere una storia di re Artú e dei suoi cavalieri, è un film sulla ricerca del Graal simbolo della ricerca dell’assoluto, nella quale i cavalieri falliscono per difetto di purezza. Nella trama, a grandi linee, si racconta di come i pochi cavalieri reduci dalla ricerca del Sacro Graal tornino delusi a corte, con la convinzione di essere perseguitati da una maledizione divina. Nello stesso stato di sconforto si trova Lancillotto,

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che attribuisce ciò alla sua relazione adulterina con Ginevra, e pertanto decide di porre fine alla stessa. La corte è dilaniata dai rancori reciproci e dalle voci sul rapporto adulterino tra i due, e Lancillotto tenta di stemperare le inimicizie interne e di tenere a freno l’esuberanza di Galvano, suo amico e nipote di Artú. Durante un torneo, Mordred sferra un agguato a Lancillotto con l’intento di screditare la regina, ma il tentativo fallisce, perché Lancillotto partecipa in incognito, indossando un’armatura bianca e senza insegne. Lancillotto sconfigge tutti i cavalieri (solo Artú e Galvano si rendono conto della sua reale identità), ma riporta una ferita e scompare nella foresta. Ginevra, disperata, si chiude in isolamento, controllata dal crudele Mordred. Appena si rimette, Lancillotto rapisce Ginevra, ma nella foga uccide Galvano. Artú si dichiara disposto a

Humbert Balsan, nei panni di Galvano, e Laura Duke Condominas, in quelli di Ginevra, in una scena del film Lancillotto e Ginevra di Robert Bresson. 1974.

perdonare Lancillotto, a patto che riconsegni Ginevra e abbandoni per sempre la corte. Il finale è tragico: Mordred prepara una mortale imboscata nella foresta, dove in una sanguinosa battaglia periscono sia il re che tutti i cavalieri. Il film non esalta la vittoria, ma il dubbio, suscitando un cupo senso di tenebre e di sconfitta. L’atmosfera generale della pellicola è dominata dal Male, che spinge i cavalieri gli uni contro gli altri, provoca la morte del fedele Galvano, esige la separazione della regina da Lancillotto e infine conduce quest’ultimo alla morte tra cumuli di armature in una sequenza conclusiva dalla grande forza evocativa. Come ebbe a dichiarare lo stesso aprile

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Bresson, l’ambientazione medievale del film risulta solo un pretesto (con conseguente abolizione di ogni elemento di incantamento e di fascinazione, nonché di ogni ricostruzione storica e pittorica, anche se alcune scene risultano chiaramente debitrici di alcune immagini di Paolo Uccello e Piero della Francesca), e il mito viene stravolto e utilizzato a fini metaforici, per rappresentare la crisi della società contemporanea.

Tale prospettiva suscita un senso di smarrimento e straniamento nello spettatore, accentuato dalla «camera» che indulge sui visi pietrificati dei cavalieri, sui particolari delle armature, sugli occhi dilatati dei cavalli, mentre il sottofondo sonoro è dominato dall’incessante rumore delle ferraglie e dal nitrito degli animali. In definitiva, il mondo arturiano di Bresson non è un luogo radioso ma, al contrario, è un mondo senza Grazia, abbandonato da un dio impietoso e distante, nel quale le uniche direttive sembrano essere la violenza, la sopraffazione, l’avidità di possedere e corrompere.

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si accorge della relazione tra i due amanti, e la rivela ad Artú, il quale non vuole credere alle parole del nipote, anche se un tarlo si insinua nel suo cuore. Dovrà ricredersi nel momento in cui, arrivato al castello della sorella Morgana, viene accolto nella stanza che Lancillotto, nel periodo della prigionia presso la maga, aveva affrescato con le scene del suo amore per Ginevra. Artú si sente disonorato dal tradimento di quello che riteneva il suo miglior cavaliere, e il suo stato d’animo è esasperato dalle parole di Morgana, la quale, felice di affondare il coltello nella piaga, gli conferma che Lancillotto ha amato la regina con la forza con la quale nessun uomo ha mai amato una donna. Oppresso dalla vergogna e dal peso della verità, Artú si dimostra ansioso di poter cogliere i due adulteri in flagrante e punirli per rivendicare il suo ruolo di re. L’anonimo autore del romanzo collega, piú che in altri romanzi, la tragicità del declino del mondo arturiano alla colpa di Lancillotto; questa, infatti, non è un semplice peccato carnale, perché usurpare la donna del sovrano è usurpare lo stesso ordine costituito, e quindi si trasforma in peccato sociale. Il veleno ormai si insinua a corte, anche Galvano accusa quello, che era stato il suo migliore amico e compagno di tante imprese, di tradimento. Ginevra viene condannata a essere arsa viva, ma giunge Lancillotto che, dopo aver ucciso diversi cavalieri tra cui i fratelli di Galvano stesso, riesce a metterla in salvo e la conduce al castello della Gioiosa Guardia. Le sanguinose lotte intestine gettano nella disperazione Artú, perché la morte di molti suoi cavalieri è stata provocata da chi era stato il primo dei suoi campioni. Allo stesso tempo Lancillotto si sente pieno d’angoscia, perché il suo castello viene assediato dal re che aveva sempre amato e onorato.

Di fronte al suo sovrano, Lancillotto rinuncia a scontrarsi, ed è pronto a rinunciare a tutto e piegarsi pur di ritrovare la pace. Se Artú è pronto a esaltare ancora le doti di Lancillotto, superiore a tutti per bontà e cortesia, non lo è Galvano, che non perdona e si scontra in un duello giudiziario con il suo antico amico, riportando ferite insanabili. In punto di morte, però, si pente e si rammarica del suo comportamento, riconfermando di trovarsi al cospetto del miglior cavaliere del mondo. Il regno di Artú è ormai al declino: Mordred, figlio incestuoso che aveva generato con la sorellastra e al quale Artú aveva affidato il regno per muovere verso Gaunes all’attacco di Lancillotto, tradisce il padre e cerca di unirsi a Ginevra con l’inganno, preso da folle passione. Artú, avvertito dalla regina stessa, torna sui suoi passi e nella piana di Salesbières si consuma la battaglia finale.

La morte da eremita

Artú uccide Mordred e viene a sua volta ferito a morte; quindi si libera della spada Excalibur e viene fatto salire su una barca da Morgana e altre dame, ma piú tardi il fedele Girflet trova la sua tomba in una cappella. La Mort Artu si presenta quindi come una drammatica saga familiare, e i figli di Mordred prendono il potere. Appreso che Artú è morto e che Ginevra ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in convento, Lancillotto capisce che il mondo in cui è vissuto non ha per lui piú nessuna attrattiva. Dopo aver sconfitto gli usurpatori, cavalca tutta la notte fino ad arrivare a un eremo collocato in un luogo estremamente solitario, vi entra e vi trova l’arcivescovo di Canterbury e suo cugino Blioberis, che hanno abbracciato una vita da eremiti, e che gli spiegano che hanno deciso, separandosi dal

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Pagine di un’edizione manoscritta della Quête du Saint Graal. XIV sec. Londra, British Library. Nelle miniature, da sinistra: Lancillotto estrae la testa del nonno decapitato, il re, da un pozzo bollente; un edificio crolla addosso a due cavalieri; Artú e Ginevra siedono a banchetto e Lancillotto, che sta loro di fronte, chiede di poter lasciare la corte; Lancillotto arriva in un monastero femminile e viene disarmato all’inizio della ricerca del Sacro Graal. Intorno a quest’ultima scena, si dispongono figurine di musicisti, cavalieri impegnati in un torneo, animali reali e fantastici e stemmi araldici.

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mondo, di vivere per il resto della vita al servizio di Dio. Lancillotto decide allora di fermarsi con loro, espiando le sue colpe passate tra ascesi, veglie, digiuni e preghiere, insieme a Bohort ed Hector, che, nel frattempo, lo hanno raggiunto. Dopo quattro anni aprile

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Da leggere Chrétien de Troyes, Godefroi de Leigni, Il cavaliere della carretta (Lancillotto), a cura di Pietro G. Beltrami, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2004 Arianna Punzi, All’ombra di Lancillotto. Storie e imprese del primo cavaliere della Tavola rotonda, Carocci, Roma 2022 Arianna Punzi, Intorno al personaggio di Galeotto, signore delle isole lontane, in Barbara Ronchetti, Maria Antonietta Saracino, Francesca Terrenato (a cura di), La lettura degli altri, Sapienza Università editrice, Roma 2015: pp. 69-86 Arianna Punzi, Lancillotto e suo figlio: tra identità e alterità, in Annalisa Perrotta e Lorenzo Mainini (a cura di), Confini e parole. Identità e alterità nell’epica e nel romanzo, Sapienza Università editrice, Roma 2020; pp. 149-166 Lino Leonardi (a cura di), Artú, Lancillotto e il Graal, vol.II, Lancillotto del Lago (la Marca di Gallia-Galehaut), Einaudi, Torino 2021 Mario Mancini (a cura di), La letteratura francese medievale, Carocci, Roma 2020 Alvaro Barbieri, Verso le case di Ade: modelli sciamanici nel Cavaliere della Carretta, in Alvaro Barbieri (a cura di), Eroi dell’estasi-Lo sciamanismo come artefatto culturale e sinopia letteraria, Fiorini, Verona 2017; pp. 157-214 Anna Airò, Lancillotto sciamano

Lancillotto si ammala, e prima di spirare chiede che il suo corpo sia sepolto alla Gioiosa Guardia, accanto al suo grande amico Galeotto. Sulla tomba, un epitaffio ricorderà che Lancillotto fu il migliore cavaliere di Logres, preceduto solo da suo figlio Galaad.

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Come chiosa Arianna Punzi, «la grandezza di Lancillotto come cavaliere si tinge ora dei connotati del santo, senza tuttavia perdere le caratteristiche di eccezionalità che lo avevano segnato, esattamente come avviene in tante leggende agiografiche dove anche l’eroismo

e il nome iniziatico, «Il Nome nel testo. Rivista internazionale di onomastica letteraria», XV (2013); pp. 125-139 Claudio Lagomarsini, Il Graal e i cavalieri della Tavola Rotonda. Guida ai romanzi francesi in prosa del Duecento, il Mulino, Bologna 2020. Claudio Lagomarsini, Il bacio di Ginevra, in Briciole di discorsi amorosi. Scritti per Sara Natale e Simone Albonico offerti dagli amici fiorentini, Campano, Pisa 2018. Gaetano Lalomia, «Di Lancillotto come amor lo strinse». Ginevra e Lancillotto, Arabeschi, n. 17, disponibile in rete. Roger Sherman Loomis, The Descent of Lancelot from Lug, «Bulletin bibliographique de la Société arthurienne», 3, 1951, pp. 67-73 Benozzo, Francesco, L’origine di Lancillotto (mitologia gaelica e romanzo), «Le forme e la storia», 1, 1996, pp. 43-60 Jean Markale, Lancillotto e la leggenda di re Artú, Mondadori, Milano, 2000 Lucrezia Fogagnolo, Ginevra rapita: lo schema del ratto oltremondano nel «Cavaliere della Carretta», nel mito e nel folclore, Università di Padova, 2017 Germana Gandino, I cavalieri della Tavola Rotonda tra mito e dissoluzione. «Lancillotto e Ginevra» di Robert Bresson, in «Quaderni medievali», n. 14 (dicembre 1982)

mondano può essere volto al servizio di Dio». Egli, infatti, «sceglie lo spazio del sacro, quello spazio separato, abitato da chi rinuncia al mondo dopo averlo conosciuto e averne sperimentato luci e ombre per volgersi a una realtà piú alta che assorbe la terra ma la supera».

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Come una

fenice

di Marco Ambrogi

Policastro Bussentino, in provincia di Salerno, erede dell’italica Pixous e della romana Buxentum, ha conosciuto nel tempo ripetute distruzioni, dalle quali ha saputo sempre risollevarsi. Dal castello bizantino-normanno alla cattedrale romanica, la città conserva testimonianze archeologiche, architettoniche e storico-artistiche di una vicenda plurisecolare

O O

sservata dalle montagne o ammirata dal mare, la cittadina di Policastro, una frazione di Santa Marina (Salerno), si manifesta con due spiccati attributi: le mura di cinta e l’imponente cattedrale incastonata all’interno. Piú in alto, nel recinto fortificato, svetta la torre maestra del castello, mentre in piano sfocia il fiume Bussento, idronimo derivato dal bosso, un sempreverde della macchia mediterranea, che all’antica città diede vocabolo. La prima fondazione del centro marittimo è da ascriversi al periodo enotrio, nel VII secolo a.C., alla sequela della ionica Siris, come scalo portuale nel Sinus Laos, che venne poi rifondato nel 471 a.C. dai Greci, al comando di Mikythos, tiranno di Rhegion e Zancle, col nome di Pixunte o Pixous. Di quel periodo sopravvive la murazione italica, che un tempo si elevava fino a 6 m circa, realizzata con grandi massi non isodomi di calcare grigio duro e compatto, provenienti dalle colline a nord del castello. Citata da Strabone quale fortezza con porto, Pixous divenne lucana nel IV secolo a.C. e fu tra le prime colonie romane militari della costa tirrenica meridionale, insieme a Volturno, Literno, Pozzuoli e Salerno, assumendo il nome di Buxentum. La deduzione prevedeva lo stanziamento di 30 famiglie latine, mentre la chora ne diveniva ager publicus. Del periodo romano affiorano l’impianto urbano ortogonale, un tratto del decumano massimo, largo 4 m, brani di mura in opus reticolatum e la centuriazione graccana, menzionata nel Liber Coloniarum.

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Policastro Bussentino (Salerno). Una torre merlata facente parte della cinta muraria normanna, impiantata sulle basi del circuito difensivo italico, greco e romano.

La storia di Buxentum-Policastro è costellata di distruzioni, abbandoni e rifondazioni, dal periodo romano al XVI secolo; la prima rinascita riguarda la colonia romana nel 186 a.C., dopo lo spopolamento della primigenia Buxentum fondata nel 194 a.C. La fierezza del popolo bussentino è attestata da una citazione di Silio Italico, che ne menziona i guerrieri nella battaglia di Canne del 216 a.C., armati di spade a forma di falce e di nodosi bastoni di rovere. Con l’aumento demografico la città assurse a ruolo di municipium tra gli anni 89-87 a.C. e venne ascritta alla tribú Pomptina, con autonomia amministrativa e un governo di duumviri; nei pressi del foro romano, caposaldo del decumano massimo, si collocavano edifici pubblici notevoli, tra cui il macellum, per il quale fa fede un’iscrizione nel Museo Diocesano policastrense.

Un’agricoltura fiorente

Alle spalle di Buxentum verso le montagne, il frourion (avamposto) di Roccagloriosa assicurava la difesa della città, estesa su sei ettari e con cento abitazioni, protetta dalle mura e con un ambito urbano pari a quello di Puteoli (Pozzuoli) e alle altre colonie del tempo. Il sostentamento della popolazione era garantito da fiorenti produzioni agricole, quali l’oaprile

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

MOLISE LAZIO

PUGLIA

Roccamonfina Benevento Caserta

CAMPANIA

Napoli

Avellino

Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri

Amalfi

Salerno

Mar Tirreno

BASILICATA Eboli

Policastro Palinuro

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A sinistra sottoportico cittadino lastricato, con successione di archi e volte. Il sistema costruttivo indica una fortificazione dell’abitato anche all’interno delle sue mura. Sulle due pagine la «torre maestra» del castello, ricostruita nel 1397 da Jacopo Trifosano, su strutture preesistenti. Le bugne angolari ripercorrono reminiscenze dell’architettura sveva.

livo e la vite, dalla quale si estraeva il Buxentinum, uno dei pochi vini con qualità terapeutiche della costa salernitana. Buxentum era di fatto lo sbocco a mare con porto, di un vasto retroterra, incentrato soprattutto nei commerci col Campus Atinas, l’attuale Vallo di Diano. Nel VI secolo d.C. la vivace città, collocata tra il fiume Bussento e il torrente Gammarana, divenne presidio bizantino, con la costruzione del castello. Sull’area forense fu edificata nel VII secolo una trichora, testimone della Chiesa bussentina, di tradizione apostolica. La sede episcopale è attestata da Gregorio Magno nel 592, che incaricava il vescovo pestano Felice, rifugiatosi ad Agropoli per sfuggire ai Longobardi del duca beneventano Zottone, di visitare le vicine diocesi di Velia, Bussento e Blanda, resesi vacanti, nominando in ausilio per Buxentum il suddiacono Quarantesimo. Della primitiva Chiesa locale sono ricordati i vescovi Rustico nel 501, Agnello nel 592 e Sabbazio nel 649, presente al concilio romano nella disputa contro i monoteliti. Policastro fu un attivo porto per l’Africa e l’Oriente, collocata in un territorio organizzato sul modello di vita monastica delle abbazie italo-greche di San Giovanni a Piro e di Camerota, fondate con imposizione

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medioevo nascosto campania MURA ITALICHE IN OPERA POLIGONALE MURA MEDIEVALI CON TRACCE DI POLIGONALE MURA MEDIEVALI VARCHI E PORTE DELLA CINTA MURARIA TRACCIATO VIARIO ROMANO E FORO TRACCIATO MURA INTERNE ROMANE E MEDIEVALI CASTELLO CATTEDRALE

del patriarca bizantino Anastasio e dietro sollecitazione di Niceforo Foca. Di dubbia interpretazione risultano le distruzioni della città nel 915, a opera dei Saraceni di Agropoli e di Roberto il Guiscardo, figlio di Tancredi d’Altavilla, nel 1065, originando per diaspora i centri di Bosco, Santa Marina e San Giovanni a Piro.

La rifondazione della diocesi

La politica di espansione longobarda e la limitazione del grecismo calabro, in quest’area del Principato, contribuirono a rifondare intorno al 1058 la Polycastrensis Ecclesia, per opera di Alfano, arcivescovo di Salerno, che la aggregò alla sua metropolia, con bolla di papa Stefano IX. Nel 1067, dietro richiesta di Gisulfo, principe di Salerno, il pontefice Alessandro II nominò vescovo di Policastro, Pietro, che la storiografia tende a identificare con il benedettino Pappacarbone, consacrato solamente nel 1079. Il territorio della diocesi ab-

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Pianta di Policastro elaborata sulla mappa d’impianto catastale di inizio Novecento. Si noti l’abitato rarefatto e l’impianto viario ortogonale di età romana, racchiusi dalla cerchia muraria antica.

bracciava in quel tempo ventinove parrocchie, ubicate tra la Campania meridionale, parte della Basilicata e il lembo settentrionale della Calabria. L’erezione della diocesi fu spunto per la riedificazione della chiesa cattedrale, ma anche per una rinnovata attività edilizia, che portò il preesistente circuito murario greco-romano a essere rinsaldato con un’alta cortina inframmezzata da torri quadrate a sporgere e il castello bizantino a essere restaurato. La cinta muraria antica con ordini sovrapposti – enotrio-italico, greco, romano e normanno – copriva una perimetrazione di oltre un chilometro, ancora oggi a tratti ben conservata e provvista di saettiere normanne, attestate come tra le piú antiche di tale tipologia nel XII secolo. A seguito del consolidamento dell’abitato, delle mura e del castello, re Ruggero II dotò la contea delle opportune sistemazioni militari, concedendola al figlio naturale Simone d’Altavilla, nipote della regina aprile

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Adelaide degli Aleramici, considerato tra i piú potenti feudatari normanni del principato. Poco tempo dopo il geografo arabo Muhammad al Idrisi, citava Policastro come un fortilizio grande e popolato, vicino al fiume Bussento; in quel tempo la città era ben munita, possedendo anche un’ulteriore cortina muraria interna, che cingeva l’area del castello. Gli interessi politici e militari sulla contea e sulla diocesi si fecero incalzanti; nel 1211 Federico II, rifiutando la conferma dell’elezione a vescovo di Policastro dell’arciprete di Saponara da parte del capitolo della cattedrale, ne propose il medico di corte Giacomo. Nonostante l’ubbidienza del capitolo, papa Innocenzo III dal Laterano comunicò al capitolo policastrense, al vescovo di Capaccio, all’arcivescovo di Salerno e all’abate di Cava, la nullità dell’elezione di Giacomo, a norma della vigente costituzione apostolica. Personalità di spicco si avvicendarono alla guida della diocesi, tra cui Gabriele da Lecce, vescovo nel 1218 e uno dei primi Francescani della storia dell’Ordine a ricoprire la carica. Il 13 ottobre 1254 papa Innocenzo IV da Anagni ordinava a Guglielmo di Sant’Eustachio, cardinale diacono e legato apostolico nel Regno di Sicilia, di accogliere la proposta del capitolo di Policastro, per la nomina a vescovo di Giovanni Castellomata, archiatra di Innocenzo III e canonico salernitano. Turbolenze militari e insicurezze territoriali spinsero alcuni vescovi a trasferire la residenza estiva nella vicina Torre Orsaia; il primo fu Pagano, che nel 1301 vi fece costruire il palazzo episcopale, dove dimorarono i suoi successori fino al XVII secolo.

Un tratto del decumano massimo di epoca romana, rinvenuto negli scavi archeologici che da tempo stanno portando alla luce brani della città antica di Buxentum.

Una colonia di Genovesi

Nel 1229 la contea demaniale di Policastro venne affidata a Giovanni Ruffo, l’anno dopo nell’elenco dei provisores dei castelli imperiali del principato di Federico II venivano inseriti i villaggi e le baronie tenuti alla manutenzione del castello di Policastro. Il fortilizio e il porto costituivano i baluardi difensivi ed economici della città medievale; nel 1290 nella fortezza erano presenti ben 30 militi di guarnigione, e, sei anni piú tardi, da Napoli si dava ordine al castellano di Castel Capuano di mandare balestre e quadrelle ai castelli di Policastro e di Roccagloriosa. Nel 1296, il signore del castello e i servienti, stipendiati, furono incaricati di riparare la torre maestra della fortezza, la quale beneficiava anche della retroguardia orientale del «Castellare» di Capitello, eretto alla fine dell’XI secolo, da Roberto il Guiscardo. Il porto, citato da Strabone, fu sommerso una prima volta e poi traslato verso oriente; ebbe vita fino al XV secolo. Servito da un acquedotto ancora esistente, durante il periodo della Guerra del Vespro costituiva un’importante base antiaragonese, con una nutrita

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presenza di navi, anche se nel 1285 e due anni dopo cadde in mano agli almugàveri. Nello scalo, uno dei pochi attivi per navi di medio tonnellaggio della costa salernitana e calabra, nel 1485 si imbarcava carne salata, proveniente da Amantea, per i porti fuori del Regno di Napoli, e vi si direzionavano merci per Tunisi e Algeri. Nel 1305, la contea, «de antiquo reali demanio» fu concessa a Tommaso Sanseverino, mentre la città venne distrutta nel 1320 dai marinai della flotta genovese al comando di Corrado Doria. Quattro anni dopo re Roberto volle che a ripopolare la città fossero gli stessi Genovesi, con una colonia amministrata da usi e leggi proprie, al comando di Bartolomeo Rovereti e utilizzando i beni e le proprietà esistenti, purché non rivendicati dai nativi. Nella colonia subentrarono nel 1348 Gabriele e Luciano Grimaldi di Genova, presenti in città fin dal 1333, che contribuirono all’ampliamento castrense e al restauro della porta di mare, oltre al rifacimento del castello bizantino, la cui torre maestra

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medioevo nascosto campania la chiesa concattedrale

Nel nome di colei che indica la strada S. Maria Assunta fu dedicata dalle origini alla Vergine Odigitria – colei che conduce mostrando la direzione – come un’enclave cattolico-romana in pieno territorio bizantino. Sorse sull’area del foro romano con una primitiva trichora (dall’impianto analogo al triconco di Cimitile, di Padula e al S. Ippolito di Monticchio), regolare nella configurazione geometrica e impiantata sul sito di una domus ecclesia. All’ampia navata si collega il presbiterio rialzato e triabsidato, che permette la presenza di una sottostante cripta, risalente al VII secolo, con volte a crociera innestate

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su quattordici colonne di reimpiego in marmo cipollino e granito rosso, dai capitelli di spoglio in arenaria. La torre campanaria su tre livelli (il quarto, fu abbattuto da un fulmine), un tempo isolata dalla chiesa e sorta su una preesistente struttura difensiva, fu riconfigurata nel 1167, a opera del vescovo Giovanni, sotto il governo di Guglielmo II il Buono, cosí come indica un’iscrizione contigua al campanile, arricchito da numerosi spolia. La chiesa fu interamente rivestita di stucchi barocchi agli inizi del Settecento, per volere del vescovo Antonio De Rosa. Al suo interno risaltano la lastra tombale di Giacomo

Lancellotto, vescovo defunto nel 1445, il sepolcro litico di Giulio Gallotto, della metà del Quattrocento, e la lapide a rilievo del prelato Nicola del 1501. In sagrestia è custodito un lavabo con lastre litiche scolpite del XV e XVI secolo, proveniente dalla chiesa del convento francescano, soppresso agli inizi dell’Ottocento. L’esterno della chiesa cattedrale dell’Assunta, un tempo dedicata alla Vergine Odigitria. Al centro del prospetto campeggia l’edicola marmorea voluta dal vescovo Carlo Fellapane alla metà del Quattrocento; sulla destra si intravede il campanile romanico.

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A sinistra esterno del triconco della cattedrale dell’Assunta. Particolare del gioco decorativo terminale delle absidi con archetti e fasce decorative in cotto e pietra arenaria. In basso iscrizioni della torre campanaria della cattedrale.

fu ricostruita nel 1397 da Jacopo Trifosano, su committenza di Giacomo Sanseverino, figlio di Ugo, conte di Potenza e protonotario del regno. L’avvenimento è attestato dall’iscrizione sull’architrave della torre, che presenta l’inusuale applicazione di bugne angolari, un raro ricordo svevo a protezione del donjon. Nell’area difensiva fu realizzata una cappella gotica a crociera con colonne angolari e absidiola centrale, oltre al palazzo comitale, una lizza esterna di protezione e un antemurale; l’ingresso al castello avveniva tra la torre maestra e la cappella, con difesa piombante sull’accesso. L’assetto del maniero e della città murata è mirabilmente ripreso nel rilievo marmoreo soprastante il portale della cattedrale: vi figurano il rivellino antemurale con archibugiere, la porta doganale, una torre scarpata merlata e mozza, con angoli bastionati e due torri di fiancheggiamento a protezione dell’ingresso merlato. La murazione urbana con torri munite di balestriere e archibugiere, si riannoda al castello col suo mastio, impreziosito da una bifora gotica.

Vescovi umanisti

Mirabile fu l’attività religiosa e culturale del vescovo agostiniano Carlo Fellapane, restauratore della cattedrale; a lui si deve la committenza dell’edicola gagginesca che si eleva al di sopra del portale di ingresso, nonché del tempietto di tabernacolo ora nel locale Museo Diocesano. Entrambe le opere sono ascrivibili a una data prossima al 1455, impressa su uno degli stipiti del portale litico, mentre nell’altro ritto è in(segue a p. 98)

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medioevo nascosto campania Il Museo Diocesano Croce astile processionale in argento (particolare) di Mercurio de Riccho, da Tortorella. 1532. Policastro, Museo Diocesano. Nella pagina accanto tempietto marmoreo di tabernacolo, commissionato dal vescovo Carlo Fellapane alla metà del Quattrocento. Policastro, Museo Diocesano.

Duemila anni di storia in vetrina La raccolta di arte sacra diocesana, collocata nello spazio un tempo sede d’una confraternita, sul lato sinistro della cattedrale, ospita numerose opere artistiche compendiate in un arco di tempo di circa due millenni. Nella prima sala sono esposte l’iscrizione romana del macellum, due lastre tombali del Quattrocento e un frammento di iscrizione paleocristiana, mentre nella sala degli argenti, in primo piano, risalta la lastra marmorea a rilievo di un tabernacolo della metà del Quattrocento, analoga all’edicola del portale della cattedrale, commissionata dal vescovo Carlo Fellapane. Una splendida croce in argento del 1532, proveniente dalla vicina Tortorella, segna una lieta stagione artistica, con la presenza di manufatti di pregio e di straordinaria ricchezza compositiva.

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Lastra recante un’iscrizione che ricorda la presenza del mercato nei pressi del foro, dal macellum. I sec. a.C. Policastro, Museo Diocesano. aprile

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medioevo nascosto campania Un campione di virtú monastiche Nipote di sant’Alferio, abate di Cava, Pietro Pappacarbone nacque da nobili longobardi di Salerno e abbracciò da giovane la vita monastica nella città metelliana dal 1057; fu poi a Cluny dal 1062 per cinque anni, alla scuola di sant’Ugo e infine fece ritorno a Cava. Pietro, amico di papa Stefano IX, era un congiunto della famiglia principesca salernitana. Dopo la rinuncia all’episcopato policastrense, si ritirò nel monastero di Perdifumo nel Cilento, ma i monaci metelliani ne richiesero il ritorno a Cava, la cui abbazia fu consacrata nel 1092, alla sua presenza, dal papa Urbano II, Oddone di Châtillon, suo allievo. Pietro Pappacarbone morí nell’abbazia da lui retta nel 1123, per altri nel monastero di Perdifumo. Grande nell’esercizio delle virtú monastiche dell’orazione e della penitenza, si narra che diede l’abito a piú di tremila monaci benedettini. Nel 1874 il vescovo policastrense Giuseppe Maria Cione ottenne la traslazione di parte delle reliquie nella cattedrale di Policastro. Quest’anno ne ricorre il IX centenario della morte, che verrà ricordato con una serie di iniziative religiose e culturali nella città bussentina.

ciso il nome del committente. Il Quattrocento fu un periodo di relativa tranquillità per la città, contrassegnato da un clima culturale ed economico fiorente e produttivo; è da segnalare, alla fine del secolo, la presenza di una piccola comunità ebraica, per la quale è attestato un tal Gaudo de Moise, banchiere e amministratore di un banco di prestito. Con l’epilogo della Congiura dei Baroni del 1485, la contea di Policastro perse il suo barone piú celebre, Giovanni Antonio Petrucci, figlio di Antonello e segretario regio di Ferdinando I d’Aragona nonché accademico pontaniano. Fu giustiziato a Napoli, per lesa maestà; suo fratello, Giovan Battista, dovette rinunciare all’arcivescovado di Taranto e alle badie di San Giovanni a Piro e di Pattano. Nel tardo Quattrocento il castello di Policastro fu ricostruito per opera degli Aragonesi e su disegno di «mastro Antonio Fiorentino», come indica Giampietro Leostello nelle Effemeridi; la città divenne dal 1496 sede dei conti Carafa della Spina, con Giovanni, che riedificò una preesistente grancia – successivamente acquisita dalla certosa di S. Lorenzo di Padula – inglobandone le mura greco-romane, per farne una personale dimora. Sul cadere del Quattrocento divenne vescovo di Policastro l’umanista Gabriele Altilio, collega di Giovannni Pontano e Iacopo Sannazzaro, precettore del principe Ferdinando, figlio di Alfonso II d’Aragona. Nominato titolare della cattedra policastrense nel 1493 e fino al 1501, era nativo di Caggiano o, secondo altri, della vicina Cuccaro Vetere nel Cilento. Nel 1535 ascese alla cattedra bussentina Benedetto Accolti, nipote dell’Aretino, definito il «Cicerone del suo tempo», per l’arte oratoria.

Un secolo turbolento

San Pietro Pappacarbone in un dipinto degli inizi del Settecento di Gennaro Abbate, custodito in cattedrale.

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Il Cinquecento segnò il periodo piú triste della storia di Policastro, con l’assalto e la distruzione della città in tre diverse fasi, nel 1532 col saccheggio di Khayr al-Din o Ariadeno Barbarossa, poi con una sua nuova offensiva nel 1543 e infine con la distruzione operata l’11 luglio 1552 dall’armata turca alla guida del corsaro Dragút Rais Bassà, che flagellò l’intera costa del golfo di Policastro, incendiando anche il convento francescano. Da questo triste evento si generarono alcuni casali vicini a Policastro, con la dispersione dei profughi dell’antica città, che si risollevò lentamente, mantenendo sempre il carattere di un abitato sparso e rarefatto, ma pur sempre circoscritto dalle antiche mura. Nel 1555 per devozione alla Vergine dei superstiti dello scampato pericolo, fu commissionata la pala d’altare in cattedrale, opera di Pietro Negroni, che ancora campeggia sull’altare maggiore. Un’imponente linea difensiva costiera, costituita dalle torri di guardia vicereali fu avviata dal 1563. Le aprile

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Veduta esterna della chiesa e di parte dell’ex convento francescano dei Minori Osservanti, ubicato extra muros e colpito dalla distruzione corsara di Dragút del 1552. In basso particolare della lastra tombale del vescovo Giacomo Lancellotto di Tropea, morto nel 1445.

Da leggere Giuseppe Cataldo, Notizie storiche su Policastro Bussentino, Policastro Bussentino (Sa) 1973 Pasquale Natella, Paolo Peduto, PixousPolicastro, in «L’Universo», Firenze 1973 Soprintendenza BAAAS di Salerno e Avellino, Chiesa cattedrale di Policastro. La storia e i restauri, Salerno 1990. Teresa De Giorgio, Stratificazione storica ed evoluzione urbana di Policastro Bussentino, Sapri (Sa) 2017 Silvia Pallecchi (a cura di), Raccontare l’archeologia. Strategie e tecniche per la comunicazione dei risultati delle ricerche archeologiche, Sesto Fiorentino (Fi) 2017 Marco Ambrogi, «Sacrarium Christi». Un inedito tabernacolo eucaristico quattrocentesco proveniente dalla cattedrale di Policastro Bussentino, in «Il Postiglione», Aa. XXVI-XXX, Nn. 27-31, giugno 2018

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prime sette costellavano la costa da Salerno ad Agropoli, poi fino a Sapri, rientranti in un progetto che ne prevedeva ben 35 fino in Calabria, da erigersi a cura e spese delle Universitates locali. Ogni torre era edificata a forma di piramide tronca, con i lati di 10 m e un’altezza di 20, provvista di ponte levatoio. La fondazione del seminario nel 1597 da parte del vescovo e cardinale Filippo Spinelli, con la sede estiva di Torre Orsaia e invernale di Policastro, tentò di far rivivere i fasti di un tempo, pur nella desolazione della città episcopale. La speranza fu vana, Policastro non si riebbe piú dalla triste sorte; alla fine del Cinquecento il vescovo Spinelli apprendeva da un questionario sulle cappellanie diretto ai canonici della cattedrale che: «lo Casale delli Spani, pertinentia de Policastro, fu saccheggiato da’ Turchi, et vi furono portati schiavi la maggior parte delle persone, per lo che detto Casale si disabitò». Una diffusa campagna di scavi archeologici dell’Università di Genova sta tentando da alcuni anni di far rivivere il passato di Policastro Bussentino, auspicando ancora una volta la rivitalizzazione in chiave culturale di una città per troppo tempo dimenticata dalla storia

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Natura, cultura e... ravioli

CARTOLINE • Paesaggi incantati, splendide

testimonianze d’arte e architettura, eccellenze enogastronomiche: sono molte e invitanti le carte che la Val Lemme può giocare e che valgono la visita di questo lembo di Piemonte a ridosso della Liguria

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erde a perdita d’occhio in tutte le sfumature immaginabili, antichi cammini che dalla romana via Postumia si ramificano verso la Pianura Padana, gioielli d’arte medievale da riscoprire, squisiti ravioli preparati con millenaria consuetudine ed eccellente Cortese di Gavi DOCG. Siamo in Val Lemme (Alessandria), uno spicchio di Piemonte chiuso dai monti dell’Appennino ligure. Mix di pianura, collina e montagna, questo territorio possiede un duplice volto. Da

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un lato la natura selvaggia, di una bellezza primitiva, che trionfa nel Parco naturale delle Capanne di Marcarolo, con sentieri escursionistici diretti da Voltaggio e dal Passo della Bocchetta (772 m) ai monti Tobbio (1092 m), Figne (1173 m) e Leco (1072 m), confine naturale tra Piemonte e Liguria. Dall’altro lato l’ordinata razionalità dei filari di vite, dello stile ligure nelle tenute costruite nel Cinquecento, Seicento e Settecento dalla classe dominante genovese, ora inserite nel «Percorso delle

ville», e dell’architettura romanica che qui vanta alcuni suggestivi esempi. Uno di questi è la pieve di S. Giacomo a Gavi.

All’incontro delle vie Nella disposizione a fuso composito della cittadina, sormontata dallo sperone roccioso su cui si innalza un poderoso forte, la chiesa occupa il vertice d’incontro delle due vie principali. Semplice e armonica, la struttura, nonostante la costruzione di una volta barocca, ha mantenuto aprile

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ia

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Biella

Novara Milano

Vercelli Torino

Casale Monferrato

Carmagnola

Asti Bra

Cuneo

l’impianto medievale. Osservando la facciata a spioventi, realizzata con squadrati blocchi di pietra calcare grigio-chiara, lo sguardo si posa sulla scena che sovrasta il portale, nata dalla fusione di due temi: la Majestas Domini e l’Ultima Cena. La singola formula iconografica sottintende l’ardito sincretismo di due episodi, che sono solo accostati su alcuni timpani dei portali di chiese nelle regioni sud-orientali della Francia. Il soggetto, la Pentecoste, è stato definito dall’artefice, forse

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Mondoví

Alessandria

Gavi MAR LIGURE

Sulle due pagine una veduta delle colline che animano il paesaggio di Gavi (Alessandria), in Val Lemme. A destra il Rio delle Acque Striate nei pressi della località Molini di Fraconalto, nel Parco Naturale Capanne di Mortarolo.

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CALEIDO SCOPIO ricalcando un modello oggi non piú esistente, su due registri. Quello inferiore, posto sull’architrave, rappresenta l’adunanza degli Apostoli allineati davanti alla tavola imbandita con vistosi pesci al posto delle consuete formelle di pane. Quello superiore, scolpito nel lunotto, raffigura la colomba, simbolo dello Spirito Santo, e due angeli in volo disegnati sul dorso e non di profilo, com’è invece piú comune. Inoltre i cherubini hanno il loro punto di convergenza nel Cristo che, collocato in coincidenza col centro geometrico della lunetta

Una fiorente produzione di vetri Nella zona del Passo della Bocchetta, tra il Duecento e il Seicento si sviluppò una fiorente attività di produzione vetraria. Esistono almeno quattro scavi archeologici che ne documentano la presenza. Il sito produttivo di maggior interesse si trova nel Comune di Voltaggio, nella località Cian da Veeja (Piano della Vetreria, 850 m), situata sulla strada che porta a Sette Fontane, alle pendici del Monte Leco. Avanzando a piedi lungo la pista forestale che conduce sulla montagna, si notano facilmente frammenti vitrei sulla superficie e ai bordi del tracciato. L’area, oltre a una grande quantità di cocci di vetro e ceramica e ad alcune monete del Tre- Quattrocento, ha restituito resti di edifici e fornaci, in cui con il quarzo estratto in loco si fabbricavano fiale, bicchieri e bottiglie. In alto particolare dell’Ultima Cena scolpita sopra il portale della pieve di S. Giacomo a Gavi. Al centro un settore dell’area archeologica di Libarna, con i resti dell’antica città. In basso una veduta del borgo di Voltaggio.

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La chiesa del monastero benedettino di S. Remigio a Parodi Ligure.

e contemporaneamente partecipe ai due diversi momenti, poggia i piedi su una testolina.

Echi e confronti Non è facile ricostruire la rete di relazioni che ha consentito l’acquisizione e l’elaborazione di questi motivi. Spie di un contesto culturale di cui l’Oltregiogo (la regione storica che si estende appunto a ridosso delle attuali Liguria e Piemonte, n.d.r.) appare informato in tempi insospettatamente brevi sono i rimandi con il pontile di Modena (1160-1175; la denominazione di «pontile» si riferisce alla struttura sopraelevata di recinzione presbiteriale rivolta alla navata centrale della cattedrale della città emiliana ed è attestata solo

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Un paesaggio che fonde case e chiese Nel 972 Gavi era un locus et fundus, cioè un modesto nucleo demico con un proprio territorio. Per la celebrazione delle funzioni religiose faceva capo alla pieve di S. Maria in Lemoris (Lemme). Quando, nel corso del XII secolo, lo sviluppo del borgo portò alla fondazione, nel 1172 (circa), della chiesa di S. Giacomo all’interno dell’abitato, la pieve rurale di S. Maria perse d’importanza. Innalzato nel X secolo su un terrazzo roccioso naturale, quest’edificio viene considerato, per i magisteri applicati, una delle piú arcaiche istituzioni cristiane della provincia di Alessandria. Chi ricerca e osserva la plebs Lemoris avverte

con sorpresa una certa difficoltà nel riconoscerla. La sua attuale collocazione in aperta campagna, a ridosso di alcuni rustici, la confonde con l’ambiente agreste. Questa possibile mescolanza con i manufatti che la circondano non nasce a caso. Innanzitutto la zona agricola isolata, comune alle ubicazioni plebane, rende compatta unità al paesaggio e mimetizza chiese e case in un unico e coerente disegno contadino. Inoltre in essa si riflette lo sviluppo, progredito e compiuto, della tecnica espressiva dell’architettura rurale, evidente nel modellato incerto e mosso della grossa grana sulle superfici della tessitura muraria.

Un altro particolare delle decorazioni del portale della pieve di S. Giacomo a Gavi. Si tratta, in questo caso, della colomba, simbolo dello Spirito Santo, scolpita nella lunetta.

da fonti quattrocentesche, che ne indicano la funzione come luogo per le letture liturgiche, n.d.r.), con cui la lunetta gaviese condivide la centralità della scena eucaristica, e il pulpito pisano (1159-62) di Guglielmo, in cui compaiono citazioni dell’arte tardo-antica e paleocristiana, come i grandi pesci presentati sulla mensa e l’elegante sgabello su cui Gesú poggia i piedi. All’apparato scultoreo di Gavi lavorò anche magister Albertus, un abile artista itinerante che

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In alto il ponte romano situato a un paio di chilometri da Voltaggio. A sinistra uno scorcio del borgo di San Cristoforo. Nella pagina accanto la tenuta Centuriona, nei pressi di Carrosio.

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poco prima aveva collaborato alla realizzazione del portale di S. Gottardo (1150-1160), nel Duomo di Genova. La sua presenza a Gavi non è casuale. La storia e le vicende militari che interessarono questo burgus, a partire dalla sua fondazione, nell’XI secolo, e il territorio della Val Lemme furono sempre legate a quelle della Repubblica genovese, interessata al controllo strategico delle direttrici di comunicazione con la regione padana, per agevolare e proteggere i propri commerci. Pochi chilometri e panoramici saliscendi, compresi nella Strada del vino, separano Gavi dall’area archeologica di Libarna (i cui resti si conservano nel territorio del comune di Serravalle Scrivia), dall’abbazia di S. Remigio e dal borgo di San Cristoforo. Riscoperta durante i lavori per la costruzione della ferrovia Torino-Genova aprile

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(1846-1854), Libarna è ricordata da Plinio tra i nobilia oppida della Liguria interna. Ricca e densamente abitata, costituiva il primo importante insediamento che la via Postumia incontrava scendendo dall’Appennino in direzione di Dertona (l’odierna Tortona). Sembra che il declino della città sia iniziato in età tardo-antica, parallelamente a quello dell’arteria viaria. Sepolture a inumazione (VII-VIII secolo), arredi liturgici (seconda metà dell’VIII secolo) provenienti dalla pieve di Libarna e reperti rinvenuti in una fornace per ceramica (IX-X secolo) attestano nell’area del Rio della Pieve una continuità di insediamento nell’Alto Medioevo. Il monastero di S. Remigio, presidio benedettino di preghiera e lavoro, fondato dal marchese Adalberto, di stirpe obertenga, con la donazione (1033) di terreni alla badia parmense di S. Maria di Castiglione, è documentato dal 1143. Riaperto nel 2010, l’edificio, sconsacrato, appartiene al Comune di Parodi Ligure (= Palaude, palude), e ospita eventi finalizzati alla valorizzazione del territorio. San Cristoforo è fatto di un pugno di variopinte casette, affacciate su viuzze che si ramificano da qualche corte e, al centro del paese, del trecentesco maniero edificato dagli Spinola, feudatari del luogo, attorno alla torre «del Gazzolo» costruita in funzione antisaracena a cavallo dei secoli X e XI.

La tenuta del banchiere Gavi è il limes, la frontiera tra le pulite geometrie dei poggi vitati e l’impervia natura dei monti ricoperti da fitti boschi e ampi pascoli in cui si incontrano, libere, colonie di caprioli, cinghiali, cavalli e uccelli rapaci. Da Gavi, proseguendo sul tracciato della Bocchetta, inaugurato nel 1585, poco prima di Carrosio si ammira la tenuta Centuriona, residenza

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Una pasta fresca dalle radici antiche Un soggiorno alla scoperta della Val Lemme non può dirsi compiuto senza l’assaggio di un piatto di ravioli con il tocco, u tuccu, una salsa che si differenzia dal ragú preparato con carne macinata, perché confezionata con un unico pezzo di carne (= toccu in genovese). Gustati con il sugo o a «culo nudo», ossia solo lessati e schiumati per assaporarne il fine ripieno, i ravioli, tutelati dall’Ordine Obertengo dei Cavalieri del Raviolo e del Gavi, nato nel 1973, sono il cibo piú rappresentativo della zona. Nei ricettari di cucina medievale i termini raviolus, raviola, rafiolo, graviolo, graffiolo designano le ghiottonerie che, eredi dell’esicium dei Romani, possono essere rivestite o meno da un involucro di pasta. Pare che in Val Lemme la prima comparsa di una pasta fresca ripiena chiamata raviolo si collochi tra il Duecento e il Trecento. Non a caso, a proporla in una popolare locanda del tempo furono i fratelli Raviolo, un toponimo diffuso nei marchesati di Gavi e Parodi Ligure.

di villeggiatura commissionata nel Cinquecento dal banchiere genovese Adamo Centurione, nel punto in cui nel Quattrocento si trovava una torre di guardia. Oggi la villa fortificata, di proprietà privata, ospita manifestazioni culturali, anche organizzate dal FAI. La meta successiva di questo itinerario alla scoperta della Val Lemme è Voltaggio, un caratteristico borgo appenninico, annesso ai possedimenti genovesi nel 1121, sorvegliato dai resti di una torre medievale e ingentilito da due caratteristici ponti in pietra: il Ponte dei Paganini, a due arcate, costruito durante il tardo Medioevo nel centro abitato, e il Ponte Romano,

edificato in età romana a due chilometri dal paese. È probabile che la dislocazione strategica di Voltaggio non sia stata estranea alla decisione di fondarvi, nel 1595, un insediamento di Padri Cappuccini, che adesso ospita una bellissima quadreria sacra. In auto o in moto una decina di chilometri separa Voltaggio dal Passo della Bocchetta. Ma sono sempre numerosi anche i ciclisti che, sulle orme di Fausto Coppi, decidono di scalare il pendio, accompagnati dal sonoro fragore delle acque del Lemme, inerpicandosi lungo la Via dei Campioni tra natura e mare. Chiara Parente

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Quando i santi prendevano le armi

Quando la fede colpisce al cuore di Paolo Pinti

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anta Teresa d’Avila è, piú che altro, conosciuta per lo straordinario gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini, l’Estasi di santa Teresa d’Avila, in marmo e bronzo dorato, realizzato tra il 1645 e il 1652 per la cappella Cornaro, nella chiesa di S. Maria della Vittoria, a Roma (vedi foto a p. 107). Per essere esatti, la scena raffigurata da Bernini è una transverberazione e non un’estasi, ragione per cui l’opera è anche nota come Transverberazione di santa Teresa d’Avila. Poiché il termine non è fra i piú usuali, spieghiamo, con l’aiuto del Vocabolario Treccani, che per «transverberazione», nella mistica cattolica, si intende «la trafittura del cuore con un dardo o una lancia effettuata da parte di un angelo o di Cristo come segno di predilezione del Signore. La ferita può essere spirituale o corporea, in questo caso è detta anche ferita d’amore o assalto del Serafino, o entrambe». Prima di entrare nel vivo di questa complicata situazione, occorre accennare alla vita della santa, che nacque il 28 marzo 1515 ad Avila, in Spagna. Fuggí da casa giovanissima ed entrò nel Carmelo de la Encarnación di Avila a vent’anni, vivendo un travagliato percorso interiore, che la portò a quella che lei stessa definí la sua «conversione» (a trentanove anni), e che la fece diventare una figura importante della Riforma cattolica

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Estasi di Santa Teresa d’Avila, olio su tela Robert Longe, detto Fiammingo. 1690 circa. Piacenza, chiesa di S. Teresa. In questo dipinto, è lo stesso Gesú Bambino che impugna la freccia, pronto a trafiggere il cuore della santa. La freccia – cosí definibile – è sproporzionatamente corta, difficilmente utilizzabile con un arco, però la punta è verosimile. grazie alla sua instancabile attività di scrittrice. Fu fondatrice delle monache e dei frati Carmelitani Scalzi, e di monasteri in diversi luoghi di Spagna. Morí ad Alba de Tormes il 15 ottobre 1582, nel corso di uno dei suoi viaggi.

Un itinerario dell’anima Fondamentalmente, fu una teorica, autrice di numerosi testi nei quali espone la sua dottrina misticospirituale e i fondamenti del suo ideale di Riforma dell’Ordine carmelitano. L’opera per la quale è maggiormente conosciuta è il Castello interiore (intitolato anche Mansioni), itinerario dell’anima alla ricerca di Dio attraverso sette particolari passaggi di elevazione, affiancata dal Cammino di perfezione, e dalle Fondazioni e da un enorme numero di preghiere e riflessioni. Proclamata beata nel 1614 e poi santa da papa Gregorio XV nel 1622, fu annoverata tra i dottori della Chiesa nel 1970 da Paolo VI. Di fatto, nel corso della sua esistenza, non sembra che Teresa aprile

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Estasi di santa Teresa d’Avila, gruppo scultoreo in marmo e bronzo dorato (utilizzato per i raggi divini) di Gian Lorenzo Bernini. 1645- 1652. Roma, chiesa di S. Maria della Vittoria, cappella Cornaro. L’opera fu commissionata dal cardinale Federico Cornaro e Bernini la considerò il suo capolavoro. Colpisce l’espressione dell’angelo, enigmatica. L’arma è senz’altro una freccia da arco, anche se provvista di una punta esagerata. Nella pagina accanto, in basso L’Estasi di Santa Teresa, olio su tela di Pompeo Batoni. 1743 circa. Lucca, Museo nazionale di Villa Guinigi. Come nella statua del Bernini, l’attenzione dell’osservatore è catturata dalla composizione e in particolare dalla freccia che l’angelo preme sul cuore della santa, a svilupparne ancora un rinnovato e ardente amore.

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CALEIDO SCOPIO Santa Teresa d’Avila in estasi (particolare), olio su tela di Michelangelo Unterberger. 1745-1750. Bressanone, Museo Diocesano. Siamo in questo caso di fronte a una vera e propria freccia per arco.

A sinistra Estasi di Santa Teresa, olio su tela di Paolo Pagani. 1705. Cerete, chiesa di S. Vincenzo Martire. A destra Transverberazione di santa Teresa, olio su tela di Bernardo Strozzi, detto il Cappuccino. 1614-1622. Genova, Palazzo Reale, Salotto dell’Aurora o di Flora. Escluso che si tratti di una freccia, si potrebbe qui pensare persino a uno spiedo (quello che comunemente viene definito lancia), ma contestualizzando la scena, si tratta certo di un dardo.

d’Avila abbia fatto alcunché di miracoloso, ma qui, come sempre, piú della figura della santa c’interessa il suo collegamento con le armi: non è morta martire e la sola «arma» riscontrabile – che è anche il suo simbolo – è la freccia o dardo che lei stessa cita nella sua autobiografia. Ebbene, i vari testi parlano, indifferentemente, di freccia o

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dardo, e nei quadri e statue che raffigurano la santa a volte si vede, appunto, un dardo e a volte una freccia, quest’ultima quasi sempre con l’astina troppo corta e con la punta esageratamente grossa e con barbe (i lati divaricati della punta) troppo sviluppate. Occorre precisare che con freccia s’intende il proiettile lanciato con l’arco, di lunghezza intorno al metro,

composta da un’astina di legno, con un’estremità provvista di una punta in ferro o (in civiltà piú antiche o primitive) di selce e con l’altra dotata di due o piú penne (per dare stabilità) e di una cocca, la parte nella quale si colloca la corda dell’arco. Le rappresentazioni del martirio di san Sebastiano ci offrono una panoramica infinita dei vari tipi aprile

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Estasi di santa Teresa d’Avila, olio su tela di Sebastiano Ricci. 1727. Vicenza, chiesa di S. Marco. L’angelo impugna con grande delicatezza una piccola freccia, troppo piccola per essere vera, forse piú adatta per uno di quei piccoli e graziosi archi nelle mani di Cupidi che compaiono in molte raffigurazioni antiche e moderne. di frecce, ma per il dardo le cose cambiano: si tratta di una sorta di grossa freccia, lunga da un metro e mezzo a due metri, con tutte le caratteristiche sopra dette, ma senza la cocca, in quanto veniva scagliata a mano, senza l’ausilio dell’arco. Le testimonianze iconografiche sono decisamente rare, in gran parte raccolte nel poderoso volume Alla ricerca del dardo (Edizioni della Laguna, 2014) di Mario Troso, uno dei piú autorevoli esperti di armi antiche d’Italia e d’Europa.

Soluzioni approssimative Esaminando le opere che raffigurano la santa Teresa d’Avila, vediamo sia frecce per arco – non di rado un po’ tozze/corte, con una punta troppo grande –, sia veri dardi, fatti appositamente per essere lanciati a mano. Ignoriamo quale sia il termine usato dalla santa nel suo scritto, ma dobbiamo considerare che i vari artisti – e i teologi che hanno diretto gli impianti delle loro opere – difficilmente erano in grado di distinguere fra freccia e dardo, rappresentando una volta l’uno e una volta l’altra. Potrà quindi risultare interessante, approfondendo la ricerca iconografica sulla santa spagnola, fare caso all’arma in questione, individuando la sua esatta natura e verificando se la definizione che troviamo sia o meno quella giusta. A un laico, l’intera opera di santa Teresa d’Avila può sembrare sconcertante, come lo è il concetto (e il nome) di transverberazione, ma non si può certo restare indifferenti di fronte a tanta passione.

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CALEIDO SCOPIO

Marina Montesano Maleficia Storie di streghe dall’antichità al Rinascimento Carocci Editore, Roma, 282 pp., ill. b/n

26,00 euro ISBN 978-88-290-1650-1 www.carocci.it

Le prime attestazioni del fenomeno della caccia alle streghe, per come viene correntemente inteso, risalgono al XV secolo, ma la scrittura di

molte delle pagine piú nere della storia dell’Occidente ha origini assai piú antiche. È questo il cardine sul quale Marina Montesano ha costruito il saggio che, pubblicato originariamente in lingua inglese nel 2018, ha ora tradotto e dato alle stampe per i tipi di Carocci. Articolata in sette capitoli, la trattazione prende le mosse dalle figure archetipiche di Circe e Medea, che, forgiate dai Greci,

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furono poi rivisitate e fatte proprie dalla cultura latina. A Roma, come si legge nel secondo capitolo, furono emanate misure repressive particolarmente severe nei confronti dei «maleficia», ma, a ben vedere, la loro efficacia fu limitata, visto anche che il patrimonio di credenze e superstizioni stratificatosi nei secoli dell’impero costituí la base delle successive speculazioni di epoca tardo-antica e medievale. Né il diffondersi del cristianesimo e la capillare attività di molti grandi predicatori riuscirono piú di tanto ad arginare il fenomeno, tanto che, come si accennava all’inizio, l’unica via d’uscita fu individuata nella persecuzione di chiunque fosse sospettato di praticare arti magiche e stregonesche. Con l’avallo decisivo delle autorità ecclesiastiche, schiere di innocenti furono vittime di un accanimento che risulta particolarmente sorprendente se pensiamo che a manifestarlo furono personaggi provvisti di conoscenze che avrebbero

potuto (e dovuto) indurli a valutazioni piú razionali. Le suggestioni ebbero evidentemente il sopravvento e, anzi, le fonti classiche finirono con l’essere utilizzate proprio per sostenere l’esistenza della stregoneria e la conseguente necessità di combatterla.

Trittico dell’Annunciazione (particolare), olio su tavola di Robert Campin e bottega. 14271432. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nel dipinto sono riprodotti con grande accuratezza lumi e candelabri da tavolo e da parete.

Beatrice Del Bo L’età del lume Una storia della luce nel Medioevo il Mulino, Bologna,

290 pp., ill. col. e b/n

20,00 euro ISBN 978-88-15-38921-7 www.mulino.it

La sfida, vinta nettamente, di Beatrice Del Bo è quella di smentire la doppia accezione di uno dei piú abusati stereotipi di sempre: quello che vede nel Medioevo un’epoca fatta di «secoli bui». Nel saggio viene infatti sottolineata la vivacità culturale del millennio medievale, ma, soprattutto, se ne documenta il «paesaggio luminoso artificiale». Come scrive l’autrice, «L’intenzione è quella di raccontare gli oggetti della luce nel loro abbinamento con gli spazi (...) illustrare quanto i manufatti che illuminano siano

rilevanti nella vita medievale (...). Ma soprattutto quante candele fossero accese dopo il crepuscolo». Definite queste coordinate, inizia dunque un viaggio di estremo interesse e denso di notizie, nel quale si spazia dalla gestione del fuoco – e dei suoi pericoli – alla produzione e all’utilizzo della cera, dal valore simbolico della luce – soprattutto in ambito

religioso – alla sua gestione nel contesto della vita quotidiana, pubblica e privata. Per chiudere con le considerazioni sull’applicabilità al tema della luce di un approccio interpretativo declinato secondo i criteri degli studi di genere; riflessioni che precedono le conclusioni, un dettagliato Glossario e l’ampia bibliografia. (a cura di Stefano Mammini) aprile

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CALEIDO SCOPIO

Al tempo di Cracovia capitale MUSICA • Attingendo a due preziosi codici,

l’ensemble La Morra propone un viaggio nella musica in voga nel regno polacco nel corso del Quattrocento

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racovia civitas, te civium unitas, te cleri pluralitas, virorum maturitas, matronarum fecunditas, rerum ornat copia…: cosí recita l’incipit di un poema celebrativo dedicato a Cracovia e ai suoi regnanti, Ladislao Jagellone e la moglie Zofia Holszanska. Analoga è l’apertura del brano Nitor inclite claredinis, scritto anch’esso per la famiglia reale, una delle composizioni quattrocentesche riunite in un’originale silloge dedicata a Cracovia e all’ambiente musicale polacco tra la fine del Trecento e i primi decenni del secolo successivo. Nel XIV secolo, con la fondazione dell’Università Jagellonica da parte di Casimiro il Grande, Cracovia, capitale del regno polacco, divenne uno dei crocevia culturali dell’Europa centrale, mantenendo tale primato fino al XVI secolo, quando la capitale fu trasferita a Varsavia. Tra le varie espressioni artistiche, anche la musica conobbe in quel periodo un ampio sviluppo, del quale sono testimonianza due preziosi codici musicali, denominati Kras 52 e Wn 378, a cui l’ensemble La Morra si è ispirato. I due manoscritti attestano, tra l’altro, la grande presenza/influenza della tradizione francese e italiana sulla cultura musicale polacca, testimoniata da nomi importanti, come Johannes Ciconia e Antonio

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Zacara da Teramo. Accanto a queste celebrità, l’antologia ha il pregio di farci conoscere un compositore polacco, Nicolaus de Radom, le cui musiche ci sono pervenute grazie ai codici citati poc’anzi.

Alla maniera francese Se Nitor inclite claredinis e l’anonimo Breve regnum erigitur ci riconducono con i loro testi alla città di Cracovia, gli altri brani, per lo piú anonimi, rivelano abitudini musicali legate all’arte del contrafactum, ossia il riutilizzo di melodie preesistenti, generalmente di origini francesi, a cui venivano affidati nuovi testi: è il caso di Postaris in presepio, sul modello di un rondeau, e di Maria en mitissima, sul modello di una ballade. A riprova di quanto influente fosse il modello franco-fiammingo in tutta l’Europa centrale, come testimonia anche Balatum, pezzo strumentale composto anch’esso da Nicolaus de Radom, del quale si possono ascoltare anche i brani sacri Gloria e Sancta Maria succurre / Magnificat. Altra presenza polacca è Petrus Wilhelmi de Grudencz, attivo nei primi decenni del XV secolo, con il brano Presulis eminenciam.

Mirabilia Musica. Echoes from late medieval Cracow RAM 2008, 1 CD Interpreti: La Morra, direttori Corina Marti e Michał Gondko www.ramee.org Condiretto da Corina Marti e Michał Gondko, il gruppo La Morra vede l’impiego di quattro solisti di canto e di tre strumentisti, che si alternano al clavicembalo, organetto, flauto, violino e liuto. In un processo di «pulitura» e di ritorno all’autenticità del messaggio sonoro, la scelta interpretativa dell’ensemble si caratterizza per un approccio apparentemente scarno, in cui la presenza strumentale non sovrasta mai le linee vocali che riescono, in tal modo, a emergere in tutta la loro lineare purezza. Una interpretazione sobria, misurata, ma al tempo stesso potentemente evocativa, che ripropone al meglio un repertorio ancora poco conosciuto. Franco Bruni aprile

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Comunedi Li v or no

ENGLI SH HERI TAGE


Il MANN verso il futuro

LA STORIA, I TESORI E L’ATTUALITÀ DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI

C’è un luogo, a Napoli, dove l’antico guarda al futuro: è il Museo Archeologico Nazionale, una delle piú ricche e prestigiose collezioni di antichità del mondo, alla quale è dedicata la nuova Monografia di «Archeo». Il MANN, questa la sigla dell’istituto, vanta infatti una lunga storia, che prende avvio già nel XVIII secolo, ma, soprattutto negli ultimi anni – come sottolinea Paolo Giulierini, che ne è l’attuale direttore e che ha firmato i testi che ora presentiamo – ha rafforzato il suo impegno per moltiplicare gli strumenti di fruizione dei suoi tesori, avvalendosi delle potenzialità offerte dalla tecnologia e dallo sviluppo del web. Tutto questo, naturalmente, senza fare ombra alla ricchezza delle sue raccolte, che valgono ben piú di una visita. Basti pensare, solo per fare due degli esempi piú significativi, che il Palazzo degli Studi custodisce la straordinaria Collezione Farnese – giunta ai piedi del Vesuvio dopo che i Borbone si erano imparentati con la famiglia dell’illustre cardinale Alessandro – e una spettacolare selezione delle pitture pompeiane, staccate dalle domus nelle quali facevano bella mostra di sé e che ora compongono una pinacoteca unica al mondo, grazie alla quale si può ripercorrere uno dei momenti piú significativi della storia dell’arte antica. Tutto questo e molto altro viene dunque narrato e descritto nei vari capitoli della Monografia, forte di un apparato iconografico di pregio assoluto, nel quale figurano, fra le altre, anche le magistrali riprese fotografiche di Luigi Spina.

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