Medioevo n. 314, Marzo 2023

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

ALLA SCOPERTA DEI

SECOLI D’ORO UMBRIA TUTTA L’ARTE DI LUCA SIGNORELLI TRECENTONOVELLE QUANDO IL MEDICO FACEVA PAURA UOMINI E SAPORI IL MAIALE, ANIMALE MIRACOLOSO DOSSIER

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Mens. Anno 27 numero 314 Marzo 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 314 MARZO 2023

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 3 MARZO 2023



SOMMARIO

Marzo 2023 ANTEPRIMA IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Chirurgia longobarda

di Ileana Micarelli e Giorgio Manzi 6

MOSTRE Bravo, anzi bravissimo

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE

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ASTI I secoli d’oro di Asti

di Ezio Claudio Pia, con contributi di Maresa Barolo, Donatella Gnetti e Barbara Molina 22

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COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/2 Medici o praticoni? di Corrado Occhipinti Confalonieri

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MUSICA Animali sonanti

di Franco Bruni

Dossier VILNIUS Nella città del lupo di ferro di Elena Percivaldi

CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI La reputazione del maiale di Sergio G. Grasso 98

LUCA SIGNORELLI IN UMBRIA/1 Un’Umbria indimenticabile di Caterina Fioravanti

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Con la bianca armatura e per spada una reliquia di Paolo Pinti 106 44

LIBRI Lo Scaffale

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MEDIOEVO n. 314 MARZO 2023

MEDIOEVO

Hanno collaborato a questo numero: Maresa Barolo è docente di storia dell’arte. Franco Bruni è musicologo. Francesco Colotta è giornalista. Caterina Fioravanti è dottoressa di ricerca in storia dell’arte. Donatella Gnetti è direttrice della Fondazione Biblioteca Astense «Giorgio Faletti». Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Giorgio Manzi è professore ordinario di antropologia presso «Sapienza» Università di Roma. Ileana Micarelli è dottoranda di ricerca in archeologia. Barbara Molina è direttrice dell’Archivio Storico di Asti. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Ezio Claudio Pia è dottore di ricerca in storia medievale. Paolo Pinti è studioso di oplologia.

IN EDICOLA IL 3 MARZO 2023

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17/02/23 20:04

MEDIOEVO Anno XXVII, n. 314 - marzo 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e pp. 22/23) e pp. 34, 35 (basso, a sinistra e a destra), 36, 69, 72, 88/89, 90/91, 92/93, 96 – Cortesia degli autori: pp. 6-7, 48-51, 54-55, 108 (basso), 111 (alto) – Cortesia Ufficio stampa Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia: pp. 8-10 – Cortesia Comune di Asti: pp. 24/25, 25 (alto), 26/27, 28, 30-33, 35 (alto), 37, 38, 41-43 – Bridgeman Images: pp. 28/29 – Mondadori Portfolio: pp. 44/45; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 39; Album/ Fine Art Images: pp. 52/53, 82 (alto); Album/Oronoz: pp. 58/59, 109; Coll. SSPL/Kharbine-Tapabor: p. 60; AKG Images: pp. 63, 110; Album/Prisma: pp. 78/79; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 80/81, 85; Fototeca Gilardi: pp. 101; The Print Collector/Heritage Images: pp. 102, 102/103, 104; Ann Ronan Picture Library/Heritage Images: p. 106; Album/Coll. Jean Vigne/Kharbine-Tapabor: p. 107 (alto e basso); Erich Lessing/K&K Achive: p. 108 (alto) – Doc. red.: pp. 47 (basso), 61, 62, 65, 66, 73, 75, 77, 89, 94, 103 – Cortesia Go Vilnius: pp. 74/75, 90, 92, 97; Augustas Didžgalvis: pp. 70/71; Laimonas Ciunys: pp. 72/73 – National Gallery of Art, Washington: p. 82 (basso) – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 83, 100, 111 (basso) – Museo Nazionale, Cracovia: pp. 86/87 – The J. Paul Getty Museum, Los Angeles: pp. 98/99 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 25, 26, 47. Cippigraphix: cartine a p. 76. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina uno scorcio del castelletto neogotico realizzato agli inizi del Novecento nel centro di Asti, annesso alla duecentesca Torre Comentina.

Prossimamente aprile 1205

Adrianopoli La battaglia dimenticata

medioevo nascosto

dossier

Le mille vite di Policastro

Il Paradiso nell’età di Mezzo

Errata corrige con riferimento al Dossier Quasi salvi! (vedi «Medioevo» n. 313, febbraio 2023) desideriamo rettificare la localizzazione fornita nella didascalia di p. 77, in quanto la città di Loreto Aprutino si trova in provincia di Pescara e non di Pesaro. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori



il medioevo in

rima

agina

Chirurgia longobarda Varie vedute del cranio femminile CT1953, rinvenuto nella tomba n. 67 della necropoli longobarda di Castel Trosino. Il reperto presenta tracce di trapanazione e un’incisione a forma di croce. Le indagini hanno rivelato che la donna sopravvisse ai diversi interventi, che si qualificano dunque come testimonianza di una pratica chirurgica intenzionale.

U

n cranio femminile rinvenuto nella tomba n. 67 della necropoli longobarda di Castel Trosino (Ascoli Piceno) e che presenta tracce di trapanazione, con un’incisione a forma di croce, è stato oggetto di uno studio che getta nuova luce sui trattamenti medici dell’Alto Medioevo. Il sepolcreto di Castel Trosino, lo ricordiamo, fu scoperto nel 1893 e scavato nell’arco di tre anni, fino al 1896. Le ricerche portarono alla localizzazione di 237 sepolture, databili fra il VI e l’VIII secolo. Schedato come CT1953, il cranio proviene da

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una tomba doppia, situata all’esterno della facciata della piccola chiesa che sorgeva al centro della necropoli. Il corredo funebre comprendeva una spilla in bronzo, un pettine e filamenti aurei. La posizione della tomba e il pregio degli elementi di corredo suggeriscono che i proprietari del sepolcro (un uomo e una donna) appartenessero a una famiglia di rango della comunità longobarda di Castel Trosino. Al cranio della tomba 67 ha lavorato un team internazionale di antropologi, archeologi e storici della medicina dall’Italia («Sapienza» Unimarzo

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versità di Roma e Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) e dall’estero (Università di Cambridge, Aix-Marseille, Caen e Washington), che ai fini dell’indagine bioarcheologica e paleopatologica ha condotto analisi macroscopiche, microscopiche e ha utilizzato anche la tomografia computerizzata (TC).

Una terapia di lunga durata È stato cosí possibile accertare che la donna era sopravvissuta a diversi interventi, essendo stata sottoposta a una terapia chirurgica a lungo termine, che consisteva in una serie di trapanazioni successive. L’ultimo intervento chirurgico sembra essere avvenuto poco prima della morte dell’individuo. Non ci sono lesioni che possano far pensare alla presenza di traumi, tumori, malattie congenite o altre patologie. Inoltre, anche se è intrigante considerare le possibilità di un motivo di tipo rituale o giudiziario, nessuna evidenza osteologica o storica sostiene ipotesi del genere. Parallelamente, attraverso un nuovo approccio metodologico (applicato a uno dei denti conservatisi), è stato possibile indagare le variazioni della dieta e della mobilità della donna, dai primi anni di vita all’età adulta. Questo approfondimento ha permesso di

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marzo

In alto planimetria della necropoli di Castel Trosino, con la tomba n. 67 evidenziata in rosso. A sinistra e a destra varie fasi delle indagini di laboratorio.

identificare cambiamenti nell’alimentazione e nell’ambiente frequentato nel corso della sua vita, e di evidenziare cura e interesse fornitole dalla comunità. Il caso di Castel Trosino rappresenta una delle poche testimonianze archeologiche di un intervento di trapanazione eseguito nel primo Medioevo. E questo studio multidisciplinare apre la strada a future ricerche sulle ragioni e le modalità di cura in questo periodo storico, e sul ruolo della comunità dell’assistenza del malato nelle popolazioni del passato. Ileana Micarelli, Giorgio Manzi

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ANTE PRIMA

Bravo, anzi bravissimo

MOSTRE • Per Agostino Chigi, Perugino

fu «il meglio maestro d’Italia»: un giudizio scaturito dall’attività condotta dal pittore in oltre mezzo secolo di carriera. Una parabola ora ripercorsa dalla Galleria Nazionale dell’Umbria, a cinquecento anni dalla morte del maestro

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icorre quest’anno il cinquecentenario della morte di Pietro Vannucci, meglio noto come Perugino, e la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia lo celebra con una grande mostra pensata per restituire al pittore, protagonista assoluto del Rinascimento, il ruolo di preminenza artistica che il suo pubblico e la sua epoca gli avevano assegnato, attraverso prove capitali della sua produzione, tutte antecedenti al 1504, ovvero nel momento in cui si trovava all’apice della sua straordinaria carriera. «In una lettera datata 7 novembre 1500, Agostino Chigi, che fu fra i

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In alto Madonna col Bambino, tempera su tavola di Andrea del Verrocchio. 1472 circa. Berlino, Staatliche Museen. A sinistra Santa [Regina] martire (Sant’Orsola?), tempera su tavola di Giovanni Santi. Fine del XV sec. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. marzo

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piú grandi mecenati del suo tempo, definiva Perugino “il meglio maestro d’Italia” e la scelta di utilizzare questa espressione come titolo della mostra – spiegano i curatori del progetto espositivo, Marco Pierini e Veruska Picchiarelli – dichiara esplicitamente l’intenzione di provare a raccontarne la grandezza attraverso gli occhi di chi poté ammirare il suo lavoro da una prospettiva privilegiata, senza che lo sguardo risultasse fuorviato dalla produzione di una tarda attività particolarmente prolifica (talvolta persino seriale) e senza soprattutto i condizionamenti dovuti a una fortuna critica a dir poco altalenante».

Tre commissioni prestigiose L’iniziativa completa idealmente il progetto di analisi storica e critica dell’itinerario creativo di Perugino, iniziato nel 2004 proprio nel museo umbro, che conserva il piú considerevole numero di opere del maestro. In mostra si possono

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ammirare oltre settanta opere, che, come detto, comprendono esclusivamente dipinti realizzati da Vannucci prima del 1504, anno in cui egli lavorava a tre commissioni che segnano il punto piú alto della sua carriera: la Crocifissione della Cappella Chigi in S. Agostino a Siena, la Lotta fra Amore e Castità già a Mantova, ora al Louvre di

In alto il Messale Caporali, realizzato da Bartolomeo e Giapeco Caporali. 1469. Cleveland, Cleveland Museum of Art In basso il Trittico Galitzin, olio su tavola trasferita su tela del Perugino. 1482-1485 circa. Washington, National Gallery of Art. Parigi, e, soprattutto, lo Sposalizio della Vergine per la cappella del Santo Anello del Duomo di Perugia, oggi nel Musée des Beaux-Arts di Caen (Francia). La mostra dà conto, nella maniera piú completa possibile, dei passaggi fondamentali del suo percorso: dalle prime collaborazioni nella bottega di Andrea del Verrocchio alle capitali imprese fiorentine che fecero la sua fortuna (come per esempio le tre tavole già in S. Giusto alle Mura, oggi nelle Gallerie degli Uffizi, o la Pala di San Domenico a Fiesole); dagli straordinari ritratti alle monumentali pale d’altare, quali il Trittico Galitzin, ora alla National Gallery di Washington, e il Polittico della Certosa di Pavia, per gran parte alla National Gallery di Londra ed eccezionalmente ricomposto per l’occasione. L’esposizione riflette sul ruolo che Vannucci ha effettivamente svolto nel panorama artistico contemporaneo nel rapporto

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ANTE PRIMA

che lo ha legato ai protagonisti di quell’epoca, seguendo geograficamente gli spostamenti del pittore o delle sue opere attraverso l’Italia. È sorprendente, infatti, come Perugino abbia lasciato tracce profonde del suo magistero in tutte le località della Penisola toccate dalla sua attività, da nord a sud, a iniziare ovviamente dall’Umbria e dalla Toscana, teatri per eccellenza del suo lavoro, nonché sedi delle sue botteghe di Perugia e Firenze. La fondamentale impresa decorativa della Cappella Sistina, per esempio, è alla base di un filone umbrolaziale del «peruginismo», che trova interpreti sublimi in personaggi quali Antoniazzo Romano, o Antonio da Viterbo detto il Pastura. L’impressione suscitata dagli affreschi con Storie del Cristo e Storie di Mosè in artefici di estrazione geografica e culturale profondamente distante, che si approcciano a essi in viaggi di aggiornamento e li assimilano come fondamentali testi di studio, genera fenomeni singolarissimi, come quello testimoniato dalla pittura Macrino d’Alba, divulgatore

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Nella scia di Pietro

A sinistra Madonna Borghese, tempera su tavola di Raffaello. 1502 circa. Berlino, Staatliche Museen, Gemaldegalerie. In alto Sant’Egidio in trono tra i santi Giuliano, Domenico, Girolamo e Benedetto, tempera su tavola di Francesco Botticini. 1468-1469 circa. Parigi, Galerie G. Sarti.

La presenza di opere del maestro umbro nelle Romagne e in Emilia, da Fano, a Senigallia, a Bologna è alla base della pittura di Francesco Francia, di Lorenzo Costa e del Rimpatta. Un filone lombardoveneto della vague peruginesca, testimoniato in particolare dalle opere di Tommaso Aleni e Francesco Verla, è legato alla Madonna col Bambino tra i Santi

Agostino e Giovanni evangelista nella chiesa di S. Agostino a Cremona. La grande Assunzione del Duomo di S. Gennaro dà infine ulteriore forza propulsiva alla diffusione del lessico di Pietro non solo nel Napoletano, con l’attività di Stefano Sparano o Cristoforo Faffeo, ma anche in altre aree del Mezzogiorno d’Italia. (red.)

della maniera peruginesca nel natío Piemonte. Cosí come, nella stessa regione, lo studio di prove capitali di Perugino viste tra Firenze e Pavia si riflette con esiti sorprendenti nella produzione di Gaudenzio Ferrari.

DOVE E QUANDO

«“Il meglio maestro d’Italia”. Perugino nel suo tempo» Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria fino all’11 giugno (dal 4 marzo) Info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@beniculturali.it; www.gallerianazionaledellumbria.it; www.peruginocinquecento.it; Facebook @GalleriaUmbria Perugia; Instagram @gallerianazionaledellumbria; Twitter @GalleriaNazUmbr; Spotify Galleria Nazionale Umbria; Spreaker Galleria Nazionale Umbria marzo

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Rivivere il passato per guardare al futuro S

i avvicina il traguardo del ventennale per «Armi&Bagagli», il mercato internazionale della Rievocazione Storica che, ancora una volta, riempirà i padiglioni di Piacenza Expo di uomini e donne provenienti da tutte le epoche passate. A un anno da un giubileo che si preannuncia già ora ricco di novità e iniziative straordinarie, anche in questa diciannovesima edizione, in programma il 18 e 19 marzo 2023, i visitatori si potranno trovare immersi in un vero e proprio viaggio nel tempo, alla scoperta di abiti, armature, attrezzi da lavoro, antichi mestieri e sapori, suoni, divertimenti dall’antichità all’epoca moderna. «Stiamo ancora vivendo un momento di ansia e di incertezza – esordisce Cesare Rusalen di Estrela Fiere, co-organizzatore dell’evento – dove passato prossimo e remoto si fondono con un presente nel quale non

Immagini di repertorio delle precedenti edizioni di «Armi&Bagagli», appuntamento ormai tradizionale con la rievocazione storica, in programma a Piacenza.

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

abbiamo ancora superato la pandemia e i conflitti in essere, non solo in Ucraina, tanto che alcuni nostri espositori sono ancora bloccati all’interno dei rispettivi confini e non possono partecipare alla fiera». «Nonostante questo – ha proseguito Massimo Andreoli di Wavents – siamo e rimaniamo comunque entusiasti, anche grazie ai numeri registrati nel 2022 nelle nostre fiere e manifestazioni storiche, dove forte è stato il segnale di rinascita e la volontà di guardare al futuro, pur immergendosi nel passato, con grande ottimismo». A rimarcare la sensazione di entusiasmo che aleggia tra gli espositori di «Armi&Bagagli» vi è anche la sempre maggiore partecipazione di professionisti dello spettacolo storico e itinerante, che danno vita a un vero e proprio festival coordinato dal direttore artistico di Wavents Gabriele Bonvicini, andandosi ad aggiungere agli oltre 200 espositori italiani e stranieri pronti a soddisfare la domanda di appassionati e professionisti verso l’artigianato storico, l’arcieria, il collezionismo militare, l’enogastronomia tradizionale. Errata corrige con al Dossier In riferimento contemporanea, infatti, al mercato vero e proprio della L’umanista che andò allerievocazione crociate (vedistorica, con artigiani per tutte epoche, si uniranno giullari, musici, teatranti, «Medioevo» n. 220,leaprile 2015) desideriamo giocolieri, trampolieri, nonché un’intera area riservata precisare che la medaglia in bronzo riprodotta a all’enogastronomia storica p. 93 (in basso) ritrae Malatesta Novello (al e tradizionale. Sono ovviamente confermate secolo Domenico Malatesta, 1418-1465) signore tutte le fiere in contemporanea: Expo Arc, fiera dedicata al mondo di Cesena, e non Sigismondo Malatesta, come dell’arco in tutte le sue e declinazioni indicato in didascalia. Dell’errore ci scusiamoespressioni con culturali, l’autore dell’articolosportive, e con i nostri lettori.artigianali, didattiche, storiche e venatorie; Softair Fair, una grande manifestazione dedicata al mondo del Soft Air in tutte le sue componenti; Piacenza Militaria, storica mostra mercato di collezionismo militare; I Coltelli, mostra mercato di coltelleria artigianale e tecnica. Info Armi&Bagagli: tel. 345 7583298 oppure 333 5856448, e-mail: info@armiebagagli.org, www. armiebagagli.org; ExpoArc: tel. 333 5856448, e-mail: info@expoarc.it; Softair Fair: tel. 333 5856448, e-mail: softair@estrela.it; Piacenza Militaria e I Coltelli: tel. 333 5856448, e-mail: info@estrela.it


AGENDA DEL MESE

Mostre VENEZIA IL RINASCIMENTO IN FAMIGLIA: JACOPO E GIOVANNI BELLINI, CAPOLAVORI A CONFRONTO Gallerie dell’Accademia fino al 12 marzo

Lo scambio di opere importanti con musei italiani e stranieri ha dato alle Gallerie dell’Accademia la possibilità di creare nuovi racconti, intrecciare nuove storie con dipinti della collezione permanente, parlare di iconografia, di provenienze, di stile. Visto il successo degli appuntamenti già realizzati, il museo presenta ora il nuovo programma Nelle Gallerie, dedicato alle occasioni di incontro e relazione tra opere e istituzioni. Ospite d’onore è questa volta un dipinto giovanile di Giovanni Bellini la Madonna col Bambino, nota

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a cura di Stefano Mammini

anche come Madonna Trivulzio, dalla Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano. L’opera è allestita accanto alla preziosa Madonna col Bambino benedicente e cherubini di Jacopo Bellini – parte della collezione permanente – a cui il restauro appena concluso ha restituito una sorprendente leggibilità nei valori formali e della tecnica esecutiva. Stupefacente è la brillantezza emersa dagli azzurri, costituiti da azzurrite nei cherubini e molto probabilmente da blu oltremare nel manto della Vergine, dai rossi dipinti a vermiglione e lacca, cui le lumeggiature in oro a conchiglia conferiscono un crepitante scintillio. I due dipinti si possono ammirare nella sala III del primo piano dove sono riuniti altri dipinti eseguiti dai Bellini, la piú importante impresa familiare della Venezia

quattrocentesca, in un arco di tempo compreso dagli anni Quaranta agli anni Sessanta: le opere qui presenti di Giovanni e Gentile testimoniano in modi e gradi diversi il cammino avviato per affrancarsi dal linguaggio piú arcaico del padre Jacopo, aprendosi alle novità del linguaggio rinascimentale elaborate a Padova da Francesco Squarcione e Andrea Mantegna, sulla base degli stimoli ivi introdotti da Donatello. info tel. 041 5222247 oppure 2413942; www.gallerieaccademia.it ROVERETO GIOTTO E IL NOVECENTO MartRovereto fino al 19 marzo

Novecento Carlo Carrà, Mario Sironi e Arturo Martini, ma anche Gino Severini, Massimo Campigli, Achille Funi, Ubaldo Oppi, rintracciarono in Giotto il principale testimone di un’eternità alla quale guardare. Pochi decenni piú tardi, gli insegnamenti giotteschi influenzano l’opera di alcuni protagonisti dell’arte italiana come Giorgio Morandi, Fausto Melotti, Mario Radice, Lucio Fontana, ma anche il lavoro di grandi artisti internazionali come Henri Matisse, Yves Klein, Mark Rothko, Josef Albers e Tacita Dean. info tel. 800 397760 oppure 0464 438887; e-mail: info@ mart.trento.it; www.mart.trento.it TEGLIO (SONDRIO)

Il museo roveretano presenta 200 opere di artisti moderni e contemporanei ispirate a Giotto, il maestro che

CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile

rivoluzionò la pittura medievale. Il percorso comincia con una grande installazione immersiva che riproduce la Cappella degli Scrovegni di Padova, capolavoro assoluto del pittore toscano, e continua fra le creazioni di grandi autori e autrici del XX secolo accomunati dalla passione per la figura di Giotto, studiato, imitato, o preso a modello di perfezione e spiritualità. Nel primo

La mostra si inserisce nel progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, marzo

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Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it MILANO L’ORANTE (…NEL TUO NOME ALZERÒ LE MIE MANI…) Complesso monumentale di S. Eustorgio fino al 9 aprile (prorogata)

L’esposizione prende spunto dal frammento di un’epigrafe funeraria paleocristiana, rinvenuta nell’area del cimitero nel Complesso Monumentale di S. Eustorgio, raffigurante un defunto, probabilmente un

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soldato o un funzionario della burocrazia imperiale, con le braccia allargate e innalzate nell’atteggiamento dell’orante. Oltre a questo reperto, a ispirare il progetto espositivo è il versetto del Salmo 63 «Cosí ti benedirò per tutta la vita: nel tuo nome alzerò le mie mani», e l’intento è quindi quello di raccontare il gesto dell’orante nell’atto di alzare le mani verso il cielo, presente nell’iconografia paleocristiana cosí come oggi nel momento della recita del Padre Nostro. La mostra si divide in sei sezioni che, attraverso le immagini, portano all’attenzione del pubblico la tipologia del gesto, analizzandola non solo da un punto di vista storicoarcheologico, ma anche e soprattutto nel significato profondo del rapporto del devoto con Dio. info www.museosanteustorgio.it; Facebook e Instagram: museodisanteustorgio

NAPOLI BIZANTINI. LUOGHI, SIMBOLI E COMUNITÀ DI UN IMPERO MILLENARIO Museo Archeologico Nazionale di Napoli fino al 10 aprile (prorogata)

L’impero romano d’Oriente, che sopravvisse per oltre mille anni a quello d’Occidente, è protagonista della rassegna presentata dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Articolata in 15 sezioni, la mostra sviluppa il tema delle fasi storiche successive all’impero romano d’Occidente, con un focus su Napoli (città «bizantina» per circa sei secoli, dopo la conquista da parte di Belisario e le sue armate nel 536 d.C.) e una particolare attenzione alla Grecia

a all’Italia meridionale. Diversi i temi affrontati – la struttura del potere e dello Stato, l’insediamento urbano e rurale, gli scambi culturali, la religiosità, le arti e le espressioni della cultura scritta, letteraria e amministrativa – e oltre quattrocento le opere esposte, dalle collezioni del MANN e da 57 dei principali musei e istituzioni che custodiscono in Italia e in Grecia materiali bizantini: 33 musei italiani, 22 musei greci, Musei Vaticani e Fabbrica di San Pietro. Grazie anche alla sinergia con la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Napoli e all’eccezionale collaborazione con il Ministero Ellenico, molti dei materiali esposti saranno visibili per la prima volta, provenienti dagli scavi della metropolitana di Salonicco e da quelli per la linea 1 a Napoli. info https://mann-napoli.it/ bizantini

ROMA ARTE LIBERATA 1937-1947. CAPOLAVORI SALVATI DALLA GUERRA Scuderie del Quirinale fino al 10 aprile

La mostra offre una selezione di oltre cento capolavori salvati durante la seconda guerra mondiale, oltre che un ampio panorama documentario, fotografico e sonoro – riuniti grazie alla collaborazione di ben quaranta musei e istituti – per un racconto avvincente ed emozionante di un momento drammatico per il nostro Paese ma altrettanto lungimirante e fondativo per una nuova coscienza civica. Un omaggio doveroso alle donne e agli uomini che, nella drammatica contingenza bellica, hanno interpretato la propria professione all’insegna di un interesse comune, coscienti dell’universalità del patrimonio da salvare. Al centro del progetto espositivo l’azione lungimirante di tanti

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AGENDA DEL MESE di Ulisse Aldrovandi (15221605), accompagna il visitatore in un viaggio alla scoperta di un episodio del Rinascimento tanto importante quanto poco conosciuto, perché messo in ombra dai capolavori dell’arte e dell’architettura che tutto il mondo riconosce: il risveglio delle scienze naturali. Se gli artisti avevano cercato di imitare e superare i capolavori della classicità, i filosofi le idee, e gli umanisti la letteratura, negli ultimi decenni del Cinquecento Ulisse Aldrovandi e un piccolo gruppo di naturalisti, medici e farmacisti italiani decisero di ripercorrere le orme di Aristotele e di Plinio, trasformandosi da umanisti in scienziati. Cominciarono a raccogliere collezioni che diventeranno i musei di storia naturale e fecero realizzare le soprintendenti e funzionari dell’Amministrazione delle Belle Arti – spesso messi forzatamente a riposo dopo aver rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò – che, coadiuvati da storici dell’arte e rappresentanti delle gerarchie vaticane, si resero interpreti di una grande impresa di salvaguardia del patrimonio artistico-culturale. Un’occasione unica per ammirare, per la prima volta riunite nello stesso luogo, opere di altissimo valore artistico fortunatamente sopravvissute, fra cui la Santa Palazia di Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino, la Crocefissione di Luca Signorelli, l’Immacolata Concezione di Federico Barocci e la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca. info www.scuderiequirinale.it

ROMA ROMA MEDIEVALE. IL VOLTO PERDUTO DELLA CITTÀ Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 16 aprile (prorogata)

Museo di Palazzo Poggi

BOLOGNA

fino al 10 aprile

L’ALTRO RINASCIMENTO. ULISSE ALDROVANDI E LE MERAVIGLIE DEL MONDO

Il progetto espositivo, realizzato in occasione del cinquecentenario della nascita

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proto-scienziati si sarebbero perse le tracce, se l’Università di Bologna non avesse conservato nelle sue collezioni e nella sua biblioteca un patrimonio eccezionale di oggetti, immagini, libri e manoscritti, legati sia al lascito fatto da Aldrovandi alla città, sia alle raccolte dell’Istituto delle Scienze creato piú tardi da Luigi Ferdinando Marsili. «L’altro Rinascimento» riunisce infatti molti dei «gioielli» custoditi dall’Alma Mater, in gran parte mai esposti prima, fra i quali il Codice Cospi, uno dei soli tredici codici precolombiani sopravvissuti al mondo, alcune delle piú antiche mappe del mondo conosciuto, i volumi con le tavole illustrate fatte dipingere da Aldrovandi, e naturalmente la collezione naturalistica del grande scienziato bolognese, unica arrivata sino a noi nella sua quasi interezza, oltre che la piú grande, importante e famosa del suo tempo. info e-mail: aldrovandi500@ unibo.it; www.unibo.it/ aldrovandi500; facebook: sma. museiunibo; palazzopoggi. museiunibo; instagram: @ museiunibo; youtube: Sistema Museale di Ateneo-Università di Bologna; hashtag: #Aldrovandi500

prime vere immagini della natura, creando un immaginario della natura che è ancora il nostro. Della straordinaria vicenda di questo manipolo di

Riscoprire il volto perduto della Roma fra VI e XIV secolo e il suo ruolo cardine nell’Europa cristiana e medievale sia per i semplici pellegrini sia per regnanti e imperatori. Questo l’obiettivo della nuova mostra allestita negli spazi del Museo di Roma in Palazzo Braschi. Articolato in 9 sezioni, il percorso espositivo nasce con marzo

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lo scopo di far conoscere aspetti poco noti del patrimonio dell’Urbe, attraverso una selezione di oltre 160 opere tra mosaici, affreschi e opere mobili, provenienti prevalentemente da raccolte e collezioni pubbliche romane e da luoghi di culto, oltre che da prestigiose istituzioni museali come i Musei Vaticani. Parte, infatti, dalla scoperta della città medievale attraverso i suoi luoghi piú iconici, quali basiliche e palazzi, ma anche dal contesto ambientale, oggi profondamente modificato, come il corso del Tevere con porti e ponti dove si svolgevano vita e attività urbane. L’immersione nella realtà del Medioevo romano si approfondisce poi esaminando le ricche committenze di papi e cardinali, l’attività di artisti e botteghe, il fascino della città

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come imprescindibile méta di pellegrinaggio anche per re e imperatori. Ricchi apparati didattici illustreranno in mostra i molteplici volti dell’indiscussa capitale dell’Europa medievale. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museodiroma.it

ingegneria civile e militare e dedicandosi con passione agli studi di anatomia, biologia, matematica e fisica. La famiglia fiorentina Niccolai, a partire dal 1960, ha deciso di dare vita alle macchine disegnate da Leonardo nei suoi Codici, unendo il sapere artigiano alla ricerca accademica. Nella mostra a Palazzo dei Consoli di Gubbio si possono ammirare e anche «azionare» in autonomia, modelli in scala di varie dimensioni, realizzati utilizzando i materiali dell’epoca cioè legno, cotone, ottone, ferro e corde. Si tratta di macchine militari, di ingegneria civile e idraulica, accanto a studi per il volo umano e oggetti curiosi, pronti a meravigliare visitatori di ogni età. Alcune ricostruzioni di macchine leonardesche sono esposte anche in suggestivi spazi esterni del centro storico cittadino.

info tel. 075 9274298; e-mail: museo@gubbioculturamultiservizi. it; www.palazzodeiconsoli.it

BASSANO DEL GRAPPA I BASSANO. STORIA DI UNA FAMIGLIA DI PITTORI Museo Civico fino al 2 maggio

A raccontare le vicende della dinastia dei Bassano non sono soltanto le loro opere, ma anche le parole di Melania Mazzucco: il tutto a creare un’inedita «mostra racconto». Nessun pannello storicoartistico, nessuna didascalia che vada oltre l’essenzialità, solo le meravigliose creazioni dei Bassano e l’intenso filo del racconto della vita dei Dal Ponte, poi noti al mondo appunto come «i Bassano», protagonisti indiscussi della pittura del Rinascimento veneto. La loro epopea ebbe inizio con la discesa, correva

GUBBIO L’INGEGNO DI LEONARDO. LE MACCHINE Palazzo dei Consoli fino al 1° maggio

Ospitata nei magnifici spazi del Palazzo dei Consoli, la mostra offre l’occasione di scoprire la genialità di Leonardo da Vinci, un pioniere nella ricerca e negli studi della tecnologia. Con le sue idee ha saputo coniugare in maniera mirabile l’attività artistica e l’attività scientifica, applicando le sue conoscenze di meccanica a opere di

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l’anno 1464, a Bassano di Jacopo di Berto, conciatore di Gallio, nell’Altopiano di Asiago. Giunto sulle rive del Brenta, Jacopo trovò dimora in Contra’ del Ponte da cui deriverà il cognome futuro della celebre famiglia di pittori. Suo figlio Francesco, poi detto il Vecchio perché primo della dinastia, cominciò ad avventurarsi nell’arte della pittura. Alchimista dilettante, cartografo e decoratore piú che grande artista, Francesco dette vita a creazioni d’arte sacra che rispondevano alle richieste del mercato locale avviando un’eterogenea, attivissima bottega. Qui collaborano i figli, Giambattista e Jacopo, giovane di immenso talento che, con il suo pennello, avrebbe scritto pagine indelebili della storia dell’arte e della pittura italiana e non solo. Genio mite e riservato, è a lui che si deve il cambio di passo: quella che sino ad allora era soprattutto una forma di artigianato decorativo prende la valenza di grande arte. Arte coltivata, con successo, anche dai suoi figli – il talentuoso e melanconico Francesco il Giovane, Giambattista, e poi i diligenti Leandro e Gerolamo, fino al nipote Jacopo Apollonio che disegnava di nascosto – ai quali «il Bassano» seppe trasmettere amorevolmente la sapienza e la poesia della sua arte. I loro dipinti, ammantati da un ineffabile «mistero del quotidiano», conquistarono il mercato internazionale: grandi quadri di devozione sacra destinati alle chiese, ma anche ritratti, commoventi notturni e intense pastorali che, dalla piccola Bassano, giunsero ad arricchire le grandi collezioni reali, da quella di Rodolfo II a Praga, alla Madrid di Filippo II, giungendo fino alle Americhe. Una storia che si conclude

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quando Jacopo Apollonio, formatosi sotto la guida dello zio Leandro, realizza le ultime repliche prodotte sui disegni e i modelli del nonno Jacopo. La storia dei Bassano, una vera e propria epopea per immagini iniziata sul finire del Quattrocento, esce cosí di scena avendo all’attivo oltre un secolo di grandissima fortuna. info tel. 0424 519901; e-mail: biglietteriamusei@comune. bassano.vi.it; www.museibassano.it TERAMO LA CAMERA DELLE MERAVIGLIE Castello Della Monica fino al 7 maggio

Il Castello Della Monica, una prestigiosa residenza neogotica riconsegnata alla collettività dopo importanti interventi di restauro, inaugura la sua stagione espositiva con una mostra che propone una selezione di preziosi e insoliti oggetti di arredo tardorinascimentali collezionati alla metà dell’Ottocento dai fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi per la loro casa nel cuore di Milano. Suppellettili, armature, cassoni finemente decorati e intagliati, cofanetti in avorio, formano una vera e propria Wunderkammer, piccole camere delle meraviglie tutte da scoprire che entrano in dialogo con le suggestive sale della storica dimora teramana,

tra pareti affrescate e vetrate policrome. Tra gli oggetti che si possono ammirare vi sono alcuni pregevoli manufatti legati alla storia e all’arte dell’Abruzzo e del Regno, come il cassone di legno di pioppo realizzato negli ultimi anni del Quattrocento che presenta un coperchio convesso, frutto di una ricostruzione ottocentesca. L’arredo ligneo è riccamente decorato in pastiglia dorata e dipinta con lo stemma senese della famiglia Piccolomini, importante famiglia che godeva di ampi feudi anche in Abruzzo. O anche l’armatura cinquecentesca che rievoca l’uso bizzarro dei nobili che amavano fare i loro viaggi in terre sconosciute o presso i loro amici altolocati con i quali indossavano armature durante ricche feste celebrative. info tel 0861 250873 o 338 3901759; www.comune.teramo.it SAINT-GERMAIN-EN-LAYE IL MONDO DI CLODOVEO Musée d’Archéologie nationale fino al 22 maggio

Il Museo d’archeologia nazionale si trasforma in un grande gioco di fuga collettivo, facendo di ciascun visitatore l’eroe di un’avventura inedita, che ha luogo all’epoca dei Franchi: è questo il sorprendente risultato della mostra attualmente allestita

negli spazi del castello di SaintGermain-en-Laye, che propone un approccio decisamente inconsueto al tema affrontato, che è quello dell’età merovingia e del suo primo sovrano, Clodoveo. Il percorso espositivo, ludico e interattivo al tempo stesso, rievoca dunque i tratti distintivi del primo Medioevo, dispensando nozioni di storia e archeologia. Ai visitatori è data la possibilità di vestire i panni di un personaggio vissuto al tempo dei Merovingi e di costruire un proprio «percorso di vita», grazie a un’applicazione web o a libri-gioco. La fruizione delle diverse risorse – giochi, libri, video – è totalmente libera e ciascuno può scegliere la soluzione che preferisce, diventando attore della visita ed eroe della storia che ha confezionato. info www.museearcheologienationale.fr ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio marzo

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terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti preprotostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it

TORINO LUSTRO E LUSSO DALLA SPAGNA ISLAMICA. FRONTIERE LIQUIDE E MONDI IN CONNESSIONE MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 28 maggio

Mare Nostrum, Mediterraneus, Mar Bianco, Hayam Hatikhon, Grande Verde: tanti nomi per indicare un luogo di incontro, di scontro, di scambio, di battaglie e di dialogo fra popoli e culture diversi fra loro ma accomunati da una prossimità profonda. Il Mediterraneo ha sempre esercitato una forza d’attrazione a cui nessun popolo ha potuto sottrarsi: per

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mettono in evidenza la relazione tra il mondo ispanico europeo e quello islamico nel contesto del Mediterraneo. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it FERRARA RINASCIMENTO A FERRARA. ERCOLE DE’ ROBERTI E LORENZO COSTA Palazzo dei Diamanti fino al 19 giugno

lunghi secoli merci, tradizioni, invenzioni, scoperte sono nate o sono transitate da qui. Perché questo non è solo un mare e soprattutto non è solo Europa: è stato – e per certi versi è ancora – una possibilità dall’identità mutevole. Ciò che nasce sulle sponde del Mediterraneo si contamina per prossimità e si radica per necessità, innestandosi sull’esistente e assumendo identità e forme nuove. Cosí è accaduto con la lingua araba, ma soprattutto con le arti figurative, in particolare con la produzione tessile e ceramica: diverse raffigurazioni e tecniche della produzione di tappeti, tessuti e vasellame, custodite come segreti preziosi nei territori del Medio Oriente e del Nord Africa, sono approdate nella penisola iberica insieme ai conquistatori, quasi un “effetto collaterale” della secolare dominazione, dando origine a una straordinaria produzione autoctona ibridata. Pregiati tappeti e frammenti tessili e ceramiche ispano-moresche di provenienze diverse datati tra il X e il XVI secolo, capaci di trasportare il visitatore in territori poco esplorati, aprono diverse traiettorie di conoscenza e riflessione e

La rassegna tiene a battesimo la riapertura dei nuovi spazi espositivi di Palazzo dei Diamanti, oggetto di un complesso intervento di restauro e riqualificazione, e costituisce la prima tappa di un progetto piú ampio e ambizioso intitolato Rinascimento a Ferrara 1471-1598 da Borso ad Alfonso II d’Este, che indagherà la vicenda storicoartistica del periodo compreso

tra l’elevazione della città a ducato e il suo passaggio dalla dinastia estense al diretto controllo dello Stato Pontificio. Gli altri momenti del percorso saranno dedicati ai grandi protagonisti di quella stagione: Mazzolino e Ortolano, Dosso e Garofalo, Girolamo da Carpi e Bastianino. Le oltre cento opere esposte, provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, offrono l’occasione di scoprire (o riscoprire) l’arte di due grandi interpreti del Rinascimento italiano, entrambi ferraresi: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Dotato di un incredibile talento compositivo, straordinario per qualità ed espressività emotiva, Ercole de’ Roberti (1450 circa-1496) era l’erede dell’Officina ferrarese, il piú giovane e intelligente tra quanti parteciparono al clima culturale di Palazzo Schifanoia, negli ultimi anni del governo di Borso che proprio allora

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AGENDA DEL MESE riceveva il titolo di duca (1471). Operò a piú riprese a Bologna, dove lasciò una impronta profondissima, ma non vi è dubbio che a Ferrara trovò l’ambiente piú adatto in cui esprimersi durante l’ultimo decennio della sua vita, trascorso alle dipendenze della corte. Fu Lorenzo Costa (14601535), di dieci anni piú giovane, a raccoglierne l’eredità e a continuarne lo stile nelle opere giovanili. Ma durante un lungo soggiorno a Bologna la sua pittura mutò in direzione di una maggiore morbidezza, di una classicità calma e distesa. Il mondo stava cambiando, Leonardo e Perugino stavano imponendo una nuova «maniera», che Costa comprese subito e della quale fu tra i maggiori interpreti, anche dopo il trasferimento a Mantova alla corte dei Gonzaga. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www.palazzodiamanti.it TORINO

BUDDHA10. FRAMMENTI, DERIVE E RIFRAZIONI DELL’IMMAGINARIO VISIVO BUDDHISTA MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 3 settembre

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. IX Edizione Roma – Teatro Argentina

fino al 16 aprile info www.teatrodiroma.net

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ontinuano gli appuntamenti con «Luce sull’archeologia», la cui nona edizione, «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato», propone un percorso tematico di grande suggestione, che esamina l’aspirazione delle classi piú elevate della società romana a ricreare i lussi delle corti ellenistiche come segno di prestigio sia politico che personale. Non solo esplorando la vita di alcuni dei protagonisti di una stagione eccezionale, come Augusto, Livia, Cleopatra, ma anche riconoscendo una documentazione archeologica straordinaria: pitture, tarsie, oro, mosaici, iscrizioni e la decorazione marmorea di ville e palazzi sono solo alcuni degli elementi distintivi della società romana tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età imperiale. Esigenze di rappresentanza e ostentazione del lusso e di una cultura arricchita e accresciuta dal contatto con le altre genti del Mediterraneo e del Lazio antico, una visione dell’arte dunque come sentimento del sublime, come esperienza di bellezza, di civiltà, di identità civile, base del linguaggio dei ricchi e potenti ottimati romani, che presero il sopravvento nonostante la fiera condanna dei moralisti e le severe leggi suntuarie. «Luce sull’archeologia» è un progetto curato dal Teatro di Roma-Teatro Nazionale, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Romani, la rivista «Archeo» e la società Dialogues. Raccontare L’Arte. Gli incontri sono arricchiti dai contributi di storia dell’arte proposti da Claudio Strinati, dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner e dalle introduzioni di Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, il calendario dei prossimi appuntamenti. 12 marzo Piero Bartoloni, Miniere, metalli e gioielli nel mondo fenicio; Pier Giovanni Guzzo, Oro e potere nel Lazio arcaico. 26 marzo Giovanna Di Giacomo, Oro, gemme e perle. Artigiani e vetrine del lusso nella Roma imperiale; Alessandro D’Alessio, Stefano Borghini, Il sofisticato lusso del potere: la cena rotonda della Domus Aurea. 16 aprile Maurizio Bettini, Una parola magnifica e potente; Paolo Di Paolo, La parola oltre il sipario; Adriano La Regina, Teatro: spazio urbano della politica e del consenso. Quali significati hanno gli oggetti rituali presenti nelle collezioni del MAO e come venivano utilizzati e percepiti nel loro contesto originario? Perché e come sono entrati a far parte del patrimonio del museo – cosí come di altri musei di arte asiatica in ambito europeo? E ancora: quali sono i problemi posti dalla conservazione e dal restauro, subordinati al gusto e alle tecniche che cambiano nel tempo? Qual è il rapporto fra buddhismo e nuove tecnologie? Da queste

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domande prende avvio la nuova mostra «Buddha10», un progetto che parte dalle opere presenti nelle collezioni per aprire prospettive piú ampie relative a questioni che riguardano il museo, le sue collezioni e su cosa significa gestire, custodire e valorizzare un patrimonio di arte asiatica in ambito occidentale. Nelle sale dedicate alle esposizioni temporanee, in uno spazio essenziale ed evocativo, oltre venti grandi statue buddhiste in legno o pietra di epoche diverse (dal V al XIX secolo)

delle collezioni del MAO sono accostate ad alcune sculture – tra cui oltre trenta bronzetti votivi della collezione Auriti e due straordinarie teste scultoree in pietra di epoca Tang (618-907 d.C.) – provenienti dal Museo delle Civiltà di Roma, con cui il Museo ha avviato una proficua e articolata collaborazione, e a un importante prestito proveniente dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova. info tel. 011 4436927; www.maotorino.it marzo

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I secoli d’oro di Asti di Ezio Claudio Pia, con contributi di Maresa Barolo, Donatella Gnetti e Barbara Molina

Favorita dalla sua posizione strategica, la città piemontese – candidata a Capitale italiana della Cultura per il 2025 – ebbe un ruolo di rilievo nella rete degli scambi culturali e dei traffici commerciali fin dall’età antica. Nel Medioevo rafforzò questa sua vocazione grazie anche all’intraprendenza dei suoi uomini d’affari, capaci di trasformarsi in veri e propri signori della finanza su scala europea. Una fioritura di cui si conservano mirabili testimonianze artistiche e architettoniche

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a storia di Asti e dell’Astigiano è imperniata sulla centralità rispetto a un sistema di vie di comunicazione che collega la Pianura padana, il litorale ligure – e dunque il Mediterraneo – e l’area alpina, aprendosi all’Europa continentale. Una posizione di snodo che è all’origine della persistente vitalità che ha caratterizzato l’insediamento urbano di Asti fin dall’epoca romana, destinato ad acquisire crescente rilievo durante il Medioevo. A tale connotazione si legano due lineamenti di lunga durata della storia dell’Astigiano: la capacità di consolidarsi localmente e di guardare verso l’esterno. Il precoce avvio della vicenda del Comune di Asti, testimoniato dal 1095, ne fa il secondo per antichità di attestazione dopo Pisa. Annoverata tra i principali contribuenti del fisco imperiale, Asti esercitò nel pieno Medioevo un ruolo di mediazione tra la politica dell’impero e quella comunale nell’Italia centro-settentrionale. Operando in questo sistema di relazioni,

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Asti. Il castelletto in stile neogotico realizzato agli inizi del Novecento nel centro cittadino, annesso alla duecentesca Torre Comentina (o «di San Bernardino»). I suoi 38,55 m ne fanno la seconda torre civile per altezza.

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storie asti realizzò con strumenti diplomatici inediti l’organizzazione di un contado esteso dal cuore dell’area piemontese fino al settore alpino e alla Liguria di Ponente. Le raffigurazioni dei libri iurium dei secoli XIII e XIV, il Codice Alfieri e il Codex Astensis, permettono di ricostruire un territorio comunale esteso per circa 2300 chilometri quadrati. Non meno ampia era la circoscrizione diocesana, dalla quale vennero sottratti ampi settori per la creazione delle diocesi di Alessandria (1175), Mondoví (1388), Casale (1474), Saluzzo (1511) e Fossano (1592). A partire dal Duecento, la città affiancò a una consolidata tradizione mercantile originali iniziative creditizie, che resero gli operatori astigiani, noti come «lombardi», tra i protagonisti dell’economia europea fino al XVII secolo, in qualità di banchieri di sovrani e

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pontefici, finanziatori, tra l’altro, della corona inglese, dell’imperatore Enrico VII, delle fiorenti città dell’Europa centrale e settentrionale. «Secoli d’oro» degli Astigiani che hanno contribuito a costruire l’immagine «gloriosa» del passato medievale ancora oggi riconoscibile nella facies urbana e valorizzata dallo storico Palio (vedi box a p. 41).

«Capitale» di un vasto contado

A una ancora indeterminata lettura dell’età di Mezzo si deve, a partire dalla metà del Settecento, l’interesse antiquario all’origine della salvaguardia della connotazione «medievale» che tuttora caratterizza la città (vedi box alle pp. 34-35). Una lettura consolidatasi a partire da un’altra pervasiva visione, quella offerta dalle piante seicentesche di Asti di Giacomo Laurus (1639)

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Il mosaico pavimentale della sala da pranzo (triclinium) della domus romana di via Varrone 30. Il tappeto musivo è arricchito da figure di pesci e di ramoscelli d’edera ed è delimitato da due cornici a tessere bianche e nere: una a spina di pesce e, quella esterna, a treccia.

A sinistra i resti della domus romana di via Varrone 30. Si tratta di una residenza databile alla seconda metà del I sec. d.C., che sorgeva non lontano dalla Torre Rossa, struttura che, in età romana, svettava all’estremità occidentale del decumano della città di Hasta. A destra cartina di Asti e del suo territorio.

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Come una «piccola patria»

Se il Settecento è stato il secolo della riscoperta della storia astese, nell’Ottocento si sono sviluppate due tendenze, differenti ma unite dalla categoria postrisorgimentale e positivista di «progresso», insieme economico e politico: da una parte la modernizzazio-

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e di Tommaso Borgonio (1682), dalle quali emerge un disegno della città non troppo distante da quello tardomedievale, all’acme della grandezza comunale. Asti appare dominata dal castello già vescovile, articolata in numerosi isolati connotati dallo slancio verticale delle torri che fitte scandiscono il paesaggio urbano e si accompagnano alle caseforti, i nuclei residenziali dei casati piú importanti. Tale diffusa presenza si alterna con quella degli edifici sacri e con gli spazi occupati da conventi e monasteri. Racchiusa da una cinta di mura che raddoppia nelle zone di espansione a ovest, sud ed est, per proteggere i borghi adiacenti alla città, Asti è difesa da robuste strutture fortificate a nord e a est. Le porte, ben riconoscibili, indicano la proiezione sul contado circostante, il quale a sua volta si apriva sull’esteso territorio che faceva della città la «capitale» di una compatta compagine in grado di controllare gran parte del Piemonte meridionale.

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In alto carta della città di Asti con l’indicazione dei luoghi citati nel testo. A destra, sulle due pagine pergamena originale con cui la duchessa Maria di Orléans nel 1467 concede alla città di Asti il privilegio di due fiere annuali. Asti, Archivio Storico del Comune.

ne del volto urbano, anche nella prospettiva di progetti di sviluppo industriale, dall’altra la monumentalizzazione di lacerti di una memoria civica nella quale si individuava la grandezza di una «piccola patria» che, grazie al processo di unificazione, aveva trovato una collocazione nel quadro della nazione risorta. Sul piano della ricerca storica si è progressivamente delineato il passaggio da una lettura municipalista ed erudita alla definizione di un vero e proprio caso marzo

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di studio per il livello della documentazione, riscoperta con sensibilità muratoriana già nel XVIII secolo e oggetto di sistematiche edizioni dall’Ottocento. Su questo itinerario si è innestato il rinnovamento storiografico avviato mezzo secolo fa da Renato Bordone (1948-2011), medievista di riconoscibilità internazionale, grazie all’incontro con uno dei padri della storiografia europea del Novecento, Giovanni Tabacco (1914-2002), e con uno dei maestri della «nuova» diplomatica, Gian Giacomo Fissore (1940-2019).

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Fondata su un preesistente oppidum ligure intorno alla seconda metà del II secolo a.C., Asti ha beneficiato della vicinanza al fiume Tanaro e della posizione di transito, come indica con una certa evidenza la Tabula Peutingeriana. Si strutturò in forme monumentali tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del successivo, secondo un modello comune alle città piemontesi. Gli scavi archeologici hanno consentito di riconoscere la collocazione del foro, delle terme e dell’anfiteatro, nei pressi (segue a p. 30)

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storie asti Codex Astensis

La storia cittadina in mille documenti

Come scrisse Gian Giacomo Fissore nel 2002, il Codex Astensis, unico liber iurium conservato presso il Comune, «si presenta a noi come un prodotto di forte impatto visivo per dimensioni, consistenza materiale, complesso e raffinato progetto illustrativo (…) veicolo di contenuti denotati da un marcato prestigio visivo-formale, ricercato e ottenuto con grande consapevolezza». Composto da 380 fogli di pergamena, rilegati in 45 fascicoli, è illustrato da 105 miniature (due delle 107 originarie sono andate perdute). Tra queste, 6 sono connesse ai privilegi concessi alla città di Asti e 99 riguardano alcuni dei luoghi citati nel codice. Ai fogli 19v e 20r la carta dei domini astesi. Redatto su due colonne, in una minuscola professionale raffinata ed elegante con rubriche di rosso e di blu, talvolta decorate, il Codex Astensis contiene 991 documenti, dal 1065 al 1353, di fondamentale importanza per ricostruire la storia medievale della città, i rapporti tra Asti e l’impero, il governo cittadino, l’attività delle famiglie astesi, il dominio sul territorio, le relazioni con i paesi vicini e, di conseguenza, le condizioni di vita nel Medioevo, il valore delle terre e delle merci, la società civile, ecc. È diviso in cinque parti: cronaca della Città di Asti di Ogerio Alfieri; privilegi concessi alla Città di Asti; documenti relativi ai territori del Comune di Asti situati al di là del Tanaro e ai loro abitanti; documenti relativi ai territori al di qua del Tanaro e ai loro abitanti; documenti relativi ai rapporti tra Asti e le città vicine. Fu realizzato verosimilmente ad Asti nell’ultimo quarto del Trecento, ma ad Asti fu restituito, dopo alterne vicende, solo nel 1884. La sua committenza va ricondotta alla classe dirigente astese: un costoso codice «di parata» – manifesto politico di questa stessa classe nel momento della sottomissione a Gian Galeazzo Visconti – riconducibile per quanto attiene al progetto e alla realizzazione grafica alla scuola milanese di Giovannino de’ Grassi. Barbara Molina

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Sulle due pagine miniature tratte dal Codex Astensis, una raccolta di documenti stilati fra il 1065 e il 1353. Asti, Archivio Storico del Comune. In particolare, a destra, è raffigurato l’imperatore Federico II di Svevia che concede privilegi alla città di Asti.

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storie asti del decumano massimo, l’attuale corso Alfieri. Oltre al tracciato ortogonale di tratti del reticolo viario del centro storico, dell’organismo urbano romano si sono conservati i resti di alcune domus e una torre urbica – la cosiddetta Torre Rossa – ritenuta in epoca medievale la prigione del patrono e martire san Secondo. La città altomedievale è connotata dalla compresenza di prestigiosi edifici ecclesiastici – il complesso episcopale e, nell’area dell’antico foro, S. Anastasio – e di piú modeste strutture abitative e commerciali. Secondo recenti ipotesi, l’attività di spoglio dei monumenti ro-

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mani avrebbe consentito la costruzione di un nucleo difensivo a nord della città, cui potrebbe riferirsi il noto passo di Claudiano relativo alle «moenia vindicis Hastae» («mura di Asti vendicatrice») che avrebbero protetto l’imperatore Onorio nel 401. L’indagine archeologica che ha coinvolto l’area del Duomo nell’ultimo ventennio ha chiarito il definirsi tra V e VI secolo del complesso episcopale, formato dall’originaria cattedrale di S. Maria, dal battistero e dalla chiesa di S. Giovanni, frutto della risistemazione del settore già occupato dalla domus ecclesiae.

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Longobardi, Franchi e vescovi

Sede di ducato longobardo a partire dagli anni Ottanta del VI secolo, Asti è attestata come centro di potere di nobili stirpi appartenenti a questa popolazione: verso il 589, Autari vi nominò duca Gundoald, fratello di Teodolinda e padre di Ariberto e proprio quest’ultimo nel 653, prima di divenire re dei Longobardi, avrebbe governato Asti come duca. Rispetto al radicamento longobardo, differenti appaiono le modalità dello stanziamento dei Franchi, presenti in gruppi numericamente ridotti, con una tendenza alla dispersione del controllo

fondiario su un ampio settore comprendente non solo il comitato astigiano ma anche quelli contermini. Nella fase conclusiva del governo franco, nel 938, il presule Bruningo riceve dai re Ugo e Lotario la donazione del castello di Asti, il cosiddetto Castelvecchio. È il segno dello strutturarsi del governo vescovile e prelude alla concessione del 962 mediante la quale Ottone I conferisce al presule diritti pubblici su Asti e su una fascia di due miglia circostante la città. Per quanto concerne l’amministrazione vescovile, al 969 risale l’impegno del pontefice Giovanni XIII di

In alto e a sinistra altri particolari del Codex Astensis. A destra cartina che mostra il massimo sviluppo territoriale raggiunto dalla «repubblica» di Asti alla fine del XIII sec.

Cocconato Moncucco

Montiglio

Riva

Montafia

Tonco Baldichieri

Villanova Villafranca

Poirino Montà Ceresole

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Montemagno Castagnole

ASTI

Bionzo

San Marzano

Canelli Cassinasco Roccaverano

LEGENDA Fedeltà Cittadinatico Investitura Nuove località Altre località

Calliano

Vignale

Annone Azzano Belveglio Felizzano Cortiglione Mombercelli Costigliole Vinchio Incisa Castagnole

Canale Castellinaldo Santo Stefano Bra Cossano Santa Vittoria Cherasco Trezzo

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Casorzo

Castelnuovo Cunico

Castino

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storie asti unire alla diocesi di Asti quella di Alba, «a saracenis depopulata» («spopolata dai Saraceni»), soluzione però destinata a breve durata. Nel 969 il distretto vescovile passa a quattro miglia e raggiunge le sette miglia grazie al diploma di Enrico III del 1041, un incremento che è espressione del definirsi di una cerniera tra la città e il piú ampio territorio sul quale si proiettano le esigenze della classe dirigente e mercantile urbana.

L’avvento del Comune

Proprio al raccordo tra cittadini e presule, si lega la prima testimonianza del funzionamento delle istituzioni comunali ad Asti: si tratta della cessione in feudo – che il presule effettua a favore dei cives – del castello di Annone (1095), nodale per le comunicazioni stradali e fluviali verso la Pianura padana. È l’avvio del processo che, nel volgere di due secoli, darà forma al sistema territoriale facente capo al comune di Asti. Nei primi decenni della vicenda comunale, i cives oltre a subentrare al vescovo nel controllo del (segue a p. 39)

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Sulle due pagine la cripta altomedievale di S. Anastasio, per la cui costruzione si fece ampio uso di materiali di spoglio di epoca romana.

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la città medievale

Sopravvivenze e recuperi Il «Medioevo» che ad Asti si respira ovunque nel tessuto antico delle vie, nell’architettura sacra e civile si deve a un lungo e stratificato cammino di epoche diverse. Molte opere d’architettura e arte sono perdute, o finite altrove, altre sopravvivono con destinazioni differenti, inglobate in nuovi contesti: ne è esempio la Torre Rossa, torre urbica romana in opus latericium posta all’estremità occidentale del decumano, diventata campanile, con l’addizione della cella campanaria romanica, per una prima chiesa di S. Secondo, poi per S. Caterina tardo-barocca. Si ravvisano due pratiche, lo spoglio e reimpiego di manufatti preesistenti sostanzialmente rispettandone forma e funzione, e la rilavorazione del materiale di pregio recuperato, quale il marmo bianco statuario, molto

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apprezzato in ambito lombardo e ad Asti in particolare, nell’onnipresente e quasi araldica bicromia cittadina dell’arenaria e del mattone. Nel primo caso si incontrano porzioni di colonne, basi e capitelli antichi e tardo-antichi, impiegati a sostegno e ornamento nelle tre formidabili cripte altomedievali e romaniche di S. Secondo, S. Giovanni e S. Anastasio, mentre in Duomo marmi tratti dal vicino sedime del Foro sono riutilizzati per farne statue e gradini basamentali di un fonte battesimale a committenza del 1468, lasciando bene in vista un frammento di iscrizione. La fronte di un sarcofago del II secolo d.C. a putti e festoni è adattata a lastra sepolcrale per il vescovo Valperga, al quale si deve fino al 1327 il gran cantiere della nuova cattedrale, dedicata a santa Maria Assunta. La cattedrale è un palinsesto,

non solo nei riguardi di una venerata vetustas, ma di forme conservate e riprese della fabbrica originaria, fondata secondo la tradizione nel 1095, al tempo dell’istituzione del Comune. Questo carattere «composito» si coglie nel portale laterale a sud, introdotto dall’imponente protiro «fiorito», frutto di interventi dal Duecento al pieno Quattrocento. Detto «Portico Pelletta» (stemma della famiglia al centro della volta), vi compaiono parti piú antiche, recuperate dal primo duomo, un frammento di statua del XII secolo e marmi rilavorati con tracce di fregio, e si coglie l’insistita scelta iconografica, di riferimento battesimale e imperiale, dei capitelli a teste e foglie. Collocata in posizione eccentrica, a ridosso delle mura come a Pisa, la nuova grandiosa cattedrale dichiara visivamente la potenza di Asti arrivata marzo

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A sinistra la pianta di Asti disegnata da Giacomo Laurus. 1639. In basso la Torre Trojana, unica struttura superstite del complesso comprendente il palazzo e la torre dei Troja. XIII-XIV sec.

A sinistra la Torre Rossa, struttura di origine romana (I sec. d.C.), poi modificata e adattata a campanile, dapprima della chiesa di S. Secondo e poi di quella di S. Caterina. Nella pagina accanto la Cattedrale di Asti, intitolata all’Assunta, una delle espressioni piú felici dell’architettura sacra gotica del Piemonte.

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storie asti L’ingresso aperto sul fianco meridionale della Cattedrale, piú recente di quello della facciata. Edificato nella prima metà del XIV sec., è noto come Portico Pelletta. Nella pagina accanto, da sinistra, in senso orario vasca d’appoggio esagonale con leoni e grifoni datata 1229 e «firmata» da Oberto Crespino; il fonte battesimale commissionato dall’arcidiacono Giacomo de Gentis nel 1468, sorretto da nove colonnine in marmo orientale di età romana; il fonte battesimale per bambini, quadrangolare, con protomi angolari e rosette.

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al suo culmine: condotta in uno stile gotico maturo e sobrio, è in definitiva una hallenkirche (chiesa a sala) di nordica ispirazione, con volte a crociera di pari livello su pilastri quadrilobati. A lungo è sopravvissuta la sua «testa umile», un po’ sproporzionata (cosí Vittorio Amedeo II in visita nel 1711), prima dell’ampliamento del presbiterio a opera di Bernardo Vittone nel 1764: il pavimento musivo a tessere bianche e nere, presumibilmente del tardo XII o inizio del XIII secolo, è riemerso negli anni 1984-85. Arredi liturgici appartenuti alla prima cattedrale sono due vasche in granito (le cosiddette «acquasantiere»): un fonte battesimale per bambini, quadrangolare, con protomi angolari e rosette, variamente datato dall’VIII al tardo XII secolo e una vasca d’appoggio esagonale con leoni e grifoni, affrontati e divergenti, datata 1229 e «firmata» dall’operaio laico Oberto Crespino. Due maestosi capitelli antichi corinzi, rovesciati, sono sottoposti a sostegno, forse a partire dal XV secolo. Maresa Barolo

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storie asti L’interno e una veduta esterna del complesso di S. Pietro, che nel XII sec. era il fulcro della presenza gerosolimitana ad Asti.

Cavalieri di Malta

Un legame secolare Un antico rapporto lega Asti all’Ordine dei Cavalieri dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, fondato nella Città Santa al tempo della prima crociata e ancora oggi attivo sotto le insegne dell’Ordine di Malta. La confraternita di monaci e laici, che fin dalla prima metà dell’XI secolo si prendeva cura in un ospizio dei pellegrini che giungevano a Gerusalemme, dopo la conquista crociata della Terra Santa (1089) divenne ordine religioso militare, responsabile anche della difesa armata delle carovane. A questo ordine di cavalieri, legati al rispetto dei tre voti monastici di povertà, castità e obbedienza, autorità civili, grandi signori feudali e gli esponenti piú facoltosi della società destinarono importanti donazioni e concessioni territoriali per garantirne l’attività, contribuendo cosí, fin dall’inizio del XII secolo, alla costituzione di un cospicuo patrimonio fondiario. Il 15 febbraio 1113 la bolla Pie postulatio voluntatis di papa Pasquale II riconosceva l’ospedale di Gerusalemme come istituzione dipendente direttamente dal papato e ne confermava tanto il patrimonio fondiario in Terra Santa quanto le dipendenze ospedaliere in Occidente, sorte sulle vie di pellegrinaggio. Come sedi di tali «xenodochia seu ptochia in occidentis partibus» sono ricordati sette luoghi: uno in Provenza (Saint Gilles) e sei in Italia, il primo dei quali è proprio la città di Asti. Gli altri cinque (Pisa, Bari, Otranto, Taranto e Messina) sono porti, luoghi di imbarco dei pellegrini, mentre Asti viene identificata evidentemente come nodo stradale strategico per i grandi assi di comunicazione nord-sud e ovest-est. La bolla conferma l’esistenza fin dagli inizi del XII secolo di un insediamento gerosolimitano in Asti, sostenuto da una significativa proprietà fondiaria, e basato sul complesso di S. Pietro Consavia, la rotonda del Santo Sepolcro la cui costruzione è da ricondurre alla figura del vescovo Landolfo da Vergiate, al governo della diocesi negli anni tra il 1130 e il 1135. Numerosissimi cavalieri astigiani, membri delle famiglie aristocratiche della città, militarono nel corso dei secoli tra le file dell’Ordine: uno di questi, Petrino Da Ponte, assurse nel 1534 al rango di Gran Maestro. Donatella Gnetti

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Cristo e gli Apostoli sulle rive del Borbore, olio su tela di Pietro e Giovanni Antonio Laveglia. 1671 circa. Asti, Museo Civico di Palazzo Mazzetti. Il dipinto mostra, in secondo piano, la città di Asti cosí come doveva apparire nel Seicento.

distretto – per il quale ottengono una conferma legittimante da Federico Barbarossa nel 1159 – perseguono obiettivi di consolidamento in aree poste tra i 15 e i 20 chilometri dalla città sulle direttrici nord-ovest, verso il Torinese, sud-est, verso la Pianura padana, e sudovest, verso la Langa e la Liguria.

Nuovi equilibri

Si assiste a un’evoluzione degli strumenti diplomatici che sostengono tali progetti: se le operazioni realizzate nei decenni centrali del XII secolo si basano sui vincoli di fedeltà imposti ai signori locali, dagli anni Ottanta si afferma l’uso del cittadinatico, un accordo che, mediante l’attribuzione dei diritti e soprattutto dei doveri di cittadinanza, comportava l’assorbimento di signori e comunità entro l’organismo politico comunale; una forma pattizia che piú tardi fu adottata per fondare nuovi insediamenti, le cosiddette villenove, al fine di

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sottrarre uomini e territori alle aristocrazie locali. Su legami di cittadinanza sono basati anche veri e propri esperimenti di ingegneria istituzionale, quali la coniunctio et unitas tra i comuni di Asti e Alba del 1223-24 – unione aperta anche ad Alessandria – operazione che mascherava l’egemonia astigiana con la trasformazione dei comuni coinvolti in «unum corpus in perpetuum». Il fallimento dell’unione non ridimensiona le pretese di Asti, il cui peso territoriale è confermato dalla scelta di Federico II, negli anni finali del suo regno, di articolare la circoscrizione della Lombardia superiore in due ambiti incentrati su Asti, rispettivamente uno «a Papia usque ad Astam» («da Pavia fino ad Asti») e uno «a civitate Astensi superius» («da Asti in su»). Alla fine degli anni Cinquanta, nel sistema politico regionale si innesta la pressione degli Angiò che mirano a destrutturare il controllo astigiano. Nel 1259 Carlo d’Angiò stringe accordi con Cuneo, Alba, Chera-

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storie asti sco, Savigliano e Mondoví: come scrive il cronista contemporaneo Ogerio Alfieri, l’Angioino «tenebat totam terram (...) et omnes civitates, burgos, marchiones et plures castellanos qui erant in circuitu civitatis astensis» («controllava l’intero territorio (...) e tutte le città, i borghi, i marchesi e molti castellani che si trovavano intorno alla città di Asti»). È l’avvio di un conflitto protrattosi per un quindicennio, all’origine di relazioni instabili sia nell’area pedemontana sia tra le forze cittadine. Tuttavia, il riassetto della politica cittadina – incentrato sull’armonizzazione dei rapporti tra parte popolare e magnati guelfi e ghibellini – e un piú robusto inserimento di Asti nella rete di relazioni regionali determinano un rovesciamento di fronte a danno degli Angiò, che vengono sconfitti. Si raggiunge in questo modo un nuovo equilibrio interno alla città, che consente di evitare gravi provvedimenti antimagnatizi e di ritardare fino all’anno 1300 il precipitare dei conflitti civili tra gli opposti schieramenti: come scrive il cronista Guglielmo Ventura (1250 circa-1325 circa), confrontando la situazione astigiana con quella delle città padane, «Astenses fuerunt ultimi ad maleficendum facta sua» («Gli Astesi furono gli ultimi a far andare a male la loro situazione [interna]»). Con l’aprirsi del XIV secolo, entra in gioco il sistema di alleanze regionali: i guelfi ottengono il sostegno di Filippo d’Acaia al quale erano legati da rapporti d’affari, mentre i ghibellini rafforzano i rapporti con i marchesi di Saluzzo e di Monferrato. Negli anni successivi, a causa degli scontri interni, si sarebbero alternati cacciate e rientri, con il seguito di distruzioni ai danni della parte avversa, di bandi e di confische: un quadro incerto entro il quale si delinea però la tendenza di ciascun contendente a costruire alleanze basate su una triangolazione tra il comune – ora guelfo ora ghibellino –, una forza regionale di riferimento e un alleato di piú elevato livello politico-militare. Il collegamento con una forza esterna di alto profilo – nel caso dei guelfi gli Angiò, e, per i ghibellini, l’imperatore – permette di alleggerire la pressione dell’alleato piú «vicino» e pericoloso per la libertà comunale – gli Acaia o altri dinasti regionali –, assicurando il mantenimento di una sostanziale autonomia delle strutture politiche cittadine. Su questo quadro conflittuale si innestarono nel 1309 l’intervento pacificatore di Enrico VII, l’alto Arrigo cantato da Dante, e, nel 1312, la dedizione agli Angiò, che peraltro assicurava al comune ampia autonomia: prevedeva, infatti, che il vicario angioino potesse essere astigiano e che i proventi fiscali fossero usati soltanto per spese di difesa della città; escludeva il controllo regio sulle vie d’acqua, la possibilità per il nuovo signore di imporre taglie, mutui o prestiti forzosi e interventi sugli statuti comunali. Trovavano rispo-

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Nella pagina accanto, dall’alto, in senso orario un’immagine del corteo storico in occasione del Palio svoltosi nel 1934; il manifesto del Palio ideato dal maestro Emanuele Luzzati nel 1967; un’altra immagine del corteo storico, in questo caso riferibile all’edizione del 1933.

sta poi gli interessi mercantili degli Astigiani che erano esentati da ogni pedaggio, gabella e teloneo (dazi in denaro o natura che colpivano l’entrata e la circolazione dei prodotti e delle merci destinate al consumo, e il consumo stesso, n.d.r.) entro il regno angioino e tutelati dagli Angiò nei confronti del conte di Savoia, di Filippo di Acaia e del delfino di Vienne.

Sotto gli Orléans

Nel primi decenni del Trecento si stratificano le frizioni tra guelfi e ghibellini, all’origine di successive dedizioni della città, quali il passaggio al marchese di Monferrato nel 1339 e l’analoga operazione che nel 1342 condusse al predominio dei Visconti. È possibile riconoscere un momento di snodo nel 1379, in occasione di una nuova dedizione ai Visconti che – a differenza delle precedenti legate all’iniziativa ora dell’una ora dell’altra pars – nasce dall’accordo tra i membri della classe dirigente cittadina. I vertici astigiani, popolari, guelfi e ghibellini, in effetti, ritrovano una solidarietà interna che consente di convogliare nella dedizione robuste pretese di autonomia. Una gestione negoziata, destinata a costituire la base per la fedeltà che sette anni piú tardi, nel 1386, gli Astigiani avrebbero prestato a Valentina, figlia di Gian Galeazzo Visconti, e allo sposo Ludovico di Touraine (dal 1391 duca d’Orléans), in occasione del trasferimento della città e del contado alla dinastia francese come dote di Valentina. L’esito è rappresentato da una convergenza tra la città e la dinastia orleanese, destinata a durare fino al 1529 e che già nella fase tardo-trecentesca origina una efficace interazione sul piano imprenditoriale. Lo dimostra una rilevante impresa realizzata da esponenti di spicco della società cittadina e dagli Orléans: lo scavo di un canale al fine di alimentare opifici e mulini intorno alla città. Il progetto fu attuato costituendo nel 1397 una vera e propria società per azioni, denominata Società del Moleggio, le cui quote, inizialmente divise tra il sovrano e membri della classe dirigente urbana, nel 1416 furono interamente riscattate da investitori astigiani. Mezzo secolo piú tardi, la vedova di Carlo d’Orléans, Maria di Clèves, promosse l’istituzione di due fiere annuali, inserite nei circuiti internazionali, per le quali nel 1495 sorse un apposito quartiere «fieristico» nel centro politico ed economico della città. L’efficacia di una prassi di compartecipazione politica tra dominante ed élite astigiana è suggerita dal verso marzo

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il palio

Un rito collettivo «Gli Astesi vennero ad Alba (…) e vicino alle loro porte il Palio di Asti fu corso come era solito accadere in Asti nella festa del beato Secondo e questo avvenne nella festa del beato Lorenzo. Anno del Signore 1275» (dal Memoriale del cronista Guglielmo Ventura, che tratta dei fatti accaduti dal 1260 al 1324). A partire da questa prima attestazione, il Palio di Asti – che in origine rimanda alla cultura cortese e cavalleresca della classe dominante astese nel Medioevo e ne esalta le ambizioni aristocratiche – ha accompagnato il divenire storico della città, mantenendo però inalterati i propri caratteri originali: il fascino della competizione, la passione partigiana, il rapporto con il santo patrono e la valenza identitaria. Il Palio è Asti che si riconosce ogni anno, da secoli, nella corsa dei cavalli, nelle emozioni dei partecipanti, nel fascino di un antico rito collettivo. L’anno paliesco ha avvio durante le feste patronali di maggio con la cerimonia della Stima secondo gli antichi riti: tre mercanti di stoffe verificano che i drappi del Palio, uno per la corsa e l’altro per la chiesa del patrono S. Secondo, «siano della bontà, misura e qualità solite». La settimana successiva piazza San Secondo, cuore della città, è teatro del Palio degli Sbandieratori, una vibrante sfida tra musici e sbandieratori dei 21 rioni, borghi e comuni partecipanti al Palio. Poi, la prima domenica di settembre, il Palio, la corsa a cui la città si prepara da un anno: stendardi e bandiere sventolano l’orgoglio di un’appartenenza, mentre cene propiziatrici, mercatini tipici, iscrizione dei fantini, sfilata dei bambini, prove in pista non fanno che accrescere l’emozione... Infine, il corteo storico, testimonianza viva del Medioevo astese, maestoso e fiero nel suo incedere per le vie e, a seguire, la corsa… 21 cavalli montati a pelo dai fantini: rioni, borghi e comuni di Asti a contendersi la vittoria… senza esclusione di colpi. Tre batterie da 7 partecipanti e una finale a 9. Una partenza per allineamento al canapo, un mossiere a regolarla, il Capitano del Palio a vigilare sulla corsa… e, in pochi secondi, tutto si compie: chi vince, festeggia issando in alto il palio, chi perde, prepara la riscossa. Barbara Molina

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storie asti Sulle due pagine immagini di repertorio del Palio di Asti.

encomiastico «melior Princeps nullus in Orbe viget» («non esiste al mondo un principe migliore») che il poeta quattrocentesco Antonio Astesano riferisce all’Orléans; in effetti anche a cavaliere dei secoli XV e XVI, Asti si mantenne fedele alla causa francese nonostante le alterne vicende delle Guerre d’Italia, al punto che nel 1512 un cronista saluzzese descrive i gentiluomini astigiani come «boni fransosi», legati cioè alla Francia al punto da preferire «perdere il loro che renegare el re». Senza dubbio la posizione strategica della città, che costituiva un baluardo francese in terra italiana, determinò però una crescente condizione di instabilità, fino a quando nel 1529, con il trattato di Cambrai, Asti e il territorio passarono all’imperatore Carlo V, per essere da questi donati nel 1531 a Beatrice di Portogallo, moglie di Carlo III di Savoia: come osservava alla fine del Seicento Emanuele Tesauro, rappresentante della storiografia sabauda ufficiale, in tal modo, dopo «varie sfortune, la felice fortuna [aveva fatto sí] che questa città riposasse finalmente sotto l’ombra della Real Casa di Savoia». Dal 1318 esiste nel cuore di Londra, l’attuale City, una famosa Lombard Street e strade dedicate ai Lom-

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bardi sono conosciute in molte città d’Europa. In effetti i «Lombardi» rappresentano un peculiare gruppo di uomini d’affari provenienti dall’Italia settentrionale, e in particolare dall’Astigiano, la cui attività si è diffusa capillarmente tra XIII e XVII secolo. La loro denominazione, inizialmente legata al fatto che nel Medioevo l’Italia nord-occidentale era individuata come Lombardia, ha assunto nel tempo il significato tecnico di una specifica professionalità finanziaria. A riprova della robustezza economica acquisita nel tempo da Asti, va ricordato che la città riceve da Corrado III il privilegio di battere moneta fin dal 1141, appena tre anni dopo l’analoga concessione attribuita a Genova.

Al servizio dell’impero e del papato

Per quanto riguarda gli Astigiani, intorno agli anni venti del Duecento, la tradizionale attività commerciale di ampio raggio – testimoniata dai rapporti con i mercanti genovesi e dalle presenze alle fiere di Champagne – evolve nel sistematico esercizio del credito in gran parte d’Europa, dalla penisola iberica, alle aree francese, elvetica e tedesca, alle isole britanniche, fimarzo

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no al settore compreso tra Jutland e Norvegia. Una rete estesa, in grado di agire a vari livelli, dal credito al consumo, a incarichi finanziari e fiduciari al servizio dell’impero, del papato – dopo il fallimento nel pieno Trecento delle compagnie toscane dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaioli – e dei sovrani d’Inghilterra, delle Fiandre, d’Aragona. Inizialmente, intorno agli anni Venti-Trenta del XIII secolo, l’attività dei Lombardi pare circoscritta ai banchi di pegno autorizzati dai sovrani di Francia o di Borgogna, ma nel volgere di qualche decennio, si determina un inserimento nelle relazioni creditizie e mercantili tra l’Europa continentale – in particolare l’area fiamminga – e l’Inghilterra. In questo settore i Lombardi astigiani operano al servizio delle intraprendenti economie urbane dal principio del Trecento in qualità di prestatori e di appaltatori delle imposte, per poi assumere dal corso del XIV secolo posizioni rilevanti nel governo dell’economia dell’area, ruoli che ne determinano il progressivo coinvolgimento nelle contrapposizioni politiche, come dimostra la vicenda di Giovanni Mirabello, tesoriere del duca di Brabante,

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e del figlio Simone, tesoriere e cognato del conte di Fiandra, cui sarebbe succeduto come reggente. Il protrarsi per oltre 400 anni della presenza dei Lombardi è da collegarsi alle peculiari modalità di funzionamento dei loro banchi: in genere autonomi gli uni dagli altri – a differenza di quelli toscani –, proprio grazie all’assenza della strutturazione in filiali dipendenti da una casa madre vantavano una maggiore elasticità nel funzionamento cosí che, in caso di crisi o fallimenti, le ricadute non si ripercuotevano sull’intera rete, la cui estensione garantiva peraltro una forte solidarietà tra operatori. L’attività dei finanzieri di origine subalpina – ora accusati di pratiche creditizie ai limiti del lecito, ora ritenuti necessario sostegno per le comunità e per le iniziative commerciali – è peraltro contraddistinta non solo dalla diffusione, ma anche dalla lunga continuità: tra alterne vicende e in genere senza mai perdere i contatti con la madrepatria, i Lombardi vissero la stagione piú durevole nei Paesi Bassi, ove la loro operatività fu soppiantata solo nei primi decenni del Seicento dalla nascita dei monti di pietà.

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luca signorelli in umbria/1

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Un’Umbria indimenticabile di Caterina Fioravanti

Il cortonese Luca Signorelli ha lasciato i suoi capolavori piú celebri nel «cuore verde d’Italia»: dai possenti affreschi della Cappella Nova (o di S. Brizio) nel Duomo di Orvieto alle straordinarie opere conservate nell’Alta Valle del Tevere, da Città di Castello a Montone, fino a Umbertide, Morra e Citerna. Proponiamo dunque, nel cinquecentenario della morte, un viaggio alla riscoperta di un maestro fra i piú grandi della pittura italiana

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Dannati all’Inferno, scena facente parte del ciclo avente per tema il Giudizio Universale affrescato da Luca Signorelli nella Cappella Nova (o «di S. Brizio») del Duomo di Orvieto. 1499-1502.

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uando nel 1897 Sigmund Freud giunse a Orvieto durante il suo primo viaggio in Italia, rimase folgorato alla vista del grandioso Giudizio Universale dipinto da Luca Signorelli nella Cappella Nova (o di S. Brizio) del Duomo, tanto da definirlo «la cosa piú fantastica che abbia mai visto» (vedi foto in queste pagine). In un suo saggio pubblicato l’anno seguente (Il Meccanismo Fisico della Smemoratezza) rivelava tuttavia come per lungo tempo non gli fosse stato possibile in alcun modo ricordare il nome dell’autore degli affreschi orvietani, nonostante potesse rievocare le immagini impresse nella memoria con grande suggestione e descriverne accuratamente ogni particolare. La vicenda divenne poi un tema centrale nella ricerca psicanalitica di Freud, in relazione al meccanismo di rimozione della mente umana, divenuto poi noto con il nome di «Paraprassi di Signorelli».

Ancora oggi chi varca la soglia della Cappella Nova vede spalancarsi tutte intorno le pareti della grande scenografia signorelliana, in cui prende vita quella drammatica visione apocalittica, elevata sin dagli esordi a opera fondamentale per ripercorrere le tappe fondamentali della pittura rinascimentale. Non solo il ciclo orvietano aveva consacrato la fama di Luca Signorelli ponendolo alla ribalta della scena artistica in Italia centrale, ma, da quel momento, legava indissolubilmente il suo nome all’Umbria, tanto che per lungo tempo anche la critica lo credette davvero nativo di quelle terre. Di certo l’equivoco poteva essere giustificato dall’intensa attività del pittore in molti luoghi della regione e ben prima dell’esperienza a Orvieto. Dalla natia Cortona, Signorelli, dopo aver avviato il suo apprendistato con Piero della Francesca, aveva infatti iniziato a

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luca signorelli in umbria/1 LE DATE DA RICORDARE 1450 Luca Signorelli nasce a Cortona (Arezzo) nel territorio allora governato dalla Repubblica di Firenze. 1470 Si sposa con Gallizia di Piero Carnesecchi. 1474 A Città di Castello realizza la sua prima opera: è una Maestà tra i Santi. Dell’affresco è rimasta una traccia in alcuni frammenti staccati, tra cui il San Paolo, oggi conservato nella Pinacoteca Comunale della città umbra. 1479 Viene eletto nel Consiglio dei Diciotto a Cortona. 1482 A Roma, nella Cappella Sistina, dipinge il Testamento e morte di Mosè e le scene della Disputa sul corpo di Mosè. 1484 Firma la sua prima opera: una Flagellazione sul verso dello Stendardo di Fabriano (ora a Milano nella Pinacoteca di Brera). 1484 Dipinge a Perugia la Pala di Sant’Onofrio, conservata nel Museo del Capitolo della Cattedrale di San Lorenzo. 1484 Realizza la Natività di Giovanni Battista, ora al Museo del Louvre. 1486 Dipinge il Gonfalone per la confraternita di Santa Maria di Città di Castello (l’opera è andata perduta). Nello stesso anno lavora a Roma alla Madonna col Bambino e i santi. 1488 Riceve la cittadinanza onoraria di Città di Castello. A Siena realizza la Pala Bichi. 1490 A Firenze entra in contatto con gli artisti della Accademia voluta da Lorenzo il

muovere i suoi primi passi nell’Alta Valle del Tevere, dove con tutta probabilità, già nel 1474, si trovava impegnato nell’esecuzione di alcuni affreschi nella Torre del Vescovo di Città di Castello (ora nella Pinacoteca Comunale). Fu però solo dopo la gloriosa esperienza nel completamento degli affreschi nella Cappella Sistina (1482) e nel cantiere della basilica di S. Maria a Loreto (1483-1485 circa) che Signorelli tornò sovente a lavorare in Umbria, dove gli vennero affidate numerose commissioni a partire dall’ultimo quin-

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Magnifico e crea il Regno di Pan (distrutto durante la seconda guerra mondiale) la Circoncisione (ora alla National Gallery) e una Madonna con Bambino (Alte Pinakothek di Monaco di Baviera). 1491 A Volterra dipinge la maestosa Annunciazione e la Vergine in trono e santi. 1492 A Firenze realizza la Sacra famiglia con una santa e la Madonna con Bambino, San Giovannino e un pastore. 1494 Insieme ai pittori della sua bottega dipinge a Città di Castello l’Adorazione dei Magi (oggi al Louvre). A Loreto (Ancona) realizza un ciclo di Profeti nella navata centrale della basilica della Santa casa. 1495 A Città di Castello dipinge il Gonfalone di San Giovanni Battista. 1496 Nella chiesa di S. Francesco di Città di Castello, insieme ad altri artisti della sua bottega, realizza l’Adorazione dei pastori, un dipinto a olio su tavola trasportato su tela che oggi è conservato presso la National Gallery di Londra. 1497 Inizia a lavorare ad alcuni affreschi (poi completati dal Sodoma) nel chiostro dell’abbazia di Monteoliveto Maggiore (Siena). 1498 A Città di Castello dipinge il Martirio di San Sebastiano, ora conservato nella Pinacoteca Comunale della città umbra. 1499-1504 Realizza il grande ciclo affrescato del Giudizio Universale nella Cappella di S. Brizio del Duomo di Orvieto.

dicennio del Quattrocento: oltre a Perugia, dove nel 1484 eseguí la stupefacente Pala di Sant’Onofrio (vedi foto a p. 50), si trovano testimonianze del suo passaggio nei comuni di Città di Castello, Umbertide, Citerna, Monte Santa Maria Tiberina e Montone.

Tutti lo vogliono

Il centro tifernate – che nel 1488 gli aveva conferito la cittadinanza – divenne una delle piazze privilegiate della sua attività, distante poco meno di trenta chilometri da Cortona e dunque strategico

punto di approdo che gli permise di affermarsi come pittore di riferimento nel territorio. Grazie soprattutto alla benevolenza e alla protezione dei Vitelli, tra il 1493 e il 1498 Signorelli divenne l’artista piú richiesto dalle ricche famiglie di Città di Castello che quasi esclusivamente a lui affidarono l’ampio programma di rinnovamento degli altari delle chiese cittadine. Di queste opere, quasi tutte migrate all’estero, restano il gonfalone di San Giovanni Battista (1495), il Martirio di San Sebastiano (1498 circa; vedi foto a p. 48) e la piú tarda marzo

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Pesaro

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Monte Santa Maria Tiberina Vitiano Castiglion Fiorentino Siena Lucignano

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Montepulciano Paciano

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Spoleto

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Orbetello

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Orvieto Lago di Bolsena

Loreto

Assisi

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Città della Pieve

Jesi

Fabriano Matelica

Cortona

Lago Perugia Trasimeno

Grosseto

Arcevia

L’Aquila

Viterbo Tarquinia

LAZIO

MAR TIRRENO

Avezzano

Roma

1502 Perde il figlio Antonio a causa della peste che flagella Cortona. Nella sua città realizza il Compianto sul Cristo morto. Inizia a dipingere anche il Cristo in croce e Maria Maddalena (ora agli Uffizi) e lo Stendardo della Crocifissione (oggi al Museo civico di Sansepolcro). 1507-1510 Nell’oratorio di S. Crescentino a Morra realizza alcuni affreschi ispirati al tema della Passione di Cristo. 1507 A Rocca Contrada (oggi Arcevia, in provincia di Ancona) realizza un grandioso Polittico.

Pala di Santa Cecilia (1516; vedi foto a p. 49), ora conservati nella ricca Pinacoteca Comunale. Ancora, tra il 1507 e il 1510 a lui si rivolse anche la locale Confraternita di San Crescentino a Morra – paesino della valle del Nestore, a metà strada tra Cortona e Città di Castello – per affrescare gli ambienti dell’omonimo oratorio. Pur se nell’esecuzione del ciclo ebbe gran parte la bottega, la mano del maestro ben si riconosce nella Flagellazione che recupera l’invenzione giovanile dell’omonimo soggetto nella pala dipinta per Fabriano

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In alto cartina nella quale sono indicati i luoghi di Luca Signorelli. A destra Autoritratto di Luca Signorelli e ritratto di ser Niccolò di Angelo (Franchi), affresco su lastra in laterizio attribuito a Luca Signorelli. 1504 circa. Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo.

1508 Dipinge il Battesimo di Cristo per la Fraternità del Crocifisso di Rocca Contrada. 1511 A Citerna, insieme a un artista della sua bottega, Tommaso Bernabei detto il Papacello, Luca Signorelli realizza l’affresco Vergine con Bambino tra i santi Michele Arcangelo e San Bernardino da Siena. 1512 A Cortona dipinge la Comunione degli Apostoli. 1515 Realizza a Montone la Madonna con Bambino e Santi (l’opera è conservata alla National Gallery di Londra). 1516 A Città di Castello dipinge la gigantesca Pala di Santa Cecilia. Nella vicina Umbertide realizza la Deposizione per la chiesa di Santa Croce. 1517 Per i frati minori osservanti dipinge la Pala di Paciano ora conservata alla Galleria Nazionale dell’Umbria. 1519 Per la Confraternita di San Girolamo ad Arezzo realizza la sua ultima opera nota: una Madonna col Bambino e santi. 1523 Muore a Cortona, il 16 ottobre.

«Michelagnolo imitò l’andar di Luca, come può vedere ognuno» (Giorgio Vasari, Vite) 47


luca signorelli in umbria/1 «Il Cielo si allargò molto in dargli delle sue grazie» (Giorgio Vasari, Vite)

A sinistra Martirio di san Sebastiano, olio su tavola di Luca Signorelli. 1498 circa. Città di Castello, Pinacoteca Comunale. Nella pagina accanto Pala di Santa Cecilia, olio su tavola di Luca Signorelli. 1516. Città di Castello, Pinacoteca Comunale.

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luca signorelli in umbria/1 Pala di Sant’Onofrio (Pala Vagnucci), olio su tela di Luca Signorelli. 1483-1484. Perugia, Museo del Capitolo della Cattedrale di San Lorenzo. Nella pagina accanto Vergine col Bambino e i santi Sebastiano, Cristina, Girolamo e Nicola di Bari e due angeli, olio su tavola di Luca Signorelli. 1515. Londra, National Gallery.

«Luca Signorelli, de ingegno et spirto pelegrino» (Giovanni Santi, pittore, padre di Raffaello) 50

(1482-1485) oggi nella Pinacoteca di Brera a Milano. La natura intensa ed estesa dell’impegno di Signorelli nel territorio tifernate fu inoltre un fertile terreno su cui germogliò il giovane Raffaello, giunto a Città di Castello allo schiudersi del secolo, il quale si ritrovò a ricoprire il ruolo e le committenze lasciate del Cortonese allora occupato nel cantiere di Orvieto (1499-1504). Tra il 1515 e il 1517 Signorelli dipinse poi alcune grandi pale

d’altare per le chiese di Montone, Umbertide (anticamente denominata Fratta), ancora Città di Castello e Paciano, oltre a un affresco a Citerna. Fatta eccezione per la Pala di Paciano (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria) tutte le chiese committenti rientravano nella cosiddetta «custodia castellana» dei conventuali francescani nell’Alta Valle del Tevere, con sede nella chiesa di S. Francesco a Città di Castello, per cui nell’ultimo decennio marzo

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«Destò l’animo a tutti quelli che sono stati dopo di lui» (Giorgio Vasari, Vite) Adorazione dei pastori, olio su tavola di Luca Signorelli. 1496 circa. Londra, National Gallery.

del Quattrocento Signorelli aveva già eseguito l’Adorazione dei pastori, oggi alla National Gallery di Londra (vedi foto in queste pagine). Nella chiesa di S. Francesco a Montone dipinse una pala raffigurante la Vergine con Bambino e Santi (vedi foto a p. 51), anch’essa ora nel museo londinese, commissionata dal medico francese Louis de Rodez, che a lungo aveva lavorato tra Città di Castello e Perugia prima di stabilirsi proprio a Montone, dove aveva sposato la moglie Tommasina. L’iscrizione sul cartiglio in primo piano serba memoria del nome del committente e della consorte, al quale Signorelli mostrava riconoscenza non solo per aver ottenuto l’incarico ma anche per i servizi prestati come medico al pittore e ai suoi familiari.

L’ultimo capolavoro

Invece l’Umbria custodisce ancora la grande Deposizione dipinta dal cortonese per la Confraternita di Santa Croce di Fratta nel 1516, che campeggia sull’altare maggiore della chiesa di S. Croce a Umbertide (vedi foto alle pp. 5455). È questo forse l’ultimo grande capolavoro autografo del maestro, dove torna a vivere lo spirito premichelangiolesco delle scene di Orvieto con i potenti effetti di chiaroscuro nel corpo livido del Cristo schiodato dalla Croce e immerso in un paesaggio arso nel torrido tramonto del cielo. Se il cantiere orvietano di inizio secolo aveva collocato Signorelli, all’apice della sua carriera, in un olimpo luminoso già celebrato dai contemporanei anche per aver precorso cicli di rango come gli affreschi di Raffaello nella Stan-

za della Segnatura o quelli di Michelangelo nella Cappella Sistina, parimenti la fama dell’artista finí presto per soccombere, oscurata proprio dall’ombra di quei grandi maestri. A poco valsero, infatti, i suoi viaggi verso Firenze e Roma nel tentativo di procurarsi nuovi incarichi dopo il reinsediamento dei Medici nel 1512 e l’elezione al soglio di Pietro di papa Leone X, figlio di Lorenzo «il Magnifico»: la grande committenza aveva puntato gli occhi altrove e Signorelli si avviava verso il viale del tramonto. Ormai tagliato fuori dalla scena internazionale, la sua sfera di influenza iniziò a contrarsi progressivamente a Cortona e dintorni, ma quell’oasi felice nelle colline tra Toscana e Umbria continuò a essere fonte di numerose commissioni che lo impegnarono nell’ultimo periodo della sua vita. Da quel momento la fucina di Signorelli diede vita a un vasto fenomeno di derivazione, consolidatosi con l’attività della sua bottega e dei molti imitatori che lavorarono sul solco della cifra signorelliana, quella che ormai gran parte della committenza locale continuava a ricercare anche dopo la sua morte richiedendo opere che ben ne esemplassero il gusto. Questa perpetuazione dello stile del maestro mediante un largo reimpiego di modelli ben riconoscibili, spesso anche troppo standardizzati, in un cospicuo nucleo di opere sparse tra Cortona e l’Alta Valle del Tevere, incise significativamente nella formulazione di un giudizio severo da parte della critica verso l’intera opera di Signorelli, tanto da declassarlo a un ambito strettamente provinciale e di scarso interesse. Se a lungo la diffusa ostilità nei suoi confronti non giovò di certo alla fama del pittore, ciò non impedí, fortunatamente, anche una progressiva e doverosa riabilitazione, a partire dalla monografia dello storico dell’arte Pietro Scar-

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luca signorelli in umbria/1

Sulle due pagine Deposizione dalla Croce, olio su tavola di Luca Signorelli. 1517. Umbertide, chiesa di S. Croce. In alto e nella pagina accanto, in basso, due particolari della predella: La regina di Saba inginocchiata in preghiera davanti alla Vera Croce e l’entrata trionfale della Croce a Gerusalemme e Sogno di Costantino e Sconfitta di Massenzio.

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pellini, pubblicata nel 1964 e dai successivi contributi di molti studiosi anglosassoni fino alla grande mostra monografica a lui dedicata in Umbria nel 2012, che hanno saputo risarcire Signorelli del suo ruolo fondamentale nello sviluppo dell’arte rinascimentale italiana. Si è cosí fatto luce sul temperamento ondivago di un artista capace di alternare momenti di tensione drammatica a un certo lirismo, pur tenendo conto del largo apporto nella fase piú tarda della sua discendenza artistica che in piú occasioni ne ha vincolato la percezione a una sbiadita caricatura. Ecco allora riemergere di nuovo con forza lo stile «impetuoso e tragico» (come lo definí Adolfo Venturi) che sedusse Michelangelo, riverberato nel vigore cromatico e negli scorci marcati degli intrecci dei nudi a rendere quasi acre il sapore di certe invenzioni che ribollivano dal crogiolo in cui si erano fuse tutte le esperienze di Signorelli: dalla formazione pierfrancescana, attraverso le tensioni lineari di Pollaiolo e Verrocchio fino a certe suggestioni minerali della pittura ferrarese. È il profilo di un artista che, come ha ben

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«Et fu onorato da’ poeti con molti versi» (Giorgio Vasari, Vite) rilevato Scarpellini, va compreso in quel suo spirito forse piú affine alla futura generazione manierista, se non addirittura a quella dei primi romantici – si pensi alle atmosfere solferine dei monocromi orvietani, quasi a prefigurare certi esiti di Füssli e Blake – che non a quella dei suoi contemporanei «senza macchia e senza paura». Nel cinquecentenario della sua morte l’Umbria inaugura le celebrazioni signorelliane e invita a riscoprire i luoghi del pittore in un percorso che si snoda tra le colline dell’Alta Valle del Tevere, passando per Perugia fino alla Cappella Nova nel Duomo di Orvieto. Si arricchisce dunque il calendario di un

2023 ricco di appuntamenti per la regione, che in questo stesso anno inoltre commemora l’anniversario della morte di Perugino, celebrato dalla mostra «“Il meglio maestro d’Italia”. Perugino nel suo tempo», appena inaugurata nella Galleria Nazionale dell’Umbria (vedi alle pp. 8-10). L’iniziativa testimonia l’impegno nel valorizzare l’opera di Luca Signorelli all’interno del patrimonio culturale umbro, grazie alla collaborazione tra privati e istituzioni pubbliche, e preme con forza affinché il suo nome non rischi di rimanere ancora una volta troppo oscurato dalla fama di contemporanei altrettanto illustri. Ora non c’è paraprassi che tenga.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/2

Medici o praticoni ? p

di Corrado Occhipinti Confalonieri

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Come già Giovanni Boccaccio nel Decameron, anche Franco Sacchetti dedica pagine salaci ai dottori. Gli epigoni (presunti) di Ippocrate e Galeno danno prova della approssimazione e della faciloneria con le quali si ingegnano per curare ogni tipo di malanno, escogitando «terapie» singolari quando non addirittura fatali. C’era solo da sperare, insomma, di non dover ricorrere all’intervento di questi luminari...

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Miniatura raffigurante l’assistenza prestata a pazienti e pellegrini in un ospedale medievale, da un’edizione del Canone redatto dal filosofo, medico e letterato persiano Avicenna contenuta nel Ms Gaddi 24. Seconda metà del XV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

S

ebbene si definisca nel Proemio delle Trecentonovelle uomo «discolo e grosso [privo di educazione letteraria e rozzo]», Franco Sacchetti compone la sua opera all’apice di una carriera durata cinquant’anni, durante la quale lo scrittore fiorentino è stato mercante, amministratore pubblico, uomo politico e attento osservatore della società del Trecento. Un aspetto che emerge nelle novelle di cui sono protagoniste le classi sociali cittadine, come quella dei medici. Dino del Garbo (novella CLV) è un medico famoso non solo a Firenze, ma in tutta Italia, anche per aver scritto in latino una interpretazione della canzone di Guido Cavalcanti Donna me prega, in cui dimostra la sua preparazione scientifica nel descrivere gli effetti fisiologici dell’amore. Alla sua morte, avvenuta nel 1327, «molti medici da torno (…) corsono a Firenze; e tali che, non che sapesseno medicina, non arebbon saputo trovare il polso alle gualchiere [non avrebbero saputo sentire il ritmo dei colpi delle gualchiere, rumorosissimi battipali ad acqua per rassodare i tessuti]». Fra questi medici fanfaroni incontriamo Gabbadeo da Prato: «Antico [anziano] e assai grosso [ignorante] di quella scienza, il quale sempre portava una foggia [cappello] altissima, con un becchetto corto da lato e largo che vi serebbe entrato mezzo staio di grano [unità di misura, lo staio corrisponde a 24,36 litri], e con due batoli [falde pendenti ai lati del viso] dinanzi che pareano due sugnacci [strisce di grasso di maiale] di porco affumicati».

Ci vuole un cavallo

Il medico pratese guadagna assai poco, cosicché un amico gli consiglia di trasferirsi a Firenze e prendere il posto di Dino del Garbo, perché «stando voi qui, vi starete sempre tra due soldi e ventiquattro danari [nelle stesse condizioni, perché due soldi equivalgono a ventiquattro denari], e non si conoscerebbe la vostra virtú [capacità professionale]». All’inizio Gabbadeo è titubante, perché dovrebbe procurarsi un cavallo, un fante e rinnovare le sue fodere di vaio, le pellicce di un tipo di scoiattolo che ornavano veste e cappello dei medici che, secondo lui, per la piccola Prato erano ancora dignitose. In realtà «questi suoi ornamenti, non ragionando de’ panni lani, ma vai e foderi, erano sí pelati

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il trecentonovelle di franco sacchetti/2 che non è niun pellicciaio che avesse potuto conoscer di che bestie fusson fatte quelle pelli». Il medico si consulta con la moglie, la quale si mostra «volenterosa che ’l marito uscisse da mendicume» e gli dice: «Marito mio, chi ti consiglia di questo non ti vuol male; non istate a badea [non esitate]; pigliàtene partito il piú tosto che potete; e io ci voglio mettere un orlo di vaio che io ho alla mia guarnacca [giaccone invernale] (...); e se non basterà, torrò anche i manicottoli e con quello t’acconcerò i batoli de’ vostri tabarri e leveronne quei pelati che vi sono». Da questo passaggio notiamo come fosse misero Gabbadeo, costretto a riciclare gli accessori della moglie. Il ricco vestiario consentiva ai medici medievali di non passare inosservati come ricorda Giovanni Boccaccio: «Co’ panni lunghi e larghi e con gli scarlatti e co’ vai e con altre assai apparenze grandissime» (Decameron, giornata VIII, novella 9). La veste scarlatta era caratteristica di chi aveva un titolo dottorale: i «panni lunghi e larghi» si riferiscono alla guarnacca, l’ampia sopravveste che si indossava sopra la veste, chiamata gonnella. Quell’abbigliamento indicava anche dove questi professionisti avevano studiato: la vicina Bologna, perché solo nel 1349 entrò in funzione l’università fiorentina. Sistemato il guardaroba, Gabbadeo si reca a Firenze, trova alloggio presso un parente e usa la bottega di uno speziale come ambulatorio. Acquista «per fiorini dieci a termine di un mese [con pagamento differito di un mese]» un «poltracchio [puledro pauroso]»

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e una «posolatura [bardatura per cavalli] dorata». È cosí pronto per sostare a cavallo in piazza del Mercato Vecchio in attesa di pazienti, davanti alla bottega dello speziale in cui vengono preparate le medicine. Dopo un po’ che aspetta, «gli fu posto un orinale in mano, il quale era d’una donna inferma che stava in Torcicoda [via periferica, presso S. Croce]».

Analisi empiriche

Nel Medioevo il medico emetteva la diagnosi studiando le orine e tastando il polso del malato. «Avendo tratto l’orinale dalla cassa il maestro Gabbadeo, e stando sul poltracchio attento a procurare [esaminare] l’orina, uno portatore venía di rincontro con un porco in capo; come il poltracchio vede il detto porco, comincia a soffiare e averne paura per sí fatta forma che comincia a fuggire. Il medico non lasciando l’orinale, s’ingegnava di ritenere il cavallo». Lo speziale e la gente intorno gridano di trattenere il cavallo che «levava [correva a gran carriera] quanto potea; e mai per questo il medico non lasciò l’orinale, ma, diguazzandosi di qua e di là, tutta l’orina gli andò sul cappuccio e sul viso e su la roba, e alcune zaffate nella bocca, e con tutto ciò non lo lasciò mai». Il cavallo galoppa in una strada in cui si trovano alcune botteghe di ferramenta con il medico ancora in sella e l’orinale in mano e «andando lungo una bottega di ferrovecchio ed essendo appiccato molte grattuge e romaiuoli [pentole di rame] e padelle e catene da fuoco,

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Miniatura raffigurante un medico che esamina l’addome di un paziente, da un’edizione manoscritta del Liber notabilium illustrissimi principis Philippi septimi... di Guido da Vigevano. 1345. Chantilly, Musée Condé.

Nella pagina accanto mortai e pestelli di epoca medievale.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/2

Miniatura raffigurante un paziente che mostra al medico il proprio piede malato, da un’edizione del Continens, traduzione in latino dell’al-Kitab al-Hawi, trattato del medico, filosofo e alchimista persiano Rhazes (forma latinizzata di Abu Bakr Muhammad ibn Zakariyya al-Razi). XIV sec. Parigi, Bibliothèque de la Sorbonne.

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dà [urta] tra queste masserizie e tutte le fece cadere; e la foggia del cappuccio essendo presa da una catena da fuoco, fece rimanere il cappuccio con tutto il vaio appiccato, che n’era ben fornito». Nell’età di Mezzo le botteghe cittadine erano molto piccole e la merce veniva esposta all’esterno. Spaventato dal rumore, il puledro corre ancora piú veloce e «brievemente, e’ l’averebbe rimenato a Prato, se non ch’e’ gabellieri, veggendolo venire, chiusono la porta; e ivi ristette il cavallo». I gabellieri avevano il compito di riscuotere i dazi e alla sera marzo

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Capolettera miniato raffigurante un monaco che esamina le urine di un paziente allettato, dal Messale realizzato da John Wats per l’abbazia di Sherborne, nel Dorset, e illustrato da John Siferwas. 1399-1407. Londra, British Library.

serravano le porte delle città. Gabbadeo accetta da loro un «cappuccio» in prestito, perché era disdicevole per un medico mostrarsi senza questo segno distintivo della professione, poi torna a casa a piedi tenendo il bizzoso puledro per le briglie. Vedendolo cosí conciato, il suo ospite gli chiede cosa sia successo e il medico gli spiega che «io credetti a un mio amico, che mi disse che io raddoppierei i denari se io comprasse uno poltracchio». L’amico gli dice che, in realtà, un cavallo giovane non è adatto a lui «essendo di tempo [attempato]», non ha quindi ricevuto un buon consiglio. Il giorno seguente l’amico va a recuperare il cappello di Gabbadeo rimasto attaccato alla catena da fuoco. Il fabbro chiede il risarcimento dei danni e l’amico gli promette che Gabbadeo lo pagherà un fiorino con i primi soldi guadagnati. Il medico torna cosí in possesso del suo cappuccio «che non valea trenta soldi [una lira e mezzo, cioè meno della metà di quanto aveva dovuto promettere al fabbro] (...) e sel mise in capo che ancora non era ben asciutto de l’orina». Poi vende il suo inaffidabile cavallo a due fiorini, la metà di quello che l’aveva pagato e acquista «un ronzino vecchio per fiorini otto, il quale assai cattivamente [senza grazia né eleganza] il portava». In quel periodo c’era carenza di medici a Firenze, cosí che Gabbadeo può risarcire in breve tempo il fabbro, e «con poca scienza, in sul ronzino vecchio, procacciando l’acque degli orinali sanza versarlesi a dosso, in pochi anni avanzò ben fiorini secento». Sacchetti mette qui in luce il degrado di una professione in cui la domanda è superiore all’offerta e per questo anche medici poco valenti riescono ad arricchirsi. Gabbadeo sfrutta questa inaspettata fortuna, perché a Prato era disposto anche a essere pagato in natura pur di avere pazienti. Come quando aveva curato in maniera poco ortodossa un contadino (CLXVIII).

Mezzo sordo per una fava

Atticciato sta battendo le fave sull’aia per sgusciarle, come sempre capita nel mese di luglio, ma «ne venne schizzato una ne l’orecchia e volendosela cavare con sue dita grosse, quanto piú s’ ingegnava di trarla, piú la ficcava in entro; tanto che per viva forza convenne che ricorresse al maestro Gabbadeo». Dopo la visita, il medico «grande e atante nella persona [forte]» gli dice: «Qui vuole essere uno

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partito che benché ti dolga non te ne caglia [che non te ne deve importare se ti fa male]». Atticciato gli risponde di procedere «allora il maestro (...) facendo vista di guardare ora l’una orecchia e ora l’altra, prese tempo e lascia andare e dà uno grandissimo punzone [schiaffone] a costui da l’altra parte, dove la fava non era, per sí fatta forma che costui cadde in terra dalla parte dove era la fava; e tra per lo pugno e per la percossa in terra, la fava uscí fuori de l’orecchia». Atticciato è a terra che si lamenta del pugno ricevuto e non pensa piú alla fava, Gabbadeo lo visita e gli dice: «O sciocco, non sai tu che quando t’entra alcuna cosa nella guaina del coltellino, che tu la volgi e tanto picchi

ch’ella n’esce? Cosí mi convenne fare di te, che mi convenne dare il colpo da l’altra parte, acciò che quella orecchia che avea la fava percotisse in terra, e cosí n’è uscita. Altri medici t’averebbono tenuto un mese impiastri, e serebbene andato [avresti perso] tutta la ricolta tua. Va’ e procaccia di fare bene; e quando ti verrà fatto e rechera’mi un paio di capponi». In questo passaggio notiamo come Gabbadeo non si faccia scrupoli a criticare i colleghi medici che ritiene avidi e, pur di tenersi il povero paziente, gli chiede come parcella solo due capponi. «Quelli si raconsolò [consolò], ché avea paura che non si volesse pagare piú agramente [a un prezzo maggiore, piú difficile da pagare], oltre averli dato delle busse». Atticciato non ha capponi, gli propone un paio di paperi; Gabbadeo li accetta volentieri e gli ricorda: «e se nella villa tua [villaggio] avvenisse che nessuno avesse alcun male, racconta la bella sperienza che io t’ho fatta e avialo a me». Per alcuni giorni Atticciato ha un gran dolore per la percossa e non riesce neanche a battere le fave; quando guarisce, porta come promesso i paperi a Gabbadeo, gli fa pubblicità e diventa suo amico. Dopo aver fatto fortuna a Firenze, Gabba-

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il trecentonovelle di franco sacchetti/2 deo, ormai anziano, muore e si fa seppellire «portando ’l libro sul corpo suo nella bara, come se fosse stato Ipocras o Galieno [finendo sepolto col suo libro di medicina sul petto, in segno di onore, come se fosse stato Ippocrate o Galeno, i piú famosi medici dell’antichità]».

Il re dei buffoni

I medici come Gabbadeo sono vittime dei lazzi e degli sberleffi di Dolcibene de’ Tori, vissuto nella seconda metà del Trecento. Dolcibene è uomo di corte, buffone, musicista e poeta notissimo ai suoi tempi per la sua scherzosa incoronazione a re dei buffoni per opera di Carlo di Boemia nel 1355. Il giullare (CLVI) parte da Firenze per recarsi a corte dell’imperatore in Lombardia. Giunge una sera tardi a Ferrara, dove sosta anche Carlo di Boemia e «per la gran quantità di gente che avea seco, aveva preso tutte le stanze e gli alberghi, dentro in Ferrara e di fuori parecchie miglia; onde convenne che, ’l detto messer Dolcibene, senza trovare alloggiamento (...) uscí fuori e tenne la via verso Francolino [sobborgo presso il Po]; e domandando di casa in casa dove potesse stare, andò parecchie miglia e infine s’abatté a una casa di qua del Ponte al Lago Scuro [Pontelagoscuro, a nord della città, sul fiume]». Nel Medioevo le locande non disponevano di camere singole e gli ospiti condividevano lo stesso letto; quando lo spazio non bastava, gli osti dividevano la loro stanza con i clienti. Sull’uscio di una casa, Dolcibene vede una donna malinconica: la figlia quattordicenne è caduta da un albero di fico e si è rotta una mano e un braccio. Il giullare vuole riposarsi e gli viene un’idea per farsi ospitare: «Madonna Margotta, io sarò l’angiolo di Dio che serò venuto qui per voi e per la vostra putta; però che io sono il migliore medico di racconciare ossa che sia in Italia o nella Marca Trivisgiana [la sequenza rinvia all’elenco di luoghi geografici disparati per cui erano famosi i giullari]. Io vi guarirò questa fanciulla, s’ella avesse, non che storte, ma rotte quante ossa ella ha a dosso». La donna gli crede «comincia a riceverli graziosamente; e acconci [accuditi] li cavalli e tirati li colli a sue galline, apparecchiò ogni cosa, sí che ’l detto stette forse cosí bene come l’imperadore». Quando torna il marito che era andato a pescare, Margotta gli racconta la caduta della loro figliola e la fortuna che era capitata con «un sí valentre uomo medico». Salisino «fece reverenza, raccogliendo messer Dolcibene e fece cuocere le porcellette [storioni, comuni nel Po, cosí chiamati per la forma del muso]; e poi li raccomandò la figliuola». Dolcibene viene accompagnato al capezzale dell’infortunata «la quale era assai bella, secondo l’area ferrarese [del tipo di bellezza proprio del luogo]». Per procedere con la cura, il giullare «fece quasi una poltiglia da cavalli e, stracciate pezze e fatte fasce e lenze [bende], impiastrò la mano e ’l braccio della fanciulla per modo che stesse ben morbido e, fatto questo, la fece sostare un’ora

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Il giullare che ride, olio su tavola di ignoto pittore fiammingo. 1540 circa. Stoccolma, Nationalmuseum.

acciò che stesse ben morbida, ed elli andò a provedere e’ cavalli e assaggiare il vino e a studiare le galline e le porcellette». Terminata la cena, Dolcibene toglie le fasce alla fanciulla che grida forte dal dolore: «’l padre e la madre, avendo paura non morisse di spasimo, pregavano che per Dio non facesse con le mani per forza». Dolcibene promette di non toccare la ragazza con le mani e «fessi arrecare molta stoppa e due taglieri [piatti di legno] grandi; e messo il braccio su uno di questi taglieri, con lo scrigno de l’oncino [con la curvatura del braccio slogato poggiata sopra fra i piatti] di sopra e con molta stoppa di sotto e di sopra, può essere sopra quella l’altro tagliere, sí che quasi in strettoie si dovesse fare ritornare nel suo luogo». Con tono cortese, Dolcibene aggiunge: «Non abbiate paura, che niuna delle mani adopero», chiede ai genitori di tenere ben fermo il braccio e poi «vi diede tal su del culo che avrebbe dirizzato un palo di ferro che fosse stato torto». Il falso medico «preso il braccio con istecche, con sue poltiglie e alenzamenti [strisce di lino] l’ebbe fasciato, gittando de l’acqua nel viso alla fanciulla, la quale per lo grande dolore urlava quanto potea; pur da ivi a presso un’ora si racchetò, e ’l braccio e la mano stavano diritti e ciascuno nel luogo suo». In questo passaggio notiamo come nel Medioevo venivano curate le fratture: impacchi lenitivi, impiastri, bende e stecche per tenere fermi gli arti. Salisino e Margotta sono felici che il rimedio abbia funzionato e Dolcibene vantandosi afferma: «Or pensate quello che io farei con mano, quando col culo ho fatto cosí grande esperienza». Il giorno dopo Dolcibene parte senza aver pagato nulla per l’ospitalità, anzi con il dono di due capponi. Tornato a Ferrara, il giullare intrattiene l’imperatore e la corte con la «novella, e profferevasi a tutti quelli uomeni d’arme che sicuramente si sconciasseno l’ossa, che egli le racconcerebbe subito col culo, meglio che altro uomo con mano. E valsegli questa volta piú che se uno sommo medico avesse guarito di simile cosa un grandissimo signore».

Due stimati professionisti

L’incompetenza di molti medici non era ricordata solo dai buffoni come Dolcibene. Un farsettaio di nome Bertolino sta «ragionando d’assai cose con diletto» con i medici Tommaso del Garbo e Dino da Olena nei bagni di Petriuolo (Petriolo, stazione termale nel Senese; XXVI) e «come fossono [anche se erano] scienziati erano non meno piacevoli che Bartolino». Tommaso del Garbo e Dino da Olena sono medici famosi e ammirati, il primo figlio del famoso Dino, bene inseriti e apprezzati dall’ambiente intellettuale fiorentino, attivi a Firenze attorno e oltre la metà del Trecento. Bartolino gli chiede «se sapeano come si traea sangue dal peto»: i due medici ridono e gli rispondono che non lo sanno, ma lo apmarzo

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il trecentonovelle di franco sacchetti/2 Miniatura raffigurante l’interno di una farmacia, da un’edizione del Canone di Avicenna. 1438. Bologna, Biblioteca Universitaria.

prenderebbero volentieri. Bartolino gli chiede quanto sono disposti a pagare per saperlo: Tommaso gli dice che lo avrebbe sempre visitato gratuitamente e Dino promette di utilizzarlo in esclusiva come farsettaio. Il commerciante si mostra contento delle offerte e «subito fece un peto ne l’acqua del bagno, il quale immanente gorgogliando venne a galla e fece una vescica [bolla]». E Bartolino come vide la vescica: «Ora vi converrebbe avere la saettuzza [lancetta in uso nella medicina antica per i salassi] e darvi entro». Tutti quelli presenti nel bagno «delle risa furono presto che affogati e li medici piú che gli altri». Sacchetti conclude con una morale: «Non so qual fosse meglio, o quello che promissono questi medici a Bartolino, o quello che Bartolino insegnò loro. Come che fosse, onestamente [spiritoso e non volgare] Bartolino riprese l’arte [la professione] loro che tanto ne sanno molti quanto Bartolino ne ’nsegnò loro, o meno».

Interventi azzardati

Queste novelle danno modo di conoscere come venissero percepiti i medici nella società del Trecento. Sebbene in Italia operassero due università prestigiose come Bologna e Salerno, Gabbadeo non dà prova di capacità

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professionale e di affidabilità: Sacchetti lo ridicolizza, sottolineando come il suo operato si limiti a osservare le orine e a ricorrere a sistemi poco ortodossi per trarre la fava dall’orecchio del povero contadino; lo scrittore si prende beffe della categoria anche attraverso le vicende del giullare Dolcibene e del farsettaio Bartolino. D’altronde, i medici medievali, come ricorda anche Boccaccio, causano spesso la morte del paziente con interventi chirurgici azzardati, medicinali dannosi o inutili, oltre che, ovviamente, per l’ignoranza delle norme igieniche. Le dosi eccessive di anestetico (oppio, mandragora, cicuta) condannano spesso il malato al sonno eterno. E l’enorme numero di storpi che chiedono l’elemosina nelle città dimostra come fratture mal curate portassero all’inabilità permanente dal lavoro. Ecco perché, quando i medici non riescono a guarire il paziente, interviene Dio: nelle botteghe degli speziali si vendono anche ex voto di cera. Con le sue novelle Sacchetti si mostra rassegnato nei confronti dei medici e tanto vale riderci sopra.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Giudici e notai marzo

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di Elena Percivaldi

VILNIUS

Nella città del lupo di ferro La capitale della Lituania festeggia i 700 anni della sua leggendaria fondazione. La ricorrenza, salutata da un ricco calendario di appuntamenti, offre l’occasione per ripercorrere la storia e scoprire i molti tesori di uno dei centri piú fiorenti dell’area baltica fra Medioevo e Rinascimento Il monumento in onore del granduca Gediminas, a Vilnius, opera dello scultore lituano Vytautas Kašuba. 1992.


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DALLE ORIGINI MITICHE A SIGISMONDO IL VECCHIO

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Veduta panoramica di Vilnius. Vuole la leggenda che la città sia stata fondata nel luogo indicato in sogno al granduca Gediminas da un lupo.

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S S

econdo una popolare leggenda lituana, il granduca Gediminas – siamo agli inizi del XIV secolo – dopo una fruttuosa battuta di caccia nella foresta della valle di Šventaragis, a poca distanza dalla confluenza tra i fiumi Vilnia e Neris, si accampò in zona per trascorrere la notte. Addormentatosi profondamente, sognò un enorme lupo di ferro che si trovava in cima a una collina: il suo ululato era talmente potente da riempire i boschi, come se migliaia di lupi stessero emettendo lo stesso verso all’unisono. Al risveglio, il granduca raccontò al suo sacerdote Lizdeika lo strano sogno; quest’ultimo spiegò che il lupo aveva indicato il luogo esatto nel quale costruire una nuova città destinata a diventare «la capitale delle terre dei Lituani e la dimora dei loro sovrani, e dalla quale la gloria delle loro azioni avrebbe risuonato in tutto il mondo». Al che Gediminas, obbedendo alla volontà degli dèi, costruí la città e dal nome di uno dei due fiumi le diede il nome di Vilnius. Al di là del fascino della storia, il richiamo al lupo sembra alludere all’epopea del mitico Palemone (Palemonas in lituano), fantomatico patrizio romano che, secondo la versione piú diffusa della leggenda, era imparentato con Nerone e sarebbe fuggito per scampare alle persecuzioni giungendo fino in Lituania: una vicenda raccolta nella seconda redazione delle Lietuvos metrašciai (Cronache lituane), opera prodotta all’inizio del XVI secolo mentre l’aristocrazia lituana, rivaleggiando con quella polacca, cercava di aumentare il proprio prestigio millantando presunte ascendenze nell’antica Roma. Ma se questo è il mito, la storia documentata ci dice che la prima menzione di Vilnius, e già con il ruolo di capitale, risale al 1323 e si trova in una lettera fatta recapitare dallo stesso Gediminas alle città

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Veduta del Castello Superiore di Vilnius (in alto) e della Torre di Gediminas, che fa parte del complesso fortificato ed è uno dei simboli della città. Nella pagina accanto affresco raffigurante la morte di Bruno di Querfurt,

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il missionario a cui papa Silvestro II aveva dato incarico di evangelizzare l’Europa orientale e che fu ucciso nel 1009 mentre era impegnato nell’opera di conversione. Swiety Krzyz (Polonia), chiostro della chiesa della Santa Croce.

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Etimologia

Nella terra del ruscello Il nome «Lituania» (Lietuva) compare per la prima volta, nella versione latina Litva (pronuncia: Litua), negli Annali di Quedlinburg, importante cronaca composta nell’omonimo monastero della Sassonia: alla data del 9 marzo 1009 si legge che quel giorno il missionario Bruno (detto anche Bonifacio) di Querfurt fu ucciso insieme a diciotto compagni dai pagani mentre tentava di convertirli «in confinio Rusciae et Lituae» (al confine tra la regione dei Rus’ e quella della Lituania). Riguardo all’etimologia, la teoria che gode di maggior credito è che «Lituania» derivi dal nome della Lietava, un ruscello che confluisce nel Neris a una trentina di chilometri da Kernave, probabile prima capitale del granducato. Il nome condivide con il verbo lituano lieti, «versare», la radice protoindoeuropea *leya- («sciogliersi», «dissolversi»): il riferimento sarebbe alle acque del fiume, che spesso esondano allagando i campi circostanti. Anche il nome di Vilnius, deriverebbe da un idronimo, la Vilnia.

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tedesche di Lubecca, Sund, Brema, Magdeburgo e Colonia e ad altri centri del Sacro Romano Impero: nella missiva il granduca giustificava la propria decisione di non abbandonare il paganesimo, dettata a suo dire dall’eccessiva aggressività con cui i Cavalieri teutonici stavano cercando di convertire i territori baltici. Al contrario, rivendicava il granduca, il suo Stato era tollerante nei confronti delle comunità cristiane e, anzi, mercanti, contadini, cavalieri e artigiani erano caldamente invitati a trasferirsi in Lituania, dove avrebbero potuto praticare i loro culti e dedicarsi agli affari approfittando delle vantag-

giose esenzioni fiscali a loro riservate. L’epistola è datata 25 gennaio 1323 «in civitate nostra Vilna»: di conseguenza i Lituani considerano tale data come la «nascita» ufficiale della città e Gediminas il suo fondatore. Il 2023 segna dunque il 700° anniversario di Vilnius, il cui centro storico è dal 1994 patrimonio UNESCO.

Culti ancestrali

In realtà, come provano i ritrovamenti archeologici, la regione era abitata già in età preistorica, quando nell’area iniziarono a insediarsi popolazioni che piú tardi si fusero con i Balti. Di origine indoeuropea,

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Dossier nel IV-III millennio a.C. si stabilirono nel vasto territorio tra le rive del mar Baltico e l’alto corso del Volga e del Dnepr, comprendendo le attuali Lituania, Lettonia, Russia occidentale, Bielorussia e Polonia, fino a ovest del fiume Oder e a sudest della Finlandia. Nel millennio successivo i Balti si differenziarono in tribú, tra cui i Lituani e i Selonici, stabilitisi tra i fiumi Nemunas e Neris e considerati alle origini dell’odierna Lituania. Queste genti praticavano culti ancestrali di matrice indoeuropea basati su un ricco pantheon di divinità con ruoli precisi: Dievas era la divinità del cielo diurno, e Velinas, dio del cielo notturno, il suo grande nemico; c’era poi Zemyna (la Terra), figlia del Sole (Saule) e della Luna (Menules), Cimoyok (dio dei campi), Gabija (dea del fuoco), Dimstipatis (custode del focolare domestico) e infine Perkunas, il dio del tuono e della tempesta. Quest’ultimo, al quale erano consacrati i boschi e le querce, rivestiva un ruolo di spicco perché venerato dall’aristocrazia militare e dai soldati, ma, al tempo stesso, legato alla fecondità (il tuono prelude alla pioggia, che bagna e feconda la terra).

Gli dèi cristianizzati

Con l’avvento del cristianesimo, le divinità lituane furono reinterpretate alla luce della nuova fede, non di rado snaturandone il significato: cosí, per esempio, la rivalità tra Dievas e Velinas – per i Lituani forze opposte il cui equilibrio garantiva l’armonia del cosmo (darna) – venne trasfigurata nell’irriducibile contrasto tra Dio e il Diavolo, esemplificando la dicotomia tra Bene e Male. Ed è proprio al primo incontro tra pagani e cristiani che il nome della Lituania fa la sua prima apparizione nella storia (vedi box a p. 73). Era il 1009 quando il missionario Bruno di Querfurt cadeva ucciso

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

insieme ai suoi compagni «al confine tra la regione dei Rus’ e quella della Lituania». Inviato da papa Silvestro II a evangelizzare l’Europa orientale, Bruno aveva seguito l’esempio di Adalberto di Praga, a sua volta vittima dei Prussiani. La sua missione sul momento non ebbe seguito e i Lituani rimasero pagani ancora a lungo; sappiamo però che edifici cristiani esistevano già prima della conversione ufficiale della regione, che sarebbe avvenuta nel 1387, costruiti per iniziativa degli stranieri stabilitisi nelle città e soprattutto a Vilnius. Nel 1202 l’arcivescovo Alberto di Riga istituí l’Ordine dei Cava-

lieri Portaspada allo scopo di diffondere il cristianesimo in Livonia. Dopo una serie di campagne vittoriose, i Portaspada furono però fermati dai Lituani a Šiauliai (1236) e i pochi sopravvissuti alla carneficina si unirono nel 1237 ai Cavalieri teutonici, dando vita all’Ordine di Livonia, che riprese l’iniziativa puntando, dal castello di Chełmno, verso il territorio prussiano. I crociati riuscirono a piegare le popolazioni locali e poi, a partire dal 1283, volsero l’attenzione verso la Lituania. Per far fronte alle crescenti minacce dei «crociati del Nord» le popolazioni lituane, in particolare marzo

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la prima cattedrale

Da santuario a sacrario? Il battesimo di Mindaugas (1251) e la sua incoronazione a Vilnius hanno indotto ad attribuirgli anche la fondazione della prima cattedrale cittadina, chiamando a sostegno l’accenno, presente in un documento di papa Urbano VI del 1388, a una struttura pagana (fanum), demolita dal granduca Jogaila per far posto all’attuale Cattedrale. Tuttavia, il termine usato dal pontefice, fanum, è piuttosto vago e in teoria riferibile anche a un semplice luogo sacro, non necessariamente in muratura (altrimenti sarebbe stato definito templum). L’idea che la Cattedrale fosse sorta sopra un antico luogo di culto dedicato a Perkunas, il dio del tuono, fu diffusa dai cronisti lituani insieme alla leggenda secondo la quale il mitico duca Šventaragis avrebbe individuato nella valle alla confluenza dei fiumi Neris e Vilnia il luogo per la propria cremazione, ordinando al figlio Skirmantas di fondarvi un santuario; impegnato in una battuta di caccia, Gediminas avrebbe sostato nella Valle di Šventaragis, sognando il lupo di ferro che gli indicò dove fondare Vilnius e poi alla sua morte fu cremato nella stessa area sacra. Il rito ci è noto da varie fonti locali e dal Songe du Vieil Pèlerin (1389), elaborato racconto del viaggio compiuto del diplomatico francese Filippo di Mézières: i corpi dei granduchi, trasportati nella Valle, venivano deposti sulla pira funebre insieme a cavalli, cani da caccia e falconi e accompagnati da schiavi e servitori. Nessuna traccia del presunto santuario pagano è però mai stata trovata. Il rinvenimento nel 1984 di una struttura a pianta quadrata nei sotterranei dell’attuale Cattedrale ha però riacceso il dibattito. Se gli autori degli scavi hanno asserito trattarsi dei resti della chiesa voluta da Mindaugas, distrutta alla sua morte e riconvertita in un tempio pagano a sua volta demolito da Jogaila, successivi studi hanno ricondotto la struttura al Trecento, aprendo la strada a ipotesi a tutt’oggi ancora discusse. In alto la Cattedrale di Vilnius, intitolata ai santi Stanislao e Ladislao. Piú volte rimaneggiata, si mostra oggi nelle forme neoclassiche conferitele agli inizi del XIX sec. A sinistra il re Mindaugas in un’incisione cinquecentesca. Convertitosi al cristianesimo nel 1250, il sovrano potrebbe essere stato il primo fondatore della Cattedrale di Vilnius.

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l’espansione in Rutenia. Ma quando suo nipote Tautvilas, volendo frenare lo zio, si rivolse all’arcivescovo di Riga accettando il battesimo, Mindaugas cercò a sua volta l’appoggio dei Teutonici, che gli imposero di battezzarsi. Il duca accettò e nel 1253 fu incoronato primo (e unico) re di Lituania per mano del vescovo di Chełmno, incaricato da papa Innocenzo IV in persona.

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Il cristianesimo però non attecchí perché lo stesso Mindaugas, benché forse fondatore della prima Cattedrale di Vilnius (vedi box a p. 75), aveva aderito per convenienza politica piú che per convinzione e ben presto tornò al paganesimo. Venne assassinato nel 1263 da suo nipote Treniota, duca di Samogizia, che prese il potere ma preferí il titolo di granduca; il periodo di instabilità che si aprí in questa fase,

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le comunità dell’Aukštaitija, formate dai montanari del Nord-Est, e quelle della Samogizia, composte dagli abitanti delle pianure del Nord-Ovest, avevano iniziato già all’inizio del secolo – secondo alcuni storici addirittura dagli anni Ottanta di quello precedente – a formare alleanze interne a scopo difensivo e militare. Queste aggregazioni sfociarono nel 1219 in un trattato firmato da 21 duchi lituani, grandi proprietari terrieri a capo di un sistema di tipo feudale, con il Principato di Galizia-Volinia (o regno di Rutenia), un atto ritenuto fondante il futuro Stato lituano. Cinque di essi, tutti originari dell’Aukštaitija, in ragione dell’età e del personale peso politico godevano di diritti maggiori rispetto ai restanti sedici: il piú anziano o influente era Živinbudas, nominato per primo nel documento insieme a Daujotas, Vilikaila, Dausprungas e Mindaugas. Quest’ultimo prevalse sugli altri assumendo nel 1230 la carica di Duca di Lituania e avviò

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Confine dei territori occupati dal granducato di Lituania, dal regno di Polonia e dagli Stati vassalli Città principali Livonia Territorio o regione Feudi della corona polacca Terre dei cavalieri dell'Ordine Teutonico Prussia reale, incorporata nella Polonia nel 1466 Feudo della corona polacca dopo il 1466

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In alto i territori dominati dall’Ordine Teutonico, dal granducato di Lituania e dal regno di Polonia, protagonisti della battaglia di Tannenberg. Qui sopra l’assetto geopolitico dell’Europa alla fine del XV sec. Nella pagina accanto Ladislao II di

Polonia ne La battaglia di Grunwald, olio su tela di Jan Matejko. 1878. Varsavia, Museo Nazionale. Lo scontro (detto «di Tannenberg» dai Tedeschi e «di Zalgiris» dai Lituani) si combatté, il 15 luglio del 1410, tra le forze alleate polacco-lituane e i cavalieri dell’Ordine Teutonico. marzo

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durante la quale il giovane Stato fu anche duramente attaccato dai Mongoli, si chiuse solo nel 1270 con l’elezione di Traidenis, figura grazie al quale il granducato si espanse in Polonia e si consolidò ai danni dell’Ordine di Livonia, ripetutamente sconfitto in battaglia. In questo delicato periodo di transizione, in cui si susseguirono ben sette granduchi, la prima capitale dello Stato lituano fu presumibilmente la fortezza di Voruta, eretta dallo stesso Mindaugas e oggi scomparsa, la cui ubicazione è peraltro incerta; ai tempi di Traidenis il centro principale era sicuramente Kernave, roccaforte posta vicino a un’ansa del Neris, in seguito conquistata e poi distrutta dai cavalieri dell’Ordine Teutonico. La fortezza sorgeva a circa 40 chilometri da Vilnius, dove un insediamento esisteva già almeno dall’anno Mille, ma salí alla ribalta solo grazie a Gediminas, che nel periodo in cui fu granduca (1316-1341) ne sfruttò la posizione favorevole a cavallo del Neris e della Vilnia, per farne, a partire dal 1320 circa, la nuova e definitiva capitale al posto di Trakai, di recente costruzione.

La fioritura

Di poco piú tarda – 1365 – è la menzione del primo governatore certo della città, Dirsunas, citato dalle fonti in quanto fermò il colpo di Stato di Butautas ai danni dello zio Algirdas (1320 –1345), figlio di Gediminas, rimanendo ucciso. L’avamposto in legno che già sorgeva sulla collina di Vilnius fu rafforzato da Gediminas con una prima cinta e una serie di torri. A questo castello superiore si affiancò e si allargò, nel tempo, il castello inferiore situato a valle, destinato nei secoli successivi a diventare la residenza dei granduchi (vedi alle pp. 88-97). Giovandosi dell’apporto delle comunità di mercanti e artigiani provenienti dalle città anseatiche, incentivati a trasferirsi in Litua-

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nia dalle esenzioni daziali, Vilnius divenne un centro demografico, commerciale, economico e culturale di prim’ordine, improntato a una generale tolleranza nei confronti di tutte le confessioni religiose. Per gli ortodossi Gediminas agevolò, tra il 1315 e il 1317, la costituzione della metropolia della Lituania; sul versante cristiano cercò invece la sponda del papa per fermare le aggressioni dei crociati, facendo leva sui privilegi concessi ai Francescani e ai Domenicani, arrivati proprio allora in Lituania per diffondere il cattolicesimo (la fon-

dazione del primo monastero domenicano a Vilnius risale al 1321): una politica che diede i suoi frutti e fu suggellata dalla pace, stipulata a Vilnius il 2 ottobre 1323, tra il Granducato e l’Ordine di Livonia, con fatica estesa poi anche ai Teutonici (che però nel 1377 attaccheranno brutalmente la città). Queste mosse sembravano preludere alla conversione di Gediminas al cattolicesimo, cosa che non avvenne, perché nel novembre 1324, quando i legati della Santa Sede giunsero a Vilnius per impartirgli il battesimo, Gedimi-

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Dossier

nas dichiarò che avrebbe preferito essere battezzato «dal diavolo in persona»: egli sapeva infatti che convertendosi avrebbe perso il sostegno sia della Samogizia e dell’Aukštaitija, fieramente legate alle tradizioni baltiche, che dei Rus’ ortodossi. Il granduca morí dunque pagano e fu cremato secondo il rito tradizionale baltico nel luogo dove sarebbe sorta la futura Cattedrale di Vilnius. La svolta religiosa avvenne nel 1387 allorché il granduca Jogaila, perfezionando l’Unione di Krewo

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(14 agosto 1385), sposò a Cracovia Edvige (Jadwiga) di Polonia. Jogaila ricevette nella Cattedrale del Wawel il battesimo, cambiò nome in Ladislao (II) Jagellone e salí sul trono polacco, dando vita all’unione personale tra Polonia e Lituania, che poi si formalizzò nel 1569 in Confederazione. L’accorpamento non fu però accolto con favore dai nobili lituani, che temevano di vedere stemperata la propria autonomia all’interno di una monarchia già consolidata. Di conseguenza, nel 1392, con il trattato di Astrava

Ladislao riconobbe al cugino Vitoldo (in lituano Vytautas) il titolo di granduca (magnus dux), che avrebbe dovuto agire in suo nome e sotto la sua supremazia, coniando per sé il titolo superiore di duca supremo (dux supremus). Ladislao II concesse a Vilnius lo statuto cittadino e vi istituí ufficialmente la diocesi, la prima e principale istituzione cattolica del granducato di Lituania. Da allora la fondazione di chiese e monasteri divenne parte integrante della politica dei granduchi, che dotaromarzo

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Jan Zizka in un altro particolare della Battaglia di Grunwald di Jan Matejko. 1878. Varsavia, Museo Nazionale. Il generale ceco combatté al fianco dell’alleanza polacco-lituana contro i Cavalieri teutonici.

Grunwald (Tannenberg per i Tedeschi, Žalgiris per i Lituani) il 15 luglio 1410 contro i Teutonici (vedi «Medioevo» n. 174, luglio 2011). La conseguente pace di Melno (1422) siglò l’ascesa dell’unione polacco-lituana come forza politica e militare dominante nell’Europa centro-orientale.

L’età del «Grande»

no i luoghi di culto di paramenti, oreficerie e oggetti liturgici come status symbol e ostentazione di potere. Nel 1388 Ladislao affidò al francescano Andrzej Jastrzebiec il compito di cristianizzare la Lituania, nominandolo primo vescovo della diocesi di Vilnius. A questa – destinata con i suoi 226 000 Kmq a divenire la piú estesa d’Europa – si sarebbe affiancata, nel 1417, quella piú piccola di Samogizia, divenuta lituana a seguito della vittoria ottenuta da Ladislao e Vitoldo a

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Vitoldo, granduca tra il 1401 e il 1430, si fece promotore della cristianizzazione della Samogizia. A lui si deve inoltre l’edificazione di chiese in diverse città tra le quali Kaunas e Trakai e soprattutto la ricostruzione, in collaborazione con il vescovo Jakub Plichta, della Cattedrale di Vilnius, distrutta nel 1419 da un incendio e ora riedificata in forme gotiche. La basilica entrò a far parte del grande complesso castrense già abbozzato da Gediminas, che Vitoldo rimaneggiò aggiungendo diversi edifici di servizio. Vitoldo, poi detto «il Grande», promosse anche il culto della Vergine edificando a Kaunas la chiesa dell’Assunzione, monumentale ex voto per essere scampato alla sconfitta rimediata nel 1399 contro i Tatari presso il fiume Vorksla. L’immagine della Vergine divenne poi popolare grazie ai Francescani. Al 1426 risale invece la chiesa di S. Giovanni, prima parrocchia di Vilnius e un tempo tra i principali edifici gotici della città. Vitoldo morí nel 1430 nel castello di Trakai e fu sepolto nella Cattedrale di Vilnius. Non avendo lasciato eredi, si scatenò la lotta per la successione tra Sigismund Kestutaitis e Švitrigaila, rispettivamente fratello e cugino di Vitoldo. Il conflitto poté dirsi concluso solo

nel 1440, quando il figlio di Jogaila, Casimiro IV Jagellone, fu accettato dai nobili benché minorenne e incoronato, il 29 giugno, nella Cattedrale di Vilnius. Casimiro fu il primo granduca a essere battezzato alla nascita (tutti gli altri, compreso Vitoldo, si erano convertiti solo in età adulta) e fu anche l’artefice dell’equiparazione, in materia di diritto, tra la nobiltà lituana e quella polacca (szlachta), fino a quel momento in posizione preminente. Alla sua morte (1492) gli succedette il figlio Alessandro Jagellone, che il 15 febbraio 1495 sposò a Vilnius Elena, figlia di Ivan III il Grande nel vano tentativo di porre fine agli attacchi orchestrati da quest’ultimo, granduca di Rus’ (Moscovia), e dai suoi alleati, i Tatari del Khanato di Crimea. Legatissimo alla Lituania, Alessandro preferí sempre esprimersi usando la lingua locale anziché il polacco, ma scomparso lui, il polacco divenne l’unico idioma utilizzato dalla casata e a corte. Dopo la sconfitta subita nella battaglia della Vedroša (1500), il Granducato dovette cedere alla nascente potenza russa circa un terzo del territorio: un disastro solo parzialmente mitigato dalla vittoria contro i Tatari riportata il 6 agosto 1506 a Kletsk dal comandante Michael Glinski, che sei giorni piú tardi fece il suo ingresso trionfale a Vilnius. L’evento fu celebrato con la costruzione della chiesa di S. Giorgio sulle rive del Neris, ma il giubilo fu di breve durata: il 19 agosto Alessandro Jagellone spirò senza eredi, scatenando l’ennesimo conflitto tra Glinski e il suo rivale Jan Zabrzezinski, che lo accusò di aver causato la morte del sovrano. Il granduca fu sepolto nella Cattedrale di Vilnius, dove il 13 settembre il fratello Sigismondo fu prescelto quale suo successore, inaugurando un periodo di grande splendore durante il quale Cracovia e Vilnius diverranno due tra le piú vivaci corti del Rinascimento.

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ARTI, LETTERE E BUON

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GOVERNO

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uando la salute di Alessandro cominciò a peggiorare, Sigismondo, che si trovava in Boemia, si affrettò invano a raggiungere il suo capezzale, arrivando a Vilnius quando il fratello era già spirato. Il 20 ottobre 1506 Sigismondo fu incoronato granduca nella Cattedrale, ma ricevette la corona di re di Polonia solo il 27 gennaio successivo a Cracovia. Prima di lasciare la Lituania, ebbe cura di confermare il privilegio concesso da Alessandro nel 1492, che aveva definito le prerogative del Sejm, il consiglio dei nobili, promettendo di non prendere decisioni o approvare nuove leggi senza il loro consenso. Sempre in quell’anno si era tenuta a Vilnius la riunione di tutti i rappresentanti del granducato, assemblea considerata il primo parlamento (Seimas) della storia lituana. Salito sul trono, Sigismondo si trovò subito alle prese con gravi questioni di politica internazionale tra cui la minaccia moscovita; cercò anche di negoziare una tregua con l’impero ottomano per arginare gli attacchi del khanato di Crimea, vassalli dell’Orda d’Oro. Nel 1506 l’esercito lituano sconfisse i Tatari a Kletsk, ma la pace fu raggiunta solo a fronte del versamento di ingenti doni e tributi. La situazione, delicata e precaria, si stabilizzò solo nel 1532, quando l’Unione firmò con il khanato e gli Ottomani un trattato di pace. Nel frattempo il sovrano aveva sposato, nel 1512, la nobile Barbara Zápolya, figlia del palatino d’Ungheria, nella speranza di controllare le crescenti ambizioni asburgiche verso Ungheria e Boemia. La giovane sarebbe morta tre anni dopo dando alla luce la seconda figlia. Ormai vicino ai cinquant’anni e senza eredi maschi, Sigismondo tentò allora di unire le proprie sorti con quelle degli Asburgo chiedendo in sposa all’imperatore Massimiliano I la nipote Eleonora. Il sovrano preferí però il partito del

Pianta di Vilnius, dal quinto tomo del Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg, la raccolta di mappe delle città del mondo curata dai geografi tedeschi che fu pubblicata in 6 volumi tra il 1572 e il 1617.

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Dossier GRANDUCHI E SOVRANI Ladislao II (Jogaila) (1351 circa-1434) Granduca di Lituania, 1377-1401 Re di Polonia, 1386-1434

Ladislao III (1424-1444) Re di Polonia, 1434-1444 Re d’Ungheria, 1440-1444

Ladislao (1456-1516) Re di Boemia, 1471-1516 Re d’Ungheria, 1490-1516

Luigi (1506-1526) Re di Boemia e d’Ungheria, 1516-1526

Casimiro (1427-1492) Granduca di Lituania, 1440-1492 Re di Polonia, 1447-1492

Giovanni Alberto (1459-1501) Re di Polonia, 1492-1501

Alessandro (1461-1506) Granduca di Lituania, 1492-1506 Re di Polonia, 1501-1506

Sigismondo (1467-1548) Granduca di Lituania e re di Polonia, 1506-1548 Sigismondo Augusto (1520-1572) Granduca di Lituania e re di Polonia, 1548-1572

re Manuele I del Portogallo, ma procurò al granduca l’unione, gravida di conseguenze, con una delle piú importanti dinastie italiane: gli Sforza di Milano.

Un’italiana sul Baltico

La prescelta per le nozze era Bona Sforza. Nata il 2 febbraio 1494 nel Castello di Vigevano, era la terza figlia del duca di Milano, Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella d’Aragona, figlia di Alfonso II re di Napoli, nonché parente dell’imperatore in quanto nipote di Bianca Maria Sforza. Ancora in fasce, aveva perso il padre, forse avvelenato dal prozio Ludovico il Moro, il quale aveva preso il potere prima di essere rovesciato dal re Luigi XII di Francia (1499). In mezzo a tali torbidi Isabella aveva preferito lasciare la Lombardia per cercare rifugio a Napoli e in Puglia, dove nel 1502 si era

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Bona Sforza

Un’ambasciatrice della cultura italiana Esponente della cultura italiana e mediterranea, Bona Sforza esercitò un’enorme influenza sulla civiltà lituana e polacca, dando vita a un «gemellaggio» che sfociò nell’apertura, poco dopo il 1520, di una linea postale fra Cracovia e Napoli. Già i festeggiamenti nuziali avevano costituito una preziosa occasione di incontro, perché al seguito di Bona erano giunti dall’Italia diversi intellettuali – tra cui il poeta napoletano Colantonio Carmignano, lo scienziato ferrarese Celio Calcagnini e l’astronomo Luca Gaurico –, che sfidarono i colleghi in un inedito torneo poetico. Insediatasi a corte, Bona invitò valenti musicisti, come Alessandro Pesenti; protesse pittori, architetti e scultori quali Pietro Italiano, Francesco da Firenze, Bartolomeo Berrecci, Giovanni Cini da Siena, Gianmaria Mosca detto Padovano, Giovanni Battista Ferro, Giovanni Jacopo Caraglio; introdusse il gusto rinascimentale e contribuí ad affrancare l’arte polacca dai dettami tedeschi, avvicinandola al gusto italiano, dettando anche la moda di corte. Altri meriti ebbe nella botanica – portò i giardini all’italiana e nuove essenze come il pioppo – e nella gastronomia. L’introduzione di ortaggi allora considerati primizie come il pomodoro – da poco giunto dalle Americhe – oppure esotici per quelle latitudini (cavolfiore, spinaci e cetrioli) non solo permise di variare la dieta locale, ma fece guadagnare alla cucina italiana enorme popolarità; anche il vino conquistò i cortigiani, che iniziarono ad apprezzarlo accanto all’idromele e alla birra. La presenza costante di cuochi italiani impose cambiamenti strutturali negli edifici riservati alle cucine: dai libri contabili compilati tra il 1544 e il 1548 si evince che la cucina del palazzo granducale di Vilnius fu appositamente ristrutturata per essere funzionale alle loro richieste. La varietà di alimenti disponibili aumentò durante il regno di Sigismondo Augusto, fino a includere altri prodotti tipicamente mediterranei quali i capperi, i limoni e le olive, coltivati nei giardini e negli orti del palazzo. Nella pagina accanto, in alto il granduca di Lituania e re di Polonia Sigismondo I, olio su rame di Lucas Cranach il Giovane. 1553-1556. Cracovia, Museo Nazionale. Nella pagina accanto, in basso medaglia in bronzo realizzata da Steven Cornelisz van Herwijck. 1568 circa. Washington, National Gallery of Art. Al dritto, il re Sigismondo II Augusto; al rovescio, il sovrano a cavallo.

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Il profilo di Bona Sforza, regina di Polonia, su un cammeo in sardonica, con inserti in oro e argento, realizzato da Giovanni Jacopo Caraglio. 1530-1540 (con montatura del XIX sec.). New York, The Metropolitan Museum of Art.

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Dossier stabilita facendo valere il titolo di duchessa di Bari e Rossano ricevuto da Federico d’Aragona. La duchessa aveva curato l’educazione di Bona allo scopo di ottenere per lei un matrimonio di prestigio, sicché la giovane, di carattere volitivo e dotata di una mente acuta, conosceva la storia e la letteratura, sapeva cavalcare e cantare, ballare e suonare il monocordo, cacciava e parlava italiano, latino e spagnolo. Isabella accarezzava, per la verità, il sogno di rientrare prima o poi in possesso di Milano. Ma il figlio Francesco Maria, portato da Luigi in Francia, morí nel 1512 per i postumi di una caduta da cavallo. Fallite anche le trattative delle nozze tra Bona e Massimiliano Sforza, primogenito di Ludovico il Moro, e caduta Milano in mano al nuovo re di Francia Francesco I (1515), le speranze di rientrare in Lombardia sfumarono per sempre.

Nozze per procura

A rimettere Bona su un palcoscenico di prestigio fu cosí Massimiliano I, il quale approfittò della vedovanza di Sigismondo per sfruttare la nipote nel suo progetto di egemonia sull’Europa centrale. Dopo lunghe trattative tenutesi a Vilnius, le nozze furono celebrate per procura il 6 dicembre 1517 a Napoli in Castel Capuano; il 3 febbraio successivo Bona partí da Manfredonia alla volta di Cracovia, dove il 18 aprile 1518, nella cattedrale del Wawel, sposò Sigismondo e divenne regina consorte di Polonia e granduchessa di Lituania. La presenza di una sovrana straniera, che pure imparò il polacco e si adattò rapidamente alle nuove condizioni di vita, non incontrò mai il favore dei cortigiani, che mal ne tolleravano il carattere irritabile e la personalità piú forte del marito. Sfruttando la libertà concessale dal consorte, Bona si occupò in prima persona delle questioni di Stato, irritando ancor

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di piú la corte, indispettita da quelle ingerenze ritenute inaccettabili, ancor piú perché provenivano da una donna. Fulcro dei suoi ambiziosi progetti fu la prole e in particolare Sigismondo Augusto, nato nel 1520 e ad appena dieci anni associato al padre ancora vivente. La mossa era volta a consolidare il potere e trasformare la Polonia in uno Stato assolutista basato su una forte monarchia ereditaria, non piú ostaggio della szlachta; invece costituí un vulnus nelle tradizioni locali e finí per allargare ulteriormente la frattura con i cortigiani, che ottennero da Sigismondo il «Vecchio» la promessa che quel pericoloso precedente non si sarebbe ripetuto. Il risentimento nei confronti di Bona era alimentato soprattutto dalla potente fazione appoggiata dagli Asburgo, intenzionata a sottrarre il giovane Sigismondo dal ferreo controllo della madre. La regina ricambiava l’ostilità scegliendo personalmente i vescovi tra i fedeli alla corona, appoggiando le rivendicazioni della piccola e media aristocrazia a scapito dei grandi magnati e circondandosi di cortigiani a lei devoti. La situazione peggiorò quando, il 1° aprile 1548, Sigismondo il Vecchio morí. La corona polacca passò, come convenuto, a Sigismondo II Augusto, ma questi, già delegato dal padre a esercitare il potere in Lituania, preferí Vilnius a Cracovia. Qui infatti il granduca aveva conosciuto Barbara Radziwiłł (Barbora Radvilaite), figlia di un magnate locale, e se n’era innamorato. Alla morte della prima moglie Elisabetta d’Asburgo, con la quale non aveva mai legato, Sigismondo sposò Barbara in gran segreto. Appena ne venne a conoscenza, Bona, che aveva per lui altri progetti, tentò di convincerlo ad annullare le nozze, aprendo una ferita insanabile. La feroce antipatia nei confronti della nuora si sopí solo quando questa si ammalò e

morí, appena trentenne, l’8 maggio 1551. Mentre il corpo di Barbara veniva trasportato a Vilnius per essere deposto in Cattedrale dal marito affranto, corse voce che Bona, in realtà incolpevole, l’avesse fatta avvelenare. Ormai sfibrata dalle tensioni, la regina madre abbandonò la Lituania per la Polonia. Cinque anni dopo, il primo febbraio 1556, preceduta da ventiquattro carri carichi di beni e opere d’arte, lasciò Cracovia alla volta di Bari, dove sarebbe morta il 19 novembre 1557 all’età di 63 anni.

Innovazioni e riforme

Vittima per secoli di feroci maldicenze, la figura di Bona Sforza è stata ora finalmente rivalutata e la maggior parte degli studiosi la riconosce quale regnante accorta e intelligente. Oltre alla vigorosa politica estera e al tentativo di tenere a freno la nobiltà, Bona contribuí in maniera determinante a «modernizzare» i sistemi produttivi tramite riforme agricole, fondò villaggi e città, castelli e chiese e rese piú efficienti le vie di comunicazione per garantire l’accesso della Lituania al Baltico. Ancor piú incisivo il lascito sul piano culturale: diffuse la cultura e l’arte rinascimentale e influenzò profondamente la moda, la cucina e la dieta, avviando un «gemellaggio» tra l’Italia e i suoi Paesi d’adozione con effetti benefici e duraturi (vedi box a p. 83). Quanto a Sigismondo II Augusto, liberatosi dell’influenza della madre e ancora senza eredi, il 23 giugno 1553 sposò in terze nozze Caterina d’Asburgo, sorella della prima consorte Elisabetta e vedova di Francesco III Gonzaga. Anche questo matrimonio rimase però infruttuoso. Morí il 7 luglio 1572 e con lui la casata degli Jagelloni si estinse dopo aver governato il Paese dal 1386. Regnante colto, appassionato di letteratura e sensibile all’arte, di cui fu appassionato collezionista, Sigismondo II marzo

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Sigismondo III re di Polonia, olio su tela di Martin Kober. 1590 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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Dossier amò profondamente la Lituania che frequentò il piú possibile. Con lui, nel 1569, i due Stati confluirono, grazie all’Unione di Lublino, a formare la Confederazione nella quale sarebbero stati governati dallo stesso sovrano elettivo e da un unico parlamento, condividendo la politica estera ma mantenendo ciascuno la propria autonomia nel campo militare e fiscale, il proprio tesoro e il proprio esercito. La svolta ebbe forti ripercussioni anche su Vilnius, che nell’età di Bona e dei due «Sigismondi» raggiunse l’apogeo. Comunità di Lituani convivevano accanto a Ebrei (la sinagoga maggiore fu costruita nel 1573), Ruteni e Tedeschi pur occupando zone diverse della città. Al posto del castello inferiore, distrutto da un incendio nel 1513, sorse un ampio e lussuoso edificio che rifletteva, nello sfarzo degli arredi e nei curatissimi giardini all’italiana, lo status ormai raggiunto dalla dinastia dei granduchi e il legame con la città dalla quale traevano origine. Uscito di scena Sigismondo, il Sejm polacco-lituano si trovò a scegliere tra una rosa di candidati in mezzo ai quali spiccavano lo zar Ivan il Terribile, l’imperatore Massimiliano II d’Asburgo ed Enrico di Valois, duca d’Angiò. Prevalse alla fine quest’ultimo, favorito dalle pressanti trattative avviate dagli ambasciatori francesi. Tra gli obblighi del nuovo sovrano, oltre all’accettazione dei Pacta Conventa – l’accordo con i nobili in cui il re si impegnava a rispettare le leggi della Confederazione – c’era anche quello di sposare la sorella del defunto Sigismondo, l’ormai quasi cinquantenne Anna. Il matrimonio non fu mai celebrato e l’esperienza polacco-lituana di Enrico durò lo spazio di pochi mesi: morto il fratello Carlo IX (30 maggio 1574), abbandonò la Polonia per succedergli sul trono francese, portando con sé i gioielli della corona polacca.

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Sobieski a Vienna, olio su tela di Stanisław von Chlebowski. 1865-1876. Cracovia, Museo Nazionale.

Nel maggio 1575 Enrico fu dichiarato decaduto e il potere passò ad Anna. In autunno il parlamento elesse l’ungherese Stefano I Báthory, principe di Transilvania, che aveva accettato di sposarla. Stefano è ricordato per aver contenuto la minaccia russa e conquistato la contesa regione della Livonia, ma soprattutto per aver fondato nel 1579 l’Università di Vilnius, che divenne – insieme all’Accademia dei Gesuiti, giunti in città dieci anni prima – uno dei principali centri scientifici e culturali dell’Europa nord-orientale e il piú importante di tutta la Lituania.

Verso il «Diluvio»

Stefano morí nell’inverno del 1586 senza eredi diretti, scatenando la contesa tra Massimiliano III

d’Asburgo e Sigismondo Vasa, cognato di Sigismondo II. La spuntò quest’ultimo, sorretto da Anna e dal potente cancelliere Jan Zamoyski, ma il risultato non fu accettato da Massimiliano, che sfidò il rivale avviando la prima guerra di successione polacca (15871588). In segno di riconciliazione, nel 1592 il vittorioso Sigismondo sposò l’arciduchessa Anna d’Austria e, morto il padre, ottenne dal Sejm il permesso di accettare anche la corona svedese. Fervente cattolico, Sigismondo cercò di convertire la protestante Svezia inimicandosi la nobiltà, che si radunò intorno a suo zio Carlo scatenando una guerra civile che ebbe come conseguenza la dissoluzione della breve unione tra la Svezia e la Confederazione. Alla sua marzo

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morte, il 30 aprile 1632, la corona passò al figlio Ladislao IV (15951648), il cui regno si consumò nel vano tentativo di conquistare la Russia e contendere alla Svezia la supremazia nel Baltico: l’ennesimo conflitto portò, durante il regno di Giovanni II Casimiro (1609-1672), all’invasione russo-svedese, passata tristemente alla storia come «il Diluvio» (1655-1660). In tale occasione anche Vilnius, appena ricostruita dopo il rovinoso incendio del 1610, fu di nuovo distrutta e gli abitanti trucidati; migliaia di contadini vennero deportati nelle zone orientali sotto controllo russo, causando il tracollo dell’economia. Tra gli effetti collaterali della guerra ci fu anche l’esodo di opere d’arte, libri e oggetti di valore, molti dei quali figurano ancora oggi nelle

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collezioni svedesi. Dopo la capitolazione di Vilnius a opera dei russi, il 20 ottobre 1655 Janusz Radziwiłł e suo cugino Bogusław Radziwiłł firmarono l’Unione di Kedainiai, che pose fine all’unione polacco-lituana. Vilnius sarebbe stata riconquistata solo il 2 dicembre 1661, prostrata dalla fame e dalle pestilenze e con una popolazione ormai ridotta ai minimi termini.

Gli ultimi fuochi

Tra i tanti personaggi di questi anni difficili, spicca Jan (Giovanni) III Sobieski, a capo della Confederazione dal 1674 al 1696, per il decisivo apporto fornito all’imperatore Leopoldo I d’Asburgo contro le forze ottomane. La schiacciante vittoria sui Turchi da lui ottenuta a Vienna (11-12 settembre 1683) gli

valse il titolo di Defensor fidei («difensore della fede»), imponendolo tra i sovrani piú importanti e ammirati d’Europa. Ma ormai la Confederazione e il lungo e interminabile «Medioevo lituano» erano avviati al tramonto. Indebolita dai continui conflitti, razziata dagli eserciti e impoverita dalla fame e dalle devastazioni, languí fino al 1772, quando una serie di spartizioni (le altre due avvennero nel 1793 e nel 1795) ne decretarono la definitiva scomparsa dalle carte geografiche d’Europa. Se la Polonia andò all’Austria, la Lituania fu assegnata in gran parte all’Impero russo, entrando nell’orbita zarista e andando incontro a una nuova stagione di soprusi, negazione d’identità e violenze, chiusa soltanto in tempi recenti.

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ALLA SCOPERTA DI VILNIUS

UN PASSATO DA RICOSTRUIRE La Cattedrale di Vilnius, di fronte alla quale svetta la torre campanaria.

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ll’inizio della Grande Guerra, la Lituania fu conquistata dall’impero tedesco durante la sua avanzata sul fronte orientale; seguí nel 1918 un’indipendenza che durò pochi mesi, perché nello stesso anno giunse l’occupazione sovietica. E sovietico il Paese tornò a essere nel secondo dopoguerra, dopo l’atroce parentesi dell’invasione nazista culminata nello sterminio della comunità ebraica. I Sovietici ripresero la «russificazione» forzata, già intrapresa in epoca zarista, attraverso un’operazione di metodica «cancel culture» che partí dalla scristianizzazione degli edifici di culto, riconvertiti a luoghi di propaganda, e continuò nel segno di un opprimente controllo della popolazione sfociato nella deportazioni di intellettuali, attivisti

San Stanislao

Vescovo, martire e santo San Stanislao (1030-1079), vescovo di Cracovia, fu fatto uccidere dal re Boleslao II di Polonia detto l’Ardito perché ne aveva pubblicamente denunciato la vita dissoluta: i sicari del sovrano lo assassinarono nella chiesa di S. Michele mentre celebrava la messa e il suo corpo, mutilato, fu dato in pasto ai cani. I resti, recuperati dai canonici e seppelliti nella stessa chiesa, furono traslati, nel 1088, nella cattedrale del Wawel, dove riposano tuttora. Dichiarato santo e martire da papa Innocenzo IV nel 1253, Stanislao è patrono della Polonia, ma il suo culto è assai vivo anche in Lituania. A lui è dedicata la cattedrale di Vilnius, il cui titolo condivide con san Ladislao (1040-1095), re d’Ungheria, canonizzato il 27 giugno 1192 da papa Celestino III in quanto ritenuto l’incarnazione dell’ideale cavalleresco, per le sue virtú e l’aver combattuto con valore i Peceneghi e i Cumani ancora pagani. Miniatura raffigurante san Stanislao, ai piedi del quale sono inginocchiati Sigismondo I di Polonia e Piotr Tomicki, vescovo di Cracovia e vice cancelliere della corona. 1530-1535. Varsavia, Biblioteca Nazionale.

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politici e dissidenti. La Repubblica Socialista Sovietica Lituana cessò di esistere l’11 marzo 1990, quando venne ricostituito il parlamento (Seimas) e proclamata l’indipendenza. Primo Paese baltico a distaccarsi dall’URSS, la Lituania rientrò da allora gradualmente nell’orbita europea fino alla formale adesione, nel 2003, all’Unione Europea. Il trattato sarebbe entrato in vigore dal primo maggio dell’anno successivo.

Ricostruzione e valorizzazione

Al centro di una storia cosí travagliata, Vilnius ha subito ferite tali da renderne difficilmente riconoscibile, almeno nell’immediato, il volto medievale. La sua scoperta è quindi ancor piú affascinante grazie all’impegno con cui, dopo il 1990, i Lituani hanno saputo pazientemente riannodare i fili della tradizione ricostruendo e valorizzando i monumenti-simbolo della loro identità disseminati nel centro storico – la Città Vecchia – riconosciuto nel 1994 patrimonio UNESCO. I piú importanti si concentrano nella piazza principale, quella della Cattedrale. Qui domina, ai piedi del colle del castello, la candida mole della grande chiesa intitolata ai santi Stanislao e Ladislao, luogo di incoronazione e sepoltura dei granduchi, ricostruita nel 1783 dall’architetto Laurynas Stuoka-Gucevicius in forma neoclassica sul luogo delle precedenti basiliche medievale e rinascimentale. Sconsacrata nel 1950 dai Sovietici, che ne

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In alto il Palazzo dei Granduchi di Lituania. A destra un camminamento all’interno delle fortificazioni del Castello Superiore di Vilnius, in origine utilizzato per i tiri di artiglieria.

fecero dapprima un magazzino e poi una pinacoteca e una sala da concerto, la Cattedrale ha riacquistato la sua funzione il 5 febbraio 1989, simbolico inizio del percorso di riconquista, da parte dei Lituani, della propria identità e indipendenza. Al suo interno si possono ammirare diverse cappelle, la piú importante delle quali è quella di S. Casimiro († 1484, vedi box a p. 92), realizzata in stile barocco nel 1623-1636 per volere di Sigismondo III Vasa e dominata dal sarcofago settecentesco che contiene le spoglie del santo. Sotto di essa si trova la cripta, il luogo piú suggestivo e denso di storia dell’intera città: nel Mausoleo Reale e nella cripta del capitolo si trovano infatti le tommarzo

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be dei granduchi lituani, tornate alla luce nel 1931 in occasione dei lavori di ristrutturazione imposti da una disastrosa alluvione. Riposano qui Vitoldo († 1430), sua moglie Anna († 1418), suo fratello Sigismondo († 1440) e suo cugino Švitrigaila († 1452), Alessandro I Jagellone († 1506) e le due mogli di Sigismondo II Augusto, Elisabetta d’Austria († 1545) e Barbara Radziwiłł († 1551). Qui furono deposti anche il cuore e le viscere di Ladislao IV Vasa († 1648), mentre il suo corpo è nella cattedrale di Cracovia, cosí come quello degli altri granduchi di Lituania e sovrani di Polonia. Bona Sforza († 1557) è invece sepolta a Bari in uno splendido monumento nella cattedrale di S. Nicola.

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I sotterranei conservano anche uno dei piú antichi affreschi di tutta la Lituania, risalente alla fine del XIVinizi del XV secolo e scoperto nel 1985. La scena rappresenta la Crocifissione – Cristo in croce al centro tra la Vergine e Giovanni evangelista – secondo un’iconografia diffusa sia nell’Oriente bizantino e ortodosso che nell’Occidente cattolico. Ciò che rende l’opera peculiare è la commistione di stili e linguaggi: seppur stilisticamente affine alle crocifissioni bizantine (l’aureola sul capo di Cristo presenta anche alcune lettere greche), la presenza di particolari quali i tre chiodi anziché quattro, secondo uno svolgimento tipico della tradizione occidentale, fanno riconoscere nell’ignota mano che

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Dossier san casimiro e il vytis

E poi venne il cavaliere bianco... Terzo figlio di Casimiro IV e di Elisabetta d’Austria nonché nipote di Ladislao II, Casimiro nacque il 3 ottobre 1458 a Cracovia nel castello del Wawel. Appena tredicenne, in virtú dell’eroismo dimostrato dallo zio Ladislao III, caduto a Varna nel 1444 combattendo i Turchi, ricevette l’offerta della corona magiara, ma rifiutò per guidare la Polonia, reggendo con saggezza il timone durante i quattro anni (1481-1483) in cui il padre fu impegnato in Lituania. La vera vocazione del giovane non era però il potere, ma la preghiera. Sfiancato dai digiuni, si ammalò di tubercolosi e morí, a soli ventisei anni, il 4 marzo 1484 in terra lituana. Fu sepolto nella Cattedrale di Vilnius; i resti vennero trasferiti nel 1636 all’interno della cappella a lui dedicata e poi nascosti piú volte durante le guerre che minacciarono la città tra il XVII e il XVIII secolo; infine durante l’occupazione sovietica, finirono nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo per poi tornare definitivamente in Cattedrale il 4 marzo 1989. L’iter di beatificazione di Casimiro fu avviato nel 1517 alla luce dei numerosi miracoli che gli si attribuivano, tra i quali l’apparizione, durante una battaglia, sotto forma di cavaliere bianco (Vytis) armato di spada e scudo: un’immagine che costituisce oggi lo stemma ufficiale della Lituania. Monsignor Zaccaria Ferreri, inviato dal pontefice per raccogliere la documentazione necessaria, scrisse a Vilnius una Vita beati Casimiri, poi pubblicata nel 1521. La canonizzazione si ebbe solo nel 1602 a opera di papa Clemente VIII; seguí nel 1636 la sua proclamazione, da parte di Urbano VIII, a patrono della Lituania. In quegli anni venne anche costruita, sempre a Vilnius, la grande chiesa a lui intitolata, iniziata dai Gesuiti nel 1604 e terminata nel 1616-18 (si tratta della piú antica chiesa barocca cittadina). Il culto di Casimiro è ben presente anche al di fuori della Lituania; in Italia è celebre il reliquiario d’ambra, realizzato a Danzica, inviato in dono nel 1667 dal vescovo di Vilnius Steponas Mikalojus Pacas a Cosimo III de’ Medici e contenente il femore del santo (lo scrigno è conservato nella basilica di S. Lorenzo a Firenze). Da secoli in occasione della sua festa (4 marzo) la capitale lituana ospita la tradizionale Fiera che raduna, in piazza del Municipio, bancarelle di artigianato e prodotti locali.

A sinistra la cappella di S. Casimiro all’interno della Cattedrale. In alto, sulle due pagine la chiesa di S. Michele Arcangelo.

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la dipinse quella di un artista formatosi in ambiente ortodosso, ma vicino ai Francescani, forse un neofita (la conversione ufficiale della Lituania era avvenuta da poco). Il dipinto rappresenta uno straordinario esempio di adattamento, o latinizzazione, dell’arte bizantina. Sotterranei della Cattedrale e mausoleo sono visitabili unicamente su prenotazione con visita guidata (per informazioni: https://bpmuziejus.lt/crypts.html); il Tesoro della Cattedrale è invece esposto nella chiesa di S. Michele Arcangelo (vedi box a p. 95).

Da struttura difensiva a campanile

La Cattedrale faceva parte di un vasto sistema di fortificazioni, uno dei principali dei Paesi baltici, che un tempo cingevano questo settore di Vilnius: tra le vestigia superstiti svetta la torre campanaria alta 52 m (57 contando la croce che la sormonta). La struttura si

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innesta sui resti di una delle antiche torri difensive del castello inferiore, visibili nel basamento. Piú volte danneggiata dagli incendi, di cui mostra le tracce, è stata ristrutturata nel tempo – l’aspetto attuale è frutto dei rimaneggiamenti di inizio Ottocento –, ma vanta ancora il piú antico orologio meccanico della città (montato nel 1672) e un suggestivo concerto di campane che ogni giorno alle 17 richiama i fedeli alla Messa. Dalla terrazza si può godere una splendida vista sulla città, mentre all’interno la mostra «Barbara, etc.», evento inserito nel ricco calendario delle celebrazioni per i 700 anni di Vilnius, offre uno sguardo intrigante sulla vita privata di Barbara Radziwiłł, seconda e amatissima moglie di Sigismondo Augusto, raccontandone il lato piú intimo e umano, dalle abitudini alimentari alle cure mediche, dagli abiti ai gioielli. Il titolo ricalca la firma, piuttosto informale, con cui la granduchessa

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Il Tesoro della Cattedrale

La collezione ritrovata Il Tesoro della Cattedrale iniziò a formarsi a partire dal 1387, frutto delle donazioni dei granduchi e arricchito nel tempo da arredi sacri, paramenti, reliquie e altri oggetti preziosi conferiti dai prelati e dai magnati di Lituania. La collezione fu compromessa durante l’invasione russo-svedese del 16551660, depredata dagli eserciti nemici. Parzialmente ricostruito a prezzo di ingenti somme di denaro, il Tesoro

andò incontro a nuove dispersioni alla fine del Settecento durante le spartizioni che posero fine alla Confederazione polacco-lituana. Quel che restava fu nascosto il 1° settembre 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale. La collezione rimase sconosciuta fino al 1985, quando in occasione della ristrutturazione della Cattedrale fu rinvenuta all’interno di alcune nicchie

Ostensorio in argento in origine appartenente alla chiesa gesuita di S. Casimiro. Vilnius, Tesoro della Cattedrale.

era solita chiudere le proprie lettere, alcune delle quali sono esposte in mostra (www.700vilnius.lt; per informazioni: varpine@bpmuziejus.lt). A fianco della Cattedrale sorge il Palazzo dei Granduchi di Lituania, realizzato nel XV secolo sui resti di una parte del castello inferiore, a sua volta costruito prima del XIII secolo per difendere la parte «a valle» della città. Distrutto dall’incendio del 1513, questo settore del complesso castrense fu ricostruito dalle fondamenta e al posto dell’antico castello medievale sorse il palazzo granducale, ampliato per volontà di Sigismondo il Vecchio e Bona e del loro figlio Sigismondo Augusto, che ne fecero una splendida reggia. Il palazzo bruciò di nuovo nel 1610 durante la reggenza di Sigismondo III Vasa; la conseguente ricostruzione avvenne con la collaborazione di architetti e artisti tra cui i fratelli Costante e Jacopo Tencalla, che regalarono al nuovo edificio un volto barocco. Rimasto per quattro secoli il cuore politico, amministrativo e culturale della Lituania, il Palazzo dei Granduchi fu demolito nel 1801 dal potere zarista. Quello che si ammira oggi è il frutto della paziente ricostruzione realizzata, dopo una meticolosa campagna di scavi archeologici, tra il 2002 e il 2018. Le tracce della costruzione originaria sono visibili al pianterreno, mentre nelle sale interne, adibite a Museo Nazionale, si dipana un’esposizione permanente: reperti, opere d’arte e cimeli narrano al pubblico, grazie all’ausilio di pannelli illustrati in lituano e inglese, le vicende storiche dell’edificio e la vita quotidiana, le passioni, i vizi e le virtú dei suoi illustri abitanti (per informazioni: https://www.valdovurumai.lt/en).

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segrete; i pezzi furono catalogati e poi subito nuovamente occultati per evitarne la requisizione e il trasporto in Unione Sovietica. Con l’indipendenza della Lituania, il Tesoro della Cattedrale è stato restituito alla comunità e ora si può ammirare nel Museo del Patrimonio Ecclesiastico aperto nel 2009 nella basilica di S. Michele Arcangelo, splendido esempio di architettura tardo-rinascimentale e barocca. Info bpmuziejus.lt

Il complesso fortificato di Vilnius si completava con il Castello Superiore sulla collina, alta 48 m alla confluenza dei fiumi, costruito nel XIV secolo da Gediminas su fondamenta preesistenti. Piú volte distrutto e ricostruito, andò incontro a un progressivo degrado ed è oggi ridotto a poche vestigia, la piú importante delle quali è la torre occidentale, o Torre di Gediminas, uno dei simboli di Vilnius. Al suo interno è esposta (fino al prossimo 4 giugno) una copia coeva della lettera datata 25 gennaio 1323 in cui Vilnius è nominata per la prima volta, conservata negli Archivi Storici Statali della Lettonia. A Gediminas, eroe della città, è dedicato davanti alla piazza il monumento di bronzo che lo ritrae armato di tutto punto, vicino al suo inseparabile cavallo (vedi foto in apertura, a p. 69).

Lo stupore di Napoleone

Quanto agli altri monumenti medievali, la chiesa piú antica è S. Nicola, costruita nel XIV secolo a opera dei mercanti tedeschi e menzionata per la prima volta nel 1387. Gli interni non rendono giustizia alla sua vetustà, ma il tempio conserva il suo fascino grazie all’esterno di mattoni in stile gotico. Piú spettacolare appare la chiesa di S. Anna, che domina la riva destra della Vilna. Eretta originariamente in legno – prassi diffusa in Lituania – per volontà di Anna, moglie di Vitoldo, bruciò nell’incendio del 1419 e venne ricostruita in mattoni da Alessandro Jagellone tra il 1495 e il 1500; leggenda vuole che il suo aspetto maestoso, in stile gotico fiammeggiante baltico, abbia affascinato Napoleone Bonaparte, che la vide durante la Campagna di Russia nel 1812. A pochi passi da S. Anna sorge, ancora piú imponente, la chiesa dei Ss. Francesco e Bernardino o dei Bernardini (vedi box a p. 96), appoggiata all’omonimo monastero. Considerata il piú grande edificio gotico in

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Dossier Frati Minori in Lituania

Una presenza importante I primi Frati Minori giunsero in Lituania da Riga e si stabilirono a Vilnius durante la reggenza di Vitoldo, che affidò loro la chiesa dell’Assunzione della Beata Vergine Maria di Kaunas, da lui fatta erigere come ex voto per essere scampato alla morte nel 1399 contro i Tatari. I primi due vescovi della diocesi furono francescani: Andrzej Jastrzebiec detto Wasiło (in lituano Andrius Vanagaitis, 1388-

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1398) e Jakub Plichta (1398-1407). Alla presenza dei Minori si aggiunse, nella seconda metà del XV secolo, quella degli Osservanti, che qui presero il nome di Bernardini (da san Bernardino da Siena), insediati in Polonia nel 1453 per iniziativa di Giovanni da Capestrano. Inviato in missione da Niccolò V, Giovanni fu chiamato a Cracovia da Casimiro IV Jagellone, padre di san Casimiro (vedi box a

p. 92) per fondarvi un convento: da qui i Bernardini partirono per raggiungere dapprima (1468) Kaunas e poi (1469) Vilnius, contribuendo in maniera determinante alla vita religiosa della città. In basso una veduta della città vecchia di Vilnius con la chiesa di S. Anna. Nella pagina accanto l’interno della Porta dell’Aurora con l’immagine della Madonna Nera considerata miracolosa.

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Lituania, pur nelle vicissitudini – incendi, crolli, l’assalto dei cosacchi durante il Diluvio e la conversione a usi civili nel periodo sovietico – è riuscita a mantenere altari e sepolture e alcuni affreschi, scoperti nel 1981, in stile tardogotico e a tema agiografico. Tutte le altre chiese cittadine, per quanto in molti casi antiche, si presentano oggi in forma barocca. Chiudiamo segnalando, sempre nella Città Vecchia, la Porta dell’Aurora: menzionata per la prima volta nel 1514, era parte di una cappella sorta a ridosso di una delle nove porte d’ingresso alla città, che conduceva al villaggio di Medininkai. Vanta un’immagine della Vergine, appartenente alla tradizione iconografica delle Madonne Nere, considerata

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miracolosa: per questa ragione, quando alla fine del Settecento le porte e le mura vennero abbattute dal potere zarista, la cappella fu risparmiata e continuò a essere oggetto di venerazione – e lo è tuttora – da parte tanto dei cattolici quanto degli ortodossi. Un simbolo di dialogo oggi quanto mai potente, mentre a poche centinaia di chilometri da Vilnius, in Ucraina, si sente di nuovo il rombo dei cannoni.

Dove e quando Per notizie sulla città www.govilnius.lt Per il 700° anniversario www.700vilnius.lt

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Storie, uomini e sapori

La reputazione del maiale di Sergio G. Grasso

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ra tutti gli animali domestici, il maiale presenta il piú alto indice di conversione dell’alimento ingerito in peso corporeo. Nelle razze moderne questo indice può arrivare a tre, come dire che un maiale che mangi in un giorno tre chili di cibo guadagna un chilo di peso. Fortunatamente si accontenta di qualsiasi nutrimento, sia esso una carogna o escrementi mescolati con crusca. Il maiale non suda e per controllare la propria temperatura necessita di molta acqua o fango. Da qui la sua reputazione per la sporcizia e i tabú che la accompagnano. Tuttavia. già nel Medioevo, piú di un autore sottolineava il grande contrasto tra i cibi vili o abietti di cui il maiale si nutriva e il sapore incomparabile della sua carne. Ma andiamo con ordine.

Domesticazione e selezione Il maiale è il risultato della domesticazione del cinghiale (Sus scrofa, Sus ferus) o forse del suo cugino delle savane, il facocero (Phacochoerus africanus). L’esame osteologico di innumerevoli reperti di suidi autorizza a collocarne la domesticazione intorno al VII millennio a.C., epoca in cui si manifestano indizi di abbattimento periodico, di uccisione prevalente di esemplari maschi, oltre ad alcune mutazioni «selettive» come la riduzione della taglia, il rimpicciolimento degli arti e del capo. Fu risorsa primaria

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La caccia al cinghiale calidonio, olio su tavola di Peter Paul Rubens. 1611-1612. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum. Protagonista del mitico episodio è Meleagro, signore di Calidone e figlio di Eneo, che diede la caccia al terribile cinghiale mandato da Diana, offesa perché il padre del principe non aveva sacrificato in onore della dea. marzo

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in Grecia e, assieme alla capra, vittima sacrificale nelle Tesmoforie, le feste in onore di Demetra. D’altronde i suini compaiono spesso nella mitologia. Basti pensare al Calidonio, il vorace cinghiale inviato da Ares per uccidere Adone innamorato di Afrodite; un altro cinghiale, quello di Erimanto, venne affrontato da Ercole in una delle sue proverbiali sette fatiche. In Omero si legge che l’indovino

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Tiresia consigliò a Ulisse di placare le ire di Nettuno anche sacrificando un maiale maschio; nell’Odissea, la maga Circe trasforma in porci i compagni di Ulisse e quando l’eroe torna finalmente a Itaca, la prima persona che incontra è Eumeo, il guardiano dei porci che in suo onore uccide due lattonzoli; piú tardi, pur se vestito come un mendicante, il re di Itaca viene riconosciuto dalla sua vecchia

nutrice Euriclea grazie a una cicatrice procuratagli in gioventú da un cinghiale sul Parnaso. Sappiamo che in Grecia il maiale si cuoceva intero sullo spiedo o nel forno, mentre a Roma Plinio e Columella magnificano le virtú dei diversi tagli: filetto, cosciotto, succidia (pancetta) e ancora interiora e frattaglie quali fegato, sumen (mammella), vulva (utero), glandium (timo).

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CALEIDO SCOPIO Nell’Occidente medievale, a eccezione di Ebrei e musulmani, la carne di maiale rimase sempre la piú consumata. Pancette, lardo e salami rappresentavano una ricchezza da proteggere e sorvegliare; il fatto che fossero frequentemente oggetto di furti e raggiri ispirò un vero e proprio tema letterario, come nel caso di alcuni fablieaux del XIII secolo o dei racconti del Roman de Renart.

La carne e i prodotti derivati In generale, l’allevamento medievale è meno conosciuto degli altri lavori agricoli, anche se fin dall’epoca carolingia emerge come un’attività essenziale nella vita rurale e una risorsa fondante di molti sistemi sociali. Mentre i macellai commerciavano le carni suine, altre parti dell’animale «specializzavano» nuovi mestieri come i salaroli, i lardaroli, i saponari, i candelai, i calzolai e cappellai; vi era chi produceva strutto per friggere e sugna per ungere le ruote di carri e mulini, chi si era specializzato nel lavorare i tendini suini per far corde di strumenti musicali, chi trasformava le setole di porco in pennelli e chi con le ossa realizzava colle, monili, dadi e piccoli utensili. È possibile ricostruire le pratiche di allevamento suino ricorrendo agli atti giudiziari riguardanti i conflitti tra pastori e agricoltori in merito alle quote di terra coltivata necessaria a far fronte agli incrementi demografici verificatisi tra l’anno Mille e la fine del XIII secolo.

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Invariabilmente queste ordinanze e sentenze si esprimono a favore dell’ampliamento dei terreni agricoli a discapito di boschi e selve. Ciò provocò da un lato la contrazione della popolazione suina, dall’altro fece lievitare i costi d’allevamento, trasformando un’ordinaria pratica rurale in un lucroso business, basato sulla disponibilità economica e sulla proprietà fondiaria di pochi. Alla fine del Duecento quella dell’allevatore di maiali era già una vera e propria attività d’impresa praticata anche da abbazie e monasteri. Quando un secolo piú tardi il paesaggio agrario cambiò di nuovo, carestie, guerre, epidemie e crisi demografiche rallentarono il disboscamento, foreste e brughiere riguadagnarono il terreno perduto sul seminativo restituendo lo spazio in precedenza sottratto a greggi

Nella pagina accanto la cattura del cinghiale di Erimanto, terza fatica di Ercole, nella versione della raccolta delle figurine Liebig. 1928. In basso lo stesso episodio dipinto su un’anfora attica a figure nere. Ultimo quarto del VI sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. e branchi; pur tra mille difficoltà, l’Europa tornò a mangiare carne suina contemporaneamente ai primi tentativi di migliorare le genetiche incrociandole in modo da ottenere maiali con carne abbondante e cospicui strati di grasso.

Il «valore» della foresta La storia del maiale nel Medioevo è intimamente legata a quella della foresta in cui l’animale trovava la maggior parte del suo nutrimento, anche quando la vegetazione rallentava e per le altre bestie iniziava a sorgere il problema del cibo. Fin dai tempi di Carlo Magno era consuetudine stimare le dimensioni di un bosco o di una selva in base al numero di maiali che questa riusciva a nutrire. Atti di compravendita stilati intorno al Mille registrano boschi da 100 maiali equivalenti a 150 ettari; due secoli piú tardi il «valore» passò a un ettaro per maiale o anche meno. Pur non essendo dannoso per la vegetazione come la capra o la pecora, il maiale è sempre stato un animale sgradito all’agricoltura, in quanto, non trovando cibo sulla superficie del terreno, grufola e scava, distruggendo radici, semi marzo

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e compromettendo la ricrescita di erbe e alberi. Nulla di strano che dal XII secolo, quando i boschi divennero meno estesi, la loro pastura fosse oggetto di norme comunali come quelle che autorizzavano l’allevamento brado solo in autunno; nel corso dei secoli e dei decenni, queste limitazioni divennero piú numerose e stringenti, soggette a gabelle o piú spesso a clientelismi che favorivano quasi sempre il signore locale. All’epoca del Barbarossa, nei villaggi, i maiali di piú famiglie venivano radunati e affidati a un porcaro, una figura tanto fondamentale nella vita rurale quanto infima, umiliante, ben meno reputata di quella del bovaro e del pastore di pecore o capre. Il porcaro medievale generalmente rimaneva per settimane o mesi nella foresta in totale simbiosi con cinquanta o sessanta maiali; viveva in una spartana capanna come quella dei carbonai, altre figure misantropiche, avvezze a vivere

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nel profondo dei boschi e capaci di indurre il disprezzo, il sospetto e la paura nei contadini. A loro era dedicata un’intera tradizione orale che li trasformava in veri e propri uomini selvaggi, assimilati all’orso e al lupo e colpevoli di patti con il diavolo. Succedeva talvolta che il porcaro conducesse il suo branco su terreni dove era proibito il pascolo o non rispettasse le «tempora» obbligatorie. Questi episodi provocavano violenti conflitti tra gli allevatori, il signore del luogo, la vicina abbazia o i contadini del villaggio accanto.

Una convivenza problematica In città, il maiale non stava nei porcili, ma viveva per strada, nelle piazze e nei lotti vuoti, lungo i fiumi, o anche nei parchi o nei giardini. Da qui altri abusi, litigi, incidenti e innumerevoli processi a carico di proprietari di maiali che entravano nei negozi, saccheggiavano magazzini e ferivano passanti. Alla fine del XIII

secolo furono emanati divieti piú o meno tassativi di allevare maiali all’interno delle mura urbane. Facevano eccezione gli animali dell’Ordine dei Canonici Regolari di Sant’Antonio – istituito da papa Bonifacio VIII nel 1197 – che in virtú del «privilegio del porco» erano autorizzati a nutrire un certo numero di maiali (a Genova tre scrofe, un verro e venti porcellini) riconoscibili per l’anello al labbro superiore, una campanella appesa al collo e il tatuaggio della Tau di sant’Antonio sulle orecchie. La carne di questi animali sfamati dalla carità popolare serviva a nutrire gli infermi degli ospedali gestiti dall’Ordine, mentre con il lardo e la sugna i monaci confezionano emollienti, unguenti e preparati per la cura dell’erisípela (un’infezione batterica della pelle) e dell’ergotismo. Quest’ultimo era noto allora come «fuoco di Sant’Antonio» in memoria dell’ardore mistico di quel santo, eremita nel deserto egiziano del IV

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secolo, costantemente tentato dal demonio e tormentato da leoni, tori, lupi e serpenti. L’ergotismo era un’intossicazione alimentare provocata da un fungo parassita (Claviceps purpurea) che infestava la segale utilizzata per la preparazione del pane in sostituzione del frumento. Per comprendere la drammaticità della malattia che falcidiò milioni di persone in Europa tra il X e il XVI secolo, può tornare utile la descrizione che ne fece il benedettino Sigiberto di Gembloux (1030-1112): «A molti

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le carni cadevano a pezzi, come se li bruciasse un fuoco sacro che divorava le loro viscere. Le membra a poco a poco rose dal male diventavano nere come il carbone. Morivano rapidamente tra atroci sofferenze, oppure continuavano, privi di piedi e delle mani, un’esistenza peggiore della morte».

Guarigioni miracolose Mentre Sigiberto scriveva la sua Cronographia, le reliquie di sant’Antonio Abate furono traslate da Costantinopoli al priorato benedettino di Vienne, nella valle

del Rodano, dove si manifestarono alcune guarigioni miracolose dall’ergotismo e dove i malati provavano sollievo dall’applicazione sulle piaghe del grasso di maiale. Da allora l’immagine di quell’animale, nonostante le valenze negative legate alla sua «sorditas, luxuria, gula et ira» e al suo essere coprofago e necrofago, venne associata a quella del santo eremita capace di sovvertirne la natura maligna. Il privilegio del porco concesso agli antoniani da Bonifacio VIII rimase in vigore fino al 1539, ma in molte marzo

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città (Milano, Bologna, Firenze, Colonia…) i maiali liberi, antoniani o fuorilegge, scorrazzavano indisturbati ancora nel XVIII secolo e a Napoli, fino ai primi del Novecento. Pur nel mezzo dei continui divieti succedeva spesso che qualche maiale clandestino scorrazzasse per le vie di una grande città come Firenze. A tal proposito, nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1400) si legge un gustoso episodio che ebbe come protagonista il pittore Giotto: «Essendo nella via del Cocomero alquanto ristato, dicendo una

la reputazione del maiale nel Medioevo è inversamente proporzionale al valore e al pregio gastronomico delle sue carni.

Essere diabolico Viene considerato come una bocca costantemente aperta, un orifizio spalancato, una voragine; non guarda mai al cielo – cioè a Dio – ma alla terra, dove spera di trovare il cibo partecipando alla mitologia del mondo oscuro e sotterraneo. Nel ricco bestiario di Satana, il maiale occupa un posto di rilievo assieme alla capra, all’orso, alla

scimmia, al rospo, al drago e assieme a loro si ritrova scolpito sui capitelli delle chiese romaniche, nelle gargolle delle cattedrali gotiche e in molte tele escatologiche del tardo Medioevo. Oltre alla voracità, al maiale ha certo nuociuto anche il colore scuro del suo mantello. Come il cinghiale – la «bestia nera» per antonomasia – il maiale domestico medievale era di pelo grigio, nero, fulvo o maculato, colori naturalmente associati alla sporcizia, al fango e all’oscurità. Le varietà suine biancorosate saranno introdotte in Europa

A sinistra e nella pagina accanto allegorie dei mesi di novembre (a sinistra) e ottobre, rispettivamente rappresentati dallo scannamento del maiale e dalla liberazione di un branco di maiali nella foresta, affinché possano cibarsi di ghiande e di altri prodotti del bosco, dal Libro d’Ore del conte Carlo di ValoisAngoulême, illustrato dal miniatore Robinet Testard. 1482-1485 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

certa novella, passando certi porci di Sant’Antonio, e uno di quelli correndo furiosamente, diede tra le gambe a Giotto per sí fatta maniera che Giotto cadde in terra. Il quale aiutatosi da sé e da’ compagni, levatosi e scotendosi, né biastemò i porci, né disse verso loro alcuna parola; ma voltosi a’ compagni, mezzo sorridendo, disse: “O non hanno e’ ragione? ché ho guadagnato a mie’ dí con le setole loro migliaia di lire, e mai non diedi loro una scodella di broda!”» (Novella LXXV). A parte la gratitudine di Giotto,

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Miniatura raffigurante macellai intenti all’uccisione di un maiale e a preparare le carni di capi già abbattuti, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante condotti al pascolo nel bosco, dal Libro d’Ore del duca Jean de Berry. 1412-1416 circa. Chantilly, Musée Condé.

solo nel Settecento e anche allora guardate con sospetto in quanto richiamavano una vergognosa nudità. Anche la sua scarsa acuità visiva veniva scambiata per un vizio, essendo la vista il piú prezioso dei cinque sensi. «Dio è luce», quindi chi vive nelle tenebre, come i ciechi o gli animali con abitudini notturne (gufo, gatto, volpe, rospo), non può che essere nemico di Dio, servo del Diavolo. Un’ultima notazione sull’altalenante reputazione del maiale s’impone a proposito della sua relazione col primo monachesimo. In Italia il termine «norcino» indica l’esperto nella sezionatura, concia e stagionatura delle carni suine. Il nome di questo artigiano rimanda a Norcia, la città umbra che diede i natali a san Benedetto, ma che è piú prosaicamente nota per la qualità

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dei suoi salumi e prosciutti. A onor del vero, il mestiere del norcino nasce a pochi chilometri dalla città di san Benedetto, a Preci, un piccolo comune che si affaccia sulla Valle Castoriana. Lí, all’inizio del V secolo, mentre i Visigoti di Alarico saccheggiavano Roma, giunse un gruppo di monaci basiliani in fuga dalla Siria dilaniata dalle persecuzioni religiose.

Monaci chirurghi In un primo momento, i confratelli si stabilirono in alcune grotte sul fianco della montagna, poi la comunità crebbe e si rese necessaria la costruzione di una chiesa e di un piccolo monastero che fu intitolato a sant’Eutizio, quasi coetaneo di san Benedetto e guida spirituale del gruppo, morto nel 540. Nell’XI secolo l’abbazia benedettina di S. Eutizio

era diventata il principale centro religioso, civile ed economico della zona e i suoi monaci, specializzati in farmacia, medicina e abilissimi chirurghi, prestavano la loro opera agli infermi dell’intera Valnerina. Nel 1215 il Concilio Lateranense vietò ai monaci l’esercizio della chirurgia, e ai buoni monaci di S. Eutizio non restò che trasmettere le loro conoscenze ad alcuni abitanti del borgo, cosí da garantire un minimo di assistenza medica ai contadini della valle. Nascevano cosí i primi chirurghi «empirici», che facevano pratica sulle migliori cavie disponibili: i maiali. In pochi anni la fama di questi «praticoni» istruiti dai frati giunse alle orecchie dei medici di tutta Europa che avevano necessità di rimuovere calcoli urinari, contenere ernie, intervenire sulle cataratte e operare salassi ai loro augusti pazienti. Alle mani dei chirurghi preciani si affidarono Elisabetta Tudor regina d’Inghilterra, il sultano Mehemet IV di Turchia, la principessa Eleonora Gonzaga e molti altri potenti afflitti da patologie che richiedevano una soluzione chirurgica. È incerto se l’abilità dei chirurghi preciani sia stata frutto della loro storica vocazione a sezionare i suini o se appresero a trattarne le carni grazie alla pratica appresa dai monaci di S. Eutizio. Fatto sta che la maestria nell’uso del coltello, l’abilità nel taglio delle carni, la perfetta dissanguatura dei cosci e l’arte della concia (solo sale, pepe, spezie e vino) dei contadini di Preci diventarono tanto proverbiali quanto l’abilità chirurgica degli empirici, che «cavavan pietre da la vessicha e rendean la luce agl’occhi», ma che erano anche richiestissimi dalle scuole di canto di tutt’Europa per «castrar fanciulli e dar loro voci sublimi e movenze gentili». marzo

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Quando i santi prendevano le armi

Con la bianca armatura e per spada una reliquia di Paolo Pinti

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iovanna d’Arco, la Pulzella d’Orléans, è davvero uno dei personaggi piú famosi di tutti i tempi e la sua storia è conosciuta in tutto il mondo. Qui, però, ci occuperemo delle sue armi, sia quelle che realmente utilizzò, sia, e soprattutto, quelle raffigurate nelle innumerevoli opere pittoriche e scultoree che la rappresentano. Jeanne d’Arc, (all’epoca, non usandosi l’apostrofo, il suo nome in medio francese era Jehanne Darc), nacque il 6 gennaio 1412 nel villaggio lorenese di Domrémy (oggi Domrémy-la-Pucelle, nel dipartimento dei Vosgi, nella Francia nord-orientale, in Borgogna). Già all’età di tredici anni iniziò a sentire «voci celestiali» e ad avere le visioni dell’arcangelo Michele, di santa Caterina e di santa Margherita, che la invitavano a correre in aiuto di Carlo VII, delfino di Francia, che stava battendosi per il trono contro gli Inglesi e i loro Giovanna d’Arco all’incoronazione del re Carlo VII, nella cattedrale di Reims, olio su tela di Jean-Auguste-Dominique Ingres. 1854. Parigi, Museo del Louvre. La santa è in piedi, vestita della sua armatura; tiene la mano sinistra sull’altare, ornato di oggetti religiosi e insegne reali, e con la destra impugna lo stendardo. Sui gradini dell’altare, ricoperti di panno azzurro con gigli gialli, vediamo l’elmo e un guanto d’acciaio. Alle sue spalle, stanno uno scudiero un cappellano e un paggio.

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Miniatura raffigurante Giuditta che brandisce la testa di Oloferne e, dietro di lei, «Jehanne la pucelle», da un’edizione de Le champion des dames, poema allegorico in difesa delle donne scritto da Martin Le Franc. 1451. Parigi, Bibliothèque nationale de France. alleati borgognoni, nella cosiddetta Guerra dei Cent’anni. Gli stessi genitori la ritennero pazza – e, anche oggi, i suoi sintomi verrebbero probabilmente giudicati allarmanti dal punto di vista psichiatrico –, ma Giovanna riuscí comunque a convincere i comandanti dell’esercito francese e poi lo stesso re Carlo a muovere per liberare Orléans dall’assedio inglese. L’impresa ebbe successo e, in breve, la Pulzella (in francese, pucelle d’Orléans) si trovò a comandare o comunque guidare gli armati del re in una serie di scontri, seguita dall’entusiasmo dei tanti che credevano in lei e nella sua missione divina. Venne poi catturata dai Borgognoni, alleati degli Inglesi, e da questi ultimi fatta infine processare e condannare come «scomunicata ed eretica» a Rouen, città in cui fu mandata al rogo il 30 maggio 1431. La sua triste storia è narrata in innumerevoli libri, film, quadri, statue e, ad approfondirla, si scoprono fatti e interpretazioni degli stessi molto interessanti e diversi fra loro.

Fra realtà e fantasia Nel nostro caso, però, ci interessano i simboli della santa e, piú precisamente, le armi. Essendo un condottiero che non esitava a partecipare agli scontri, la sua immagine è tutt’uno con le armi, quali l’armatura – quasi sempre presente e che costituisce uno dei simboli ufficiali – e la spada. Molto succintamente parleremo delle armi, citate in cronache e racconti, che si riferiscono direttamente a Giovanna d’Arco, nonché di quelle raffigurate in alcuni dei dipinti che

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la rappresentano. Assai prezioso è il disegno che un segretario del Tribunale di Parigi eseguí nel maggio del 1429, appena si ebbe notizia della liberazione di Orléans, oggi conservato negli Archivi Nazionali di Parigi (vedi foto qui accanto). Non si tratta di un ritratto, nel vero senso della parola, ma di un semplice schizzo che, all’epoca, chi redigeva verbali e/o cronache era solito eseguire a margine del fatto descritto, per dare maggior realismo allo stesso. Qui la Pulzella appare tale, Schizzo eseguito nel maggio del 1429 da un segretario del Tribunale Supremo di Parigi subito dopo la notizia della liberazione di Orléans, raffigurante Giovanna d’Arco, con al fianco una spada da stocco perfettamente descritta, tanto da suggerire che anche gli altri particolari siano riprodotti fedelmente: di qui, la messa in dubbio che portasse i capelli corti. Parigi, Archivi Nazionali.

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CALEIDO SCOPIO Arazzo raffigurante l’arrivo di Giovanna al castello di Carlo VII, a Chinon. Fine del XV sec. Orléans, Musée Historique et Archéologique de l’Orléanais. Si vede la scarpa a lame con una punta molto lunga e lo sprone a rotella pure con collo lunghissimo: entrambe caratteristiche del XV sec. La scarpa à la poulaine (alla polacca) ebbe una enorme diffusione e tale moda si trasmise anche alle armature, con difese del piede dalla punta incredibilmente allungata. «diretto» e piú simbolico, con la protagonista che regge, quasi fosse una borsa della spesa, lo scudo con il suo stemma.

Ferite mortali

A sinistra capolettera miniato raffigurante Giovanna d’Arco in abiti da contadina, ma con la spada al fianco e un’arma in asta dotata di scure da un lato e di una bocca dall’altro, come nei mazzapicchi. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. giovanissima e snella – nel 1429 Giovanna aveva solo diciassette anni –, ma il suo sguardo non sembra sereno, anzi è corrucciato, quasi contratto in una smorfia. Ma era davvero quello l’aspetto di Giovanna? Chi ha eseguito lo schizzo dimostra di far caso ai particolari, come per la spada, molto ben descritta, col pomo a disco, l’impugnatura rivestita di strisce

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di pelle, l’elso con le estremità curvate verso la lama e quest’ultima piuttosto corta, molto appuntita e con sguscio centrale, adatta a colpi di punta (stoccate) e non a fendenti. Insomma, una riproduzione fedele dell’arma, che fa pensare a una pari fedeltà della raffigurazione delle fattezze della giovane. È giunto a noi un altro «ritratto» molto antico della santa, che appare però meno

Nel libro Giovanna d’Arco (Milano, 1964), Jay Williams pubblicò la foto di un elmo (per la precisione, un bacinetto), senz’altro databile all’epoca dei fatti, con un foro a sezione quadra lasciato da una verretta di balestra (vedi foto a p. 111), definito tout court come uno di quelli appartenuti a Giovanna d’Arco. Il reperto è conservato al Metropolitan Museum of Art di New York e viene fatto risalire al 1400 circa: benché vecchio, il suo uso da parte della Pulzella è plausibile, magari agli inizi della sua avventura. All’apice, sono evidenti i frammenti della catenella di ferro forse utilizzata per appenderlo nella chiesa di Saint-Pierre de Martroi a Orléans, dove era stato lasciato come ex voto. È stata anche avanzata l’ipotesi che la catenella servisse ad assicurarlo al corpo del combattente, come era d’uso per il grand’elmo: un’eventualità verosimile, anche se tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo tale pratica risulta desueta. Manca la visiera, la cui originale presenza è attestata dalle cerniere. Di sicuro, l’utilizzatore di questo bacinetto, dopo essere stato colpito da una verretta non avrebbe certo potuto raccontare quel che gli era accaduto e, quindi, non può marzo

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trattarsi dell’elmo indossato dalla santa, che pure, come vedremo, con le verrette da balestra ebbe a che fare in almeno due occasioni. Nel tomo II della sua Storia militare di Francia dell’Antico e Medio Evo (Firenze 1861), Giovanni Battista Di Crollalanza scrive che «La Pulcella ebbe dal re un’armatura compiuta», cioè completa, che proteggeva interamente il corpo e il capo: fabbricata appositamente per la ragazza, era di dimensioni ridotte ed era «bianca», senza decorazione alcuna sulla superficie del metallo. La notizia è riportata anche in altre fonti e possiamo considerarla attendibile. Si dice che Giovanna aveva lasciato Chinon indossando un’armatura bianca e montando un cavallo nero, mentre successivamente, nella parabola discendente della sua storia, prima di mettersi in viaggio per accompagnare il sovrano ai suoi castelli nella valle della Loira, volle andare nella cattedrale di Saint-Denis, dove appese come reliquia avanti all’immagine della Madonna la sua armatura che aveva indossato a Parigi. Corse voce che l’armatura fosse diventata nera «come se Giovanna fosse già in lutto per la sorte che l’attendeva» (Williams, p. 99). Poiché abbiamo chiarito che «bianca» non significa di colore bianco, ma solo senza decorazioni, forse la descrizione come «nera» potrebbe voler dire che non era piú splendente, con la superficie dell’acciaio «polita», bensí arrugginita, anche se è difficile pensare che alla Vergine venisse offerta una reliquia cosí importante in uno stato meno che perfetto. «Si serviva di un vessillo (era questa l’arma con cui Giovanna entrava arditamente laddove piú fervesse la pugna). Tuttavia portava al suo fianco una spada di cui non si serví che ne’ casi estremi non volendo uccidere alcuno, e una piccola accetta. Piú tardi sembra si servisse pure di una lancia e di una daga,

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poiché la città di Clermont inviolle nel mese di novembre 1429 due daghe pel suo personale. Anche la balestra pare sia stata un’arma di cui ella si servisse, poiché in un arazzo del secolo XV vien rappresentata con quest’arma in mano» (Crollalanza, p. 554). Sebbene definita «piccola accetta», si trattava quasi certamente di una «scure d’arme», che, in effetti, ha il ferro decisamente piccolo.

Un pugnale fatto su misura L’idea di condurre in battaglia un intero esercito e, contemporaneamente, non accettare il concetto di far del male al nemico è piuttosto bizzarra, ma qui conta solo la descrizione del suo armamento: un’armatura completa da cavallo, una spada e una scure d’arme. Le cronache riportano che «Roberto di Baudricourt aveva donato a Giovanna un cavallo e un pugnale per suo uso personale; era un’arma corta e leggera dall’impugnatura sottile, adatta per la sua manina». La sua prima spada è legata a una leggenda secondo la quale sarebbe stata niente di meno che quella di Carlo Martello, il quale, all’indomani della battaglia di Poitiers e dopo avere sbaragliato i resti dell’esercito saraceno in una

Miniatura raffigurante Giovanna d’Arco che guida l’assedio di Parigi, da un’edizione della Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Entrambi gli eserciti impiegano il cosiddetto «arco lungo»; interessante – e certo veritiera – la rappresentazione dell’arciere in primo piano, con quattro frecce infilate nella cintura e non in una faretra: questo per rendere piú celere il tiro. Giovanna, qui, ha un’armatura e un elmo «all’eroica», nonché una spada di generose dimensioni, con impugnatura piuttosto lunga ed elso con pomo a disco e bracci terminanti in modo elaborato, forse a giglio di Francia. Una lunga veste, con spacco laterale (non adatto per cavalcare), contribuisce a farne un’elegante figura, purtroppo rovinata dalla mano sinistra, esageratamente grande, e dal naso pure molto pronunciato. località vicina a Fierbois, avrebbe poi eretto lí una cappella, dedicata a santa Caterina d’Alessandria, nella quale avrebbe lasciato la sua spada, come ex voto. Giovanna, nel marzo 1429, vi si recò (altrove, si legge che incaricò il suo valletto per tale ricerca) e, a suo dire, vi trovò la spada suddetta, reliquia preziosissima che richiamava santa Caterina d’Alessandria e Carlo

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CALEIDO SCOPIO Martello. Un arma-simbolo, dal valore inestimabile. Secondo altre versioni, il delfino di Francia offrí una bellissima spada a Giovanna, ma costei la rifiutò, affermando che dalle sue visioni aveva saputo di una spada sepolta dietro l’altare della chiesa di S. Caterina a Fierbois, caratterizzata da cinque croci impresse sul metallo. Nessuno aveva mai sentito parlare di tale arma, ma – ancora una volta – la totale sicurezza della fanciulla fece sí che venisse mandato sul posto un armaiolo (non il suo valletto quindi), il quale chiese ai preti della chiesa di fare il possibile per trovare tale cimelio. In effetti, dopo accurate ricerche, venne trovata una spada, coperta di ruggine, in una cassa sepolta dietro l’altare. La ruggine venne via facilmente alla prima pulizia

portando in evidenza le cinque croci sulla lama. La leggenda, peraltro, non menziona affatto l’appartenenza originale a Carlo Martello.

La lama spezzata Comunque, a un certo punto si parla della «rottura accidentale» di questa spada («Solitamente, però, ella stessa reggeva il proprio stendardo, non volendo arrecare ferite mortali ai suoi nemici. Forse a seguito della rottura accidentale della prima spada, Giovanna la sostituí con un’altra, presa a un soldato borgognone fatto prigioniero»). Che una spada si rompa accidentalmente, come un vaso di ceramica, appare strano, ma sappiamo che in effetti la cosa fu dovuta alla stessa Giovanna, che la usò per vibrare colpi «di piatto» contro una donna che si rifiutava di

allontanarsi dal suo accampamento. L’immagine di una santa che colpisce una donna indifesa con la spada, anche se «di piatto» – cioè non da un lato affilato – con tanta violenza da rompere la lama, non è troppo edificante, ma è senz’altro credibile che l’acciaio si fosse spezzato, trattandosi di un’arma vecchia di almeno 700 anni. L’episodio ebbe gravi conseguenze, perché molti dei seguaci di Giovanna si convinsero che, insieme alla spada, ella avesse perso il potere soprannaturale che ne derivava, nonostante la Pulzella sostenesse che non si trattava della spada di santa Caterina. Va comunque rilevato che, a quel che sembra, Giovanna fu sempre convinta di aver trovato una reliquia legata in qualche modo a santa Caterina d’Alessandria, alla quale era molto devota, senza considerare il rapporto con Carlo Martello. Di fatto, cosí finisce questa straordinaria reliquia e non se ne sa piú nulla. La spada che la sostituisce, presa a un prigioniero di guerra, non ebbe storia. Continuando a rintracciare episodi riguardanti le armi, ci si imbatte in una curiosità: risulta che Giovanna inviò un messaggio ai nemici, accampati molto vicino, legando il foglio su una freccia e facendola scagliare da un arciere. Per questo tipo di comunicazioni le distanze fra mittente e destinatario dovevano essere molto ridotte. La cosa non ebbe alcun seguito. Miniatura raffigurante Giovanna d’Arco. L’opera è stata realizzata su un supporto pergamenaceo cinquecentesco, ma è probabilmente moderna. Parigi, Archives Nationales. È stata comunque eseguita riponendo grande cura nei particolari: la Pulzella impugna una spada con lama a sezione rombica e lati concavi, con elso dalle estremità arricciate verso la lama, e pomo ovoide, sormontato da un bottoncino: una tipologia effettivamente entrata in uso solo nel Quattrocento.

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Giovanna d’Arco in un manoscritto tardoquattrocentesco. Dalla veste spunta in basso il piede destro protetto da una scarpa di ferro, dalla punta molto pronunciata, richiamante quella à la poulaine di moda nel XV sec. La Pulzella ha le spalle e le braccia protette, ma ha il capo senza difese, salvo una barbozza volante che le protegge il collo e il mento. Le mani sono protette da «manopole a mittene», con unica piastra d’acciaio coprente le dita, come nelle muffole. La Pulzella, come accennato, ebbe purtroppo a che fare personalmente non con le frecce degli archi inglesi, ma con le verrette dei loro balestrieri. Durante un assalto a Orléans (le Torricelle), fu colpita da una verretta sulla spalla, oltre la piastra del petto e senza la difesa dell’elmo, avendo scelto di non indossarlo. I medici praticarono un’incisione e la stessa Giovanna strappò via la verretta. Ferita molto dolorosa, ma non grave. Un fatto analogo si ripeté durante l’attacco a Parigi, e questa volta la verretta la colpí alla coscia, sfondando la piastra dell’armatura e penetrando non molto in profondità nella carne, tanto che il giorno dopo fu in grado di risalire in sella.

Un accanimento impressionante Non c’è notizia di reliquie, vere o presunte, del corpo della santa, che fu arso interamente, a eccezione Elmo (piú esattamente: bacinetto) che la tradizione vuole fosse stato utilizzato da Giovanna d’Arco. 1375-1425 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. Si noti il foro a sezione quadrata provocato da una verretta di balestra sul lato sinistro. È ipotizzabile che sia stato indossato da qualcun altro al momento di ricevere il colpo (che sarebbe stato mortale), tenendo anche conto che la santa era solita combattere sí in armatura, ma senza elmo.

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del cuore e di pochi frammenti ossei. Da rilevare che nel suo caso gli esecutori della condanna fecero attenzione a che la ragazza venisse arsa viva effettivamente e non uccisa per soffocamento dal fumo, ottenuto con l’aggiunta di molta paglia sul rogo. Secondo precise testimonianze, il cuore rimase intatto anche dopo ripetuti

tentativi da parte del carnefice di farlo bruciare con l’impiego di zolfo, olio o carbone: alla fine, l’organo incombusto e altri pochi resti furono – per ordine del conte di Warwick – caricati su un carro e gettati nella Senna. Nonostante l’accanimento nel disfarsi dei resti di Giovanna, sappiamo che nel 1867 nella casa di un farmacista di Parigi furono trovate le sue presunte reliquie, consistenti in resti ossei umani e in un femore di un gatto, che sarebbe stato gettato nello stesso rogo. Di recente, però, un medico legale, Philippe Charlier, ha datato i frammenti umani tra il VI e il III secolo a.C., classificandoli come in origine appartenenti a una mummia, per la presenza di prodotti usati nell’imbalsamazione. È strano che a una santa guerriera come Giovanna d’Arco – che come simboli ha la spada e l’armatura – non siano state attribuite armi di alcun genere, vere o false che siano, come accade invece di frequente per altri santi. Di certo, nessun’altra santa ebbe con le armi il rapporto che la giovane e sfortunata Pulzella risulta aver avuto.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Guido Cariboni I cistercensi Un ordine monastico nel Medioevo Carocci Editore, Roma, 242 pp., ill. b/n

22,00 euro ISBN 978-88-290-1749-2 www.carocci.it

Il monachesimo ha avuto nell’Ordine cistercense uno dei suoi protagonisti principali e in questo saggio Guido Cariboni ne ripercorre l’intera vicenda, non limitandosi a ricostruirne la storia, ma ampliando la sua disamina ai risvolti dottrinali, ideologici e sociali legati all’avvento dei monaci bianchi. Fin dalle pagine introduttive, del resto, si coglie l’intento dell’autore, che apre la sua trattazione evidenziando i piú recenti sviluppi degli studi condotti sui Cistercensi. Questi, soprattutto all’indomani della mostra presentata ad Aquisgrana nel

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1980, hanno proposto nuove letture del fenomeno. Nei capitoli successivi Cariboni passa in rassegna i momenti salienti della parabola cistercense, a cominciare dagli esordi, dipanatisi nel segno di Roberto di Molesme e poi di Bernardo di Chiaravalle. Dalla fondazione, nel 1098, dell’abbazia di Cîteaux in avanti, i Cistercensi vedono ingrossarsi le proprie fila, fino a diventare uno degli Ordini piú influenti del Medioevo, la cui diffusione si fa capillare. E le sue case divengono, fra l’altro, uno dei piú potenti motori dell’economia agraria del tempo. Luigino Bruni Capitalismo meridiano Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto

il Mulino, Bologna, 202 pp.

19,00 euro ISBN 978-88-15-29940-6 www.mulino.it

Come scrive Amleto Spicciani nella Postfazione, «Luigino Bruni è un economista che crede nella lezione della storia ed è un provocatore»: un’affermazione che coglie in due battute una delle chiavi di lettura di questo volume, che, del resto,

l’autore presenta come un saggio «che non intende offrire una nuova grande ipotesi interpretativa sull’origine del capitalismo, ma solo complicare alcune tesi consolidate e suggerire qualche nuova pista ancora non sufficientemente esplorata». Al di là delle frasi a effetto, l’argomento scelto, vale a dire il sistema capitalistico formatosi a sud delle Alpi – e per questo definito

«meridiano» – è di notevole interesse, accresciuto proprio dall’approccio scelto da Bruni, che basa la sua trattazione sul rapporto solo all’apparenza inaspettato fra lo spirito mercantile e quello dei frati mendicanti. Capitolo dopo capitolo, infatti, l’intreccio fra religione ed economia si rivela costante, tanto da rendere tutt’altro che sorprendente,

per esempio, il richiamo ai valori del francescanesimo. Una «provocazione», insomma, da raccogliere senza esitazione, per regalarsi una lettura originale. Enzo Valentini Nel refettorio dei Templari Norme e prescrizioni alimentari dei monacicavalieri secondo la Regola dell’Ordine del Tempio Edizioni Penne & Papiri, Tuscania, 143 pp., ill. b/n

13,00 euro ISBN 978-88-89336-84-7 www.penneepapiri.it

Come mangiavano i Templari? La risposta, ampia ed esauriente, ci viene da Enzo Valentini, che ha dedicato all’argomento un volume di sicuro interesse. La sua trattazione, infatti, non si limita soltanto ad analizzare la dieta alimentare osservata dagli appartenenti all’Ordine del Tempio, ma comprende la descrizione dei modi dello stare a tavola, dei luoghi destinati alla preparazione e al consumo e dell’assegnazione dei compiti legati al vettovagliamento e al nutrimento delle case. Le norme che i cavalieri si erano

dati erano state redatte ispirandosi alla Regola di san Benedetto, anche se, rispetto a quest’ultima, minore era il numero, per esempio, dei precetti da osservare. Tutto comunque era stato codificato, in termini piuttosto minuziosi e rigidi, come nel caso dei posti che ciascuno doveva prendere nel mettersi a tavola. Molte delle informazioni riportate da Valentini sono desunte da documenti d’archivio – come l’inventario della dotazione della cucina di Newsham, nello Yorkshire – o dai dati scaturiti da ricerche archeologiche. Ma altrettanto importante è la Regola stessa dell’Ordine, di cui, nella parte finale del libro sono appunto riportati gli articoli riguardanti il mangiare dei Templari. (a cura di Stefano Mammini) marzo

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Animali sonanti MUSICA • L’ultimo progetto diretto da Jordi Savall

ci porta fra le creature che popolano i bestiari medievali, con il valore simbolico e religioso

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in dalla loro fondazione da parte del maestro catalano Jordi Savall, l’ensemble vocale de La Capella Reial de Catalunya e quello strumentale dell’Hespèrion XXI si sono resi protagonisti di progetti che li hanno visti affrontare le tradizioni piú diverse: dalle musiche della tradizione sefardita a quelle

arabo-andaluse, dalle composizioni di tradizione balcanica alle vette del repertorio sei-settecentesco; progetti che hanno sempre avuto come principio ispiratore l’area mediterranea e il dialogo multiculturale. Con la registrazione del Codex Las Huelgas, Savall torna ad occuparsi dell’età di Mezzo, con un repertorio tratto dall’omonimo codice musicale, incentrando la scelta dei brani sotto un unico denominatore: il bestiario medievale con tutta la simbologia religiosa che ne deriva. Redatto nel XIV secolo presso lo scriptorium del convento cistercense femminile di Santa María la Real de Las Huelgas a Burgos, il codice include musica sacra, di cui poco piú di una quarantina di brani

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si presentano in stile monodico (conductus, tropi, sequenze, prosae), mentre i restanti 141 sono di natura polifonica, con uno stile che risente della scuola parigina di Notre Dame (XII-XIII secolo), fino ad arrivare a partiture del pieno Trecento. Suggestivo è il paesaggio sonoro che emerge da questa registrazione,

valorizzato, sia nella scelta dei brani che, sovente, rivelano una tradizione popolare nel loro andamento ritmico-melodico, sia nella scelta dell’accompagnamento alle voci, affidato ad alcuni strumenti della tradizione (flauti, arpa, campane, liuto, ghironda, salterio, organo portativo).

Alternanza di stili La scelta dei brani, di carattere principalmente paraliturgico, alterna con sapiente regia narrativa linguaggi piú popolari ad altri della tradizione piú aulica. Ai primi ci riconducono, per esempio, le prosae, con bellissimi esempi, come Iocundare, plebs fidelis e Gaude, Virgo, plena Deo, mentre ad un linguaggio decisamente piú elaborato ci riporta

Codex Las Huelgas. Bestiaire et Symboles du Divin. 1300-1340 La Capella Reial de Catalunya e Hespèrion XXI, direttore Jordi Savall AVSA9951, 1 CD www.alia-vox.com il genere del motectus politestuale, elaborato presso la scuola di Notre Dame, di cui ascoltiamo due esempi con Alpha, bovi et leoni/Domino, in cui ricorrono le simbologie del mondo animale, e quello a tre voci O Maria, maris stella/O Maria, Virgo davitica. Alla Scuola di Notre Dame ci riporta anche un organum, Kyrie, fons bonitatis, un brano liturgico dell’ordinarium missae, arricchito dall’inserimento di un testo alternativo (prosa). A fronte dei diversi generi presentati, è interessante la scelta interpretativa che, assecondando la natura dei brani, fa emergere la voce solistica in contrasto al coro, in quello che si definisce stile responsoriale, ovvero alterna un gruppo vocale maschile alle voci femminili (nel cosiddetto stile antifonale). Una notevole parte è affidata anche agli strumenti che accompagnano le voci e/o si esibiscono in assoli. Molto convincente è l’interpretazione dei due ensemble, La Capella Reial de Catalunya e Hespèrion XXI, che, sotto la direzione magistrale di Jordi Savall, offrono all’ascoltatore un pregevole spaccato del repertorio medievale ispanico. Franco Bruni

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Il MANN verso il futuro

LA STORIA, I TESORI E L’ATTUALITÀ DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI

C’è un luogo, a Napoli, dove l’antico guarda al futuro: è il Museo Archeologico Nazionale, una delle piú ricche e prestigiose collezioni di antichità del mondo, alla quale è dedicata la nuova Monografia di «Archeo». Il MANN, questa la sigla dell’istituto, vanta infatti una lunga storia, che prende avvio già nel XVIII secolo, ma, soprattutto negli ultimi anni – come sottolinea Paolo Giulierini, che ne è l’attuale direttore e che ha firmato i testi che ora presentiamo – ha rafforzato il suo impegno per moltiplicare gli strumenti di fruizione dei suoi tesori, avvalendosi delle potenzialità offerte dalla tecnologia e dallo sviluppo del web. Tutto questo, naturalmente, senza fare ombra alla ricchezza delle sue raccolte, che valgono ben piú di una visita. Basti pensare, solo per fare due degli esempi piú significativi, che il Palazzo degli Studi custodisce la straordinaria Collezione Farnese – giunta ai piedi del Vesuvio dopo che i Borbone si erano imparentati con la famiglia dell’illustre cardinale Alessandro – e una spettacolare selezione delle pitture pompeiane, staccate dalle domus nelle quali facevano bella mostra di sé e che ora compongono una pinacoteca unica al mondo, grazie alla quale si può ripercorrere uno dei momenti piú significativi della storia dell’arte antica. Tutto questo e molto altro viene dunque narrato e descritto nei vari capitoli della Monografia, forte di un apparato iconografico di pregio assoluto, nel quale figurano, fra le altre, anche le magistrali riprese fotografiche di Luigi Spina.

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