Medioevo n. 313, Febbraio 2023

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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VITERBO ECCO LA TOMBA DI ALESSANDRO IV LETTERATURA IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI UOMINI E SAPORI MANGIARE IN BIANCO FIRENZE NORMANDIA STORIA DI UN AMORE IMPOSSIBILE IL MEDIOEVO A PALAZZO DAVANZATI

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DANTE A BISMANTOVA ALLA SCOPERTA DEL PASSAGGIO SEGRETO

Mens. Anno 27 numero 313 Febbraio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 313 FEBBRAIO 2023

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 2 FEBBRAIO 2023



SOMMARIO

Febbraio 2023 ANTEPRIMA

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ARCHEOLOGIA Qui (forse) giace Alessandro IV

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di Elena Percivaldi

MOSTRE Napoli bizantina

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE MUSEI Palazzo Davanzati Vivere a Firenze nell’età di Mezzo

incontro con Daniele Rapino, con un contributo di Paola D’Agostino, a cura di Andreas M. Steiner 24

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COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/1 Il capolavoro di un Fiorentino «discolo e grosso»

di Corrado Occhipinti Confalonieri

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QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Armato fino ai denti di Paolo Pinti 106 LIBRI Lo Scaffale

Dossier PURGATORIO Quasi salvi!

testi di Alessandro Bedini, Claudio Corvino e Riccardo Montenegro

DANTE A BISMANTOVA L’ultimo passaggio di Giuseppe Ligabue e Clementina Santi

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STORIE Herleve e Roberto di Normandia

Una storia impossibile... ma bella di Gianna Baucero

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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Mangiare in bianco per non peccare di Sergio G. Grasso 98

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MEDIOEVO n. 313 FEBBRAIO 2023

MEDIOEVO

IN EDICOLA IL 2 FEBBRAIO 2023

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Hanno collaborato a questo numero: Gianna Baucero è scrittrice. Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Francesco Colotta è giornalista. Claudio Corvino è antopologo. Paola D’Agostino è direttore dei Musei del Bargello di Firenze. Giampiero Galasso è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Giuseppe Ligabue è socio della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi. Riccardo Montenegro è architetto. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Daniele Rapino è curatore del Museo di Palazzo Davanzati di Firenze. Clementina Santi è docente di italiano e latino, già membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Beni Culturali e Ambientali dell’Emilia-Romagna.

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MEDIOEVO Anno XXVII, n. 313 - febbraio 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 36) e pp. 6/7, 24/25, 52, 55, 57, 58-59, 61, 66/67, 69, 70, 72 (alto), 78-81, 84-91, 92, 96 – Cortesia degli autori: pp. 7, 13 (alto), 40, 42, 45, 106, 108-111 – Cortesia Archeoares: p. 9 – Cortesia Ufficio Comunicazione MANN: pp. 10-12 – Cortesia Maria Cristina Bellelli: p. 13 (basso) – Cortesia Musei del Bargello, Firenze: pp. 25, 26-35 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 38 (centro), 39, 41, 43, 64, 75, 98, 102-103; The Print Collector/Heritage Images: p. 53; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Gianni Cigolini: pp. 54/55; Fototeca Gilardi: pp. 60 (basso), 65; Erich Lessing/K&K Achive: p. 62; Album/Oronoz: pp. 71, 101; Album/Fine Art Images: p. 93; Album/Prisma: p. 100 (alto) – Shutterstock: pp. 36/37, 38 (basso), 44, 50/51, 56/57, 72 (basso), 82, 99, 100 (basso), 104, 107 – Bridgeman Images: pp. 48/49, 76/77, 94/95 – National Gallery of Art, Washington: p. 83 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 38. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina l’incontro fra Dante e Forese Donati (Purgatorio, canto XXIII), in una tavola realizzata da Gustave Doré per la celebre edizione illustrata della Divina Commedia pubblicata nel 1861.

Prossimamente storie

medioevo nascosto

dossier

Un Medioevo pieno di luce

San Casciano dei Bagni

Il secolo oscuro

Errata corrige con riferimento all’articolo Il senso dei Vichinghi per la birra (vedi «Medioevo» n. 311, dicembre 2022) ringraziamo un nostro attento lettore per averci segnalato che il navigatore vichingo giunto nelle Americhe fu Leif Erikson e non Erik il Rosso, che ne era il padre. Della svista ci scusiamo con i nostri lettori



ANTE PRIMA

Qui (forse) giace Alessandro IV 6

febbraio

MEDIOEVO


ARCHEOLOGIA • Potrebbe essere

svelato il mistero della tomba del pontefice che nel Duecento trasferí la sede papale a Viterbo: si tratterebbe di un sarcofago etrusco di reimpiego, collocato nel cimitero medievale collegato alla cattedrale di S. Lorenzo Viterbo. La cattedrale di S. Lorenzo e, sulla destra, il Palazzo dei Papi. In basso la lapide che segna il luogo di deposizione delle reliquie dei santi martiri Protogenio, Narciso, Argeo e Marcellino, traslati nella cattedrale viterbese di S. Lorenzo nel 1125. La cappella a loro dedicata avrebbe accolto le spoglie di Alessandro IV.

A

ttorno al luogo della sepoltura di papa Alessandro IV, morto a Viterbo il 25 maggio 1261, si concentra da secoli il lavoro di studiosi e ricercatori, attratti dall’impresa di poterne individuare l’esatta collocazione, a tutt’oggi misteriosa. Ora però l’enigma è forse stato risolto dall’archeologo Gianpaolo Serone, il quale ha avanzato l’ipotesi il pontefice possa essere stato sepolto in un sarcofago etrusco collocato nel cimitero della cattedrale di Viterbo e tornato alla luce nel 1998 durante il cantiere del museo del Colle del Duomo, inaugurato in occasione del Giubileo del 2000. Alessandro IV, al secolo Rinaldo, figlio di Filippo, feudatario di Ienne nel basso Lazio, ha svolto un ruolo di primo piano nella storia della Chiesa. Nativo di Anagni, fu eletto pontefice il 12 dicembre 1254 a Napoli, grazie all’accordo raggiunto dai cardinali che, visti i buoni rapporti che manteneva con l’imperatore Federico II e i suoi successori, lo ritenevano in grado di trovare una soluzione politica alla crisi in cui versava allora il potere temporale della Chiesa.

Tre anni in conclave Un momento travagliato e difficile che si sarebbe palesato plasticamente all’indomani della morte di Clemente IV, il 29 novembre 1268, quando i cardinali chiamati a eleggerne il successore rimasero chiusi a Viterbo per ben 33 mesi, finché, il 1° settembre

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febbraio

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ANTE PRIMA Amico dello Stupor mundi e tutore di Corradino, l’ultimo degli Hohenstaufen, Alessandro scomunicò il figlio di Federico II, Manfredi di Svevia, e nel 1257, quando Roma passò sotto il controllo del ghibellino Brancaleone degli Andalò, trasferí la sede pontificia a Viterbo nella speranza di metterla al riparo dai torbidi e dalle sommosse che rischiavano di travolgerla. E proprio a Viterbo, il 25 maggio 1261, Alessandro IV morí. Le fonti dell’epoca, cosí come quelle successive, affermano che fu sepolto all’interno della cattedrale viterbese di S. Lorenzo: se ne fa cenno, per esempio, in una bolla di Urbano IV, eletto al soglio pontificio tre mesi dopo la sua morte, a cui fa eco l’umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (1421-1481), il quale nelle sue Vite de’ Pontefici scrive che «[Il papa] andò subito a Viterbo (…) finalmente morí in quel luogo per lo dolore dell’animo, et honoratamente fu sepolto nella Chiesa di San Lorenzo l’anno 7 del suo Pontificato».

A ridosso della basilica

1271, scelsero Gregorio X, ponendo fine al primo – e piú lungo – conclave della storia. Durante il suo pontificato Alessandro IV si circondò di teologi di primissimo piano quali Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio e Alberto Magno, riuní l’Ordine degli Agostiniani e tentò di riunificare la Chiesa cattolica con quella ortodossa, separate sin dallo Scisma del 1054. A lui si deve inoltre l’elevazione all’onore degli altari, nel 1255 nella cattedrale di Anagni, di santa Chiara d’Assisi,

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cosí come l’avvio del lungo processo di beatificazione di santa Rosa da Viterbo e l’inizio del suo culto; a quest’ultimo si ricollega il rito del Trasporto della Macchina di Santa Rosa, il monumentale campanile artistico – alto 28 m e pesante circa 50 quintali – sormontato dalla statua della santa, che avviene il 3 settembre di ogni anno per ricordare la traslazione, nel 1258, del corpo incorrotto della santa dal cimitero della chiesa di S. Maria in Poggio verso il monastero di S. Damiano, ora a lei dedicato.

In molti, nei secoli, hanno tentato di trovare il sepolcro di papa Alessandro IV, ma senza riuscirci. Oggi però Serone ha formulato una nuova e accattivante ipotesi, nata dal confronto tra quanto tramandato dalle fonti scritte e lo studio archeologico e architettonico dell’area cimiteriale e della cattedrale viterbese. Secondo quanto ricostruito dall’archeologo, dopo la morte il corpo del pontefice sarebbe stato deposto nel cimitero medievale posto a ridosso della basilica di S. Lorenzo, all’interno di un sarcofago etrusco del IV-III secolo a.C. che nel 1998 fu ritrovato ancora chiuso con la sua copertura originaria: un reperto di reimpiego dunque, molto diverso rispetto al resto dei sarcofagi del tipo «a logette» emersi durante gli scavi del cimitero medievale, tipologia quest’ultima la cui origine è ancora febbraio

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oggetto di dibattito. Ricavato da un unico blocco di pietra, presenta come uniche lavorazioni alcune modanature, su tutti e quattro i lati, che conservano tracce di colore rosso; sul lato rivolto a sud-ovest, in epoca imprecisata, è stato inoltre praticato un foro. Due esemplari simili, rileva Serone, sono conservati in città presso il Museo Nazionale Etrusco di Rocca Albornoz e provengono dalle necropoli etrusche di San Giuliano (Barbarano Romano) e di Norchia, entrambe nel Viterbese.

Da una necropoli del circondario Per la peculiare fattura, il sarcofago potrebbe dunque essere stato recuperato da una delle necropoli circostanti lo stesso Colle del Duomo, probabilmente Poggio Giudio fuori porta Faul oppure Castel d’Asso, e destinato al riuso come sepoltura di una personalità eminente. All’atto del ritrovamento, il reperto sembrava collocato in fase con i rifacimenti che il duomo,

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A sinistra il possibile sarcofago di papa Alessandro IV, oggi visibile nel Museo del Colle del Duomo. Nella pagina accanto papa Alessandro IV in una incisione cinquecentesca. In basso tracce di pittura sul sarcofago etrusco che sarebbe stato riutilizzato come tomba di papa Alessandro IV.

dove esisteva una cappella con altare dedicato ai santi Protogenio, Narciso, Argeo e Marcellino, martiri il cui culto in San Lorenzo risale al 1125, e dove, stando alle fonti coeve al pontefice, era stato sepolto il papa.

fondato nell’Alto Medioevo, subí nel XII-XIII secolo, quando S. Lorenzo fu elevata a chiesa principale di Viterbo e Tuscania e infine consacrata nel 1192, anno in cui Celestino III riuní Viterbo, Blera, Tuscania e Cencelle in un’unica diocesi insignendo la basilica di S. Lorenzo con il titolo di cattedrale. Sopra al sarcofago, un’apertura murata costituiva verosimilmente l’accesso al cimitero medievale, chiuso nel 1573, nel lato sinistro del transetto destro della cattedrale,

aprire nuovi scenari sulla storia della Cattedrale e della città di Viterbo». Decisivo potrebbe inoltre rivelarsi l’avvio di una nuova campagna di scavo che consenta di indagare tutta l’area del Colle del Duomo. Il tutto nella speranza, conclude l’archeologo, di risvegliare l’interesse per il luogo che, nel Medioevo, vide nascere e svilupparsi il Comune destinato a estendere la sua egemonia su tutta l’attuale provincia viterbese. Elena Percivaldi

Le prospettive future Del luogo esatto di sepoltura del pontefice, come accennato, le fonti serbano memoria fino al XIV-XV secolo, anno al quale si data la testimonianza documentaria piú recente. Dopo di che se ne perse memoria aprendo la strada, a partire dalla fine del Cinquecento, a diversi tentativi (infruttuosi) di individuazione del sepolcro e alla conseguente proliferazione di ipotesi, spesso fantasiose, da parte di eruditi e ricercatori. Le conclusioni dello studio, in corso di pubblicazione, restano per ora «un’ipotesi di lavoro». Che però, auspica Serone, «potrebbe

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ANTE PRIMA

Napoli bizantina MOSTRE • Sopravvissuto per piú di un millennio a quello

d’Occidente, l’impero romano d’Oriente rivive nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli attraverso l’esposizione di una eccezionale selezione di opere e oggetti d’arte

S

crittore inglese di viaggi, nonché critico e storico dell’arte, Robert Byron (1905-1941) attribuiva la grandezza di Bisanzio alla sua «triplice fusione»: un corpo romano, una mente greca, un’anima orientale, mistica. Una fusione che l’arte, la cultura, le testimonianze materiali della società interpretarono e seppero diffondere attraverso i secoli, come emerge

dalla mostra «Bizantini. Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario» in corso al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Il percorso espositivo si articola in 15 sezioni, attraverso le quali viene sviluppato il tema delle fasi storiche successive all’impero romano d’Occidente, con un focus su Napoli (città «bizantina» per circa sei secoli, dopo la conquista da parte

Orecchino in oro, perle e pietre preziose. VI-VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. di Belisario e le sue armate nel 536 d.C.) e una particolare attenzione alla Grecia a all’Italia meridionale.

Una selezione di grande pregio Diversi sono gli argomenti affrontati – la struttura del potere e dello Stato, l’insediamento urbano e rurale, gli scambi culturali, la religiosità, le arti e le espressioni della cultura scritta, letteraria e amministrativa – e oltre quattrocento le opere esposte, scelte fra i materiali appartenenti alle collezioni del MANN e frutto dei prestiti concessi da oltre 50 musei e istituzioni che custodiscono in Italia e in Grecia materiali bizantini. Grazie anche alla sinergia con la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Napoli e all’eccezionale collaborazione con il Ministero Ellenico, sono visibili, per la Dipinto murale con il ritratto di un santo militare, dalla chiesa di Hagios Nikolaos a Pyrgos (Eubea). Fine del XIII sec. Atene, Museo Cristiano e Bizantino.

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prima volta, anche molti materiali provenienti dagli scavi della metropolitana di Salonicco e da quelli per la linea 1 a Napoli. Sculture, mosaici, affreschi, vasellame, sigilli e monete, manufatti in ceramica, ma anche smalti, oggetti d’argento, gemme e oreficerie, pregevoli elementi architettonici danno conto della struttura, dei sistemi organizzativi, dei commerci e dei rituali di questa complessa realtà politica, testimoniando nel contempo le eccellenze delle manifatture bizantine, gli incroci di cultura, gli stilemi e i simboli dell’impero d’Oriente attraverso i secoli. È la creatività artistica del mondo antico che transita verso il Medioevo, con un linguaggio rinnovato dalla fede cristiana e con gli innesti del mondo orientale, in particolare della cultura iranica e araba.

La Nuova Roma e i Romèi A circa quarant’anni dall’ultima esposizione in Italia, una mostra affronta dunque il mondo – affascinante quanto complesso – dell’impero bizantino: quell’impero In alto pagina miniata di un lezionario, dal monastero di Chozoviotiss (Amorgos). Seconda metà dell’XI sec. Amorgos, Eforato delle Antichità delle Cicladi. A sinistra bracciale a fascia in oro e vetro, smalto cloisonné, da Salonicco. IX-X sec. Salonicco, Museo della Cultura Bizantina. romano d’Oriente (Romèi erano chiamati e si autodefinivano i suoi abitanti) sopravvissuto per quasi dieci secoli alla caduta della pars Occidentis, quando il barbaro Odoacre nel 476 riuscí a deporre l’ultimo imperatore d’Occidente Romolo Augustolo. Fu allora che Costantinopoli, la città sul Bosforo, l’antica Byzantion rifondata nel 330 dall’imperatore Costantino come «Nuova Roma», divenne il centro e il cuore politico, istituzionale e culturale dell’impero romano, che

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ANTE PRIMA

DOVE E QUANDO

«Bizantini. Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino al 13 febbraio Orario tutti i giorni, 9,30-19,30; chiuso il martedí Info https://mann-napoli.it

di fatto proseguí la sua esistenza fino al 1453 – con la caduta della capitale in mano ai Turchi di Maometto II – assumendo tuttavia nel tempo connotati sempre piú lontani e diversi: dalla lingua greca per gli atti ufficiali e l’ambito culturale, fino all’assunzione del cristianesimo come unica religione fondante l’identità dell’impero. È questo mutamento di pelle a indurre gli eruditi, dal 1600 in poi, a cercare un nuovo nome – impero Pluteo in marmo con bestiario affrontato, dall’Isola di San Macario (CA). X sec. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra missorio in argento di Flavius Ardabur Aspar. V sec. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

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bizantino – per indicare questa realtà politica che per secoli calcò le scene della storia, connettendo Oriente e Occidente, contribuendo alla formazione dell’Europa medievale e all’umanesimo, lasciando un’eredità culturale profonda tanto nel successivo impero islamico quanto nei suoi ex territori, comprese alcune città e regioni d’Italia ove piú profondo e duraturo fu il legame con l’impero.

Il mito di Bisanzio Superati i pregiudizi d’inizio Settecento che associavano al bizantinismo le negatività di una burocrazia invalidante, del vuoto formalismo, della mera apparenza; superata l’idea errata di una società statica e immutabile contrapposta alla tradizione illuministica occidentale, il mito di Bisanzio è cresciuto in questi ultimi decenni, cosí come l’interesse per la sua storia e una cultura raffinata, coltivata in seno a un impero incredibilmente multietnico eppure per secoli indissolubile nel suo concetto universalistico – pur nei mutati assetti geografici – e nei suoi pilastri identitari: l’imperatore e la corte, la burocrazia, la Chiesa. febbraio

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La mostra di Napoli getta uno sguardo su un mondo che è lo specchio di tutto quanto l’Occidente aveva perduto con il crollo dell’impero romano e che avrebbe lentamente e faticosamente riconquistato nei secoli successivi al Mille – tecniche artistiche e produttive, modi di intendere l’estetica degli oggetti, scritti e saperi – ma anche sulle strutture

di un impero universale autocrate capace di tenere unita una società assolutamente multietnica e composita, di cui sono sentiti o sono stati eredi in un modo o nell’altro sia l’impero zarista che l’Islam sultaniale. A partire dalla presa di Costantinopoli anche il sultano ottomano userà il titolo di «imperatore di Roma» e nel suo impero la cultura romano-

bizantina sarà perpetuata di fatto. Le contrapposizioni successive e molte delle tensioni e dei conflitti che tutt’oggi interessano quell’area geostorica che Fernand Braudel ha chiamato «Mediterraneo Maggiore» hanno di fatto trovato occasioni e linfa nel vuoto determinato dalla caduta di Bisanzio e sulle ceneri dell’impero. (red.)

Niente carne, siamo catari!

L’

eresia passata alla storia con il nome di catarismo sembra avere avuto origine a seguito dell’infiltrazione in Occidente dei bogomili, una setta presente in Tracia e in Bulgaria fin dal X secolo. Trovò un terreno favorevole in Europa tra l’XI e il XIII secolo grazie ai fermenti sociali e religiosi che accompagnarono l’ascesa delle nuove classi urbane. La dottrina dei catari, cioè dei «puri» (dal greco katharos), si fondava sulla visione manichea di un cosmo retto da due principi, quello del Bene e quello del Male; il primo aveva potestà sul mondo celeste, mentre quello terrestre era sotto l’influenza del suo malvagio fattore: il Demonio, angelo ribelle a Dio. Di conseguenza la salvezza dell’uomo era possibile solo a patto della separazione dell’anima dal corpo, che poteva essere conquistata attraverso la sofferenza fisica e la morte, senza alcuna mediazione né del clero, né dei sacramenti.

Rigide prescrizioni Da questa teologia scaturiva una durissima serie di precetti: ascetismo, verginità, astinenza dalla carne, povertà, condanna del matrimonio e della procreazione. Il radicale spiritualismo e il desiderio di liberarsi dai lacci corporali potevano anche sfociare nel ricorso alla morte

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Pagina di un’edizione in lingua d’oc del Nuovo Testamento utilizzata per il rito cataro e nota come Rituale di Lione. XIII sec. Lione, Biblioteca Municipale. In basso due piatti realizzati attenendosi ai precetti del catarismo: il sisam, pesce di lago fritto (o essiccato) e marinato, servito con cipolle; riso con cavolo rosso, cucinato senza latticini. volontaria per digiuno, l’endura. Quando in Francia ebbe inizio la persecuzione di una delle piú importanti comunità catare, molti di essi fuggirono in Italia, insediandosi in varie località, fra cui Sirmione e Desenzano del Garda. E proprio a Desenzano, la ristoratrice Maria Cristina Bellelli ha ideato un’iniziativa, le Cene Eretiche, che mira a riportare in tavola piatti realizzati secondo i rigidi precetti del catarismo e dunque, per esempio, privi di animali e dei loro derivati (come uova e latticini). Era invece consentito il consumo del pesce, poiché all’epoca si credeva che non fosse frutto della procreazione e la cui presenza nel lago di Garda dovette senz’altro concorrere alla scelta d’insediarsi sulle sue rive. Fra i piatti proposti da Bellelli figurano quindi zuppe di ceci o di pere e cipolle e, come portata principale, preparazioni a base di pesce di lago, che in origine doveva essere il carpione, specie endemica del Garda, ma che ora, essendo quasi estinto, è stato sostituito da persico o coregone. Info: Facebook, Caffè Città Desenzano (red.)

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AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA ROMA MEDIEVALE. IL VOLTO PERDUTO DELLA CITTÀ Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 5 febbraio

Riscoprire il volto perduto della Roma fra VI e XIV secolo e il suo ruolo cardine nell’Europa cristiana e medievale sia per i semplici pellegrini sia per regnanti e imperatori. Questo l’obiettivo della nuova mostra allestita negli spazi del Museo di Roma in Palazzo Braschi. Articolato in 9 sezioni, il percorso espositivo nasce con lo scopo di far conoscere aspetti poco noti del patrimonio dell’Urbe, attraverso una selezione di oltre 160 opere tra mosaici, affreschi e opere mobili, provenienti prevalentemente da raccolte e

a cura di Stefano Mammini

collezioni pubbliche romane e da luoghi di culto, oltre che da prestigiose istituzioni museali come i Musei Vaticani. Parte, infatti, dalla scoperta della città medievale attraverso i suoi luoghi piú iconici, quali basiliche e palazzi, ma anche dal contesto ambientale, oggi profondamente modificato, come il corso del Tevere con porti e ponti dove si svolgevano vita e attività urbane. L’immersione nella realtà del Medioevo romano si approfondisce poi esaminando le ricche committenze di papi e cardinali, l’attività di artisti e botteghe, il fascino della città come imprescindibile méta di pellegrinaggio anche per re e imperatori. Ricchi apparati didattici illustreranno in mostra i molteplici volti dell’indiscussa capitale dell’Europa medievale.

info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museodiroma.it

BOLOGNA GIULIO II E RAFFAELLO. UNA NUOVA STAGIONE DEL RINASCIMENTO A BOLOGNA Pinacoteca Nazionale fino al 5 febbraio

Il Ritratto di Papa Giulio II della Rovere, uno dei capolavori di Raffaello, viene eccezionalmente esposto alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, opera clou della mostra «Giulio II e Raffaello. Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna». Giulio II fu il pontefice che assoggettò Bologna allo Stato della Chiesa, cambiando profondamente il corso della storia cittadina e avviando, anche grazie alla presenza di

che testimoniano l’interesse per il personaggio effigiato e per il modello interpretativo raffaellesco, che rimane dominante nella ritrattistica dei papi per la gran parte degli artisti nei secoli successivi. Vasari e Lomazzo parlano di un ritratto del papa realizzato da Raffaello presente nella basilica di S. Maria del Popolo a Roma. Passata nella collezione Borghese nel 1608, l’opera era stata in seguito venduta all’imperatore Rodolfo II e da allora se ne erano perse le tracce. Nel 1976 uno studioso della National Gallery di Londra sciolse l’enigma del dipinto, che era stato acquistato nel 1824 dal museo e che si trovava in Inghilterra dalla fine del Settecento. Fu ritrovato infatti sulla tavola un numero d’inventario, il 118, che si scoprí corrispondere con quello della Galleria di Scipione Borghese al 1693. Le analisi scientifiche hanno poi confermato l’autografia raffaellesca e un restauro ha restituito la qualità pittorica dell’opera, fino ad allora nascosta sotto strati di vernice ingiallita. info www.pinacotecabologna. beniculturali.it BRUGES

artisti come Bramante e Michelangelo, una nuova stagione del Rinascimento in città. Il Ritratto è un dipinto a olio su tavola, commissionato da papa della Rovere a Raffaello e realizzato a Roma intorno al 1511-1512. Oltre alla versione conservata alla National Gallery di Londra, se ne conoscono diverse copie, alcune anonime, altre di importanti artisti come quella attribuita a Tiziano, conservata alla Galleria Palatina di Firenze. Si tratta di esemplari

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FACCIA A FACCIA CON LA MORTE. HUGO VAN DER GOES, UNO SGUARDO NUOVO SUGLI ANTICHI MAESTRI Ex ospedale di S. Giovanni fino al 5 febbraio

Cuore del progetto espositivo realizzato negli spazi dell’ex ospedale di S. Giovanni è la Morte della Vergine, un magnifico olio su tavola al quale Hugo van der Goes lavorò fra il 1475 e il 1483. Recentemente sottoposto a restauro, il dipinto è contornato da una settantina di opere febbraio

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Chienti e Camerino) che conservano lavori dell’artista o a esso fortemente collegati in una serie di, come suggerisce il titolo del progetto, relazioni meravigliose. Pittore inquieto, sperimentatore, pieno di grazia e di genio, Carlo Crivelli è una delle figure piú intriganti del XV secolo. Veneziano di nascita, in seguito a una vicenda giudiziaria in cui fu coinvolto,

mondo, Carlo Crivelli a oggi è una figura indipendente che proietta il suo fascino, fatto di invenzioni sempre diverse, perfezione tecnica e mistero. info www.musei.macerata.it NAPOLI BIZANTINI. LUOGHI, SIMBOLI E COMUNITÀ DI UN IMPERO MILLENARIO Museo Archeologico Nazionale di Napoli fino al 18 febbraio

L’impero romano d’Oriente, che sopravvisse per oltre mille anni a quello d’Occidente, è protagonista della rassegna presentata dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Articolata in 15 sezioni, la mostra sviluppa il tema delle fasi storiche successive all’impero romano d’Occidente, con un focus su Napoli (città «bizantina» per circa sei secoli, dopo la conquista da parte di Belisario e le sue armate nel 536 d.C.) e una particolare attenzione alla Grecia a all’Italia meridionale. Diversi i temi affrontati – la struttura del selezionate fra la collezione permanente del Museo di Bruges e concesse in prestito da varie raccolte europee. La Morte della Vergine è stata oggetto di un intervento condotto fra il 2018 e il 2022, i cui risultati si sono rivelati di estremo interesse sia per l’apprezzamento della composizione e delle sue caratteristiche originarie, sia per un migliore inquadramento critico di van der Goes, che è stato di stimolo per l’avvio di nuovi studi sulla sua figura. Fra i maestri che lo affiancano nella mostra, possiamo segnalare i nomi di Hans Memling, Petrus Christus, Geertgen tot Sint-Jans, Jan Provoost e Albrecht Bouts. info www.museabrugge.be

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MACERATA CARLO CRIVELLI. LE RELAZIONI MERAVIGLIOSE Palazzo Buonaccorsi e altre sedi fino al 12 febbraio

Il progetto espositivo dedicato a Carlo Crivelli (1430/1435 circa-1495) invita a scoprire le meraviglie della pittura di uno dei maestri del Rinascimento, attraverso una terra ricca di storia e arte. Il percorso parte da Macerata, all’interno di Palazzo Buonaccorsi, con 7 dipinti di Crivelli selezionati con l’intento di riportare nel territorio di provenienza alcune opere e prosegue in 8 comuni della Regione Marche (Corridonia, San Ginesio, Sarnano, Monte San Martino, San Severino Marche, Serrapetrona, Belforte del

abbandona la laguna giungendo prima a Zara per poi trasferirsi nelle Marche (dal 1468 al 1495), influenzando in modo definitivo la storia dell’arte di quel territorio e non solo. Ignorato da Giorgio Vasari, sconosciuto per decenni, riscoperto e adorato soprattutto dagli artisti preraffaelliti inglesi, conteso dai collezionisti del

potere e dello Stato, l’insediamento urbano e rurale, gli scambi culturali, la religiosità, le arti e le espressioni della cultura scritta, letteraria e amministrativa – e oltre quattrocento le opere esposte, dalle collezioni del MANN e da 57 dei principali musei e istituzioni che custodiscono in Italia e in

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AGENDA DEL MESE MOSTRE • Arte liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra Roma – Scuderie del Quirinale

fino al 10 aprile info www.scuderiequirinale.it

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a mostra offre una selezione di oltre cento capolavori salvati durante la seconda guerra mondiale, oltre che un ampio panorama documentario, fotografico e sonoro – riuniti grazie alla collaborazione di ben quaranta musei e istituti – per un racconto avvincente ed emozionante di un momento drammatico per il nostro Paese ma altrettanto lungimirante e fondativo per una nuova coscienza civica. Un omaggio doveroso alle donne e agli uomini che, nella drammatica contingenza bellica, hanno interpretato la propria professione all’insegna di un interesse comune, coscienti dell’universalità del patrimonio da salvare. Al centro del progetto espositivo l’azione lungimirante di tanti Soprintendenti e funzionari dell’Amministrazione delle Belle Arti – spesso messi forzatamente a riposo dopo aver rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò – che, coadiuvati da storici dell’arte e rappresentanti delle gerarchie vaticane, si resero interpreti di una grande impresa di salvaguardia del patrimonio artistico-culturale. Un’occasione unica per ammirare, per la prima volta riunite nello stesso luogo, opere di altissimo valore artistico fortunatamente sopravvissute, fra cui la Santa Palazia di Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino, la Crocefissione di Luca Signorelli, l’Immacolata Concezione di Federico Barocci e la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca.

Grecia materiali bizantini: 33 musei italiani, 22 musei greci, Musei Vaticani e Fabbrica di San Pietro. Grazie anche alla sinergia con la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Napoli e all’eccezionale collaborazione con il Ministero Ellenico, molti dei materiali esposti saranno visibili per la prima volta, provenienti dagli scavi della metropolitana di Salonicco e da quelli per la linea 1 a Napoli. info https://mann-napoli.it/ bizantini

CITTÀ DEL VATICANO DALLA SPADA ALLA CROCE. IL RELIQUIARIO DI SAN GALGANO RESTAURATO Musei Vaticani fino al 18 febbraio

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Un furto clamoroso, nel 1989, dal Museo del Seminario Arcivescovile di Siena. Uno straordinario recupero, piú di trent’anni dopo, grazie al Comando dei Carabinieri, Tutela Patrimonio Culturale. E infine il restauro, eseguito nei

Laboratori dei Musei Vaticani. È questa l’occasione per inaugurare la mostra «Dalla Spada alla Croce. Il reliquiario di San Galgano restaurato». Al centro della vicenda vi sono una croce astile, due pissidi, cinque calici e, soprattutto, un capolavoro della produzione orafa senese del XIV secolo, il Reliquiario di San Galgano, oggetto mirabile e di intensa devozione popolare. Su di esso, decorate finemente in preziosi smalti traslucidi, sono

raffigurate le scene della vita del santo e della sua spada. Secondo la tradizione, Galgano sarebbe nato nel borgo senese di Chiusdino. Cavaliere appartenente alla piccola nobiltà locale, si convertí alla vita ascetica ed eremitica dopo le visioni dell’Arcangelo Michele, come rappresentato nelle sei scene del Reliquiario. Condusse la sua vita monastica nell’Eremo di Montesiepi, da lui edificato su una collina vicina al luogo dove sarebbe sorta l’Abbazia. Morí, secondo le fonti, il 30 novembre 1181. Appena quattro anni dopo fu convocata una commissione di inchiesta, che indusse papa Lucio III a proclamarlo santo nel 1185. A Galgano è attribuito nella sua rappresentazione iconografica, febbraio

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il celebre segno della spada conficcata nella roccia che diventa una croce davanti alla quale inginocchiarsi e pregare. La sua fama tuttavia si afferma sullo sfondo della diatriba fra Papato e Impero sulle «investiture» e nel contesto dell’espansione dell’Ordine Cistercense grazie all’opera di san Bernardo di Chiaravalle. info tel. 06 6982 o 69883145 o 69884676; e-mail: info.mv@ scv.va; www.museivaticani.va MONZA STREGHERIE. FATTI, SCANDALI E VERITÀ SULLE SOVVERSIVE DELLA STORIA Villa Reale fino al 26 febbraio

La mostra riunisce stampe antiche firmate dai maggiori incisori e artisti degli ultimi due secoli e da straordinari illustratori anonimi dimenticati, presentando scene di malefici,

torture, sabba osceni, crudi episodi di stregoneria ma anche scene luminose di streghe buone, zingare che guariscono bambini dalle malattie e simboli magici nascosti in quadri pastorali. Si tratta di un centinaio di opere, scelte all’interno della collezione Guglielmo Invernizzi. Tra i pezzi della raccolta vi sono

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alcuni trattati immancabili in un percorso dedicato alla stregoneria, fra i quali spicca il Malleus Maleficarum, il piú consultato manuale sulla caccia alle streghe, nella pregiata edizione del XVI secolo, nel quale sono indicati caso per caso i supplizi e le pene da fare soffrire a chi era accusato di stregoneria. E poi ancora un bulino di Albrecht Dürer del 1501 raffigurante La strega a rovescio sul caprone, le xilografie del Maestro del Virgilio di Grüninger del 1502, Il giovane principe impara la magia di Hans Burgmair, del 1515, e La strega e il palafreniere di Hans Baldung Grien del 1544/45. info www.stregherie.it VENEZIA IL RINASCIMENTO IN FAMIGLIA: JACOPO E GIOVANNI BELLINI, CAPOLAVORI A CONFRONTO Gallerie dell’Accademia fino al 12 marzo

Lo scambio di opere importanti con musei italiani e stranieri ha dato alle Gallerie dell’Accademia la possibilità di creare nuovi racconti, intrecciare nuove storie con dipinti della collezione permanente, parlare di iconografia, di provenienze, di stile. Visto il successo degli appuntamenti già realizzati, il museo presenta ora il nuovo programma Nelle Gallerie, dedicato alle occasioni di incontro e relazione tra opere e istituzioni. Ospite d’onore è questa volta un dipinto giovanile di Giovanni Bellini la Madonna col Bambino, nota anche come Madonna Trivulzio, dalla Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano. L’opera è allestita accanto alla preziosa Madonna col Bambino benedicente e cherubini di Jacopo Bellini – parte della collezione permanente – a cui il

restauro appena concluso ha restituito una sorprendente leggibilità nei valori formali e della tecnica esecutiva. Stupefacente è la brillantezza emersa dagli azzurri, costituiti da azzurrite nei cherubini e molto probabilmente da blu oltremare nel manto della Vergine, dai rossi dipinti a vermiglione e lacca, cui le lumeggiature in oro a conchiglia conferiscono un crepitante scintillio. I due dipinti si possono ammirare nella sala III del primo piano dove sono riuniti altri dipinti eseguiti dai Bellini, la piú importante impresa familiare della Venezia quattrocentesca, in un arco di tempo compreso dagli anni Quaranta agli anni Sessanta: le opere qui presenti di Giovanni e Gentile testimoniano in modi e

gradi diversi il cammino avviato per affrancarsi dal linguaggio piú arcaico del padre Jacopo, aprendosi alle novità del linguaggio rinascimentale elaborate a Padova da Francesco Squarcione e Andrea Mantegna, sulla base degli stimoli ivi introdotti da Donatello. info tel. 041 5222247 oppure 2413942; www.gallerieaccademia.it ROVERETO GIOTTO E IL NOVECENTO MartRovereto fino al 19 marzo

Il museo roveretano presenta 200 opere di artisti moderni e contemporanei ispirate a Giotto, il maestro che rivoluzionò la pittura medievale. Il percorso comincia con una

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AGENDA DEL MESE musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un grande installazione immersiva che riproduce la Cappella degli Scrovegni di Padova, capolavoro assoluto del pittore toscano, e continua fra le creazioni di grandi autori e autrici del XX secolo accomunati dalla passione per la figura di Giotto, studiato, imitato, o preso a modello di perfezione e spiritualità. Nel primo Novecento Carlo Carrà, Mario Sironi e Arturo Martini, ma anche Gino Severini, Massimo Campigli, Achille Funi, Ubaldo Oppi, rintracciarono in Giotto il principale testimone di un’eternità alla quale guardare. Pochi decenni piú tardi, gli insegnamenti giotteschi influenzano l’opera di alcuni protagonisti dell’arte italiana come Giorgio Morandi, Fausto Melotti, Mario Radice, Lucio Fontana, ma anche il lavoro di grandi artisti internazionali come Henri Matisse, Yves Klein, Mark Rothko, Josef Albers e Tacita Dean. info tel. 800 397760 oppure 0464 438887; e-mail: info@ mart.trento.it; www.mart.trento.it TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile

La mostra si inserisce nel progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei

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sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it

e nella sua biblioteca un patrimonio eccezionale di oggetti, immagini, libri e manoscritti, legati sia al lascito fatto da Aldrovandi alla città, sia alle raccolte dell’Istituto delle Scienze creato piú tardi da Luigi Ferdinando Marsili. «L’altro Rinascimento» riunisce infatti molti dei «gioielli» custoditi dall’Alma Mater, in gran parte mai esposti prima,

BOLOGNA L’ALTRO RINASCIMENTO. ULISSE ALDROVANDI E LE MERAVIGLIE DEL MONDO Museo di Palazzo Poggi fino al 10 aprile

esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti

Il progetto espositivo, realizzato in occasione del cinquecentenario della nascita di Ulisse Aldrovandi (15221605), accompagna il visitatore in un viaggio alla scoperta di un episodio del Rinascimento tanto importante quanto poco conosciuto, perché messo in ombra dai capolavori dell’arte e dell’architettura che tutto il mondo riconosce: il risveglio delle scienze naturali. Se gli artisti avevano cercato di imitare e superare i capolavori della classicità, i filosofi le idee, e gli umanisti la letteratura, negli ultimi decenni del Cinquecento Ulisse Aldrovandi e un piccolo gruppo di naturalisti, medici e farmacisti italiani decisero di ripercorrere le orme di Aristotele e di Plinio, trasformandosi da umanisti in scienziati. Cominciarono a raccogliere collezioni che diventeranno i musei di storia naturale e fecero realizzare le prime vere immagini della natura, creando un immaginario della natura che è ancora il nostro. Della straordinaria vicenda di questo manipolo di proto-scienziati si sarebbero perse le tracce, se l’Università di Bologna non avesse conservato nelle sue collezioni

fra i quali il Codice Cospi, uno dei soli tredici codici precolombiani sopravvissuti al mondo, alcune delle piú antiche mappe del mondo conosciuto, i volumi con le tavole illustrate fatte dipingere da Aldrovandi, e naturalmente la collezione naturalistica del grande scienziato bolognese, unica arrivata sino a noi nella sua quasi interezza, oltre che la piú grande, importante e famosa del suo tempo. info e-mail: aldrovandi500@ unibo.it; www.unibo.it/ aldrovandi500; facebook: sma. museiunibo; palazzopoggi. museiunibo; instagram: @ museiunibo; youtube: Sistema Museale di Ateneo-Università di Bologna; hashtag: #Aldrovandi500 febbraio

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GUBBIO L’INGEGNO DI LEONARDO. LE MACCHINE Palazzo dei Consoli fino al 1° maggio

Ospitata nei magnifici spazi del Palazzo dei Consoli, la mostra offre l’occasione di scoprire la genialità di Leonardo da Vinci, un pioniere nella ricerca e negli studi della tecnologia. Con le sue idee ha saputo coniugare in maniera mirabile l’attività artistica e l’attività scientifica, applicando le sue conoscenze di meccanica a opere di ingegneria civile e militare e dedicandosi con passione agli studi di anatomia, biologia, matematica e fisica. La famiglia fiorentina Niccolai, a partire dal 1960, ha deciso di dare vita alle macchine disegnate da Leonardo nei suoi Codici, unendo il sapere artigiano alla ricerca accademica. Nella mostra a Palazzo dei Consoli di Gubbio si possono ammirare e anche «azionare» in autonomia, modelli in scala di varie dimensioni, realizzati utilizzando i materiali dell’epoca

cioè legno, cotone, ottone, ferro e corde. Si tratta di macchine militari, di ingegneria civile e idraulica, accanto a studi per il volo umano e oggetti curiosi, pronti a meravigliare visitatori di ogni età. Alcune ricostruzioni di macchine leonardesche sono esposte anche in

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suggestivi spazi esterni del centro storico cittadino. info tel. 075 9274298; e-mail: museo@gubbioculturamultiservizi. it; www.palazzodeiconsoli.it BASSANO DEL GRAPPA I BASSANO. STORIA DI UNA FAMIGLIA DI PITTORI Museo Civico fino al 2 maggio

A raccontare le vicende della dinastia dei Bassano non sono soltanto le loro opere, ma anche le parole di Melania Mazzucco: il tutto a creare un’inedita «mostra racconto». Nessun pannello storicoartistico, nessuna didascalia che vada oltre l’essenzialità, solo le meravigliose creazioni dei Bassano e l’intenso filo del racconto della vita dei Dal Ponte, poi noti al mondo appunto come «i Bassano», protagonisti indiscussi della pittura del Rinascimento veneto. La loro epopea ebbe inizio con la discesa, correva l’anno 1464, a Bassano di Jacopo di Berto, conciatore di Gallio, nell’Altopiano di Asiago.

Giunto sulle rive del Brenta, Jacopo trovò dimora in Contra’ del Ponte da cui deriverà il cognome futuro della celebre famiglia di pittori. Suo figlio Francesco, poi detto il Vecchio perché primo della dinastia, cominciò ad avventurarsi nell’arte della pittura. Alchimista

dilettante, cartografo e decoratore piú che grande artista, Francesco dette vita a creazioni d’arte sacra che rispondevano alle richieste del mercato locale avviando un’eterogenea, attivissima bottega. Qui collaborano i figli, Giambattista e Jacopo, giovane di immenso talento che, con il suo pennello, avrebbe scritto pagine indelebili della storia dell’arte e della pittura italiana e non solo. Genio mite e riservato, è a lui che si deve il cambio di passo: quella che sino ad allora era soprattutto una forma di artigianato decorativo prende la valenza di grande arte. Arte coltivata, con successo, anche dai suoi figli – il talentuoso e melanconico Francesco il Giovane,

Giambattista, e poi i diligenti Leandro e Gerolamo, fino al nipote Jacopo Apollonio che disegnava di nascosto – ai quali «il Bassano» seppe trasmettere amorevolmente la sapienza e la poesia della sua arte. I loro dipinti, ammantati da un ineffabile «mistero del quotidiano», conquistarono il mercato internazionale: grandi quadri di devozione sacra destinati alle chiese, ma anche ritratti, commoventi notturni e intense pastorali che, dalla piccola Bassano, giunsero ad arricchire le grandi collezioni reali, da quella di Rodolfo II a Praga, alla Madrid di Filippo II, giungendo fino alle Americhe. Una storia che si conclude quando Jacopo Apollonio, formatosi sotto la guida dello

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AGENDA DEL MESE zio Leandro, realizza le ultime repliche prodotte sui disegni e i modelli del nonno Jacopo. La storia dei Bassano, una vera e propria epopea per immagini iniziata sul finire del Quattrocento, esce cosí di scena avendo all’attivo oltre un secolo di grandissima fortuna. info tel. 0424 519901; e-mail: biglietteriamusei@comune. bassano.vi.it; www.museibassano.it SAINT-GERMAIN-EN-LAYE IL MONDO DI CLODOVEO Musée d’Archéologie nationale fino al 22 maggio

Il Museo d’archeologia nazionale si trasforma in un grande gioco di fuga collettivo, facendo di ciascun visitatore l’eroe di un’avventura inedita, che ha luogo all’epoca dei Franchi: è questo il sorprendente risultato della mostra attualmente allestita negli spazi del castello di SaintGermain-en-Laye, che propone

un approccio decisamente inconsueto al tema affrontato, che è quello dell’età merovingia e del suo primo sovrano, Clodoveo. Il percorso espositivo, ludico e interattivo al tempo stesso, rievoca dunque i tratti distintivi del primo Medioevo, dispensando nozioni di storia e archeologia. Ai visitatori è data

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la possibilità di vestire i panni di un personaggio vissuto al tempo dei Merovingi e di costruire un proprio «percorso di vita», grazie a un’applicazione web o a libri-gioco. La fruizione delle diverse risorse – giochi, libri, video – è totalmente libera e ciascuno può scegliere la soluzione che preferisce, diventando attore della visita ed eroe della storia che ha confezionato. info www.museearcheologienationale.fr ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it FERRARA RINASCIMENTO A FERRARA. ERCOLE DE’ ROBERTI

E LORENZO COSTA Palazzo dei Diamanti fino al 19 giugno (dal 18 febbraio)

La rassegna tiene a battesimo la riapertura dei nuovi spazi espositivi di Palazzo dei Diamanti, oggetto di un complesso intervento di restauro e riqualificazione, e costituisce la prima tappa di un progetto piú ampio e ambizioso intitolato Rinascimento a Ferrara 14711598 da Borso ad Alfonso II d’Este, che indagherà la vicenda storico-artistica del periodo compreso tra l’elevazione della città a ducato e il suo passaggio dalla dinastia estense al diretto controllo dello Stato Pontificio. Gli altri momenti del percorso saranno dedicati ai grandi protagonisti di quella stagione: Mazzolino e Ortolano, Dosso e Garofalo, Girolamo da Carpi e Bastianino. Le oltre cento opere esposte, provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, offrono l’occasione di scoprire (o riscoprire) l’arte di due grandi interpreti del Rinascimento italiano, entrambi ferraresi: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Dotato di un incredibile talento compositivo, straordinario per qualità ed espressività emotiva,

Ercole de’ Roberti (1450 circa1496) era l’erede dell’Officina ferrarese, il piú giovane e intelligente tra quanti parteciparono al clima culturale di Palazzo Schifanoia, negli ultimi anni del governo di Borso che proprio allora riceveva il titolo di duca (1471). Operò a piú riprese a Bologna, dove lasciò una impronta profondissima, ma non vi è dubbio che a Ferrara trovò l’ambiente piú adatto in cui esprimersi durante l’ultimo decennio della sua vita, trascorso alle dipendenze della corte. Fu Lorenzo Costa (14601535), di dieci anni piú giovane, a raccoglierne l’eredità e a continuarne lo stile nelle opere giovanili. Ma durante un lungo soggiorno a Bologna la sua pittura mutò in direzione di una maggiore morbidezza, di una classicità calma e distesa. Il mondo stava cambiando, Leonardo e Perugino stavano imponendo una nuova «maniera», che Costa comprese subito e della quale fu tra i maggiori interpreti, anche dopo il trasferimento a Mantova alla corte dei Gonzaga. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www.palazzodiamanti.it febbraio

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TORINO

BUDDHA10. FRAMMENTI, DERIVE E RIFRAZIONI DELL’IMMAGINARIO VISIVO BUDDHISTA MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 3 settembre

Quali significati hanno gli oggetti rituali presenti nelle collezioni del MAO e come venivano utilizzati e percepiti nel loro contesto originario? Perché e come sono entrati a far parte del patrimonio del museo – cosí come di altri musei di arte asiatica in ambito europeo? E ancora: quali sono i problemi posti dalla conservazione e dal restauro, subordinati al gusto e alle tecniche che cambiano nel tempo? Qual è il rapporto fra buddhismo e nuove tecnologie? Da queste domande prende avvio la nuova mostra «Buddha10», un progetto che parte dalle opere presenti nelle collezioni per aprire prospettive piú ampie relative a questioni che riguardano il museo, le sue collezioni e su cosa significa gestire, custodire e valorizzare un patrimonio di arte asiatica

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. IX Edizione Roma – Teatro Argentina

fino al 16 aprile info www.teatrodiroma.net

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ornano gli appuntamenti con «Luce sull’archeologia», la cui nona edizione, «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato», propone un percorso tematico di grande suggestione, che esamina l’aspirazione delle classi piú elevate della società romana a ricreare i lussi delle corti ellenistiche come segno di prestigio sia politico che personale. Non solo esplorando la vita di alcuni dei protagonisti di una stagione eccezionale, come Augusto, Livia, Cleopatra, ma anche riconoscendo una documentazione archeologica straordinaria: pitture, tarsie, oro, mosaici, iscrizioni e la decorazione marmorea di ville e palazzi sono solo alcuni degli elementi distintivi della società romana tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età imperiale. Esigenze di rappresentanza e ostentazione del lusso e di una cultura arricchita e accresciuta dal contatto con le altre genti del Mediterraneo e del Lazio antico, una visione dell’arte dunque come sentimento del sublime, come esperienza di bellezza, di civiltà, di identità civile, base del linguaggio dei ricchi e potenti ottimati romani, che presero il sopravvento nonostante la fiera condanna dei moralisti e le severe leggi suntuarie. «Luce sull’archeologia» è un progetto curato dal Teatro di Roma-Teatro Nazionale, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Romani, la rivista «Archeo» e la società Dialogues. Raccontare L’Arte. Gli incontri sono arricchiti dai contributi di storia dell’arte proposti da Claudio Strinati, dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner e dalle introduzioni di Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, il calendario dei prossimi appuntamenti. 12 febbraio Francesca Cenerini, I molti volti del «potere» di Livia, moglie di Augusto; Paolo Giulierini, Eleganza e cultura tra Pompei ed Ercolano nelle collezioni del MANN; Francesca Rohr Vio, La «pace insanguinata» di Augusto. Saper governare anche grazie al dissenso. 26 febbraio Patrimonio culturale: tutela, conservazione, valorizzazione, intervengono Massimo Osanna, Gottardo Pallastrelli, Claudio Strinati e Stéphane Verger. 12 marzo Piero Bartoloni, Miniere, metalli e gioielli nel mondo fenicio; Pier Giovanni Guzzo, Oro e potere nel Lazio arcaico. 26 marzo Giovanna Di Giacomo, Oro, gemme e perle. Artigiani e vetrine del lusso nella Roma imperiale; Alessandro D’Alessio, Stefano Borghini, Il sofisticato lusso del potere: la cena rotonda della Domus Aurea. 16 aprile Maurizio Bettini, Una parola magnifica e potente; Paolo Di Paolo, La parola oltre il sipario; Adriano La Regina, Teatro: spazio urbano della politica e del consenso.

in ambito occidentale. Nelle sale dedicate alle esposizioni temporanee, in uno spazio essenziale ed evocativo, oltre venti grandi statue buddhiste in legno o pietra di epoche diverse (dal V al XIX secolo) delle

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collezioni del MAO sono accostate ad alcune sculture – tra cui oltre trenta bronzetti votivi della collezione Auriti e due straordinarie teste scultoree in pietra di epoca Tang (618-907 d.C.) – provenienti dal Museo delle Civiltà di Roma, con cui il

Museo ha avviato una proficua e articolata collaborazione, e a un importante prestito proveniente dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova. info tel. 011 4436927; www.maotorino.it

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N°54 Gennaio/Febbraio 2023 Rivista Bimestrale

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a stregoneria ha origini antiche quanto quelle del genere umano, ma non ci sono dubbi sul fatto che nel Medioevo è stato scritto il capitolo piú importante della sua storia plurisecolare. Da questo assunto prende le mosse il nuovo Dossier di «Medioevo», che analizza i molti aspetti di un fenomeno per effetto del quale, accanto ai – veri o presunti – poteri soprannaturali di streghe e stregoni, si sono registrate efferatezze, abusi e ossessioni di ogni sorta, soprattutto quando le «donne scellerate, convertite a Satana» sono entrate nel mirino della Chiesa. Si tratta, dunque, di una vicenda dalle tinte per lo piú fosche, ma che, al tempo stesso, ha avuto spesso significativi riflessi politici e sociali, come quando la repressione della stregoneria fu presa a pretesto per operare attività repressive tout court nei confronti di quanti osassero opporsi all’ordine costituito. Né va dimenticata la dimensione antropologica del fenomeno, alla quale sono dedicate ampie parti del Dossier e di cui sono testimonianza usi e costumi ancora oggi rintracciabili nelle popolazioni moderne. Se dunque nel millennio medievale si faceva presto a dire strega, ecco ora l’occasione di scoprire il vero profilo di troppe vittime innocenti, separando il mito dalla realtà.

IOEVO MED Dossier

353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

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MEDIOEVO DOSSIER

ANTE PRIMA

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GLI ARGOMENTI

• Le origini • Un identikit • Pozioni e altre misture • La caccia alle streghe • Il Malleus maleficarum • Torture e aberrazioni • La follia di Salem

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Il volo delle streghe, olio su tela di di Francisco Goya. 1797-1798. Madrid, Museo del Prado.

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musei firenze

Vivere a Firenze nell’età di Mezzo RIAPRE IL MUSEO DI PALAZZO DAVANZATI

incontro con Daniele Rapino, con un contributo di Paola D’Agostino, a cura di Andreas M. Steiner Nella pagina accanto in alto la facciata di Palazzo Davanzati (Firenze). A destra replica ottocentesca della Veduta della Catena (1472 circa) di Francesco di Lorenzo Rosselli. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera, il cui appellativo deriva dalla catena che la circonda (non visibile nella foto), è un documento di straordinaria importanza sull’assetto di Firenze nella seconda metà del Quattrocento, ed è il primo esemplare noto nella storia della topografia che ritragga tutta la città con i suoi edifici e la sua rete viaria. Il riquadro colorato indica la posizione di Palazzo Davanzati, lungo via Porta Rossa, a metà circa tra Palazzo Vecchio e la Colonna della Giustizia. Salvo diversa indicazione, tutte le foto si riferiscono a Palazzo Davanzati e al nuovo allestimento del suo museo.

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Tra i piú antichi e meglio conservati edifici della Firenze medievale, Palazzo Davanzati riapre al pubblico dopo lunghi mesi dedicati a un completo riallestimento delle sue collezioni (450 opere a cui si affiancano circa duemila merletti) e all’aggiunta di importanti novità. Dei lavori, che hanno coinvolto ben 2000 metri quadrati distribuiti su tre piani dell’edificio, abbiamo parlato con il curatore e responsabile del museo, Daniele Rapino

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musei firenze Dottor Rapino, come nasce il mueso di Palazzo Davanzati? «Il Palazzo fu fatto costruire dalla famiglia Davizzi nella prima metà del Trecento e nel 1578 passò alla famiglia Davanzati: dal punto di vista architettonico esso segna il passaggio dalla casa torre medievale alla dimora rinascimentale. Dopo altri passaggi di proprietà e vicissitudini che causarono notevoli danni alla struttura, Elia Volpi, mercante d’arte e antiquario, nel 1904 acquistò il Palazzo promuovendo importanti lavori di restauro per restituirlo al suo aspetto originario. Nel 1910, l’edificio verrà aperto al pubblico con l’intento di rappresentare la fiorentinità abitativa tra Medioevo e Rinascimento attraverso una sapiente distribuzione di arredi antichi della sua collezione, oltre che vetrina per la sua attività di antiquario. Dopo alterne vicissitudini, non sempre positive, l’edificio, oramai privo degli arredi collezionati da Volpi, fu acquistato dallo Stato e, nel 1956, aperto al pubblico sotto la direzione di Luciano Berti, che intese mantenere l’idea di dimora fiorentina antica, arredandolo con oggetti provenienti dai depositi delle collezioni fiorentine, arricchito successivamente con acquisti e donazioni». Per quali aspetti è rinomato il Palazzo? «Con i suoi quasi sette secoli di vita Palazzo Davanzati è tra i piú antichi e meglio conservati edifici medievali della città di Firenze. Il Palazzo Davanzati, grazie a Elia Volpi, visse nel Novecento una felice stagione. Con particolare attenzione, l’antiquario, che precedentemente a questa sua attività era stato un valente restauratore, effettuò nell’edificio interventi di ripristino e di recupero delle preziose pitture murali, che caratterizzano e rendono unico questo edificio. Lo arredò con mobili, cassoni, maioliche, sculture, dipinti seguendo il modello di una casa fiorentina rinascimentale, teorizzato in quegli anni da Attilio Schiaparelli. Il museo ebbe un grande successo, divenendo punto di riferimento per antiquari, collezionisti, studiosi, miliardari come Pierpont Morgan, nonché per le dimore fiorentine e d’oltreoceano degli anglo-americani, arredate e decorate secondo lo “stile Davanzati”. Alcuni anni dopo, Elia Volpi tentò la fortuna mettendo in vendita l’intero arredo in due aste nel 1916 e nel 1917, curate a New York dall’American Art Galleries, che ebbero grandissimo successo. Tra il 1924 e il 1927, a seguito di difficoltà economiche, Volpi vendette agli antiquari Leopoldo e Vitale Bengujat, originari di Alessandria d’Egitto, ma attivi a Londra, Parigi, New York, l’intero arredo e il Palazzo. Questi arricchirono il museo con tappeti, arazzi, armi e ferri battuti, apportando conLa Sala dei Pappagalli, uno degli ambienti piú celebri del palazzo, che prende il nome dai piccoli pappagalli presenti nelle losanghe delle decorazioni geometriche dipinte sulle pareti.

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musei firenze la storia

Culla della «fiorentinità» Agiata famiglia di mercanti, i Davizzi costruirono alla metà del Trecento questa signorile dimora accorpando diverse case-torri di loro proprietà. Solo in seguito il palazzo prese il nome dei Davanzati che l’acquistarono dai Bartolini nel 1578, arricchendone la facciata con un grande stemma rappresentante l’arme del proprio casato. L’edificio, dunque, segna il passaggio dalla casa-torre medievale alla casa mercantile, in uno sviluppo verticale su quattro livelli, piú il piano terra. Dopo la morte, nel 1838, di Carlo Davanzati, ultimo discendente della famiglia e il passaggio agli eredi dei rami collaterali, il palazzo visse un periodo di grandi difficoltà, divenendo alloggio di famiglie disagiate che ne alterarono la struttura interna. Salvato dalle demolizioni del centro storico nell’Ottocento, l’edificio fu acquistato nel 1904 da Elia Volpi, singolare figura di pittore, restauratore e antiquario, che lo restaurò e arredò. Il 24 aprile 1910, fu inaugurato il Museo della Casa fiorentina, prestigiosa vetrina dell’attività commerciale del Volpi stesso, ma anche esempio di gusto di una «fiorentinità» ricercata da italiani e stranieri. La crisi economica, nel 1916, costrinse il Volpi a vendere tutti gli arredi del palazzo in un’asta svoltasi a New York; nuovamente arredato nel 1920, il palazzo fu infine venduto dall’antiquario nel 1926. Le vicissitudini piú recenti si sono consumate tra vendite, acquisti e fallimenti di altri antiquari (prima i fratelli Vitale e Leopoldo Bengujat, quindi la Spanish Art Gallery di Londra), giungendo infine all’acquisto da parte dello Stato italiano nel 1951 che aprí il palazzo come museo pubblico nel 1956.

sistenti modifiche nel cortile e nelle cantine, ristrutturate con gusto eclettico e collegate al pianterreno. Nel 1934 una vendita curata dalla Galleria Bellini disperdeva quanto rimaneva dell’ultima collezione Volpi passata ai Bengujat. Il palazzo rimase di proprietà della Spanish Art Gallery di Londra fino all’acquisto da parte dello Stato italiano nel 1951». Quali sono i nuclei collezionistici peculiari del percorso museale? «Ciò che affascina entrando a Palazzo Davanzati è la sua architettura, che restituisce fedelmente l’aspetto di una dimora signorile trecentesca con i cicli di pitture murali che caratterizzano elegantemente alcuni suoi ambienti come la Camera “della Castellana di Vergy”, la Sala dei Pappagalli, la Camera dei Pavoni e quella delle Impannate. Altrettanto importanti sono i soffitti lignei decorati delle sale del primo piano e in particolare del salone madornale e della Camera dei Pavoni. Il visitatore è coinvolto in un’esperienza immersiva nella Firenze medievale e rinascimentale, attraverso un percorso espositivo di circa 2mila mq con 450 opere d’arte. Ad arricchire ulteriormente i celebri ambienti affrescati trovano posto opere d’arte di Antonio Rossellino, Lorenzo Ghiberti, Maestro di Serumido, Jacopo del Sellaio, Mariotto di Nardo, Giovanni di Ser Giovanni detto Lo Scheggia, solo per citare alcuni degli artisti piú prestigiosi oltre a preziosi mobili e arredi lignei, ceramiche e una rara collezione di circa 2000 merletti antichi, che fanno parte del percorso espositivo museale dagli inizi degli anni Ottanta del Novecento». C ome nasce l’idea del riallestimento delle collezioni? «I fattori che mi hanno portato a ripensare l’allestimento di Palazzo Davanzati, completato a settembre 2022 dopo sei mesi di intensi lavori, sono da ricercare nella A sinistra la Camera delle Impannate, che era una delle stanze da letto del palazzo ed è connotata da una decorazione a finta tappezzeria, simile a quella delle altre camere aventi la stessa funzione. Nella pagina accanto una veduta del cortile del palazzo.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

necessità di rivedere il percorso espositivo in chiave piú attrattiva e piú prossima ai nuovi standard museali. I recenti studi di museologia attribuiscono grande importanza all’aspetto didattico e alla comprensione delle opere esposte. L’arricchimento nel percorso espositivo, cosí com’è stato fatto in questa occasione, con numerosi pannelli esplicativi e un piú chiaro apparato didascalico, oltre a una nuova distribuzione degli oggetti esposti, consentono anche al visitatore meno informato di cogliere meglio gran parte degli aspetti che caratterizzano l’esposizione. Pertanto si è inteso rendere il museo e il suo contenuto piú comprensivo attraverso la nuova distribuzione degli arredi tra primo e secondo piano, in una sequenza temporale che separa il Trecento e il Quattrocento (segue a p. 34)


I colori, le luci, la storia Immagini del nuovo allestimento del Museo di Palazzo Davanzati. Le foto nella pagina accanto, in alto, e a doppia pagina si riferiscono alle preziose collezioni di merletti e ricami, riunite in due sale del primo piano dell’edificio. In questa pagina, dall’alto, si possono vedere un’altra immagine della Camera delle Impannate e la Saletta Elia Volpi, il pittore, restauratore e antiquario che ebbe il merito di salvare Palazzo Davanzati dalla demolizione e di trasformarlo in museo nel 1910.

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musei firenze La visita

Come una macchina del tempo Visitare il Museo di Palazzo Davanzati è come entrare in una macchina del tempo che ci riporta indietro di quasi sette secoli, alla vita privata nel Medioevo. È tra i piú antichi e meglio conservati edifici medievali della città di Firenze, esemplificativo della stratificazione di commerci, vicende storiche, artistiche e collezionistiche nella città gigliata. Recentemente, il museo è stato completamente riallestito e rinnovato pur mantenendo intatto il fascino di antica dimora fiorentina, cosí com’era stato concepito alla nascita del museo a inizio del Novecento. Il progetto di riallestimento, affidato all’architetto Lorenzo Greppi, è stato curato dal responsabile del museo, Daniele Rapino, sotto la mia guida come Direttore dei Musei del Bargello ed è stato realizzato grazie a due finanziamenti straordinari del Ministero della Cultura erogati

nell’annualità 2019-2020: 500mila euro sono stati destinati al riallestimento e alla messa in sicurezza delle sale del Museo e ulteriori 90mila euro specificamente destinati alla Sala dei Merletti, con un nuovo allestimento e una nuova illuminazione tali da valorizzare questa collezione straordinaria e unica nel suo genere. Nei sei mesi di chiusura del museo, mentre si lavorava alacremente all’allestimento delle nuove vetrine, alla realizzazione di due sale che raccontassero il ruolo di Elia Volpi nella creazione di Palazzo Davanzati e il successivo acquisto da parte dello Stato italiano nel 1956, contemporaneamente si è proceduto a una revisione conservativa delle opere d’arte – realizzate nelle tecniche piú diverse – che fanno parte della variegata collezione del museo. Particolare attenzione è stata data

al restauro e alla messa in sicurezza della collezione dei merletti, la piú importante come varietà e consistenza numerica conservata in un museo statale, all’esposizione della rarissima cosiddetta coperta Guicciardini, alla revisione conservativa dei mobili e alla creazione di alcune sale tematiche, ripensate secondo i piú moderni criteri museografici. Dai depositi del Museo Nazionale del Bargello, inoltre,

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La Camera della Castellana di Vergy. Nella pagina accanto la sala da giorno al secondo piano del palazzo.

sono state selezionate, grazie alla collaborazione tra i funzionari del museo, una serie di opere che sono state contestualizzate ed esposte per la prima volta a Palazzo Davanzati. I Trionfi di tema petrarchesco, dipinti dallo Scheggia, fratello di Masaccio, su

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tavole curve, la cui funzione originaria è ancora ammantata da mistero, sono stati collocati al terzo piano, in una stanza dedicata alla pittura su tavola e su cassone nel Quattrocento. Una nuova illuminazione, con corpi illuminanti di ultima generazione, evidenzia la singolarità delle pitture murali del Palazzo, dal celebre ciclo dedicato alla Castellana di Vergy, alla Sala

dei Pappagalli, forse l’ambiente piú noto e imitato del Palazzo. C’è stata infine una stretta collaborazione tra professionalità diverse e un serrato confronto tra studiosi, specialisti, restauratori e funzionari storici dell’arte di generazioni diverse che hanno predisposto un’affasciante racconto museale dal Medioevo a oggi. Paola D’Agostino, Direttore dei Musei del Bargello

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dal Cinquecento, il Seicento e il Settecento, e al contempo arricchirlo con altre opere di alto valore storicoartistico, alcune prestate temporaneamente dal Museo del Bargello, inserite in alcuni ambienti che possiamo definire prettamente espositivi. Un progetto in cui ho creduto fermamente, sostenuto dal direttore dei Musei del Bargello Paola D’Agostino e con la collaborazione dell’architetto Lorenzo Greppi. Tutto ciò è stato reso possibile grazie a due finanziamenti straordinari del Ministero della Cultura erogati nell’annualità 20192020: 500mila euro sono stati destinati al riallestimento e alla messa in sicurezza delle sale del Museo e ulteriori 90mila euro specificamente destinati alla nuova sala dei Merletti. Una revisione e implementazione dell’impianto illuminotecnico dell’intero Museo ha contribuito a valorizzare ulteriormente questa collezione straordinaria e unica nel suo genere». Ci può illustrare le principali novità che caratterizzano il nuovo percorso museale e quali opere, non presenti in precedenza, hanno arricchito l’esposizione?

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«Oltre alla nuova distribuzione degli arredi già presenti nel Museo, che non modificano in alcun modo gli ambienti nati per evocare l’idea abitativa di un’antica dimora, senza dubbio ciò che piú colpisce il visitatore che aveva avuto modo di conoscere il precedente allestimento sono le nuove sale espositive. La prima che incontriamo al primo piano è quella dedicata alla cosiddetta Coperta Guicciardini, capolavoro tessile della seconda metà del Trecento che faceva parte di un complesso unitario con la coperta (quilt) conservata al Victoria & Albert Museum di Londra, sulla quale sono raffigurati a ricamo otto episodi che narrano l’antefatto del romanzo di Tristano e Isotta, composto in Francia tra 1215 e 1235. A questo capolavoro fanno da contorno altre opere d’arte della medesima epoca e a essa collegata, oltre a un video che racconta ai piú giovani la sua origine e il suo significato. Allo stesso piano vi sono le nuove salette dedicate alla straordinaria figura di Elia Volpi e all’arte tra Ottocento e Novecento, con le immagini che scorrono su una parete a mostrare il Palazzo nei primi anni del Novecento, febbraio

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A sinistra la cucina del palazzo, collocata, come d’uso, in alto, all’ultimo piano, per porre rimedio ai gravi rischi di incendi, ma anche per disperdere i fumi e gli odori. In basso la Sala dell’Armario, che prende nome dal mobile in legno di pioppo intagliato e dipinto (al centro della foto) destinato a custodire le armi.

Dove e quando Museo di Palazzo Davanzati Firenze, via Porta Rossa 13 Orario martedí-giovedí, 8,15-15,30; venerdí, sabato e domenica (II e IV del mese), 13,15-18,30; chiuso il impreziosito dagli arredi raccolti dall’antiquario e alienati con un successo memorabile nelle aste del 1916 e del 1917 a New York; completano questi ambienti opere pittoriche e grafiche che il Volpi realizzò quando cercava di farsi strada come pittore, alcuni mobili, ceramiche e un’inedita scultura cinquecentesca, già di sua proprietà, e oggetti appartenenti a lui e ai suoi familiari. Al secondo piano una nuova saletta è dedicata all’Armario, restaurato per l’occasione, e ad altre suppellettili inerenti questo straordinario mobile della prima metà del Cinquecento con le ante dipinte a grottesche, destinato a contenere armi e armature, come indica la scritta in lettere capitali sull’architrave. Al terzo piano, la cosiddetta Camera delle Impannate, è stata dedicata alla pittura domestica del Quattrocento. Qui hanno trovato nuova sistemazione i cosiddetti Trionfi, ovvero una libera interpretazione pittorica del poema medesimo di Francesco Petrarca, dovuti alla felice mano di Giovanni di Ser Giovanni, detto Lo Scheggia, fratello minore di Masaccio. I quattro dipinti su tavola ricurva, di rara bellezza, realizzati intor-

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lunedí, la I, III e V domenica del mese, 25 dicembre Info tel. 055 0649460; e-mail: mn-bar.museodavanzati@cultura.gov. it; www.bargellomusei.beniculturali.it

no alla metà del Quattrocento e sulla cui destinazione d’uso gli studiosi continuano a interrogarsi, sono stati posizionati – insieme ad altre opere dello stesso autore, come il bellissimo desco da parto detto “il Civettino” – in un ambiente piú grande e arioso, a un’altezza consona, per consentire al visitatore di apprezzarne al meglio l’unicità. Sempre al terzo piano è stata allestita una nuova sala espositiva dedicata alla straordinaria collezione posseduta dal Museo, tra le piú importanti d’Italia, di merletti e ricami, provenienti da donazioni e acquisti dello Stato che vanno dal 1600 al 1900. Questi manufatti per l’occasione sono stati oggetto di una manutenzione straordinaria conservativa e oggi presentati in una nuova veste espositiva, intesa a valorizzare maggiormente le preziosità e le eleganze di questi prodotti manifatturieri. Per ultimo, ma certo non meno importante è la rara raccolta di 104 disegni, databili alla prima metà del Seicento, acquisiti recentemente dai Musei del Bargello sul mercato antiquario, che per ragioni conservative possono essere ammirati solo su richiesta».

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dante a bismantova

L’ultimo

«Quanto stretta è invece la porta e angusta la via che conduce alla vita! E pochi sono coloro che la trovano!» (Matteo 7:6, 12-14).

L’incontro fra Dante e Forese Donati, che si trova fra i golosi, ridotti a una spaventosa magrezza (Purgatorio, canto XXIII), in una tavola realizzata da Gustave Doré per la celebre edizione illustrata della Divina Commedia pubblicata nel 1861.

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passaggio

di Giuseppe Ligabue e Clementina Santi

Una veduta invernale della Pietra di Bismantova (Reggio Emilia).

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n un precedente articolo, pubblicato nel mese di giugno dello scorso anno, gli studiosi Giancarlo Ligabue e Clementina Santi ci hanno rivelato gli esiti di un «incontro fatale», quello tra Dante e un singolarissimo monumento della natura, la cosiddetta Pietra di Bismantova. Il Poeta vi fece sosta durante il suo peregrinare lungo la strada dei Lombardi in direzione di Reggio. Secondo la piú che plausibile ricostruzione degli autori, il massiccio roccioso, alto 1000 m, lungo 1 km e largo 240 m, diviene scenografia ideale, vera manifestazione fisica, del monte del Purgatorio. La ricerca, mirata a ricostruire le davvero straordinarie corrispondenze tra i versi di Dante e la stessa

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morfologia della montagna, giunge ora all’individuazione di un ulteriore, affascinate tassello: ancora oggi, infatti, giungendo all’ultimo strappo del sentiero che porta alla sommità della Pietra – che lo stesso Poeta scalò in una primavera intorno all’anno 1315 («Montasi su Bismantova e in cacume con esso i pié») – si deve attraversare una fenditura nella roccia, stretta e angusta «come la cruna di un ago», prima di raggiungere, dopo pochi metri ancora, la spianata della Pietra. Ecco come, nell’interpretazione dei nostri autori, quella crepa nella parete della montagna assume una valenza letteraria di innegabile suggestione… A. M. S. 37


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ra le tante strade percorse da Dante Alighieri nel suo peregrinare di qua e di là dall’Appennino tosco-emiliano, la piú importante è forse quella legata al percorso compiuto dal poeta quando, probabilmente nella primavera del 1315 (o forse l’anno dopo, ma questo poco importa), all’alba della definitiva condanna a morte emessa dal Comune di Firenze, fu costretto ad abbandonare per sempre la Toscana, determinato a cercare nuovo ostello presso la corte di Cangrande della Scala a Verona. È il viaggio dell’esilio definitivo, forse il piú penoso per Dante, tormentato nel suo intimo dalle riflessioni che lo avevano portato a quell’amara e sofferta decisione che gli farà dire: «Io in Firenze non entrerò giammai. E che per questo? Le spere del sole e degli astri, non potrò forse contemplarle dovunque? Non potrò in ogni luogo sotto la volta del cielo meditare i dolcissimi veri, se io prima non mi renda spregevole, anzi abietto al popolo e alla città tutta di Firenze? E neppure un pane mi mancherà» (Dante all’amico fiorentino, Epistole, XII).

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Un’isola di roccia

Si trovava allora a Pisa e la strada piú breve per Verona passava da Reggio e Mantova. Lasciatosi alle spalle il monastero di S. Croce del Corvo a Bocca di Magra, vicino a Lerici, dove aveva sostato, il poeta attraversa la Lunigiana sulla «Strada dei Lombardi», quella che da sempre univa il Golfo a Reggio di Lombardia, come a quel tempo la città emiliana era chiamata. Svalica gli Appennini al Passo del Cerreto (allora Centro Croci, poi Ospedalaccio) e, prima di raggiungere Reggio – dove probabilmente intendeva chiedere ospitalità al suo amico Guido da Castello –, vede da lontano spuntare, là in fondo, verso la grande pianura, la meraviglia della Pietra di Bismantova. Uno strano monte, quasi un’isola di roccia in un mare verde, simile

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A destra e nella pagina accanto, al centro Figura universale della Divina Commedia e Ordinamento del Purgatorio, da La materia della Divina commedia di Dante Alighieri, dichiarata in 6 tavole da Michelangelo Caetani, Firenze 1886. Londra, British Library. Nella pagina accanto, in basso veduta a volo d’uccello della Pietra di Bismantova. La spianata sommitale può aver ispirato al poeta la scenografia ideale per l’incontro di Dante con Beatrice nel Paradiso Terrestre.

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dante a bismantova A sinistra un tratto della fessura nella roccia che precede la spianata sommitale della Pietra di Bismantova. In basso la «cruna» della Pietra di Bismantova vista dall’alto. Nascosta tra cespugli e alberi, probabilmente un tempo costituiva l’estrema via di fuga per i difensori del castello che si ergeva sulla spianata sommitale.

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a un bianco altare che s’innalzava, come oggi, verso il cielo. Durante il cammino di avvicinamento, la identifica nel suo monte del Purgatorio, la seconda cantica del poema a cui in quel tempo stava lavorando, e decide di «montarci» su, sino «in cacume». Probabilmente trascorre la notte a Campolungo, una località ai piedi della montagna, e il giorno dopo si arrampica su, prima sino «all’orlo supremo» e poi sino «in cacume», cioè nel punto piú alto.

Memoria fotografica

I riscontri tra i versi che di lí a poco il poeta avrebbe composto e la morfologia del territorio sono davvero sorprendenti. Sappiamo che Dante, attento a tutto, aveva una straordinaria capacità di memorizzare i testi o le immagini di ciò che vedeva nel suo peregrinare, ma le analogie e le coincidenze tra le situazioni dei primi canti del Purgatorio con la realtà di Bismantova sono cosí tante che possiamo addirittura supporre che avesse con sé qualche foglio di carta bambagina dove poter disegnare o annotare qualche particolare situazione utile per i suoi versi. Di queste tante coincidenze una, forse la piú importante, si riscontra nel punto in cui il poeta colloca la porta del Purgatorio. Giunto ormai alla fine dell’agevole piccolo sentiero che dall’orlo suppremo (IV, 34) – che oggi identifichiamo là dove si trova l’Eremo di Bismantova – porta sulla sommità della Pietra, Dante, sicuramente con stupore, si rese conto che, nel tratto finale, il sentiero inaspettatamente proseguiva attraverso uno stretto erto cunicolo che tagliava verticalmente la roccia: una lunga fessura, come una crepa che tagliava in due la parete rocciosa dell’estremo ciglio sommitale («là dove pareami prima rotto, pur come un fesso che muro diparte», IX, 74-75). In quel suggestivo luogo, il poeta, sicuramente non senza emofebbraio

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Miniatura raffigurante Dante Alighieri che sale una scala, mentre un angelo volteggia sopra di lui, pagina facente parte della cantica del Purgatorio in un’edizione manoscritta della Divina Commedia accompagnata da un commentario in latino. Prima metà del XIV sec. Londra, British Library.

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dante a bismantova Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Il pentimento

Il perno centrale della Commedia Nel poema, giunto alle soglie del Purgatorio, Dante si sottopone a un vero e proprio rito penitenziale: umilmente si inginocchia davanti all’autorevole angelo e gli chiede perdono dei suoi peccati, battendosi per tre volte il petto. È in ciò che l’angelo dirà con poche parole, aprendo le porte del Purgatorio, che il poeta compone versi di assoluta speranza per l’umanità. Innanzitutto, l’angelo-sacerdote afferma che san Pietro lo ha incaricato di eccedere in misericordia piuttosto che in severità; con questo Dante ci ricorda che Dio ci viene sempre incontro e che quello che non riusciamo a ottenere noi con il nostro pentimento verrà colmato dalla misericordiosa Grazia. Il richiamo alle parole di Gesú a Pietro nel Vangelo di Matteo (XVIII, 21-22) è evidente: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesú gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». Sono affermazioni, quelle del poeta, di estremo valore, assolutamente confortanti, al punto da elevare questi versi a perno centrale di tutta l’opera. Papa Francesco, nel suo messaggio del 4 maggio 2015, per il settimo centenario della morte dell’Alighieri, riconosce il valore non solo poetico, ma anche teologico e culturale della Divina Commedia, definendo Dante «profeta di speranza, annunciatore della possibilità del riscatto, della liberazione, del cambiamento profondo di ogni uomo e donna, di tutta l’umanità» (lettera apostolica Candor Lucis Aeternae del 25 marzo 2021).

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In alto miniatura raffigurante Dante e Virgilio all’entrata del Purgatorio, da un’edizione manoscritta della Divina Commedia. XIV sec. Oxford, Bodleian Library. Dante si inginocchia e chiede al celeste portinaio che la porta gli sia aperta. Prima di introdurre i due pellegrini nel mondo della penitenza, l’angelo confessore incide sulla fronte del poeta sette P (le sette colpe capitali) con una «spada nuda», simbolo della giustizia. «Poi fummo dentro il soglio della porta» (X,1). febbraio

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La sommità del monte del Purgatorio circondata dal mare: Dante nota che il sole sta a sinistra, contrariamente a quel che accade sulla Terra e Virgilio gli spiega che questo dipende dal fatto che Gerusalemme e il Purgatorio hanno la stessa latitudine, ma opposta; i due escono poi dall’imbocco di uno stretto passaggio e piú avanti incontrano Belacqua, un caro amico del poeta; quindi Sordello, dopo aver abbracciato Virgilio, guida lui e Dante e gli indica alcune anime in attesa del giudizio, disegno attribuito ad Alessandro Vellutello che illustra il IV canto del Purgatorio. XVI sec. New York, Pierpont Morgan Library.

zione per la particolarità di ciò che improvvisamente venne a trovarsi dinnanzi ai suoi occhi, realizzò che la scena era assolutamente quella perfetta in cui collocare l’ultimo tratto di quel faticoso e tormentato percorso che le anime dovevano compiere prima di entrare nel Purgatorio vero e proprio immaginato nel suo poema.

Cose eccezionali

Non a caso, nella Commedia, giunto in quel luogo accompagnato da Virgilio, il poeta sospende il racconto del suo viaggio per rivolgersi direttamente al lettore e richiamare la sua attenzione sull’eccezionalità delle cose viste, rendendolo partecipe delle sue emozioni, nonché del suo maggior impegno poetico e avvertendolo che nella scena che segue tratterà delle «piú alte cose»:

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«Lettor, tu vedi ben com’io innalzo la mia matera» (IX, 70-71). E mentre saliva attraverso quella stretta fessura, erta e difficile da superare – cosí come è difficile e sofferta la confessione dei nostri peccati – possiamo pensare che Dante si sia convinto sempre piú che quello straordinario luogo costituiva la scenografia ideale in cui ambientare anche la porta del suo Purgatorio. Qui, prima di oltrepassare quella fenditura della roccia, stretta come la cruna di un ago che portava «liberi ed aperti» alla spianata sommitale, le anime penitenti dovevano lavare i peccati commessi in vita mediante la confessione. Bisognava pentirsi e rinunciare definitivamente alle iniquità del passato prima di iniziare il cammino di purificazione che porterà in Paradiso.

Cosí Dante, in quel momento, pellegrino come tutti nella vita, stretto in quello scuro cunicolo della roccia, ma che verso la fine, in alto, lasciava già intravvedere la luce del sole, avrà recuperato alla mente gli studi giovanili di teologia compiuti a Firenze nello studium domenicano di S. Maria Novella o in quello francescano di S. Croce. Gli saranno allora apparsi chiari ed evidenti i richiami con alcuni famosi passi evangelici: «Quanto stretta è invece la porta e angusta la via che conduce alla vita! E pochi sono coloro che la trovano!» (Matteo 7:6, 12-14) – «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno» (Luca 13:24). E forse avrà anche riflettuto a lungo su come comporre nel poema i versi successivi del suo viaggio

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Un modello di grande successo Questo affresco raffigurante una Madonna del Latte e conservato nell’eremo di Bismantova, ai piedi della Pietra, potrebbe essere ricondotto a maestranze itineranti, forse monaci francescani che attraversavano l’Appennino ai tempi dell’irradiazione del culto del santo di Assisi verso l’Emilia. Il suo stereotipo pittorico trecentesco è infatti riconoscibile, con minime varianti, in diverse località umbro-tosco-emiliane. Molto simili a quella di Bismantova risultano la Madonna con Santi del Castello di Montecchio Emilia e, proprio lungo la via della Lunigiana – la stessa percorsa da Dante – è recente un affine ritrovamento a Signano di Vezzano sul Crostolo (Reggio Emilia).

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Il punto in cui, superata la strettoia, il sentiero sbuca «liberi ed aperti» sulla spianata sommitale della Pietra di Bismantova.

nell’aldilà. Forse quello stesso viaggio che lui, nella vita reale, percorreva alla ricerca della salvezza eterna, il suo itinerarium mentis ad Deum. In quello stesso punto le analogie e le coincidenze con le situazioni descritte nel IX canto del Purgatorio si fanno sempre piú credibili. In quella fessura della roccia il poeta trova anche la magnifica scena in cui collocare la solenne figura del silenzioso angelo-sacerdote con in mano le chiavi ricevute in custodia da san Pietro: quel «portier» armato di spada che nel racconto lo fermerà davanti alla soglia del secondo regno ultraterreno. La porta del Purgatorio è preceduta da tre gradini di colori diversi, che simboleggiano i tre passi del sacramento della confessione: la contrizione del cuore, la confessio-

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ne orale dei peccati, il pentimento unito al proponimento di non ricadere nelle colpe: «vidi una porta, e tre gradi di sotto / per gire ad essa, di color diversi, e un portier ch’ancor non facea motto» (IX, 76-78). E ancora una volta non per caso, nei versi successivi, Dante utilizza la parola cruna. Per affermare di essere finalmente uscito da quella difficile strettoia nella roccia, dirà: «che noi fossimo fuor di quella cruna» (X, 16 ). Senza alcun dubbio la metafora rimanda il lettore al notissimo passo della cruna dell’ago evangelico: «È piú facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio» (Mc 10:25; Mt 19:24; Lc 18:25).

Bellezza silente

Ancora oggi, salendo sulla Pietra di Bismantova, montagna della salvezza dantesca, possiamo ritrovare e riscoprire la forte e intima dimensione spirituale, anzi religiosa, che settecento anni fa

ha accompagnato il viaggio del sommo poeta. Ancora oggi, pellegrini come lui, possiamo rileggere i suoi versi mentre camminiamo lungo quel sentiero che porta «in cacume» e dopo «che fossimo fuor di quella cruna», giunti finalmente «liberi ed aperti» sulla spianata sommitale, potremo riveder il cielo e, immersi in cosí tanta silente bellezza, intimamente percepire «l’amor che muove il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII, 145).

Da leggere Giuseppe

Ligabue, Clementina Santi, Dante a Bismantova. Viaggio alla montagna del Purgatorio, Corsiero Editore, Reggio Emilia 2021

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storie herleve e roberto di normandia

Una storia

Inviato dal padre a controllare i possedimenti di famiglia nella regione francese dell’Hiesmois, Roberto di Normandia incontra Herleve, una ragazza di modeste origini, ma di straordinaria bellezza. È amore a prima vista, però la differenza di censo impedisce ai due giovani di sposarsi. Tuttavia dalla loro unione nascono due figli, il primo dei quali sarà Guglielmo il Conquistatore. Che nutrí sempre grande affetto per la madre, contribuendo a garantirle un’esistenza serena e dignitosa

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impossibile... ma bella

di Gianna Baucero

Il duca Roberto il Diavolo incontra per la prima volta Arletta, una contadina di Falaise, in Normandia, olio su tela di Paul Falconer Poole. 1848. Leicester, Leicester Museum & Art Gallery.

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storie herleve e roberto di normandia

L

a storia che sto per raccontare ha come protagonisti due innamorati, o forse solo due amanti, di nome Roberto e Herleve. È ambientata nella Normandia dell’XI secolo, all’incirca tra il 1026 e il 1035. I fatti si svolsero principalmente a Falaise, sede di un bel castello dei duchi normanni. Come molte storie medievali, anche quella di Roberto e Herleve è avvolta dalle nebbie del tempo, il che contribuisce a renderla piú interessante. Roberto e Herleve si frequentarono per qualche anno, non legalizzarono mai la loro unione e tuttavia ebbero un figlio, Guglielmo, destinato a diventare uno degli uomini piú potenti d’Europa: Guglielmo il Conquistatore. Roberto era uno dei sei figli, tre maschi e tre femmine, del duca di Normandia Riccardo II e della sua legittima consorte, Giuditta di Bretagna. Suo padre, che discendeva dal grande Rollone il Vichingo, governò per quasi vent’anni e alla sua morte, il 23 agosto 1026, lasciò lo scettro al primogenito. Quest’ultimo portava il suo stesso nome e diventò, quindi, Riccardo III. Malauguratamente, il giovane rimase al potere solo un anno, poiché il 5 o 6 agosto 1027 morí, in circostanze ancora non chiare, forse avvelenato per volere del fratello Roberto. Tra i due figli del vecchio duca, infatti, i rapporti erano stati cosí tesi da creare un grave

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conflitto tra le rispettive fazioni e quindi non sorprende che intorno alla morte di Riccardo aleggi il sospetto di un assassinio e che Roberto sia ricordato come «il Magnifico», ma anche come «il Diavolo».

Roberto sale al potere

L’eredità del fratello defunto sarebbe dovuta passare al figlio Nicolas, che però fu subito rinchiuso nel monastero di Fécamp e poi in quello di Saint-Ouen a Rouen. Il titolo e i beni di famiglia andarono cosí al «nostro» Roberto, il quale, nel 1027, divenne il sesto duca di Normandia, pur essendo ancora molto giovane. Roberto regnò per i successivi otto anni: non furoIl castello dei duchi di Normandia a Falaise, all’epoca capoluogo dell’Hiesmois, regione di cui Roberto I era stato fatto signore dal padre e che oggi rientra nel Calvados.

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no tempi facili, poiché la lotta intestina «aveva diviso la Normandia e preludeva a futuri disordini». Della protagonista femminile della nostra storia purtroppo sappiamo molto meno. Noi la chiameremo Herleve, ma è possibile che in realtà la fanciulla si chiamasse Herleva, Erleve, Harlena, Harlette, Harlotte e persino Arlette o Arlotte. Certamente si trattava di una popolana, una ragazza socialmente molto inferiore a Roberto e quindi abituata a frequentare persone e ambienti diversi da quelli della corte normanna. Secondo alcune fonti suo padre si chiamava Fulbert ed era un conciatore, il che è verosimile, perché l’uomo e la sua famiglia vivevano a Falaise, che era nota in tutto il circondario per le sue botteghe di conceria, tintoria e lavorazione del cuoio. Altri, invece, hanno scritto che Fulbert era un addetto alle salme o un becchino. Herleve nacque forse vicino a Namur, ma poi si trasferí a Falaise, che in quel tempo era il capoluogo dell’Hiesmois, mentre oggi fa parte del Calvados. La zona apparteneva ai duchi di Normandia, che proprio a Falaise possedevano un imponente castello,

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dal quale si dominava l’intera pianura circostante. Un giorno il giovane Roberto si recò in visita nell’Hiesmois allo scopo di controllare i suoi vassalli. Doveva essere solo un viaggio di lavoro, in quanto il nobile aveva ricevuto dal padre il titolo di signore dell’Hiesmois, ma inaspettatamente si trasformò in un evento epocale, di quelli che cambiano la vita e anche il corso della storia. Durante il suo soggiorno a Falaise, infatti, Roberto si imbattè in Herleve, che probabilmente non aveva mai intrecciato i suoi passi con quelli di un uomo cosí importante. Era troppo povera per frequentare i nobili e fino a quel momento doveva averli visti soltanto da lontano, quando sfilavano in sella ai loro bei cavalli lucidi e preziosi.

Colpo di fulmine

Malauguratamente non possediamo un ritratto della giovane e quindi non sappiamo nulla del suo aspetto fisico, ma certo doveva essere molto bella se Roberto, che avrà avuto infinite corteggiatrici nobili e graziose, la notò e ne fu folgorato. Forse i due si videro per la

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storie herleve e roberto di normandia Falaise. La fontana detta «di Arletta», oggi ornata da un rilievo che mostra il fatidico incontro tra Roberto di Normandia e la bella popolana. Nella pagina accanto incisione che mostra il castello di Falaise e la fontana, prima che a quest’ultima fosse aggiunto il bassorilievo raffigurante l’incontro fra il duca e Herleve. 1890.

prima volta mentre lei lavava i panni in un fosso. È anche possibile, però, che il primo incontro sia avvenuto mentre la giovane danzava, nel corso di una festa di piazza o che Roberto abbia visto la fanciulla dagli spalti del castello. Ciò che sappiamo è che entrambi erano molto giovani, in età compresa tra i diciassette e i ventun anni o poco piú. Fu amore a prima vista, o magari fu solo un’irrefrenabile attrazione fisica, una passione travolgente. Di fatto, i due si abbandonarono a quella storia impossibile, dalla quale nacquero Guglielmo, e, sembrerebbe, anche una figlia, Adelaide. Purtroppo non conosciamo la data di nascita del piccolo. Secondo gli studiosi egli venne al mondo a Falaise tra il 1027 e il 1028, quindi quando suo padre aveva già preso il posto del fratello maggiore alla guida del ducato. Gli storici del tempo non accennarono a Herleve e al lieto evento, forse perché il piccolo era illegittimo, forse perché sua madre era di umili origini o forse per evitare argomenti imbarazzanti. Come sottolinea lo storico David Bates, l’unico specifico riferimento a Herleve antecedente il 1100 è contenuto in un documento ufficiale del 1082.

Sogni e segni premonitori

Intorno alla nascita del bimbo, tuttavia, presto cominciarono a fiorire suggestive leggende. Il monaco Guglielmo di Malmesbury, che visse nella prima metà del XII secolo e scrisse il famoso trattato Gesta Rerum Anglorum (commissionato dalla regina Edith-Matilda, moglie del re Enrico I), raccontò una strana visione apparsa in sogno a Herleve durante la gravidanza: ciò

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che stava dentro di lei si era esteso, all’aperto, fino a ricoprire la Normandia e l’Inghilterra. Il sogno era un presagio e annunciava che un giorno il figlio di Herleve avrebbe dominato sia le terre normanne, sia quelle inglesi. Il monaco aggiunse che, al momento della nascita, Guglielmo venne deposto a terra e afferrò energicamente le fronde che, secondo l’usanza del tempo, coprivano tutto il pavimento. La levatrice che aveva assistito la puerpera interpretò il fatto come un segno premonitore e dichiarò che il piccolo un giorno sarebbe diventato un sovrano. Il silenzio dei cronisti del tempo sulla nascita del futuro Conquistatore non significa, comunque, che Guglielmo fosse solo il frutto di un incontro casuale e, soprattutto, che la sua esistenza fosse considerata dal padre qualcosa di cui vergognarsi. Al contrario, il duca non fece mistero della sua storia con Herleve e dell’esistenza di Guglielmo (del resto, legarsi in modo ufficiale a una donna, senza tuttavia sposarla, era allora una prassi abbastanza comune, non solo in Continente, ma anche in Inghilterra; basti pensare al rapporto speciale che legava Harold Godwinson, futuro sovrano che avrebbe regnato solo per un anno, ed Edith Swanneck) e fu generoso con la famiglia della donna, concedendo a Fulbert e ai suoi figli posizioni prestigiose presso la sua corte. Come abbiamo visto, forse Herleve diede al suo uomo anche una figlia, Adelaide, sulle cui origini, però, non sembrano esservi certezze. Ciò che colse tutti di sorpresa, tuttavia, fu la decisione presa da Roberto intorno al 1034: in quel tempo, infatti, il nobile, divenuto sette anni prima sesto duca febbraio

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storie herleve e roberto di normandia

di Normandia, volle riconoscere Guglielmo come figlio naturale e lo presentò ufficialmente come suo erede a tutti i membri della nobiltà. L’aristocrazia normanna fu cosí costretta ad accettare la decisione e giurare fedeltà a Guglielmo: persino il re di Francia Enrico I, al quale i duchi di Normandia erano legati da obblighi feudali, concesse la sua approvazione e riconobbe la posizione di quel figlio illegittimo. A quel punto il piccolo era per tutti il futuro duca normanno, l’erede delle fortune paterne e uno dei bambini piú importanti d’Europa. Quando le delicate operazioni relative alla successione furono espletate, nel febbraio del 1035 Roberto decise di partire per un pellegrinaggio a Gerusalem-

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me. Sarebbe stato il suo ultimo viaggio, poiché morí a Nicea ai primi di luglio dello stesso anno, mentre era sulla via del ritorno. Non avrebbe mai rivisto i suoi affetti piú cari, né avrebbe potuto assistere ai progressi di Guglielmo e prepararlo a governare il ducato. Intorno alla sua morte aleggia l’ombra sinistra di un avvelenamento e non si può dimenticare che il fratello Riccardo III, suo predecessore, otto anni prima forse era stato eliminato nello stesso modo. Con la scomparsa del padre iniziava l’avventura politica di Guglielmo, il quale nel 1035, a circa otto anni, diventò il nuovo duca di Normandia e nel 1066, in seguito alla battaglia di Hastings, sarebbe divenuto febbraio

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A sinistra, sulle due pagine pianta del ducato di Normandia, dal Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg. 1572-1617. In alto e a destra due immagini dell’abbazia di Notre-Dame de Grestain (Eure, Normanfia), sorta per volere di Herluin de Conteville, marito di Herleve, e nella quale entrambi furono sepolti. Le loro tombe non si sono però conservate, perché prima dei restauri condotti negli anni Sessanta del Novecento, il complesso era caduto in rovina.

il primo re normanno d’Inghilterra. Per la sua impresa inglese la storia lo ricorda come Guillaume le Conquerant, William the Conqueror o Guglielmo il Conquistatore, ma, soprattutto in Inghilterra, molti lo ribattezzarono Guglielmo il Bastardo, sottolineando con disprezzo la sua condizione di figlio illegittimo e magari anche la ferocia con cui sottomise la popolazione inglese. Sulle sue origini il duca venne frequentemente deriso e provocato anche in terra natale, e negli anni giovanili la sua posizione fu sempre minacciata dai nemici che volevano spodestarlo. Spesso veniva svegliato nel cuore della notte e portato altrove, in qualche povera casa, in abitazioni private improbabili o in luoghi

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nascosti, per evitare agguati mortali, il che certamente lasciò cicatrici profonde sulla sua personalità. Sappiamo che gli zii materni, Walter e Osbern, lo proteggevano sempre e che anche durante la notte erano pronti a intervenire per salvarlo. Osbern prese l’abitudine di dormire con il nipote e purtroppo una notte fu sgozzato nel sonno, a Vaudreuil.

Un matrimonio sicuro

Ma cosa fu della bella Herleve? Che cosa accadde dopo la nascita del suo bambino? Roberto, purtroppo, non poté unirsi legalmente a lei e offrirle il ruolo di moglie e il titolo di duchessa, poiché le convenzioni

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storie herleve e roberto di normandia sociali non lo consentivano. Herleve doveva restare solo una compagna, nel rispetto delle usanze vichinghe, e a un certo punto dovette anche rinunciare al suo amore e sposare un altro uomo. Divenne la moglie legittima del visconte Herluin de Conteville, un piccolo proprietario terriero i cui possedimenti si trovavano vicino alla foce della Senna. Herluin non era un personaggio famoso, né un uomo potente, tuttavia era nobile, benestante e poteva offrire alla moglie una posizione agiata e rispettabile. Ma se Herleve era povera e umile, per lo piú marchiata dalla sua relazione con il duca, come riuscí a sposare un uomo come Conteville? Per quanto possa

suonare impossibile, forse fu proprio Roberto a scegliere il marito per lei. Magari voleva garantire alla sua amata la sicurezza e il benessere che meritava, e dunque Herluin poteva essere l’uomo giusto, del quale fidarsi. La bella popolana, dunque, abbandonò Falaise per trasferirsi nella dimora del coniuge, dove probabilmente trovò ad attenderla non solo Conteville, ma anche il suo personale di servizio, che l’avrebbe trattata come una vera signora. È possibile che Roberto fosse ancora vivo all’epoca delle nozze, ma non sappiamo se ci furono contatti tra lui e Herleve in quell’occasione.

Il vescovo e il vicerè

È certo, invece, che dalla nuova unione nacquero due figli maschi, Roberto e Oddone, che sarebbero diventati ricchi e influenti. Al primo fu assegnato lo stesso nome del duca, non sappiamo se in segno di omaggio o a ricordo dell’amore di Herleve. Sarebbe diventato conte di Mortain e avrebbe avuto immense proprietà terriere e un ruolo di spicco nella vita politica del tempo. L’altro figlio diventò duca del Kent, vicerè d’Inghilterra e vescovo di Bayeux e fu uno degli uomini piú importanti del regno del Conquistatore, il piú potente dopo il sovrano. Il suo nome è legato non solo all’ascesa del fratello Guglielmo, ma anche alla fondazione della cattedrale di Bayeux e al prezioso «arazzo» omonimo (si tratta, in realtà, di una tela ricamata, n.d.r.). I rapporti tra Herleve e Guglielmo furono sempre profondi e affettuosi. La donna fu molto vicina al figlio, che la trattò con rispetto e considerazione. Quando Guglielmo si uní a Matilde di Fiandra, per esempio, volle che fosse proprio la madre ad accoglie-

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Particolare della tela ricamata (piú nota come «arazzo») di Bayeux raffigurante Guglielmo (Willelm), duca di Normandia, che discute con i fratellastri, Roberto, conte di Mortain, e Oddone, vescovo, poco prima dell’inizio della battaglia di Hastings. XI sec. Bayeux, Musée de la Tapisserie. Sulle due pagine particolare del monumento in onore di Guglielmo il Conquistatore realizzato a Falaise. La statua in bronzo è opera di Louis Rochet. 1851.

re la giovane al palazzo. Le nozze furono celebrate quando il duca Roberto era morto da circa quindici anni, ma il giorno della cerimonia sicuramente Herleve lo sentí accanto a sé, come se entrambi fossero stati seduti sul primo banco della chiesa, quello riservato ai genitori degli sposi. E forse Roberto era davvero là, anche se solo in spirito, con il suo sguardo fiero e gli occhi velati di tenerezza. Se di Herleve non ci resta neppure un ritratto, due dei suoi figli furono immortalati dalle sconosciute ricamatrici che eseguirono la tela di Bayeux, uno dei capolavori piú celebri e preziosi del mondo. A lungo si credette che l’opera fosse stata commissionata da Matilde in onore del potente marito e della sua conquista dell’Inghilterra. In realtà, il ricamo forse fu ordinato da Oddone, che lo donò alla sua cattedrale. Ancora una volta, dunque, il destino giocò con i fili della vita di Herleve e della sua famiglia, anche se nel caso di Bayeux si trattava di fili di lana colorata usati per dipingere con l’ago l’impresa della conquista normanna. Sulla morte di Herleve non esistono notizie certe. A quanto pare, la donna morí poco dopo il 1050, quando Guglielmo doveva avere ventidue o ventitré anni.

Come Roberto, anche lei non poté assistere ai trionfi del primogenito, né poté immaginare che Guglielmo sarebbe divenuto uno degli uomini piú famosi della storia. I posteri, però, non l’hanno dimenticata e, pur sapendo poco di lei, la ricordano come la fanciulla povera da cui nacquero il re d’Inghilterra e il vescovo di Bayeux. Fu sepolta all’abbazia di Notre-Dame de Grestain, fondata da suo marito dopo che la Vergine Maria gli era apparsa in sogno due volte chiedendogli di restaurare una cappella che si trovava sul posto e poi di insediarvi una comunità di monaci. Situata in una bella valle a poca distanza dalla Senna, l’abbazia diventò il mausoleo della famiglia Conteville: vi furono sepolti anche Herluin, Roberto de Mortain con la moglie Mathilde de Montgomery e il loro figlio Guglielmo e altri discendenti. Con il passare del tempo l’abbazia cadde in rovina e fu trasformata in una fattoria, cosí la tomba di Herleve e quelle dei suoi cari oggi non esistono piú. Ben presto Matilde e Guglielmo ebbero il primo figlio, che vollero chiamare Roberto in onore del nonno paterno. Quel nome racchiudeva tutto il destino di nonna Herleve, il suo passato, il suo presente e il suo futuro. Herleve, infatti, era stata compagna, madre e nonna di Roberto. 57


il trecentonovelle di franco sacchetti/1

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Il capolavoro di un Fiorentino «discolo e grosso» di Corrado Occhipinti Confalonieri

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l Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1400) rappresenta il seguito ideale del Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375), collocandosi cosí – anche se il suo enorme valore è stato riscoperto soltanto nei primi decenni del secolo scorso – come il secondo romanzo in lingua volgare della letteratura italiana. Come scrive lo studioso Valerio Marucci: «Ha nuociuto a Sacchetti la morte precoce, forse di peste, per cui l’opera ultima di una carriera letteraria ricca di prove e di vicende gli è, praticamente, rimasta sul tavolo da lavoro, a San Miniato al Tedesco». Sacchetti spiega nel Proemio che i moventi piú importanti del suo libro sono la fragilità della vita e la sua infelicità: l’essere umano necessita di essere confortato e distratto da gradevoli letture. Lo spunto dell’opera non è, come nel Decameron, una terribile contingenza esterna, quale la peste del 1348, ma, come scrive ancora Marucci, «Una condizione esistenziale caratterizzata dall’attesa della catastrofe imminente». Lo studioso sostiene inoltre che Sacchetti considera Boccaccio un maestro irraggiungibile e perciò nel Trecentonovelle narra solamente «il fatto gradevole o esemplare, la vicenda interessante, al limite minimo il motto salace (…), la battuta sorprendente (…) Questa umiltà cronistica è enfatizzata dalle ripetute affermazioni sulla “verità” dei fatti narrati, dall’avvicendamento temporale degli eventi, quasi tut-

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ti collocati entro i confini del secolo e moltissimi nella sua seconda metà, e dal restringimento di orizzonte geografico dei luoghi del narrare, rispetto all’Italia e all’Europa decameroniana». In realtà, alla fine di ogni novella, Sacchetti affida a «un commento personale e diretto, il raffronto continuo con la propria esperienza di vita e col proprio giudizio, anche al fine di mediare fra la novella e il lettore, fra l’accadimento fissato in carta e la impellente necessità di scegliere regole di vita e valori di riferimento che la “decadenza” prolungata dei tempi sembra rendere sempre piú urgente». Proveremo a leggere il Trecentonovelle secondo la stessa chiave particolare con cui abbiamo analizzato il Decameron, soffermandoci cioè sui tanti particolari che involontariamente consentono a noi lettori di conoscere aspetti meno noti ma assai interessanti della realtà medievale. Dove sarà possibile, metteremo a confronto la società trecentesca descritta nelle due opere per capire differenze e punti in comune. Al termine di questo percorso ne avremo una conoscenza piú approfondita perché saranno stati i protagonisti stessi a descriverla, con le loro parole e i loro modi di pensare e di agire. Il poeta e scrittore Franco Sacchetti (1332-1400). Nella pagina accanto particolare del Trionfo della Morte, affresco realizzato dal pittore Buonamico Buffalmacco per il Camposanto di Pisa. 1336-1341.

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N N

el Proemio del Trecentonovelle, presentando la sua opera ai lettori, Sacchetti rende un omaggio a Boccaccio, affermando che l’enorme successo conosciuto dal Decameron l’ha incoraggiato nella redazione della sua raccolta: «E riguardando (...) allo eccellente poeta fiorentino messer Giovanni Boccacci, il quale descrivendo il libro delle Cento Novelle per [come] una materiale cosa [perché scritta in volgare e non in latino], quanto al nobile suo ingegno, quello è divulgato e richiesto tanto che in sino in Francia e in Inghilterra l’hanno ridotto alla loro lingua (...); io Franco Sacchetti fiorentino, come uomo discolo e grosso [privo di educazione letteraria e rozzo], mi proposi di scrivere la presente opera e raccogliere tutte quelle novelle [storie meritevoli di essere raccontate] le quali, e antiche e moderne, di diverse maniere sono state per li tempi e alcune ancora che io vidi e fui presente e certe di quelle che a me medesimo sono intervenute».

Definendo Decameron il «Cento Novelle», Sacchetti mette in evidenza come l’opera di Boccaccio rappresenti un precedente fondamentale della sua, intitolata appunto Trecentonovelle. Oltre allo stesso genere letterario, con cui spera di raggiungere un vasto pubblico, lo scrittore fiorentino vuole importare l’aspetto divertente dal Decameron: un quarto delle storie riguarda le beffe e, come vedremo, prende perfino a prestito dei personaggi al suo predecessore, come i pittori Buonamico Buffalmacco e Calandrino. Sacchetti intende divertire il lettore con racconti in cui spesso privilegia un registro comico anche grezzo, ma non bisogna dimenticare che tutte

Sacchetti dichiara d’essere stato testimone di piú d’una delle storie che ha scelto di riunire nel suo Trecentonovelle In alto il frontespizio di un’edizione del Trecentonovelle di Franco Sacchetti. A sinistra ritratto di Buonamico Buffalmacco, illustrazione colorizzata realizzata sulla base di una xilografia cinquecentesca, da un’edizione delle Vite di Giorgio Vasari. Già protagonista di vari episodi del Decameron, il pittore fiorentino compare anche in quattro novelle dell’opera di Franco Sacchetti.

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le sue novelle sono accompagnate da commenti che rappresentano l’altra intenzione guida dell’autore: quella di dotare i suoi racconti di una riflessione moraleggiante.

Seguace di Giotto

Le beffe sono disseminate in tutte le novelle. Buffalmacco (Bonamico di Cristofano) è il protagonista di quattro di esse (CLXI, CLXIX, CXCI, CXCII), una in meno del Decameron, forse in segno di rispetto del suo illustre predecessore. Buonamico Buffalmacco non è un personaggio letterario: fu davvero un pittore molto stimato – seguace di Giotto – vissuto nella prima metà del Trecento. Dipinse un vasto ciclo di affreschi nel Camposanto di Pisa, fonte molto probabile del Decameron per il tema della vita serena nel giardino, poiché i narratori si rifugiano sulle dolci colline di Fiesole per sfuggire alla peste. La novella CXCI dell’opera sacfebbraio

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Un altro particolare del Trionfo della Morte di Buonamico Buffalmacco. Pisa, Camposanto. 1336-1341. Sotto la rappresentazione della Morte, che imbraccia una grande falce, si vedono alcuni neonati che fuoriescono dalle bocche di altrettanti defunti: sono simboli delle anime che, se destinate alla felicità eterna vengono prese in braccio dagli angeli, altrimenti vengono artigliate dai diavoli per essere condotte al loro eterno destino di disperazione.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/1 Miniatura raffigurante Zeusi, celeberrimo pittore dell’antica Grecia, intento a realizzare alcuni nudi femminili, da un’edizione del Roman de la Rose. 1490-1500 circa. Londra, British Library.

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chettiana rappresenta una sorta di prequel della carriera artistica di Buffalmacco, perché lo vede giovane allievo del pittore Andrea di Rico, detto Tafo. I due vivono nella stessa casa in affitto e le loro camere sono divise da un sottile tramezzo. Un particolare che dimostra come nel Trecento pittori anche apprezzati non fossero ricchi, ma modesti artigiani: non è un caso che solo Giotto «gran dipintore [LXIII]» firmasse le proprie opere. Tafo «com’è d’usanza de’ maestri dipintori chiamare i discepoli, spezialmente di verno quando sono le gran notti, in sul mattutino [prima dell’alba, per essere pronti a sfruttare la prima luce nei mesi invernali] a dipignere; ed essendo durata questa consuetudine un mezzo verno [inverno], che Tafo avea chiamato continuo Buonamico a far la veglia, a Buonamico cominciò a rincrescere questa faccenda, come a uomo che avrebbe voluto piú presto dormire che dipignere; e pensò di trovar via e modo che ciò non avesse a seguire; e considerando che Tafo era atempato, s’avisò con una sottile beffa levarlo da questo chiamare della notte e che lo lasciasse dormire». Buffalmacco si reca in una cantina piuttosto sporca e cattura circa trenta grossi scarafaggi: con uno spillo pone sulla loro schiena piccole candele. Appena sente Tafo svegliarsi poco prima dell’alba, Buffalmacco accende i piccoli ceri e fa entrare gli scarafaggi nella camera del suo maestro da una fessura nel tramezzo. Quando Tafo «cominciò a vedere il primo, e seguendo gli altri co’ lumi per tutta la camera, cominciò a tremare come verga [come un ramoscello colpito dal vento] e, fasciatosi col copertoio il viso, ché quasi poco vedea, se non per l’un occhio, si raccomandava a Dio dicendo la intemerata e’ salmi penitenziali [preghiere alla Madonna e di penitenza, per allontanare le apparizioni]; e cosí sino a dí stava in timore credendo veramente che questi fossono demoni de l’inferno». Tafo chiede a Buffalmacco se li

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ha visti, ma naturalmente nega: «Io non ho veduto cosa che sia, però che ho dormito e ho tenuto gli occhi chiusi; maravigliomi io che non m’avete chiamato a vegliare come solete». Il maestro gli chiede di trovare un’altra casa in affitto perché «io son vecchio e, avendo tre notti fatte come quella che ho avuto nella passata, non giugnerei alla quarta». Buonamico lo sconsiglia: capita a tutti di avere incubi notturni. Tafo accetta il suggerimento a malincuore; la sera, prima di coricarsi, controlla il pavimento poi rimane in allerta tutta la notte.

Ci vuole un sacerdote...

Buffalmacco, temendo che il maestro lo sveglierà comunque prima dell’alba, infila tre scarafaggi con la lucina sulla schiena nella fessura: Tafo appena li vede si nasconde sotto la coperta e comincia a pregare fino alla luce del mattino. Nonostante le insistenze, Buonamico riesce a convincere il suo maestro a rimanere un’altra notte nella casa dicendogli che se avesse dormito con un sacerdote, i demoni non avrebbero osato entrare nella stanza. Quando il parroco arriva tutto tremante per la paura dei diavoli, Buffalmacco lo tranquillizza: «Io ho sempre udito dire ch’e’ maggiori nimici di Dio sono li demoni; e se questo è, e’ debbono esser gran nemici de’ dipintori, che dipingono lui e gli altri Santi, e per questo dipignere se n’acresce la fede cristiana che mancherebbe forte se le dipinture, le quali ci tirano a devozione, non fossono; di che essendo questo [se le cose stanno cosí], quando la notte, ch’e’ demoni hanno maggior potenza, ci sentono levare a vegliare per andare a dipignere quello di che portano grand’ira e dolore, giungono con grand’impeto a turbare questa cosí fatta faccenda». Il sacerdote dice che quanto afferma Buffalmacco potrebbe essere vero e sconsiglia Tafo di svegliarsi prima dell’alba per andare a dipingere. Trascorrono cosí quindici notti serene, fino a quando «essendo ras-

sicurato Tafo e costretto dal proprio utile [dalla necessità di guadagnare], cominciò una notte di chiamare Buonamico, perché avea bisogno di compire una tavola allo Abate di Bonsollazzo [antica abbazia presso il monte Senario, a nord di Firenze]. Come Buonamico vide ricominciare il giuoco, prese di nuovo de’ scarafaggi e la seguente notte gli mise a campo per la camera su l’ora usata». Tafo è terrorizzato, il giorno dopo si reca dal parroco che dà ragione a Buffalmacco: non devono alzarsi in piena notte per andare a dipingere. La voce si sparge e cosí per molto tempo i pittori non osano svegliarsi prima dell’alba. Buonamico lascia il maestro e apre una sua bottega con la fama di essere «uomo di santa vita (...) [avendo] veduto o per ispirazione divina o per revelazione la cagione di que’ demoni essere apparita in quella casa; e da questa ora inanzi da molto piú fu tenuto [fu considerato uomo di grandi meriti assai piú di prima]». Tafo va a vivere rassegnato da un’altra parte e non osa piú alzarsi in piena notte. Un particolare poco conosciuto sulla vita dei pittori medievali è questa abitudine a sfruttare le prime luci dell’alba per dipingere, come se per aggiudicarsi piú commesse avessero necessità di finire alla svelta i lavori in corso. Al termine della novella, Sacchetti spiega la morale del racconto: spesso il maestro cerca solo il proprio utile senza tener conto del disagio causato all’allievo; cosí facendo, il discepolo si ingegna su come dormire e quando non può far altro, lo inganna. Sacchetti, insomma, sembra volersi schierare a fianco degli apprendisti che vengono sfruttati dai loro superiori. Con i vicini Buffalmacco non è particolarmente fortunato (CXCII). Nella sua nuova casa in affitto, un’altra sottile parete divide il suo appartamento da quello di una giovane coppia. La moglie di Capodoca, un operaio tessile, ha l’abitudine di filare di notte e non lascia

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il trecentonovelle di franco sacchetti/1 dormire Buffalmacco per il rumore. Il pittore pensa a una nuova astuzia per farla smettere: pratica un foro vicino al «focolare dove costei cocea a lato a detto muro» perché «questa buona donna (...) metteva la pentola rasenta a quel muro» e con una cannuccia aggiunge molto sale alle pietanze della massaia, per poi richiudere il foro. Capodoca si arrabbia molto con lei, arriva a minacciarla e perfino a picchiarla perché non sali cosí tanto le vivande. Un giorno Buffalmacco si reca a casa dei coniugi, chiede spiegazione dei continui litigi e avanza

un’ipotesi all’irascibile marito: «Tu la fai forse tanto vegliare che quando ella mette a fuoco, come persona adormentata non sa quello ch’ella si fa». Un giovedí, quando «sono pochi che in tal mattina non comprino un poco di carne, stando a lavorare tutta la settimana (...) Avendo il mercoledí notte assai male dormito (...) e a suono di filatoio, com’è in sul fare del dí e ’l filatoio [la donna] ebbe posa per mettere la carne in molle [si tratta forse di carne secca seccata e salata, di costo minore che non la carne fresca; di qui la necessità di lessarla per ammorbidirla]», Buonamico mette in atto

il suo piano: aspetta che la filatrice vada a messa e triplica la quantità di sale nella pentola rispetto alle altre volte. Qui notiamo come la maggior parte degli artigiani e dei salariati mangiassero la carne una sola volta alla settimana perché considerata un bene di lusso.

Una lite furiosa

All’ora di pranzo succede il finimondo, il cibo è immangiabile, scoppia una rissa furibonda tra i coniugi. Sopraggiunge Buffalmacco che dice a Capodoca: «Io t’ho detto piú volte che questo vegliare che tu fai fare a questa tua donna è cagione di tutto questo male. E simil cosa intervenne un’altra volta a un mio amico, e se non che levò via il vegliare, mai non avrebbe mangiato cosa che buona gli fosse paruta: Santa Maria! Hai tu sí gran bisogno che tu non possa fare sanza farla vegliare?». Capodoca accetta il suo consiglio e per quattordici mesi la donna non fila piú, ma poi ricomincia. L’astuto pittore «non avendo arso il soffione, seguí il suo artificio (...) e con dolci parole il fece molto piú certo per lo caso che tanto tempo era stato che, non vegliando la donna, la pentola sempre era stata insalata ragione e a Capodoca parve la cagione essere verissima, per tanto che con minacce con lusinghe trovò modo che la donna non vegliò mai piú ed ebbe buona pace col marito, scemando a lei grandissima fatica di levarsi ogni notte come facea; e Buonamico poté dormire senz’essere desto da cosí grande e seccagine, come gli era il filatoio». In questa novella, notiamo come la filatrice è oberata dagli imA sinistra la filatura della lana, una delle attività ricostruite a Provins (Francia), nella Grange aux dîmes, un edificio del XII-XIII sec. al cui interno sono presentati i mestieri tipici dell’età medievale. Nella pagina accanto Sant’Ercolano, scomparto di un polittico realizzato da Meo di Guido da Siena. 1315-1318. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/1 pegni, tanto da essere costretta a lavorare anche di notte: subisce i rimproveri e le «nacchere [botte]» dal marito che, come nota Buffalmacco, si preoccupa di non farla lavorare troppo solo perché non renda i pasti immangiabili, un ben triste ménage familiare!

Il ritratto del patrono

Diventato pittore famoso, Buffalmacco (CLXIX) riceve un’importante commessa dal Comune di Perugia: dipingere il patrono sant’Ercolano sulla piazza della città. Giunto nella città umbra «Buonamico com’è l’usanza de’ depintori, volle esser tutto chiuso d’asse o di stuoie; e per piú dí dato ordine alla calcina e a’ colori [preparato l’intonaco nuovo, su cui condurre l’affresco], nella fine salí sul ponte e cominciò a dipignere». I Perugini vogliono che sant’Ercolano fosse «gittato in pretelle [fatto alla svelta]» e con «diversi detti, non una volta il dí, ma parecchie, andavono a Buonamico a sollecitarlo; tanto che Buonamico fra sé medesimo dice: “Che diavolo è questo? Costoro sono tutti pazzi e io dipignerò secondo la loro pazzia”». Notiamo in questo caso la mancanza di rispetto verso l’artista che viene considerato dalla popolazione un semplice esecutore della loro richiesta. A Buffalmacco viene cosí l’idea di raffigurare «Santo Ercolano incoronato, non d’alloro com’e’ poeti, non di diadema, come i santi, non di corona d’oro, come li re, ma d’una corona o ghirlanda di lasche [pesci tipici del lago Trasimeno, controllato da Perugia durante tutta l’età comunale]». Quando sant’Ercolano è quasi terminato, il goliardico pittore si fa pagare dal Comune, poi con la scusa che deve rifinire i colori dipinge la corona di pesci sul capo del santo, scappa da Perugia e torna a Firenze. I Perugini, convinti che Buffalmacco sia invece ancora sul ponteggio a terminare il loro sant’Ercolano, gli chiedono di mostrare

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almeno una parte del dipinto, ma «quando tutto quel dí ebbono consumato in dire e chi una cosa e chi un’altra; e non sentendo alcuna risposta, l’altro dí pensorono costui non esservi, perché veduto non lo aveano; e domandando dove tornava allo albergo [dove era alloggiato], fu loro detto ch’egli era presso a due dí ch’egli aveva accordato [saldato] l’oste, e credeano si fosse ito con Dio». Udito questo, alcuni cittadini prendono una scala e l’appoggiano al ponteggio coperto per vedere cosa ci fosse dietro: con grande stupore scoprono il santo con la corona di lasche «delle maggiori che mai uscissono dal lago». Una squadra di cavalieri perugini cerca di raggiungere Buffalmacco per vendicarsi della burla, ma l’artista si trova ormai al sicuro nella sua città e cosí le autorità perugine «tolsono [incaricarono] subito uno dipintore che quelle lasche convertisse in uno diadema, e a Buonamico dierono bando dell’avere e della persona [lo bandirono sui suoi beni e sulla sua vita dal territorio della città]». Quando Buffalmacco viene a sapere della ritorsione, si fa una grassa risata: neppure da imperatore sarebbe mai tornato a dipingere a Perugia perché dimostra «la ignoranza loro, che credono piú in Santo Ercolano che in Cristo; e tengono [ritengono] che sia innanzi al maggior Santo in paradiso. Se vi fosse con le lasche in capo forse direbbono il vero, che quelli Apostoli che furono pescatori, veggendoli le lasche in capo, gli farebbono grande onore». In questa novella, percepiamo tutta l’ammirazione di Sacchetti verso Buffalmacco che considera «uomo nuovo», cioè dotato di intelligenza e di ingegno nonostante le umili origini. Anche Calandrino, il pittore vittima preferita delle burle di Buffalmacco nel Decameron, viene citato in alcune novelle di Sacchetti: nella LXVII, quando messer Valore de’ Buondelmonti chiede ad alcuni amici qual è la pietra piú preziosa al mondo «chi dicea il balascio [ru-

Miniatura da un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Da sinistra, Calandrino e i suoi amici cercano l’elitropia nel Mugnone; Calandrino bastona sua moglie.

bino di tonalità chiara], chi il rubino e chi l’elitropia di Calandrino», riferendosi alla favolosa pietra che rende invisibili, cercata dal pittore fiorentino nel fiume Mugnone, di cui parla Boccaccio nella terza novella dell’VIII giornata della sua opera. Un particolare che dimostra la grande diffusione del libro dello scrittore certaldese.

Guai a distrarsi!

Calandrino viene citato anche nella LXXX del Trecentonovelle. A Firenze Boninsegna Angiolini, «savio e notabile cittadino», sta tenendo un discorso pubblico, fino a quando ammutolisce e non parla piú. Sollecitato dai Priori a terminarlo, si giustifica dicendo: «Signori, che non che io mi ricordi di cosa che io dovessi dire, ma io sono quasi uscito di me mefebbraio

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desimo, veggendo i goccioloni [figure ridicole, strane pitture] che in quello muro che m’è dirimpetto sono dipinti; ché per certo e’ sono i maggiori goccioloni che io vedessi mai. E ancora c’è peggio, che morto sia a ghiado [ucciso con arma bianca] il dipintore che gli dipinse, che dovett’esser forse Calandrino che fece loro le calze vergate e scaccate [dipinte a strisce e a scacchi]; sappiate, Signori, chi mai portò calze cosí fatte? Di che io vi dico, Signori, che mi si sono sí traversati nel capo [fissati in testa] che, se non escono, né ora né mai non potrò dire cosa che io voglia». Sacchetti in questa citazione ricorda quanto Calandrino fosse ritenuto sciocco nel Decameron, ma sottolinea anche l’importanza che l’oratore si concentri solo sul suo discorso, senza farsi distrarre, altrimenti finisce come una nave in secca.

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Nella LXXXIV la protagonista di una disputa coniugale nomina Calandrino e la moglie Tessa [Decameron, IX, V] per far intendere al marito anch’egli pittore come lo ridurrebbe per punirlo della sua gelosia, tra l’altro giustificata: «Che vuoi tu dire? Pigliala comunche tu vuoi che vai inebriando di qua e di là, e poi ne vieni in casa e chiamami puttana; io ti concerò peggio che Tessa non acconciò Calandrino: che maladetto sia chi mai maritò nessuna femina ad alcuno dipintore, che siete tutti fantastichi [bizzarri] e lunatichi [instabili], e sempre andate inebriando [a ubriacarvi] e non vi vergognate». In questo caso notiamo una moglie molto diversa rispetto alla remissiva filatrice che sottolinea il carattere complicato dei pittori. Da queste novelle, possiamo

trarre alcune conclusioni. Franco Sacchetti mette in pratica l’ammirazione verso Boccaccio riprendendo alcuni suoi personaggi come i pittori Buffalmacco e Calandrino, ma ci fornisce anche un nuovo contributo. L’autore del Trecentonovelle mostra come Calandrino sia entrato nell’immaginario collettivo grazie al Decameron, perché viene citato come esempio nella vita di tutti i giorni. Le burle di Buffalmacco, invece, nascono dalla necessità di migliorare il vivere quotidiano del pittore, in un processo di transizione da artigiano ad artista che necessita di un buon sonno, di tempo e di concentrazione per potersi esprimere al meglio.

NEL PROSSIMO NUMERO ● I professionisti

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testi di Alessandro Bedini, Claudio Corvino e Riccardo Montenegro

PURGATORIO

Quasi salvi! Quella del Purgatorio è un’«invenzione» relativamente recente, figlia del millennio medievale. Un’innovazione dagli importanti riflessi nel campo della teologia, echeggiata con soluzioni originali e vivaci da una folta schiera di pittori e miniatori

Miniatura raffigurante le anime del Purgatorio intrappolate dall’acqua, dal fuoco e da un manto erboso che vengono salvate dagli angeli, dal Très Riches Heures du Duc de Berry, il Libro d’Ore del duca Jean de Berry realizzato dai fratelli miniatori Pol, Hermant e Hennequin de Limbourg. 1412-1416 circa. Chantilly, Musée Condé.


Dossier

LA VERSIONE DI ALBERICO

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lberico da Settefrati nacque nel 1101 nel castello di Settefrati, nella Valle del Comino oggi in provincia di Frosinone. Il nome del luogo deriva dai santi Sette Fratelli, figli di santa Felicita, martirizzati con la madre nel corso della persecuzione dei cristiani nel III secolo. Il padre faceva parte della piccola feudalità locale sottoposta ai conti D’Aquino, vassalli dei re normanni e la madre era una nobildonna. Resta incerta la data della sua morte, anche se alcuni studiosi la collocano attorno al 1180. Destinato a diventare cavaliere come il padre, Alberico, all’età di dieci anni, fu colto da una grave malattia a causa della quale restò in coma per nove giorni e nove notti. Durante la sua infermità ebbe la visione dell’oltretomba dove, in sogno, poté visitare, accompagnato da san Pietro e da due angeli, Heloy ed Emmanuel, i luoghi infernali ma anche il Purgatorio e il Paradiso, contribuendo cosí a meglio precisare la geografia dell’aldilà, entro cui il Purgatorio comincia a delinearsi piú chiaramente, per trovare definitiva sistemazione nella seconda cantica della Commedia di Dante (il quale l’avrebbe descritto prendendo a modello la Pietra di Bismantova, nel Reggiano, come si può leggere, in questo numero, nell’articolo alle pp. 36-45). Nel 1111, dopo la guarigione, Alberico decise di entrare nel monastero benedettino di Montecassino, dove venne accolto dall’abate Gerardo, il quale consigliò al giovane novizio di mettere per iscritto la sua visione con l’aiuto del monaco Guido, personaggio assai colto e ferrato in teologia. Pare tut-

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tavia certo che Guido apportasse alla narrazione di Alberico alcune modifiche e qualche ritocco, che finirono per manomettere il testo originario. L’abate Senioretto, succeduto a Gerardo, indusse allora Alberico a scrivere di nuovo la sua Visio, questa volta con l’aiuto di Pietro Diacono, bibliotecario e archivista del celebre monastero benedettino, nonché storico e agiografo di chiara fama.

Le radici di un’idea

Si è molto discusso sulla qualità del testo albericiano e sull’effettivo contributo da esso apportato alla nascita del Purgatorio, per ripren-

Capolettera miniato raffigurante san Girolamo allo scrittorio. XII sec. Lione, Bibliothèque municipale. L’immagine mostra in dettaglio alcuni strumenti tipici di questa occupazione: la penna d’oca e il calamaio, un piccolo leggio poggiato sulle ginocchia e una sorta di pinza per tenere fermo il foglio di pergamena.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante il mondo e l’itinerario dei luoghi della Divina Commedia: in alto, la selva oscura e l’ingresso dell’Inferno; Satana e l’uscita sul monte del Purgatorio agli antipodi. XIV sec. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

dere un’espressione dell’insigne storico francese Jacques Le Goff (1924-2014). È innegabile che il testo ricalchi molti dei temi relativi al viaggio all’altro mondo presenti in alcune celebri visioni che circolavano numerose fin dall’Alto Medioevo, dalla Passione di Perpetua e di Felicita, della fine del III secolo, alla Vita Pauli di san Gerolamo e, non ultima, alla Navigatio Sancti Brendani del V secolo. È ipotizzabile inoltre che tanto il monaco Guido quanto lo stesso Pietro Diacono abbiano dato sistemazione teologica al racconto del giovane Alberico, rifacendosi a testi già conosciuti oltre che ad alcuni passaggi delle Sacre Scritture. Sta di fatto, comunque, che l’articolazione della visione albericiana presenta elementi di singolare originalità e di indubbio interesse rilevati da un buon numero di studiosi, tra i quali lo stesso Le Goff, che dedicò ad Alberico da Settefrati un paragrafo del suo libro La nascita del Purgatorio (pubblicato in edizione originale nel 1981 e tradotto in Italia nel 1982, n.d.r.), non mancando di sottolineare come dei cinquanta capitoli in cui è diviso il testo ben sedici siano dedicati alla descrizione dei luoghi di purgazione. Nella sua visione Alberico racconta di essere stato trasportato da un uccello simile a una colomba al cospetto di san Pietro e di due febbraio

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Dossier Il Giudizio di Settefrati

Echi giotteschi A Settefrati si può ammirare un Giudizio universale affrescato nel pronao della chiesa di S. Maria delle Grazie, e ispirato dalla Visio di Alberico. L’impianto originario della chiesa risale al XII secolo, sebbene alcuni rimaneggiamenti siano da datare alla metà del XIV e al XVI. L’affresco è articolato su tre fasce orizzontali sovrapposte, secondo lo schema compositivo adottato anche In alto e nella pagina accanto particolari del Giudizio universale affrescato nel pronao di S. Maria delle Grazie a Settefrati e ispirato alla Visio Alberici. 1591-1610. In alto, una schiera di martiri e sante vergini chiamati a giudizio; nella pagina accanto, in alto, Cristo Giudice tra Maria e san Giovannni Battista; in basso, papi e cardinali che aprono il corteo di coloro che sono stati ammessi al Paradiso. In basso una veduta del borgo di Settefrati (Frosinone), città natale di Alberico di Montecassino, autore della Visio Alberici.

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angeli, Heloy ed Emmanuel, i quali lo condussero nei siti infernali dove venivano puniti i peccatori. Per prima cosa egli vide un luogo fiammeggiante nel quale si trovavano i bambini di età inferiore a un anno che subivano pene lievi e di breve durata, commisurate alla lievità dei peccati commessi. Piú avanti san Pietro mostrò ad Alberico una valle terribile, dove le anime dei peccatori bruciavano immerse nel fuoco fino ai lombi, altre fino al petto, anche in questo caso secondo la gravità dei loro peccati. Erano le anime degli adulteri,

degli incestuosi, degli stupratori e dei lussuriosi. Poco piú avanti il monaco si imbatté in un’altra valle «piena di alberi sottilissimi come aste, lunghi sessanta braccia. Le loro cime erano acutissime e pungenti come pali aguzzi. Da essi vidi pendere, agganciate per le mammelle, certe donne, sono coloro le quali si rifiutarono di allattare gli orfani lasciandoli morire».

Il supplizio della scala

Proseguendo nel suo viaggio ultraterreno, ad Alberico fu mostrata una scala di ferro ardente, lun-

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da Giotto negli affreschi della cappella Peruzzi in S. Croce a Firenze. Nella prima fascia, in alto, sono rappresentati Giovanni Battista, Maria e il Cristo Risorto, nella fascia bassa, purtroppo danneggiata, si intuisce la rappresentazione dell’Inferno, mentre nella fascia intermedia si possono osservare le anime purganti poste sotto la misericordia della Vergine, verso la quale tendono le braccia. ga trecentosessantacinque cubiti, alla cui base vi era un vaso pieno di olio, pece e resina bollenti. I peccatori salivano e scendevano la scala bruciandosi orrendamente i piedi; giunti in fondo erano costretti a immergersi nel vaso e bruciavano ancora di piú. Le anime che subivano tale supplizio erano quelle di chi si era rifiutato di astenersi dai piaceri carnali durante le feste comandate. In una grande fornace che sprizzava fuoco e zolfo erano puniti i signori che governarono i sudditi come tiranni. Insieme a loro scontavano la pena le donne che uccisero i propri figli prima che nascessero. L’Apostolo condusse poi Alberico sulle sponde di un lago di fuoco, nel quale bruciavano gli omicidi e coloro che in vita avevano disseminato odio. L’omicida è costretto a portare sospeso al collo per tre anni lo spirito maligno che somiglia a colui che uccise, dopodiché viene sommerso nel lago per essere tormentato. I cristiani che avevano tollerato e protetto i sacerdoti che si erano macchiati di adulterio, spergiuro ed erano stati scomunicati, vengono tormentati da un enorme cavallo dalla testa infuocata, in una grande vasca ribollente di zolfo, stagno, piombo e resina. Insieme a loro ci sono

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quei sacerdoti che si sono macchiati di simili peccati e i vescovi che li avevano tollerati. La durata del tormento è proporzionale alle responsabilità di ciascuno.

Il pozzo e il verme

Alberico giunse quindi «ai luoghi tartarei» e alla bocca dell’Inferno, che somigliava a un pozzo profondo. Da lí venivano strida e fetori terribili e il luogo era avvolto da spesse tenebre. Qui c’era un grande verme e dinnanzi alla sua bocca stavano le anime che egli assorbiva come mosche quando tirava il fiato per poi rigettarle quando espirava, ardenti come scintille. «Tale supplizio dura fino a quando – precisa Alberico – non sia stato purgato il loro peccato». San Pietro mostrò poi al frate le pene che patiscono le anime che stanno dentro l’Inferno. «Mi disse l’Apostolo: nelle tenebre dove

la visio alberici

Codici ed edizioni La Visio Alberici ci è giunta nel Codice Cassinese 257, di cui esiste una copia nella Biblioteca Alessandrina di Roma, pubblicata per la prima volta nel 1814 da Francesco Cancellieri, poi nel 1899 a cura di Catello De Vivo, sebbene l’edizione filologicamente piú corretta sia quella portata a termine da padre Mauro Inguanez nella Miscellanea Cassinese del 1932, che contiene un’ampia introduzione dedicata alla biografia di Alberico da Settefrati, redatta da Antonio Mirra. L’edizione piú recente della Visio Alberici è quella curata da Paul Gerhard Schmidt nel 1997, tradotta in italiano da Maria Antonietta Cedrone.

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Dossier è l’Inferno, ci sono Giuda, Anna, Caifa ed Erode», aggiunse anche che quelle anime non sarebbero state giudicate e da ciò si capisce che tali peccatori sarebbero dannati per l’eternità. I ladri e i rapinatori sono nudi, con al collo catene da cui pendono pesanti massi di ferro incandescenti. A questo punto Alberico vede un fiume che scaturisce dall’Inferno, ardente di pece, e al di sopra un ponte di ferro che le anime dei giusti attraversano facilmente. Quando invece vi giungono le anime dei peccatori, il ponte si fa cosí stretto che esse cadono nel fiume sottostante. Risalgono e precipitano di nuovo finché, purificate, hanno la possibilità di oltrepassare il ponte. Il tema del ponte stretto (il ponte pericoloso è presente in diversi testi sia della tradizione cristianooccidentale che orientale; vedi anche, in questo Dossier, alle pp. 76-83) è forse uno dei piú interessanti dell’intera visione albericiana. In questo passo Alberico usa esplicitamente il termine «Purgatorio» come sostantivo, e mostra un rapporto proporzionale tra il peccato commesso e il tempo di espiazione nell’altro mondo.

Dalle spine alla manna

La tappa successiva del nostro Alberico è un campo vastissimo, da percorrersi in non meno di tre giorni e tre notti, coperto di spine. Lí c’è un grande drago cavalcato da un diavolo, con in mano un serpente. Il diavolo insegue e percuote le anime con il serpente, finché, purificate dai peccati, esse potranno sfuggire da quel tormento. Passata dal campo di spine, l’anima giunge finalmente in un campo amenissimo e si risana nel corpo e nelle vesti. In mezzo a questo locus amœnus, dove sgorga la manna e dove regnano serenità e letizia, c’è il Paradiso, in cui però le anime non possono entrare se non dopo il giorno del Giudizio.

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Il Paradiso, dove si trova l’Albero della Vita, è custodito dai Cherubini e lí si trovano – come riferí l’Apostolo Pietro – Abele, Abramo, Lazzaro e il ladrone. Le Goff osservò come, a differenza di Dante, non esista nella Visio Alberici, dopo l’espiazione, un passaggio diretto dai luoghi di tormento al Paradiso; vi è invece un’anticamera, un vestibolo paradisiaco in cui le anime attendono il giorno del Giudizio. Alberico viene poi condotto dalle sue guide a visitare i sette Cieli che portano i nomi delle stelle e dei pianeti; nel settimo si trova il trono di Dio, dove i Cherubini cantano incessantemente la lode al Signore. Dopo tale visione san Pietro condusse Alberico attraverso cinquantuno Paesi: dalle Indie alla Mesopotamia, fino alla Spagna, alla Britannia, alla Dalmazia e infine alla Samaria. L’Apostolo ammaestrò poi Alberico sull’Antico Testamento e lo invitò a comunicare a diversi uomini ancora in vita il loro stato di peccato. La Visio Alberici si conclude con alcune ammonizioni dell’Apostolo e con uno strano epilogo: san Pietro ha nelle mani un’enorme pergamena scritta minutamente. Piegatala fino a farla diventare piccolissima, la infila nella bocca di Alberico dicendogli: «Non avrai la minima possibilità di rigettarla e il tuo sangue non potrà cancellarla». Dopo alcuni giorni Alberico tornerà in sé, non prima che la madre abbia offerto un cero votivo all’altare di san Pietro, nella chiesa di Settefrati. È normale chiedersi a questo punto se la Visio Alberici abbia in qualche modo influenzato la piú importante delle opere medievali: la Divina Commedia di Dante Alighieri. A tale proposito gli studiosi non sono concordi. Giovanna Ioli, dantista di fama internazionale, è molto prudente. Ella afferma tuttavia che in effetti Dante avrebbe potuto conoscere

la Visio in quanto, essendo stato ambasciatore a Napoli tra il 1290 e il 1297, percorrendo la via Latina sarebbe potuto passare da Montecassino. Avrebbe inoltre potuto essere informato dell’opera di Pietro Diacono presso altri chiostri benedettini da lui frequentati, compreso quello di Firenze. Del resto il tema dei viaggi oltremondani era assai popolare fino dall’Alto Medioevo e risulta oramai accertato che il sommo poeta abbia operato un «lavoro di cernita e combinazione su materiali abbastanza diffusi, con l’intenzione di farsi specchio di una cultura visionaria che lo aveva preceduto ed era ancora viva ai tempi in cui egli visse».

Visioni a confronto

Jacques Le Goff asserí invece che la geografia dell’aldilà che si ritrova nella Visio Alberici è ben lontana dalla sistematicità che rintracciamo in Dante. Il celebre medievista francese definí quella di Alberico da Settefrati «una passeggiata vagabonda» e la sua visione dell’aldilà sarebbe tutt’altro che chiara. Il primo ad avanzare l’ipotesi di una qualche contaminazione tra il capolavoro di Dante e il testo redatto da Pietro Diacono fu monsignor Giovanni Bottari nel XVIII secolo, secondo il quale «alcune minute particolarità contenute nel manoscritto diaconiano, le ritroviamo nella seconda Cantica dantesca». Comunque sia, l’idea che esista un luogo nell’aldilà dove si possano scontare le pene prima di giungere alla salvezza, tesi poi canonicamente sancita dai concili di Lione, di Firenze e di Trento, si viene elaborando lentamente nel corso del XII secolo e la Visio Alberici rappresenta uno dei contributi piú originali atti a soddisfare l’innata curiosità dell’uomo, non solo del cristiano, riguardo al destino che lo aspetta dopo la morte. Alessandro Bedini febbraio

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Miniature raffiguranti gli angeli che aprono le porte del Purgatorio a Dante e il poeta che si inginocchia, da un’edizione manoscritta della Divina Commedia accompagnata da un commentario in latino. Prima metà del XIV sec. Londra, British Library.

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Particolare del Giudizio universale affrescato nella chiesa di S. Maria in Piano a Loreto Aprutino (Pesaro). Prima metà del XIV sec. Nel dettaglio è il registro inferiore, in cui compare il ponte del Purgatorio che attraversa il fiume di pece e per il quale i purganti devono passare; al centro il ponte si restringe, fino a diventare sottile come un filo, facendo cosí precipitare i peccatori, che devono dunque riprovare piú volte, finché, purgati, riescono a passare dall’altra parte.

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e descrizioni del viaggio verso l’aldilà non sono una peculiarità dell’Occidente medievale, visto che abbondano in tutte le culture e le religioni. In genere i documenti (sogni, visioni, estasi) raccontano di un tragitto pericoloso, una sorta di «pellegrinaggio»dell’anima, lungo il quale il defunto incontra una corrente furiosa, un precipizio profondo o un ponte che lo sovrasta. Attraversarli felicemente, può dipendere dal comportamento che il viandante ha avuto o dai sacrifici che ha compiuto in vita. Non sempre in dipendenza da norme di natura etica. La metafora del viaggio ultramondano è plasmata su quello dei viventi: un viaggio meraviglioso da cui però non bisogna lasciarsi affascinare, pena la dimenticanza della destinazione finale. Come osservava sant’Agostino nel Trattato sul Vangelo secondo Giovanni, il mondo è una locanda in cui sostare un attimo nel corso del proprio viaggio. E se non è una locanda, può essere un ponte, come è descritto in un detto di Gesú, un agraphon (assente nel Nuovo Testamento) presente nella tradizione islamica fin dal VII secolo e trascritto nel 1601 dall’imperatore Akbar all’entrata della moschea di Fatehpur Sikri, nell’India settentrionale: «Gesú, la pace sia con lui, disse: “Il mondo è un ponte, camminaci sopra ma non sedertici”». Se la morte è ritmata e plasmata sul viaggio dei vivi, allora può divenire pericolosa la confusione dei due piani, bisognerà distinguerli e dividerli chiaramente attraverso riti e descrizioni che talvolta assumono la precisione di una vera e propria pedagogia ultramondana, in modo tale da facilitarne la percorribilità. Perché, come scrisse l’antropologo Luigi M. Lombardi Satriani (1936-2022), «agevolando e proteggendo il viaggio dell’anima, si tende, da un lato, a delimitare la morte; dall’altro, a ridefinire la

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Miniatura raffigurante Dante e Virgilio nella bolgia dei barattieri (Inferno, canto XXI), da un’edizione della Divina Commedia. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

vita superstite, evitando cosí una sconvolgente confusione». Addomesticare la morte è stato uno dei bisogni primari degli uomini e delle donne, anche medievali. Questa peregrinazione ultramondana è metonimicamente raffigurata dal passaggio sul ponte, episodio di origine antichissima che già troviamo citato nei testi sacri dell’Iran antico. Qui, l’anima del defunto attraversava il Cinvat Peretu, un ponte teso come un arcobaleno dal monte Hara al cielo. Solo le anime degne ri-

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uscivano a percorrerlo, mentre le altre sprofondavano nell’Inferno sotterraneo. Tre giudici pesavano i pensieri, le parole e le azioni del defunto. Se il bene prevaleva il ponte si allargava, altrimenti diventava un filo di spada e l’anima precipitava.

Anime negli abissi

Ne abbiamo un racconto, simile alle visioni medievali che vedremo, nel libro dell’Arta Viraf, l’avventura di un pio mazdeo del VI secolo che compie un viaggio nell’oltretomba dopo aver assunto una droga. Qui vede il ponte Cinvat, dal quale vengono scaraventate negli abissi le anime dei peccatori. Forse dipendente dalla tradizione iranica, attraverso l’in-

termediazione ebraica, l’idea del ponte filtra anche nell’islamismo: il suo nome è Sirat, «via». Lo ritroviamo in un hadit che descrive un ponte «piú sottile di un capello e piú acuminato di una spada» che conduce il defunto sopra la parte superiore dell’Inferno, Jahannam. Secondo una tradizione che risale a Ibn Mas’ud (VII secolo), ciascun musulmano deve attraversarlo, piú o meno velocemente: come il vento, come un cavallo o un cammello, come uomo che corre o che cammina in equilibrio sugli alluci. Quest’ultimo viene immediatamente scosso giú dal ponte, che è acuminato, scivoloso e irto di punte aguzze. Queste diffuse credenze e tradizioni filtrano nella cultura medievale, creando i vari febbraio

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«ponte della spada» del ciclo bretone, il «ponte-arcobaleno» della tradizione scandinava o il «ponte di San Giacomo», il piú noto e di piú lunga durata storica, residuando ancor oggi in molte tradizioni folcloriche.

Né Enea, né Paolo

Nel XII capitolo della II Epistola ai Corinti (2-4) si parla di un uomo rapito sino al terzo Cielo. È il nucleo della Visio Pauli, traduzione e rifacimento dell’originaria Apocalisse di Paolo, due versioni della quale risalgono al IV secolo. Fu famosa in tutto il Medioevo, e vi allude anche Dante, quando nell’Inferno si lamenta: «Io non Enea, io non Paolo sono» (II, 32). In un manoscritto trecentesco della Visio vediamo che «sopra quel fiume (infernale) vi è un ponte per il quale passano le anime giuste, e molte peccatrici sono immerse ciascuna secondo il proprio merito». Ma tra le varie esperienze visionarie cristiane radicate nel patrimonio apocalittico della Chiesa antica, l’immagine del ponte che piú ha influenzato la

posteriore letteratura si trova nei Dialogorum libri di Gregorio Magno (VI secolo). Qui un soldato, intrapreso un viaggio ultramondano, parla di un ponte al di sotto del quale «scorreva un fiume nero e caliginoso che esalava una nube dal fetore insopportabile. Attraversato il ponte, però, si incontravano prati verdi e armoniosi, ornati di erbe e di fiori profumati, nei quali erano radunati uomini vestiti di bianco». Qualche anno prima Gregorio di Tours, nella Historia Francorum,

riportando la visione dell’abate Sunniulfo, racconta di «un ponte sopra un fiume e cosí stretto che a stento poteva contenere in larghezza l’orma di un solo piede». Nella costruzione visionaria dell’aldilà medievale ebbe un ruolo di primo piano la cultura monastica irlandese. È del IX secolo la Visio di santo Adamnano, il quale, nel suo viaggio all’Inferno, vede un ponte enorme e altissimo posto su una valle abitata da otto serpenti. Qui, il santo irlandese assiste al passaggio di tre anime:

Cranio di un defunto nella cui bocca fu posta una moneta (il cosiddetto obolo di Caronte), in questo caso un dupondio coniato al tempo dell’imperatore Antonino Pio (138-161 d.C.). Valencia, Museu de Prehistòria.

L’obolo di Caronte

Il «costo» del traghetto L’uso di mettere in bocca o nelle tasche del cadavere una moneta (detta «obolo di Caronte») non è cosa recente, ma è testimoniata già nel II secolo dallo scrittore greco Luciano di Samosata. Nel suo De luctu, egli osserva ironicamente che «quando uno della famiglia muore, immediatamente essi recano un obolo e glielo mettono in bocca, quale compenso per il traghettatore che lo fa salire. Essi non si soffermano prima a considerare quale tipo di valuta sia d’uso corrente fra quelli lí sotto, e se lí sia legale l’obolo ateniese, o macedone, o quello di Egina; né considerano che sarebbe molto meglio non poter pagare il traghetto; cosí infatti il nocchiero non potrebbe trasportarli, ed essi sarebbero rimandati indietro, e tornerebbero in vita».

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quella di un giusto, che l’attraversò senza fatica; di un uomo convertitosi tardi ai precetti divini, per il quale il ponte era stretto al principio ma largo alla fine; al contrario, il ponte era largo al principio e poi si stringeva per l’anima di colui che aveva ascoltato la volontà divina ma non l’aveva adempiuta. Nel Purgatorio di San Patrizio, scritto negli ultimi decenni del XII secolo, e poi tradotto in molte lingue, il protagonista Owen viene condotto dai diavoli a un ponte altissimo, stretto e scivoloso, posato su un fiume di fuoco. Stupisce l’attenzione al dato geografico e, piú in generale, la precisione con la quale sono descritti i vari scenari. Con il Purgatorio di San Patrizio siamo alle «prove

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tecniche di trasmissione» della Nascita del Purgatorio descrittaci da Jacques Le Goff.

La meta è una sola

È l’epoca del «grande slancio», durante la quale la geografia vista da Owen diviene mappa dettagliatissima dell’itinerario da compiere per giungere all’unica meta che conti veramente, il Paradiso. Quasi a voler indicare, come ha spiegato Sonia M. Barillari, la strada alle schiere di spiriti tradizionalmente votati a non trovare requie e inoltre a dare a quanti in quelle schiere credevano una prova attendibile e «concreta» dell’esistenza della percorribilità di un simile cammino. La strada è segnata, in senso letterale: alle varie masnade o schiere

di anime dannate, guidate da Arlecchino, Diana, Artú e chi per essi, non resta che percorrerla. Della stessa epoca è la visione che ebbe Tundalo (Tantalo o Tugdalo): qui il ponte, «longo doa milia passa e largo un passo», coperto di chiodi e punte acuminate, non è un passaggio per l’aldilà, ma un elemento della raffigurazione dell’Inferno, anzi, un instrumentum persecutionis dei peccatori, mentre non ha effetti negativi per le anime pie. Coeve sono anche la visione di Turcillo, dove il ponte è posto tra Purgatorio e Paradiso, di Alberico da Settefrati (vedi, nella prima parte di questo Dossier, alle pp. 70-75) e dell’abate Gioacchino: in quest’ultima vediamo che le anime dei giusti, che non vengono precipitate febbraio

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Miniatura raffigurante Lancillotto che attraversa il Ponte della Spada per raggiungere il castello in cui Ginevra è tenuta prigioniera, da un’edizione del Lancelot du Lac. 13101315. New York, The Morgan Library and Museum. Nella scena si distinguono tutti i dettagli della vicenda: le due belve feroci che attendono al varco il cavaliere, e l’amata che assiste all’impresa insieme alle damigelle. In basso riproduzione moderna di una miniatura raffigurante san Patrizio che apre il suo Purgatorio, dall’opera Les Arts Somptuaires di Charles Louandre, illustrata da Clus Ciappori.

dal ponte nel fiume di zolfo e fuoco, ma corrono «veloci come aquile», giungono a un muro di bronzo oltre il quale abita gente felice in un meraviglioso giardino.

Il coraggio di Lancillotto

Il valore del ponte era però troppo potente per rimanere ristretto nell’ambito delle visioni o della letteratura monastica. Il suo mito si espanse informando i piú reconditi ambiti dell’immaginario medievale, dalla raffigurazione artistica alle tradizioni popolari, passando anche nella letteratura romanzesca: nel Conte de la charrette, Lancillotto si lancia in soccorso di Ginevra che Meleagant, figlio di re Gorre, ha portato con sé in una terra dai forti tratti ultramondani, «il regno

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Dossier folclore

Tutti zitti a mezzanotte Nelle culture popolari italiane, soprattutto del Centro Sud, la credenza che l’anima dopo la morte debba attraversare il ponte di San Giacomo è fermamente attestata. Secondo quanto rilevato da vari antropologi, spesso il morto deve rimanere almeno una notte in casa, per permettergli di attraversare il ponte, sottile come un capello. Si crede che il passaggio

avvenga a mezzanotte precisa, come testimonia spesso lo scricchiolio che coloro che sono riuniti per la veglia funebre avvertono nella stanza in cui giace il cadavere. Questo è il motivo per il quale costoro a quell’ora zittiscono. In caso il defunto venga portato fuori dalla stanza troppo presto, allora il fatale passaggio avverrà dopo quaranta giorni di penitenza. da cui nessuno straniero può ritornare». Qui il ponte, stavolta «pont de l’espée» (spada), «è piú malvagio / Ed è assai piú pericoloso, / E non è stato passato da alcun uomo / Perché è come una spada affilata / E per questo tutte le genti / Lo chiamano il ponte della spada». Ma l’eroe non si perde d’animo e sopporta coraggiosamente, da vero cavaliere, il dolore provocato dalle numerose ferite aperte dalla lama della spada, fino a che non raggiunge la sponda opposta.

Frati costruttori

Il ponte romano che scavalca l’Ardèche ai piedi del villaggio di Thueyts (AlverniaRodano-Alpi, Francia). L’opera è nota come Ponte del Diavolo poiché, secondo la leggenda, la sua costruzione fu appunto ispirata dal Maligno per favorire la perdizione delle anime degli abitanti del paese, che desiderosi di passare dall’altra parte del fiume per nascondere i propri amori clandestini, precipitarono nell’abisso.

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Di pari passo con la diffusione del mito nei mondi dell’immaginario, anche la realissima costruzione di ponti è opera gradita e meritoria, una vera e propria opera pia, utile anche al destino ultramondano del costruttore. Indulgenze papali ed episcopali incoraggiavano la loro costruzione e, nel 1189, venne fondato, sotto papa Clemente III, un Ordine regolare chiamato Fratres Pontifices, costruttori di ponti. Il loro compito esclusivo era quello di costruire ospizi e ponti nei luoghi di attraversamento dei pellegrini sui fiumi. Modellato su quello dei Cavalieri di San Giovanni, l’Ordine si dissolse gradualmente nel XIII secolo. Analogamente, fin dal XII secolo, la Regola dei Frati Ospedalieri di Altopascio prevedeva come compito precipuo la cura di pellegrini e infermi e la costruzione di ponti. Lo stesso London Bridge fu febbraio

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Il retro di una medaglia in bronzo raffigurante Dante Alighieri davanti alla montagna del Purgatorio. Produzione fiorentina, XV sec. Washington, National Gallery of Art.

costruito dal clero di St. Mary Overie con un lascito della figlia di un traghettatore e molti altri ponti nel Medioevo furono costruiti con la vendita delle indulgenze, come leggiamo per l’anno 1360 nella History of Cumberland: «Un ponte a Great Salkeld fu spazzato via dalle acque; per le riparazioni e la riedificazione del quale il vescovo Welton bandí un’indulgenza di quaranta giorni». Tuttavia, pur essendo presente anche nei Fioretti di San Francesco, dove nella visione di uno dei tre ladroni convertiti si presenta un ponte piccolo e stretto, scivoloso e privo di parapetto, nelle nascenti letterature romanze, come sostiene Annalisa Di Nola, il tema del ponte pericoloso non è sempre vivo. Infatti, tra le numerose opere dei precursori di Dante che trattarono di viaggi ultramondani, quasi

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nessuna presenta immagini del genere, e neppure lo stesso Alighieri. Anche se un’eccezione, ma del XV secolo, è rappresentata da Il Quadriregio di Federico Frezzi che, su modello del Sommo, descrive cosí l’ingresso alla città di Dite (II, XV): «Dalla ripa alla porta era per ponte / Attraversato e steso un sottil filo / Pel qual chi in Dite va, convien che monte (…) Su pel fil piú sottile che bambace / Io passai Flegetonte, e sua mal’onda, / Ch’ardea di sotto piú che mai fornace». Presente come citazione favolistica napoletana nel Pentamerone di Basile («Tu vai al macello, dove

questa tua sciagurata persona passerà pel ponte del capello»), tuttavia il mito del ponte periglioso sembra perso alla letteratura, sopravvivendo però nelle tradizioni popolari europee e italiane in particolare. È il ponte di San Giacomo, che i defunti devono attraversare portando con loro una moneta o un pezzo di pane. Oggetti messi pietosamente accanto al defunto o nelle sue vesti dai vivi, nell’intenzione, affettuosa e umanissima, di dargli pace proteggendolo fino al suo estremo viaggio, e al tempo stesso darsi pace. Claudio Corvino

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IL PURGATORIO FIGURATO

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appresentare il Purgatorio fu un vero problema per gli artisti medievali, sia dal punto di vista iconografico, sia iconologico. Se compito dell’iconografia è descrivere luoghi, personaggi e azioni in modo che siano riconoscibili e dell’iconologia dare un significato culturale all’opera nel suo complesso, come descrivere e dare significato a ciò di cui si sa poco e confusamente? Nel XII secolo sul Purgatorio circolavano molte descrizioni fantastiche (viaggi immaginari nell’aldilà, visioni mistiche, sogni rivelatori), che ebbero largo seguito popolare ma scarso peso dottrinale, sicché la Chiesa, una volta annunciato il dogma dell’esistenza di un terzo aldilà, preferí rimanere sui principi generali senza scendere nei particolari. Le fonti ufficiali a cui gli artisti potevano ispirarsi scarseggiavano, innanzitutto per la mancanza di riferimenti nelle Sacre Scritture, poi per la lenta elaborazione dell’idea – sviluppatasi a partire dal IIIIV secolo e non senza contraddizioni – di una possibile espiazione, tra la morte e il Giudizio finale, dei peccati considerati veniali; infine, per la vaghezza delle descrizioni e l’incertezza delle modalità purgatorie a cui i penitenti avrebbero dovuto sottomettersi. Pur mancando pareri concordi su molti aspetti della sua configurazione, dai piú il Purgatorio era considerato un Inferno temporaneo, un luogo – o uno stato dell’anima, come ribadí nel 1999 papa Giovanni Paolo II († 2005) – di sofferenza e di espiazione attraverso un fuoco purificatore, la cui unica uscita conduceva però al Paradiso.

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L’Incoronazione della Vergine, olio su tela montata su legno di Enguerrand Quarton. 1453-1454. Villeneuve-lès-Avignon, Musée Pierre-de-Luxembourg.

Ulteriore argomento di discussione fu la geografia del Purgatorio: era sulla Terra, ma dove? Suggestionati da visioni mistiche o racconti fantastici, vi era chi pensava fosse in piú luoghi nei quali si espiavano peccati diversi (Guglielmo di Alvernia), oppure lo definiva esplicitamente «locus indeterminatus» (san Bonaventura), per altri, infine, il Purgatorio era un luogo sotterraneo invaso dal fuoco e prossimo all’Inferno, forse situato in Sicilia presso l’Etna o in Irlanda nel fondo di un pozzo come era indicato in un libro che ebbe vasta diffusione, il Purgatorio di San Patrizio, scritto nel XII secolo dal monaco Henry da Saltrey.

Il dualismo spezzato

Queste difficoltà immaginative e dottrinali derivavano anche dal fatto che il Purgatorio, come elemento «terzo», andava a modificare la concezione dualistica profondamente radicata nell’uomo fin dalle civiltà piú antiche: un modello culturale in perfetto equilibrio, che aveva condizionato non solo la religione (il Bene e il Male, l’Inferno e il Paradiso, la Terra e il Cielo), ma anche la struttura sociale (ricchi e poveri, laici e chierici, nobili e plebei, dotti e ignoranti). Inoltre, la permanenza temporanea nel Purgatorio introduceva l’umanissimo concetto di «durata» in un aldilà da sempre concepito come eterno e immutabile, nel quale la fissità del temfebbraio

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Dossier Nella pagina accanto Cristo nel Limbo resuscita gli eletti, scena facente parte del ciclo affrescato nella cappella di S. Sebastiano a Lanslevillard (Savoia, Francia). XV sec.

po e dello spazio era una delle condizioni fondamentali della gioia paradisiaca e della disperazione infernale; ma nel concetto di «durata» vi è una ulteriore valenza, e con esso irrompe nel mondo dei morti una possibilità assolutamente originale: quella che permette ai vivi, attraverso le preghiere e le buone azioni, di non essere piú passivi nei riguardi del destino finale e di concorrere alla riduzione della pena dei defunti per anticipare il piú possibile il loro ricongiungimento con Dio, un’azione non solo auspicata ma fondamentale e necessaria per l’esistenza stessa del Purgatorio. La complessità dei temi connessi all’esistenza di un terzo aldilà, la loro lenta elaborazione e i profondi

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Rappresentazione del Limbo dei bambini nel ciclo affrescato dai fratelli Sperindio e Francesco Cagnola nell’Oratorio della Santissima Trinità di Momo (Novara).

questioni dottrinali

Da luogo a stato esistenziale Nell’antichità i defunti erano sepolti in luoghi denominati «necropoli» (città dei morti); il cristianesimo, fin dai suoi inizi, li chiamò invece «cimiteri» (dal greco koimeteri che significa dormitorio), termine che implica il risveglio dell’anima – considerata immortale –, mentre la sepoltura era definita «deposito», uno stato dichiaratamente provvisorio in attesa del giorno del Giudizio. Fin da allora si pregava, si compivano opere buone e si celebravano messe per i defunti affinché fosse piú rapida la loro purificazione e facilitato l’ingresso nel Paradiso: era un’idea molto vaga del Purgatorio, ma ricca di successivi sviluppi; infatti l’argomento, tra il IV e il V secolo, attrasse l’attenzione di molti padri della Chiesa e se ne cominciò a discutere: da Lattanzio a sant’Ambrogio, da Ilario di Poitiers a san Girolamo. febbraio

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Ma è soprattutto sant’Agostino a suggerire con maggiore precisione alcuni concetti che la futura dottrina del Purgatorio utilizzerà al momento della sua totale accettazione da parte della Chiesa a partire dal XII secolo. Innanzitutto la suddivisione dei peccati in lievi (quotidiani), meritevoli di perdono, e gravi (crimini), meritevoli del fuoco eterno, poi la redenzione dei defunti sollecitata con il suffragio dei vivi e infine i termini – ignis purgatorius (fuoco purgatorio), tormenta purgatorio (tormenti purgatori), poenae temporariae (pene temporali), transitorius (stato transitorio) – che entreranno nel lessico della teologia della purgazione. Ma purgatorio, come si vede, è ancora un aggettivo e diverrà un sostantivo soltanto a partire dalla seconda metà del XIII secolo, quando il concilio di Lione del 1274 ne sancirà ufficialmente il riconoscimento.

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La dottrina della purgazione fu discussa anche nel concilio di Firenze del 1439 che vide su fronti opposti la Chiesa di Roma e quella orientale; gli ortodossi misero in discussione l’esistenza del Purgatorio, sicché alla fine si decise di tacere sui controversi argomenti che si riferivano al Purgatorio come «luogo», che si trasformò in uno «stato esistenziale», e al «fuoco» quale mezzo di punizione; le pene inflitte furono considerate solo una intima sofferenza, perché le anime erano già state perdonate da Dio. Tali principi furono ribaditi nel concilio di Trento del 1562 per contrastare le 95 Tesi, esposte nel 1517 alle porte del duomo di Wittenberg, con le quali Lutero aveva sferrato un durissimo attacco alla Chiesa di Roma argomentando proprio sul Purgatorio, sulle indulgenze, sulla penitenza e sul peccato.

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Giudizio universale, olio su tavola di Stefan Lochner. 1435 circa. Colonia, Wallraf-Richartz-Museum & Fondation Corboud.

riflessi che tale dottrina ebbe sulla società medievale dal XII al XIV secolo, affrontati da Jacques Le Goff nel già piú volte citato La nascita del Purgatorio, testimoniano la ragione della crisi di quegli artisti che con la loro opera avevano il compito di illustrare al popolo i fatti della religione; il Purgatorio, che non ebbe mai vita propria, facendo parte del piú ampio tema del Giudizio universale, insieme al Paradiso e all’Inferno, era difficilissimo da rappresentare, sicché gli artisti assunsero tre diverse posizioni: ne ignoravano del tutto l’esistenza, oppure si servivano di alcune figure per alludere a uno stato di purgazione, infine lo rappresentavano esplicitamente con personaggi o situazioni per lo piú collegate al Purgatorio dantesco.

Fonte di insicurezza

Non rappresentare il Purgatorio nel Giudizio universale era quasi una consuetudine, anche se l’argomento era molto presente nel pensiero di tutti per quel senso di insicurezza della vita e paura della morte e del giudizio divino che permeava l’esistenza dell’uomo medievale. Il Purgatorio non è mai inserito nei portali scolpiti delle chiese gotiche, dove il tema del Giudizio era quasi d’obbligo (in particolare in Francia), non solo per rispettare una consolidata tradizione iconografica ma anche per dare solennità al sagrato, luogo in cui spesso si amministrava la giustizia, si prestavano giuramenti solenni, si firmavano contratti e accordi commerciali, si celebravano i matrimoni, si chiedeva asilo. Giotto non dipinge il Purgatorio nel suo Giudizio universale (1305 circa) della Cappella degli Scrovegni a Padova, dove il gesto del Cristo che con la mano

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Dossier sinistra respinge i dannati sembra escludere qualsiasi possibilità di redenzione; non lo dipinge Nardo di Cione nel Giudizio della chiesa di S. Maria Novella a Firenze (in questo affresco in realtà tra i gironi infernali dei simoniaci e gli scandalosi è dipinto un piccolo ponte spezzato che potrebbe alludere a quello che, secondo alcuni testi medievali – Visio Pauli, Visio Alberici, ecc. –, serviva per far passare le anime dei giusti, che qui è interrotto perché costoro giusti non sono); lo esclude Coppo di Marcovaldo nel grandioso Giudizio a mosaico realizzato nel Battistero di Firenze. Anche il domenicano Beato Angelico, che pure era ben consapevole della dottrina della redenzione, lo trascura nel suo Giudizio (1431 circa, Museo di S. Marco, Firenze); non lo considera l’ignoto Maestro di Avicenna che compone un affollatissimo Paradiso e Inferno (1435, Pinacoteca Nazionale, Bologna), senza che vi sia traccia del Purgatorio; lo ignora Luca Signorelli nel ciclo dedicato al Giudizio finale nella cappella di S. Brizio (1499-1502) a Orvieto; non lo rappresenta

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Hieronymus Bosch nel Trittico del Giudizio universale (1505-10, Gemäldegalerie der Akademie der bildenden Künste, Vienna); lo ignora infine anche Michelangelo nel Giudizio (1537-41) della Cappella Sistina in Vaticano.

Il «seno di Abramo»

In altri casi il Purgatorio, pur se non esplicitato, appare come suggerito: succede nel Giudizio universale (XI secolo) realizzato nella chiesa di S. Maria Assunta a Torcello, nel quale la figura di Abramo circondato da fanciulli allude al «seno di Abramo», che per i primi cristiani era il luogo di sosta dei giusti e dei bambini

Didascalia non battezzati in attesa di ascenaliquatur adi odis dere al Paradiso. que Nel vero ent qui Giudizio che Andrea di doloreium conectu Bonaiuto dipinse nel 1366 in S. rehendebis eatur a Firenze vi è una Maria Novella tendamusam scena che rappresenta la discesa consent, perspiti di Cristo al Limbo, episodio poco conseque nis rappresentato in pittura e conomaxim sciutoeaquis nel Medioevo attraverso il earuntia cones Vangelo apocrifo di Niccodemo: apienda. in questo luogo di sosta, nato nel-

lo stesso periodo del Purgatorio, Cristo trae a sé i giusti non battezzati e poi chiude in eterno le porte dell’Inferno; una scena analoga (1500 circa), conservata in una collezione privata, l’ha dipinta anche Andrea Mantegna, interpretando l’episodio in modo ori-

Polittico del Giudizio universale, olio su tavola di Rogier van der Weyden. 1443-1451. Beaune, Hôtel-Dieu. Alcune figure inginocchiate a sinistra dell’Arcangelo Michele, che pesa le anime, mostrano penitenza e supplicano clemenza per i loro peccati.

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ginale: il personaggio principale, Cristo, è visto di spalle; oltre al Limbo dei giusti, la Chiesa aveva decretato l’esistenza di un secondo Limbo riservato ai bambini morti prima del Battesimo. Piú diffusa è l’allusione al Purgatorio suggerita dal gesto di un angelo che salva un’anima dalla bolgia infernale. Troviamo una delle piú antiche di queste rappresentazioni in un capolettera miniato del Breviario di Filippo il Bello, dove due angeli salvano due anime destinate alla redenzione; scene analoghe le possiamo vedere sia nel Giudizio universale di Stephan Lochner (vedi foto alle pp. 88/89), nel quale a fianco di un an-

gelo che respinge armato di scudo e di lancia, un altro angelo accoglie un redento, sia nell’Incoronazione della Vergine di Enguerrand Quarton (vedi foto alle pp. 84/85). L’immagine dell’angelo che trae in salvo un peccatore è presente anche in due grandi affreschi di Francesco Traini dipinti nel Camposanto di Pisa verso il 1350, il Trionfo della morte (gli angeli salvatori sono in alto a destra) e il Giudizio universale (mentre tre angeli respingono decisamente i dannati, in basso quasi al centro un quarto angelo salva un uomo dall’Inferno).

Nel baratro infernale

Altre volte l’allusione al Purgatorio è meno esplicita: osservando il Giudizio finale (1430) di Jan Van Eyck (Metropolitan Museum of Art, New York), vediamo in alto Cristo assiso in Paradiso con un cartiglio che gli fa dire «Venite, benedicti p(at)ris mei», in basso troviamo l’Inferno e nella parte mediana un paesaggio posto dietro l’Arcangelo Michele che spinge i dannati nel baratro infernale dicendo «Ite vos maledicti, in ignem eternum»; il paesaggio è

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composto da una spiaggia e dal mare dai quali emergono i morti e, vista la tradizionale collocazione dell’Inferno a destra e del Purgatorio a sinistra vicino al Paradiso (che in questa tavola è in alto), i defunti imploranti Cristo vanno interpretati come penitenti destinati alla redenzione. L’analogo dipinto (1452) di Petrus Christus nello Staatliche Museum-Gemäldegalerie a Berlino deriva chiaramente da quello di Van Eyck, tuttavia qui l’allusione al Purgatorio appare piú evidente; infatti dal terreno sorgono alcuni defunti e, se sulla destra uno è afferrato da un diavolo, sulla sinistra invece i defunti appaiono da soli e in atteggiamenti piú composti, in attesa di una futura purificazione. Anche nel Polittico del Giudizio universale di Rogier van der Weyden (vedi foto in questa pagine), la scena mostra a sinistra il Paradiso con gli eletti che si avviano al suo ingresso, a destra i dannati che sono scompostamente diretti verso il baratro infernale mentre alcune figure inginocchiate a sinistra dell’Arcangelo Michele, che pesa (segue a p. 95)

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In alto particolare di una rappresentazione dell’Inferno disegnata da Sandro Botticelli. 1480-1495. Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett. L’opera fa parte di un corpus di disegni realizzati dall’artista a corredo di un’edizione della Divina Commedia con commento di Cristoforo Landino. Nella pagina accanto Storie di Cristo (Natività, Crocifissione, Deposizione, Discesa al Limbo, Resurrezione, Giudizio universale), tempera su tavola attribuita a Giovanni da Rimini. XIV sec. Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini.

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La Commedia secondo Botticelli

Tre cantiche in cento disegni «Per essere persona sofistica commentò una parte di Dante, e figurò lo inferno e lo mise in stampa, dietro al quale consumò dimolto tempo; per il che non lavorando fu cagione di infiniti disordini la vita sua». Cosí scrive Giorgio Vasari commentando i disegni, incisi da Baccio Baldini, che Botticelli realizzò per illustrare l’Inferno dantesco pubblicato nel 1481. Alla fine del 1495, Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico, per il quale Botticelli aveva eseguito molti lavori, tra i quali la celeberrima Primavera (1482 circa), chiese all’artista di illustrare l’intera Commedia. I disegni sono su pergamena e recano nel recto i versi, trascritti da Nicolò Mangona, che si riferiscono al disegno successivo (in origine erano legati insieme); per realizzarli Botticelli usò matite a punta d’argento e piombo, la grafia appare ripresa in piú punti con un pennello colore grigio scuro e molti fogli appaiono incompiuti.

Molte di queste pergamene furono acquistate nel 1803 dal duca di Wellington, nel 1882 furono cedute al Kupferstich Kabinett dello Staatliche Museum di Berlino, dove ancora si conservano; nel 1886 si scoprirono altri fogli appartenuti a Cristina di Svezia e ora conservati nella Biblioteca Vaticana. Originariamente il corpus dei disegni era di 100 fogli, oggi se ne contano 92; Botticelli interruppe il lavoro per la fuga del committente per ragioni politiche. I disegni del Purgatorio (nel Museo di Berlino) sono trentatré e, pur se efficaci e di straordinaria eleganza grafica, sembrano essere meno convincenti di quelli dedicati al Paradiso e all’Inferno. In questo periodo l’animo di Botticelli era certamente suggestionato dai drammatici avvenimenti fiorentini provocati dal pensiero integralista di Girolamo Savonarola, di cui egli era un simpatizzante; i tumulti terminarono nel 1498 con la condanna al rogo del predicatore ferrarese.

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Miniatura raffigurante l’incontro fra Dante e Corrado Malaspina (Purgatorio, canto VIII), che predice al poeta il suo esilio, da un’edizione della Divina Commedia illustrata da un miniatore italiano. XIV sec. Napoli, Biblioteca dei Girolamini.

le anime, mostrano penitenza e supplicano clemenza. Nel Trittico del Giudizio universale (1478) di Hans Memling nel Museo Nazionale a Danzica, troviamo una situazione analoga: al centro san Michele pesa le anime, sulla sinistra i defunti appaiono sereni e composti, mentre un angelo

scaccia un dannato che tenta di congiungersi al gruppo degli eletti che salgono al Paradiso, in basso alcuni defunti pregano in ginocchio chiedendo la grazia e il perdono in attesa di scontare le loro colpe in Purgatorio. Analoga interpretazione è possibile dare di un affresco di anonimo nella cattedrale di S. Cecilia ad Albi che rappresenta ancora una volta il Giudizio universale (fine del XV secolo): sotto la schiera dei beati posti ordinatamente in fila, i defunti si ergono dalla terra, anch’essi composti e oranti, e dunque destinati al Purgatorio.

il purgatorio di dante

Quella montagna agli antipodi di Gerusalemme L’arte figurativa si è quasi sempre ispirata alla letteratura, illustrando storie, episodi, azioni e rappresentando personaggi conosciuti e riconoscibili: in genere, i cicli pittorici, i grandi affreschi si basavano su un «programma», un elenco degli argomenti da trattare, derivato da una o piú fonti fornite dalla committenza o da un letterato da essa incaricato, al quale l’artista si rifaceva, sia pure concedendosi quelle libertà dettate dal suo genio o dal mestiere. Con la sua Divina Commedia, Dante, elaborando quanto fino ad allora scritto sul Purgatorio, scelse, razionalizzò e infine costruí un terzo luogo coerente e suggestivo, da cui gli artisti trassero ispirazione per poterlo finalmente rappresentare. Sicché da un certo momento in poi il Purgatorio dantesco divenne il Purgatorio tout court, a cui tutti fecero riferimento per immaginare qualcosa che fino ad allora non aveva avuto una forma coerente e riconoscibile. Localizzato agli antipodi di Gerusalemme nel mezzo di un oceano impenetrabile, il Purgatorio dantesco ha l’aspetto di una montagna creatasi come contraccolpo allo sprofondamento nella Terra di Lucifero, cacciato dal Cielo per la sua superbia; la voragine infernale e il luogo dell’espiazione sono quindi speculari, come le nove parti dell’Inferno e le nove zone purgatoriali: sette cornici piú l’Antipurgatorio, che si trova alla base della montagna e il Paradiso terrestre, che si trova sulla cima. L’Antipurgatorio è una spiaggia posta sotto il controllo di Catone Uticense dove sostano le anime non ancora ammesse, quelle dei pigri, dei principi negligenti, dei morti scomunicati, dei morti di morte violenta; a seguire troviamo i gironi destinati ai sette peccati capitali: andando verso l’alto – posti in ordine inverso rispetto alla posizione che hanno nell’Inferno – incontriamo la superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, l’avarizia, la gola e la lussuria; solo i lussuriosi dimorano nel fuoco e attraverso un muro di fuoco purificatore devono passare le anime purgate prima di entrare nel Paradiso terrestre dove, con l’immersione nei fiumi Leté ed Eunoé, i redenti ritrovano definitivamente l’innocenza perduta e riacquistano il libero arbitrio.

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Dossier La raffigurazione del Purgatorio affrescata nella cappella di NotreDame de Benva (o Ben Va) a Lorgues (Provenza, Francia). 1510 circa.

Il terzo gruppo di opere è quello che rappresenta esplicitamente il Purgatorio con situazioni o personaggi che si riferiscono direttamente alla dottrina della purgazione. Nel duomo di Monreale troviamo dipinto un Giudizio universale (XIV secolo), in una parte del quale sono rappresentate alcune anime sofferenti circondate dal fuoco, e per non suscitare dubbi nei fedeli l’ignoto pittore ha aggiunto la scritta «Hoc hest Purgatorium». Una curiosa rappresentazione dei tre luoghi dell’aldilà è quella dipinta tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo da Giovanni da Rimini nella tavola con le Storie di Cristo: nell’ultimo riquadro a destra è rappresentato un sintetico Giudizio universale, nel quale un Cristo giudicante sovrasta tre grandi vasche, due a sinistra, il Paradiso e il Purgatorio, e una a destra di misura doppia, l’Inferno; nella prima vasca gli eletti sono composti e indicano il Cristo, nella seconda i redenti sono lambiti da una fiamma purificatrice mentre pregano, nella terza il gruppo scomposto dei dannati appare circondato da diavoli

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e tormentato dal fuoco. Troviamo la medesima soluzione iconografica nella miniatura di un anonimo maestro fiorentino che rappresenta il Giudizio universale (1355) in un manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze (Magl. II. I. 212, f. 64v.).

Il fuoco purificatore

L’immagine di un Purgatorio quasi infernale la troviamo sia nel Breviario di Carlo V, realizzato tra il 1347 e il 1380 (Mn. latino 1023; Bibliothèque nationale de France, Parigi), dove una miniatura mostra due redenti estratti da un Purgatorio in fiamme da due angeli, sia nel Breviario all’uso di Roma della fine del XIV secolo, dove è rappresentato un Giudizio universale (Mn. W 300; Walter Art Gallery, Baltimora), nel quale troviamo in alto il Paradiso, sotto i morti che risorgono dalla terra, in basso a sinistra il Purgatorio con le anime oranti purificate dal fuoco, a destra l’orrenda bocca dell’Inferno. Un affresco della fine del XIV secolo nella cappella di Notre-Dame de Benva a Lorgues, che rap-

presenta ancora il Giudizio universale, mostra un angelo che offre acqua alle anime del Purgatorio sofferenti per il fuoco purificatore (vedi foto in questa pagina). Infine vanno citati i numerosissimi codici miniati della Divina Commedia, le cui illustrazioni, molto meno condizionate rispetto alle tavole e agli affreschi, mostrano a volte immagini del Purgatorio di suggestiva originalità e bellezza. Tra i tanti, eccone alcuni le cui miniature sono state realizzate da artisti anonimi: il Codice Ms. palat. 313 (1330; Biblioteca Nazionale, Firenze); il Codice 32 (XV secolo; Biblioteca Comunale, Imola); il Codice 734 (200; XV secolo, Biblioteca Comunale Guarneriana, San Daniele del Friuli); il Codice Ricciardiano 1035 (XIV secolo; Biblioteca Ricciardiana, Firenze), che ebbe come copista illustre il Boccaccio; il Codice Poggiali (XIV secolo; Biblioteca Laurenziana, Firenze); il Codice Ms. Holkham misc. 48 (XIV secolo; Bodleian Library, Oxford); il Codice Ms. 8530 (XIV secolo; Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi). Riccardo Montenegro febbraio

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Storie, uomini e sapori

Mangiare in bianco per non peccare di Sergio G. Grasso

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elle sue diverse declinazioni culinarie, il «biancomangiare» ha vissuto secoli di gloria gastronomica fino all’Ottocento, per poi essere dimenticato sino agli anni Settanta del Novecento. Riemerso, in Italia e non solo, in versione, se non apocrifa, notevolmente spuria, viene oggi proposto come dessert in molte carte di ristorante e in alcuni ricettari regionali. Si tratta di una crema di colore bianco-avorio, dolce e delicata, realizzata solo con ingredienti bianchi: il latte, le mandorle tritate, l’amido (di riso, mais o grano) o la gelatina e lo zucchero; la stecca di cannella, il baccello di vaniglia e la scorza di limone con cui eventualmente si aromatizza il latte vengono eliminate dopo la sua bollitura. Autorevoli storici della gastronomia e dell’evoluzione del gusto ritengono che nella Roma imperiale esistesse già una nozione del «mangiar bianco». Citano a proposito alcune preparazioni di cereali stracotti, talvolta in latte, e ridotti a crema come la puls punica o farinata cartaginese descritta da Marco Porcio Catone nel libro LXXXV del De agri cultura e altre pultes di apiciana memoria. Degna di nota è la ricetta del budino di riso – ovviamente senza zucchero – che il medico bizantino Antimo, nel VI secolo, propone nel suo De observatione ciborum, dedicato al

re dei Franchi Teodorico II: «Fai bollire il riso in acqua. Quando è cotto toglilo dall’acqua e aggiungi latte di capra. Metti di nuovo al fuoco e cuocilo dolcemente finché ne risulti una massa solida. È da mangiarsi caldo e non freddo senza olio né sale».

Meglio il lardo dell’olio Nei manuali di medicina, come il Tacuinum Sanitatis, scopriamo che il modo migliore per rimuovere gli effetti nocivi dal riso consisteva nel cuocerlo con olio, latte e zucchero, in particolare durante l’inverno. Gli autori medievali, tuttavia, mostrano di preferire il lardo all’olio, il cui uso è riservato ai giorni di magro. Ci sono anche ricette di biancomangiare con il pesce e versioni per i giorni di magro – con latte di mandorle, pesce e olio d’oliva – compaiono in molti manoscritti; c’è chi riconosce a queste preparazioni «vegetaliane» se non un’origine almeno una rielaborazione nordafricana. Le conquiste musulmane avrebbero favorito la diffusione di questa variante in tutto il Nord Africa e nell’Europa meridionale,

fondamentalmente attraverso la cucina medievale di al-Andalus. Il suo centro di irradiazione verso le principali corti cristiane di tutta Europa pare tuttavia essere stata la Sicilia, dove il riso e le mandorle furono introdotti dal X secolo. Nel Medioevo il termine «biancomangiare», «blancmanger» o «bramargèr» non indicava tanto una specifica pietanza, quanto una serie di elaborati gastronomici accomunati solo dal colore bianco di ingredienti tutt’altro che plebei, quali il riso, la carne, il pesce, il latte, il lardo, le mandorle, la farina e il miele. Il valore simbolico e ostentatorio di queste preparazioni risiede proprio nel loro complessivo candore, metafora di purezza, pace, purificazione e auspicio di nuovo inizio. Proprio in questo senso Matilde di Canossa lo fece servire nel corso del fastoso banchetto organizzato nel 1077 per celebrare la riappacificazione fra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV di Franconia. Se ne trova testimonianza in svariate collezioni di ricette gentilizie e aristocratiche in gran

Una versione moderna del biancomangiare: oggi proposto come dessert, il piatto ha origini molto antiche, forse identificabili già in età romana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la somministrazione di una zuppa a base di vegetali a scopo terapeutico, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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CALEIDO SCOPIO non diventa denso. Quindi metterlo su un piatto, aggiungere il burro e cospargere di cannella in polvere». Si ha anche notizia di un calijs olandese (dal latino colare, filtrare) conosciuto in inglese come cullis e in francese come coulis, a base di petto di pollo sfilacciato e cotto nel latte. Tale è la forma in cui viene servito ancor oggi in Turchia il Tavuk gögsü, un budino di latte confezionato con petto di pollo sminuzzato: una prelibatezza un tempo riservata ai sultani ottomani e oggi comune nella ristorazione e nella pasticceria turca. Legami con il Levante arabo si trovano in un codice anglo-normanno del XIV secolo, nel quale si cita il maumenee, un «piatto siriano bianco» definito come blanc desirree, a base di carne schiacciata, latte e farina di grano. Anche nel Liber de Coquina, manoscritto latino anonimo redatto in area meridionale prima del 1314, compare una mamonia, a cui viene spontaneo associare la variante siriana mamuniyya e quella turca muhallabiyya ancora ben vive nelle tradizioni gastronomiche dei rispettivi Paesi. parte dell’Europa medievale. La piú antica ricetta è registrata sotto il nome di hwit moos («poltiglia bianca») in un libro di cucina scritto nella prima metà del Duecento dal danese Henrik Harpestræng, probabilmente tradotto da un precedente manoscritto vernacolare latino o in lingua romanza: «Per fare hwit moos si prenda latte fresco, e pane di grano ben schiacciato e un uovo sbattuto e zafferano ben macinato, e lo si lasci cuocere fino a quando Le mandorle, solitamente tritate, sono uno degli ingredienti ricorrenti nelle varie ricette del biancomangiare.

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In alto miniatura raffigurante la bottega di un venditore di zucchero, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIVinizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

Con ali e zampe di galline La prima menzione di un «blanc mengier» con questo nome si trova tra i condimentis delicatis dominorum degli Enseingnemenz qui enseingnent a apareillier toutes manières de viandes, un rotolo manoscritto del tardo XIII secolo (ms. 7131) oggi alla Biblioteca Nazionale di Francia: «Se si desidera fare blanc mengier, cuocere le ali e le zampe di alcune galline in acqua. Immergere un po’ di riso nel brodo; quindi cuocerlo a fuoco basso. Tritare finemente la carne [delle galline] e cuocere con un po’ di zucchero. Questa [versione] si chiama laceiz. E se volete, cuocete tutto il riso con il brodo o il latte di mandorla. Questa [versione] si chiama angoulee». È interessante notare come il biancomangiare degli febbraio

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La bottega di un venditore di riso in un’altra miniatura tratta da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

Enseingnemenz sia preceduto da una quasi sovrapponibile – benché meno densa poiché senza riso – ricetta di un blanc bruet o zuppa bianca di gallina: «Per il blanc bruet, cuocere le galline nel vino e nell’acqua. Pestare alcune mandorle con un po’ di brodo. Quindi, cuocerli in una pentola grande. Tagliare le galline a bocconcini, disossare, aggiungere alla stessa pentola e far bollire. Condire con mandorle, chiodi di garofano, cannella, pepe lungo, spezie, galangal [radice di una pianta della famiglia dello zenzero e del cardamomo], zafferano, zucchero

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e un po’ di aceto. Mescolare. Quindi c’è una buona zuppa». L’oscuro estensore menziona tre ingredienti approdati, come già detto, in Spagna e Sicilia già prima dell’anno Mille: le mandorle, lo zucchero e il riso. Nella Francia del XIV secolo, le mandorle si consumavano fritte in strutto o candite col miele; venivano coltivate in Provenza, dove erano spesso ridotte in pasta e amalgamate con uova e zucchero sotto forma di «massapàn», evidente storpiatura dell’arabo martaban

(marzapane o «pasta reale»). Il «latte» di mandorla, ottenuto dalla spremitura in acqua delle mandorle tritate, rimase per tutto il Medioevo il principale sostituto del latte animale, sia in virtú della lunga conservazione delle mandorle prima della spremitura, sia in quanto il suo consumo non contravveniva alle regole della Quaresima e dei giorni di magro in cui la Chiesa proibiva di mangiare prodotti e derivati animali. Lo zucchero di canna fu per secoli appannaggio delle popolazioni

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CALEIDO SCOPIO nordafricane che lo esportavano in forma di pani conici il cui peso poteva arrivare anche a venti libbre. La tecnologia di produzione di quel «sale arabo» si vuole portata in Occidente dai crociati di ritorno dalla Terra Santa, permettendo già nel XII secolo ai Veneziani di acquistare sui mercati mediorientali il meno costoso zucchero greggio per poi provvedere autonomamente all’estrazione e raffinazione. Federico II promosse la coltivazione della canna in Sicilia, ma lo zucchero all’epoca degli Enseingnemenz rimaneva ancora un prodotto esotico e di lusso venduto da speziali e farmacisti come elettuario digestivo o sotto forma di preparato galenico, sciroppo, impacco ed enteroclisma; solo i ricchi potevano permettersi di usarlo come dolcificante.

Il riso come medicina Al pari dello zucchero, il riso fu trattato nella Roma imperiale e per tutto l’Alto Medioevo come dispendioso decotto medicamentoso e polvere cosmetica. Attorno al Mille i musulmani lo introdussero in Sicilia, nelle zone di Siracusa e Lentini da dove arrivò in Spagna e quindi, all’alba del XIII secolo, in Francia nella regione di Perpignan. Il riso impiegato come addensante del blanc menger potrebbe essere stato di una varietà a chicco corto, probabilmente brillato o lucidato per facilitare la solubilizzazione dell’amido. Le ricette per il biancomangiare presenti nei quattro manoscritti del celebre Le viandier de Guillaume Tirel dit Taillevent, Grand Cuisinier du Roi de France, compilato piú o meno alla metà del XIV secolo, sono considerate, se non proprio plagi, liberi adattamenti degli Enseignements. La prima ricetta si trova nella sezione etichettata «potages lyans» (zuppe dense): «Blanc brouet de chappons. Cuocere [i capponi] nel vino e nell’acqua.

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Rompere e friggere nello strutto. Pestare le mandorle e la carne scura con i fegatini. Mescolare questo nel brodo e far bollire la carne. Aggiungi zenzero, chiodi di garofano, galangale [una varietà di zenzero], pepe lungo e grani del paradiso [aframomo o pepe della Guinea]. Cospargere di aceto e cuocere il composto. Versare i tuorli d’uovo ben sbattuti. La miscela dovrebbe essere abbastanza densa». L’unica notevole eccezione rispetto agli Enseignements è che in questa ricetta non compare lo zucchero. È stato ipotizzato che, poiché la combinazione di spezie insieme all’uovo in questa versione produrrà una zuppa decisamente non bianca, il termine blanc nel titolo potrebbe essere l’errata trascrizione di blant (blando, delicato), poiché cappone

e mandorle nel Medioevo erano considerati adatti a persone con problemi digestivi. La seconda ricetta del Viandier si trova nella sezione «brouetz et aultres choses» (zuppe e altre cose) e fornisce molte piú informazioni rispetto agli Enseignements. Il piatto finito ora inizia a somigliare piú alle versioni successive perché tutti i solidi vengono filtrati prima di addensarsi, lasciando una preparazione veramente bianca: «Blanc mengier d’un chappon pour un malade. Cuocere un cappone in acqua fino a quando non è ben cotto. Pestare una grande quantità di mandorle con la carne scura del cappone. Quando è ben pestato, mescolare questo con il brodo. Filtrare attraverso un panno ‘di mussola. Cuocere il composto fino febbraio

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Sulle due pagine ancora due miniature tratte da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto, una rivendita di pollame e, a destra, un venditore di pesce. Entrambi gli alimenti compaiono in varie versioni del biancomangiare.

a quando non è abbastanza denso da tagliare. Trasferire in una ciotola. Friggere sei mandorle sbollentate e disporre su metà del piatto. Sull’altra metà mettere i semi di melograno e cospargere di zucchero». Nel già citato Liber de Coquina si trovano due versioni di cibus albus, la prima con farina di riso e la seconda con chicchi interi: «Per fare cibus albus, prendere petti di galline cotti e sfilacciarli in modo piú sottile che si possa. Poi lavare il riso e ridurlo in farina, scolandolo poi attraverso un panno. In seguito, stemperare la suddetta farina di riso con latte di capra o di mandorla. Mettere a bollire in un’olla ben pulita. Quando inizia a bollire, aggiungere i suddetti petti sfilacciati con zucchero bianco e lardo. Togliere il fumo e far bollire moderatamente lontano

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dalla fiamma diretta. Questo riso deve diventare denso, come consuetudine. Quando si serve, mettere sopra zucchero tritato e lardo fritto. Altro modo si fa con riso integro e latte caprino, secondo l’uso al di là delle Alpi [in Francia]. Quando è il momento di servirlo, mettere sopra mandorle soffritte, zucchero e zenzero bianco integro. Questo piatto si chiama in gallico blanc mangier, ovvero cibo bianco».

Cosí parlò l’Anonimo Toscano Con diverse varianti, i mangiaribianchi trovano spazio nei trecenteschi Libre de Sent Soví (1324), nel tedesco Ein Buch von guter spise (1340) e nell’inglese Form of cury (1390). Alla fine di quel secolo l’insigne Anonimo Toscano ne riporta una versione principale:

«De’ blanmangieri. Togli petti di galline, cotti; e posti sopra una tavola falli sfilare piú sottili che puoi. Intanto lava il riso e sciugalo, e fanne farina e cernila con setaccio o stamigna; poi distempera la detta farina del riso con latte di capra o di pecora o d’amandole; e metti a bollire in una pentola ben lavata e netta; e quando comincia a bollire mettivi dentro i detti petti sfilati, con zuccaro bianco e lardo bianco fritto; e guardalo dal fumo, e fallo bullire temperatamente senza impeto di fuoco, sí che sia ispesso, come suole essere il riso. E quando menestrarai, mettivi suso zuccaro trito o pesto, e lardo fritto. Se tu vuoli, puoilo fare col riso intero da per sé, apparicchiato e ordinato col latte di capra, a modo oltramontano; e, quando tu il dai, mettivi su amandole soffritte nel lardo, e zenzovo bianco tagliato».

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CALEIDO SCOPIO Un pudding di riso, piatto tipico della cucina tradizionale indiana del Punjab, che possiamo annoverare tra le varianti del biancomangiare.

A questa fa seguito una redazione quaresimale che sostituisce la carne «colla polpa del pesce, di luccio, ranocchi, o di altro pesce che abbia la polpa bianca e diffilata» e impiega latte di mandorla al posto di quello animale: «Togli amandole monde e sciutte con tovaglia; e pestale fortemente quanto puoi, non mettendovi acqua: poi con un panno lino premile quanto puoi, e l’olio che n’esce mettilo in uno vaso: poi togli le guscie, ovvero cortecce rimaste, e distemperale con l’acqua fredda, e colale con la stamigna o sedaccio; e con quello latte distempera la farina del grano del riso, com’è detto, e metti a bullire come detto è». Nel Libro per Cuoco del trecentesco Anonimo Veneziano – che ispirò Plàtina e Maestro Martino – il bramagere prende questa forma: «Se tu voy fare bramagere per XII persone, toy iiij libre de mandole, e una libra de rixo, e iiij galine, dui libre d’ onto frescho, e una libra e mezza de zucharo, e mezo quarto de garofalli, e toy le mandole, e mondale, e servane quantità de entriegi, e le altre fa maxenare, e maxena e destempera cum aqua chiara pocha, e colale bene per stamegna, e toy lo rixo ben mondo e ben lavato ad aqua chalda e ben raschado, zoè suto con toaglia, e falo pestare lo spiciale, over sedazare, e

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staciare, e toy li petti de le galine e fali lesare pocho, e filali sottile e frigelli in lo onto con pocho focho in una pignata persi, e meti a fogo lo lacte de le mandole, e servane doe scudelle. Quando lo lacte, bolle destempera la farina de lo rixo con quello late crudo, e metile a bolire, e trailo in dreto suso la braxa, e meti incontinente le polpe e sfilato e l’ onto de struto dentro questa vivanda, e mescola spesso, e metigli del zucharo. Quando è coto e tu manestra, mitige de l’aqua rosata per sopra le scutelle, e poy zucharo, e poy mandole sofrite bianche, e poy garofalli. Questa vivanda vole essere biancha como neve, e streta, e potente de specie».

Per i pellegrini di Canterbury Un «blankmanger» viene citato nel prologo dei Racconti di Canterbury scritti da Geoffrey Chaucer nel 1387/1388 come specialità del cuoco che accompagna gli altri ventinove pellegrini al santuario di Canterbury. Di poco posteriore è la ricetta tramandataci da uno dei cucinieri di re Riccardo II d’Inghilterra; ingredienti comuni di questi blankmanger erano il latte, lo zucchero, il pollo sminuzzato (oppure cappone, quaglia pernice), mescolati ad acqua di rose e farina di riso e aromatizzati con

zafferano e cannella. Nella Francia del XIV-XV secolo preparazioni di questo tipo si servivano nei banchetti importanti come entremet (intermezzo) tra gli arrosti e le verdure, spesso colorati col giallorosso dello zafferano, il verde delle ortiche e del giaggiolo acquatico, il viola del papavero, il marrone del sandalo o del mallo di noce. Già nel primo Ottocento il blanc-manger in Francia aveva perso il suo ruolo di entremet e abbandonato l’ingrediente carneo, trasformandosi in un vero e proprio dessert alla moda. Il grande chef Antonin Carême (17841833) osservava: «Questi deliziosi dolci sono molto popolari tra i buongustai, ma per essere assaggiati devono essere estremamente dolci e molto bianchi. Date queste due qualità (cosí raramente combinate), saranno sempre preferite ad altre creme, o anche gelatine trasparenti. Questo perché la mandorla è molto nutriente e contiene proprietà cremose e balsamiche che sono perfette per ammorbidire l’amarezza degli stati d’animo. Piú tardi nello stesso secolo, Alexandre Dumas pubblicò tre ricette di blanc-manger (uno addirittura fritto) nel suo Le grand dictionnaire de cuisine, finché Auguste Escoffier (1846-1935) lo traghettò con successo nel XX secolo. Anche Pellegrino Artusi (1820-1911) si cimentò con una personale ricetta (1891) elencando questi ingredienti: «150 g mandorle, di cui tre amare, 150 g zucchero in polvere, 20 g colla di pesce, panna o fior di latte mezzo bicchiere a buona misura, acqua un bicchiere e mezzo, acqua di fiori d’arancio 2 cucchiai». In Italia se ne contendono la moderna «paternità» la Sicilia, la Sardegna e la Valle d’Aosta. febbraio

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Quando i santi prendevano le armi

Armato fino ai denti di Paolo Pinti

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a Chiesa conferisce la qualifica di santo a «quegli individui i quali avendo praticato in terra le virtú cristiane, sia teologali sia cardinali, in misura eroica, hanno meritato di godere dopo morte la visione beatifica di Dio in cielo». Si tratta, quindi, di esseri umani, che hanno intensamente praticato in terra le virtú cristiane: se questo è il criterio, può dunque sorprendere che l’arcangelo Michele sia anche santo, dal momento che, trattandosi di un essere soprannaturale, si potrebbe dire che «parta avvantaggiato» rispetto ai comuni mortali. Perplessità che non gli hanno comunque impedito di essere dichiarato santo. Per inciso, ricordiamo che gli arcangeli sono superiori agli angeli e nelle Sacre Scritture ne figurano solo tre: Michele, Gabriele e Raffaele. In queste pagine ci occuperemo di san Michele Arcangelo per un motivo ben preciso e cioè per il suo stretto e notorio legame con le armi antiche: in ogni epoca, infatti, è molto spesso raffigurato rivestito di splendide armature e con in pugno una spada o una lancia.

Fotografia della statua di san Michele Arcangelo conservata nella chiesa parrocchiale di Mont-Saint-Michel (Normandia), tratta dal volume Santi e Patroni (1997) di Vera Schauber e Hanss Michael Schindler. Il santo presenta una corona e uno scudo che risultano modificati successivamente; in basso, due armi (una sciabola e una spada militari francesi del XIX sec.), in seguito rimosse.

Patrono delle Forze dell’Ordine

come queste lottano contro la delinquenza, cosí l’Arcangelo lotta contro il demonio. Nell’Apocalisse (XII, 7) si legge: «Michele e i suoi angeli combatterono il drago» e in infinite opere d’arte vediamo il santo con lancia o spada e scudo mentre si batte contro il demonio nelle sembianze di un orribile drago (che ha sempre la peggio). Molto spesso,

Per l’oplologia (la disciplina che si occupa dello studio delle armi antiche) non potrebbe esserci dunque un santo migliore, se non san Giorgio, che è alla pari con lui. San Michele è il Principe della Milizia celeste e proprio per questa sua natura guerresca Pio XII nel 1949 lo ha proclamato protettore delle Forze dell’Ordine:

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Nella pagina accanto la stessa statua come appare oggi: la corona è di diversa morfologia e il disegno sullo scudo è differente; mancano le due armi ottocentesche, rimosse. nella stessa scena, san Michele tiene in mano una bilancia, per pesare le anime, cosí come faceva il dio Anubi nell’antico Egitto, in un’operazione nota come psicostasia. febbraio

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Nel poderoso volume Santi e Patroni di Vera Schauber e Hanss Michael Schindler (Città del Vaticano, 1997), alla voce «Michele Arcangelo», compare la foto di una statua del santo, conservata nella chiesa parrocchiale di MontSaint-Michel (Normandia): va osservata bene, perché l’Arcangelo impugna uno strano scudo a sei lati, con una croce al centro, dalla quale si dipartono dei raggi; con la mano sinistra brandisce una spada dalla lama fiammeggiante (tecnicamente, si parla di lama «a biscia», come quella dei kriss); sul capo ha una vistosa corona ornata di pietre preziose; all’altezza dei piedi, ai lati del corpo del drago vinto, sono visibili due spade «moderne» e, piú esattamente, una sciabola e una spada militari francesi degli inizi del XIX secolo, appoggiate vicino alla nicchia (vedi foto a p. 106).

Una postura innaturale Ebbene, è quasi impossibile imbracciare lo scudo con la destra e la spada con la sinistra e, infatti, la foto è stata stampata al rovescio. Ma non solo. Se facciamo un confronto con molte immagini di questa statua facilmente reperibili anche in rete, oltre ad avere la conferma del rovesciamento della nostra foto, possiamo rilevare altre

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differenze interessanti: la corona è diversa, molto piú bassa e con una grande croce; lo scudo è sempre della stessa forma; ma al centro la croce è diversa; le due spade non compaiono piú. Si deve quindi dedurne che la foto pubblicata da Schauber e Schindler nel 1997 documenti una situazione piú antica, poi modificata. Inoltrandoci nella ricerca sull’iconografia dell’Arcangelo, lo vediamo raffigurato in tre modi diversi: in abito «angelico», cioè con vesti lunghe, ricche di pieghe, come nei famosi dipinti di Giovanni Gerolamo Savoldo, senza alcun richiamo alle armi, limitate alla spada o alla lancia, brandite contro il drago-demonio; interamente ricoperto da un’armatura a piastra, perfettamente descritta (quasi sempre) in ogni particolare e rispondente in tutto e per tutto a modelli «moderni» all’epoca della realizzazione dell’opera (dipinto o scultura); sempre in armatura, ma del tipo convenzionalmente chiamato «all’eroica», con la difesa del tronco sagomata con chiari richiami a quelle degli imperatori e di alti ufficiali d’epoca romana. In questo ultimo caso, mancano – di solito – elementi databili con apprezzabile precisione, trattandosi di un’idealizzazione, di un modello classicheggiante, senza tempo.

In alto e nella pagina accanto, in alto formelle facenti parte della decorazione della facciata della chiesa di S. Pietro a Spoleto. Fine del XII-XIII sec. In alto, san Michele Arcangelo, senza armi, riesce a sottrarre al demonio l’anima di un defunto (che san Pietro ha liberato dai legami), mentre un diavolo – sorpreso mentre cerca di barare sul peso della bilancia – viene punito dallo stesso san Pietro che lo picchia con le sue chiavi. Nella pagina accanto, in alto, san Michele, disarmato, è costretto a battere in ritirata, dopo che i diavoli sono riusciti a impossessarsi dell’anima del defunto. Il primo tipo è presente, fra l’altro, nelle sculture visibili nell’eccezionale facciata della chiesa di San Pietro a Spoleto (vedi foto in queste pagine) e databili tra la fine del XII e il XIII secolo.

L’imbroglio del diavolo L’esame di queste opere offre straordinari spunti di riflessione, per la singolarità e rarità del loro significato. In una (vedi foto in alto) si vedono tre figure. Le due ai lati raffigurano entrambe san Pietro (riconoscibile dalle chiavi che tiene in mano), che libera dai legami l’anima del defunto (a destra) e colpisce/punisce (a sinistra) il diavolo, che sta maldestramente imbrogliando sul peso dell’anima, tirando a sé il piatto della bilancia: febbraio

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A sinistra un’altra formella della chiesa di S. Pietro a Spoleto. San Michele Arcangelo uccide il drago/diavolo con la lancia (rectius: spiedo). Ha una lunga veste, molto angelica, e non indossa un’armatura: però, all’altezza della vita si notano dei «pendoni», tipici di una difesa detta «all’eroica» o «all’antica» e, quindi, dobbiamo considerare «in armi» questa figura. Si noti il diverso spiegamento delle ali, dovuto a motivi di spazio entro la formella.

bilancia gestita, come sappiamo, da san Michele Arcangelo, posto al centro, con abiti lunghi e ali spiegate, senza armi o armature, con l’espressione soddisfatta per la vittoria sul demonio e che indica col dito un cartiglio tenuto da costui, che reca la scritta DOLEO Q(UIA) AN(TE) E(RAT) MEUS («Mi lamento perché prima era mio»). Godibilissima è la scenetta di san

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Pietro che picchia con le chiavi il diavolo, preso con le mani nel sacco. Ma nella seconda formella, le cose vanno diversamente (vedi foto in questa pagina, in alto): qui i diavoli sono due e stanno straziando il povero defunto tirandogli i capelli (a sinistra) e standogli sopra a cavalcioni. All’estrema sinistra è rappresentato un dannato immerso a testa in giú in una caldaia e che

potrebbe essere un soggetto diverso, già nelle mani del demonio, oppure potrebbe raffigurare una fase successiva dell’impossessamento della stessa anima di quello sul letto. A destra, la bilancia pende – questa volta senza trucchi diabolici – dalla parte dell’Inferno e il nostro san Michele, vista la mala parata, si affretta ad andarsene: si notano il passo di corsa e la mano che indica

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CALEIDO SCOPIO In basso San Michele Arcangelo, scomparto del Polittico di Scanzo, tempera e oro su tavola di Bartolomeo Vivarini. 1488. Bergamo, Accademia Carrara. Qui l’Arcangelo è dotato di un’armatura completa, da cavaliere, perfettamente descritta in tutte le parti.

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Qui accanto San Michele Arcangelo, olio su seta di Guido Reni. 1635 circa. Roma, chiesa di S. Maria della Concezione. Il santo indossa un busto (difesa del tronco) all’eroica, con i classici «pendoni» alla vita e sulle spalle. In basso San Michele sconfigge gli angeli ribelli, olio su tela di Luca Giordano. 1660-1665. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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San Michele Arcangelo, scomparto di polittico, tempera, oro e pastiglia su tavola di Michele Giambono. 1443-1445. Venezia, Gallerie dell’Accademia. Il santo è in armatura completa da cavaliere (si vede la «resta»). Il pittore è autore anche di un San Crisogono a cavallo, conservato nella chiesa di S. Trovaso a Venezia, del 1450, pure con un’armatura fedelmente rappresentata, importante per la storia dell’evoluzione dell’armamento difensivo. Al fianco ha una spada con lama a sezione rombica, adatta per colpi di punta, le cosiddette stoccate, e l’elso ha i bracci dritti, piegati verso l’alto alle estremità, esattamente come quella nella notissima Pala Strozzi di Gentile da Fabriano, del 1453, agli Uffizi di Firenze.

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eloquentemente l’impossibilità di fare qualcosa, in una situazione disperata (forse il defunto le aveva fatte proprio grosse). La sua espressione è tesa, rabbuiata, mentre si allontana dal teatro della lotta, vestito da semplice angelo e senza armi o armatura.

Una continua evoluzione Il secondo tipo è costituito da armature a piastra, che rappresentano fedelmente l’armamento difensivo in uso al momento e che sono estremamente importanti per la datazione dell’opera d’arte, proprio perché queste sono oggetto di continua evoluzione – non sempre coerente o universale – e sono databili con notevole precisione. Per fare alcuni esempi: nel San Michele Arcangelo (fine del XV secolo) di Cristoforo Faffeo, conservato nel Museo Diocesano Donnaregina di Napoli, oppure nella tempera di Bartolomeo Vivarini (1430/1432 circa-post 1491) dell’Accademia Carrara di Bergamo, del 1488 (vedi foto alla pagina accanto, a sinistra). In questi dipinti l’Arcangelo indossa armature complete, descritte in ogni dettaglio, utili per lo studio delle armi antiche, come nel San Michele Arcangelo del polittico di Michele Giambono nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia (vedi foto qui accanto): davvero una fotografia di un’armatura reale. Il terzo tipo è il piú diffuso ed è quello, per esempio, del quadro di Guido Reni, San Michele Arcangelo (1635 circa), conservato a Roma in S. Maria della Concezione, in via Veneto (vedi foto nella pagina accanto, in alto): forse uno dei quadri piú famosi su tale soggetto. Lo ritroviamo, fra numerosissimi esempi, nel San Michele sconfigge gli angeli ribelli (1660-1665), di Luca Giordano, appartenente alle collezioni del Kunsthistorisches Museum di Vienna (vedi foto nella pagina accanto, in basso).

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Claudia Cenci Il cavaliere longobardo di Monticello di Fara

Sap Società Archeologica, Quingentole (Mantova), 120 pp., ill. col.

18,00 euro ISBN 9788899547691 www.saplibri.it

La necessità di realizzare un nuovo acquedotto nell’Ovest vicentino ha permesso di individuare – grazie alle attività di archeologia preventiva – un importante contesto

di età longobarda a Monticello di Fara, nel comune di Sarego (VI). Diretti dal funzionario archeologo Claudia Cenci per conto della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Verona, Rovigo e Vicenza tra settembre e dicembre 2020, gli scavi hanno riportato alla luce un’ampia necropoli connessa a un edificio di culto cristiano. Tra le numerose sepolture indagate

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spicca la cosiddetta «Tomba del cavaliere», caratterizzata da uno straordinario corredo in armi, comprendente un umbone di scudo con placchette raffiguranti animali acquatici (un unicum a oggi nel panorama nazionale), una lancia, cuspidi di frecce, la spatha, uno sperone e alcune guarnizioni ageminate della cintura multipla e di sospensione. Restaurati con il contributo di Veneto Acque, i materiali sono stati studiati ed esposti al pubblico a poco piú di un anno dalla conclusione dei primi scavi presso il Museo Zannato di Montecchio Maggiore nel maggio del 2022, grazie a un accordo che ha visto coinvolti anche il comune di Sarego e la rete museale Agno-Chiampo. Allo scavo e ai reperti rinvenuti è dedicata questa pubblicazione, in cui si è volutamente scelto di utilizzare un linguaggio divulgativo, supportato dai notevoli disegni ricostruttivi del cavaliere e del suo corredo, nel rispetto del rigore scientifico del metodo archeologico. Curato dal direttore scientifico delle indagini archeologiche, il volume, che è aperto

dalla presentazione di Vincenzo Tiné, ha visto il contributo di numerosi studiosi ed esperti del settore, tra cui Caterina Giostra dell’Università Cattolica di Milano. Sono presentati i dati di scavo, lo studio dei materiali e il catalogo completo di tutti i reperti indagati e restituiti i risultati delle analisi organiche e delle indagini eseguite con microscopio elettronico a scansione. Particolare rilievo è stato dato anche ai disegni ricostruttivi, che hanno unito il rigore scientifico e un tratto dalla resa stilisticamente accattivante, cosí da agevolare l’interpretazione dei reperti anche per i non addetti ai lavori. Giampiero Galasso Cristina Acidini Alessandro Cecchi (a cura di) Michelangelo: le opere giovanili Nuove acquisizioni e

Officina Libraria, Roma, 258 pp., ill. col.

25,00 euro ISBN 978-88-3367-202-1 www.officinalibraria. net

Il volume prende spunto dal recente restauro di due opere giovanili di Michelangelo Buonarroti: la

Madonna della scala e la Battaglia dei centauri (vedi «Medioevo» n. 303, aprile 2022; anche on line su issuu. com). Quando ultimò la prima, nel 1490, l’artista aveva appena quindici anni ed era apprendista alla scuola del Giardino di San Marco. Non molto piú tardi, fra il 1491 e il 1492, portò a termine anche la seconda, offrendo un ulteriore ed eloquente saggio del suo talento. Doti che proprio il restauro ha contribuito mettere in risalto, in particolare grazie alle operazioni di pulitura dei due rilievi che hanno fatto emergere la maestria del pur giovanissimo Michelangelo nel saper ricavare con scalpelli e gradine, dalle stesse superfici lavorate, effetti cromatici e di luce di impressionante vigore. Grazie ai contributi di una folta e autorevole schiera di specialisti,

nel volume vengono dunque ripercorse sia la vicenda artistica, sia le molte e importanti acquisizioni scaturite dall’intervento condotto sulle due opere. I primi contributi mirano, in particolare, a inquadrare il contesto entro il quale Buonarroti mosse i primi passi di una carriera destinata a farne uno dei massimi protagonisti dell’arte di ogni tempo. E la ricostruzione del suo percorso viene sviluppata ponendo a confronto la Madonna della scala e la Battaglia dei centauri con altre opere ascrivibili al medesimo periodo o agli anni immediatamente successivi. Seguono quindi gli interventi di natura piú tecnica, a partire dai criteri seguiti nella musealizzazione dei rilievi, tornati a far bella mostra di sé nella Sala dei marmi del Museo di Casa Buonarroti, in un allestimento realizzato ad hoc. Di non minore interesse sono le pagine dedicate ad aspetti specifici della campagna di restauro, che preludono alle conclusioni del volume. Stefano Mammini febbraio

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