Medioevo n. 312, Gennaio 2023

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MEDIOEVO n. 312 GENNAIO 2023

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SOMMARIO

Gennaio 2023 ANTEPRIMA IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Capitani coraggiosi APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE RESTAURI

Branda Castiglioni

Il velo ritrovato

di Elena Percivaldi

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22 COSTUME E SOCIETÀ VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/13 Una giornata particolare di Corrado Occhipinti Confalonieri

ARMI E ARMAIOLI Un’eccellenza italiana di Maria Paola Zanoboni

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QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Sette dolori per un mistero di Paolo Pinti 108 LIBRI Lo Scaffale

Dossier In un mondo di fate

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di Domenico Sebastiani

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Abruzzo

Come un nido d’aquila di Franco Bruni

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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Quando la cucina era un inferno di Sergio G. Grasso 100

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MEDIOEVO Anno XXVII, n. 312 - gennaio 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Paolo Silvestri: copertina (e p. 94) – Opera di Santa Maria del Fiore: Antonio Quattrone: pp. 5-10 – Museo della Collegiata di Castiglione Olona: Open Care spa: pp. 22, 25 (alto), 28-29, 30 – Shutterstock: pp. 31, 92/93 – Doc. red.: pp. 22/23, 24/25, 26/27, 3235, 38/39, 42-50, 54-57, 58/59, 60/61, 62-65, 70, 74/75, 79, 84/85 – The Art Institute of Chicago, Chicago: pp. 36-37, 40 – Mondadori Portfolio: Album/Prisma: pp. 38, 102, 108 (alto); AKG Images: pp. 41, 58; Index/ Heritage Images: p. 61; Erich Lessing/K&K Achive: p. 69; CM Dixon/Heritage Images: pp. 70/71; Age: p. 72; Album/ Quintlox: pp. 76/77; Album/Collection Kharbine-Tapabor: pp. 80, 103; Fototeca Gilardi: pp. 82-83, 90/91; Album/ Fine Art Images: pp. 88/89; Historic England/Heritage Images: pp. 101, 104; Album/Oronoz: p. 105; The Print Collector/Heritage Images: p. 106 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 66/67 – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: p. 73 – National Gallery of Art, Washington: pp. 86/87 – Franco Bruni: pp. 95 (alto), 96-99 – Cortesia dell’autore: pp. 108 (basso), 109, 110-111, 112 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 25, 95. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina il castello di Roccascalegna (Chieti, Abruzzo).

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medioevo nascosto

dossier

Herleve e il duca innamorato

Dov’è la tomba di papa Alessandro IV?

Vilnius, capitale del Medioevo


il medioevo in

rima

agina

Capitani coraggiosi

S

ono tornati a far bella mostra di sé, nel Duomo di Firenze, i magnifici ritratti ad affresco dei condottieri Giovanni Acuto e Niccolò da Tolentino, rispettivamente realizzati da Paolo Uccello e Andrea del Castagno. Si è infatti concluso nelle scorse settimane il restauro che li ha interessati e le due opere sono state liberate dai ponteggi montati per consentire l’intervento degli specialisti. Di dimensioni quasi uguali – il monumento a Giovanni Acuto misura 855 x 527 cm e quello a Niccolò da Tolentino 833 x 512 cm – solo in cenotafio realizzato da Paolo Uccello

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è firmato, ed è la prima volta che l’artista sigla una sua opera: «in un gesto di orgogliosa rivendicazione». Nel tempo, i due capolavori erano già stati piú volte oggetto di restauri che li hanno segnati in maniera indelebile. Al 1524, risale il primo intervento, per mano del pittore Lorenzo di Credi che realizzò al contempo anche la cornice «a candelabre» sull’affresco di Paolo Uccello. Nel 1688 le due opere furono «rinvigorite» in occasione delle nozze del Principe Ferdinando, figlio di Cosimo III dei Medici, con Violante di Baviera. Visto il cattivo stato di conservazione,

I monumenti equestri a Niccolò da Tolentino (a sinistra) e Giovanni Acuto, affrescati, rispettivamente, da Andrea del Castagno (1455) e Paolo Uccello (1436). Firenze, Duomo, navata sinistra.

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nel 1842 il restauratore Giovanni Rizzoli, con un’operazione molto ardita, li distaccò dalla parete e li pose su una tela di canapa intelaiata solo ai lati. Mentre il pittore Antonio Marini intervenne con un consistente restauro pittorico. Invece di rimetterli al suo posto, i due affreschi furono collocati nella controfacciata dove rimasero fino al 1946.

Il ritocco delle lacune Di nuovo in cattive condizioni, nel 1953, sarà la volta dell’importante intervento condotto da Dino Dini che, oltre a rimuovere i rifacimenti

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dei precedenti restauri e a fare un ritocco pittorico sulle lacune, toglierà i due affreschi dalla tela, ponendoli su un supporto rigido costituito da masonite temperata e un telaio in alluminio. Nel restauro del 2000, eseguito da Daniela Dini, le due opere sono state sottoposte a completa pulitura e a un vasto ritocco pittorico a velatura tonale nelle lacune. L’intervento di restauro odierno ha avuto un carattere preventivo e conservativo. Per eliminare la polvere piú superficiale si è intervenuti con una spolveratura con pennelli morbidi su tutta pittura, mentre quella piú

Particolari del monumento equestre a Niccolò da Tolentino, affresco di Andrea del Castagno. 1455. Firenze, Duomo.

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Il volto di Giovanni Acuto nel monumento equestre affrescato per lui da Paolo Uccello. 1436. Firenze, Duomo.

profonda è stata rimossa con una leggera pulitura a tampone con ovatta di cotone idrofilo e acqua deionizzata e carta giapponese interposta, cercando al tempo stesso di mantenere il piú possibile il ritocco pittorico precedente di grande entità. Infine, è stato effettuato un puntuale ritocco pittorico, a velature tonali, nelle lacune tramite l’impiego di pigmenti naturali (vegetali e/o minerali).

Giovanni e la «Compagnia bianca» Al di là delle vicende legate al restauro, vediamo ora come si arrivò alla creazione dei due dipinti. Con il suo esercito, chiamato «Compagnia bianca», composto da duemila arcieri gallesi dotati di enormi archi, alti quasi due metri, l’inglese John Hawkwood, soprannominato a Firenze Giovanni Acuto (1323-1394), è stato un leggendario condottiero e capitano di ventura a servizio di vari Stati e infine della Repubblica fiorentina. Nell’agosto del 1393, quando era in procinto di lasciare Firenze, la Repubblica fiorentina ordina l’esecuzione di un cenotafio scultoreo in suo onore in Duomo, cosa assolutamente eccezionale per una personalità ancora in vita. Al tempo però l’Opera di Santa Maria del Fiore non riesce a dare corso all’esecuzione del monumento. Un anno dopo, nel marzo del 1394, Giovanni Acuto muore e sarà sepolto con grandi onori nella Cattedrale di Firenze e in seguito le sue spoglie traslate nella città natale per volere del re d’Inghilterra Enrico II. Trascorso un anno dalla morte dell’Acuto, il progetto di realizzare una tomba in marmo in Duomo sarà ripreso ma abbandonato a favore di un affresco dipinto da Agnolo Gaddi e da Giuliano d’Arrigo detto Pesello. Una commissione che si inserisce in un contesto di opere celebrative destinate a fare di Santa Maria del Fiore un pantheon di personalità eminenti della storia fiorentina del Tre e Quattrocento. Quasi mezzo secolo dopo, il 26 maggio del 1436, l’Opera di Santa Maria del Fiore delibera di realizzare un cenotafio a Giovanni Acuto e appena 4 giorni dopo, il 30 maggio, il nome di Paolo Uccello compare per la prima volta in un vero e proprio contratto, dove si richiede espressamente che il monumento sia realizzato in «terra verde». La commissione implicava il rifacimento del precedente affresco del Gaddi e del Pesello, che doveva essersi nel frattempo deteriorato. Dopo un mese l’affresco del condottiero era

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terminato, ma ecco il colpo di scena: non viene ritenuto idoneo dai committenti e se ne ordina il rifacimento. A Paolo Uccello viene imposto di replicare il dipinto che sarà completato entro l’agosto del 1436, giusto in tempo per la solenne inaugurazione della Cupola del Brunelleschi il 30 agosto. A Paolo gli sarà data in aggiunta la cifra di 64 lire: «per sua faticha e prezzo di dipigniere due volte la persona e chavallo di messer Giovanni Aghuto». Dopo la seconda e definitiva versione dell’affresco, il 17 dicembre 1436, l’Opera chiede a Paolo Uccello di cambiare anche l’iscrizione posta sul sarcofago che riproduce le ultime righe di un panegirico a Fabio Massimo: DUX AETATIS SUAE CAUTISSIMUS ET REI MILITARIS PERITISSIMUS HBITUS EST. La commissione a Paolo Uccello del cenotafio a Giovanni Acuto non è l’unica per il Duomo di Firenze e dimostra come l’artista fosse considerato una figura di primo piano. Nel febbraio 1443 gli viene commissionata la dipintura del quadrante dell’orologio in controfacciata e due mesi piú tardi la doratura della stella delle lancette e la stesura dell’azzurro sulla superficie sottostante. Nello stesso anno viene incaricato di disegnare due vetrate degli occhi della Cupola: la Resurrezione, la Natività e l’Annunciazione, quest’ultima andata perduta nel 1828. Il secondo monumento ha una storia piú breve e lineare. Dopo aver combattuto per i Malatesta ed essere passato al servizio dei Fiorentini, Niccolò da Tolentino (1350 circa-1435) per le sue gesta fu nominato capitano generale di Firenze. Fu lui a guidare, riportando la vittoria, la terribile battaglia di San Romano (1432), resa immortale da Paolo Uccello nel celebre trittico conservato agli Uffizi, al Museo del Louvre e alla National Gallery a Londra.

Funerali alla presenza del papa Quando morí, nel 1435, si ha testimonianza di una grande folla alle sue esequie a cui partecipò anche papa Eugenio IV. Vent’anni piú tardi, nell’ottobre del 1455, la Signoria di Firenze delibera di onorare la memoria del condottiero con un monumento in Duomo conforme «in modo e forma» a quello dell’Acuto, che sarà terminato l’anno successivo, come da pagamento conclusivo registrato dall’Opera di Santa Maria del Fiore, per una cifra di 24 fiorini. Dei tempi cosí stretti tra la progettazione del monumento dipinto e la sua esecuzione fanno pensare a una particolare attenzione della Si-

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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

gnoria, forse motivata dai rapporti di amicizia in vita tra Niccolò da Tolentino e Cosimo il Vecchio. Andrea del Castagno aveva già lavorato per l’Opera di Santa Maria del Fiore nel 1444, come fornitore di cartoni per le vetrate, e poi nel 1446 per aver dipinto un giglio e due spiritelli sull’organo del Duomo, un Agnus Dei e per la doratura dello stesso strumento. Avviato alla fine di maggio del 2022, il restau-

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ro è stato commissionato e diretto dall’Opera di Santa Maria del Fiore – sotto la tutela della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato – e reso possibile grazie ad American Express. L’intervento è stato affidato alla restauratrice Daniela Dini, che già nel 2000 si era occupata delle due opere. (red.)

La testa del cavallo di Giovanni Acuto nel monumento affrescato per lui da Paolo Uccello. 1436. Firenze, Duomo.

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AGENDA DEL MESE

Mostre SIENA ARTE SENESE. DAL TARDO MEDIOEVO AL NOVECENTO NELLE COLLEZIONI DEL MONTE DEI PASCHI DI SIENA Santa Maria della Scala fino all’8 gennaio

Raccontare la storia dell’arte senese dal tardo Medioevo al Novecento grazie a capolavori conservati nelle collezioni della Banca Monte dei Paschi di Siena: è questo l’obiettivo della mostra allestita nel Complesso Museale Santa Maria della Scala. Opere di maestri del calibro di Pietro Lorenzetti, Tino di Camaino, Stefano di Giovanni detto il Sassetta, Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Domenico Beccafumi, Bernardino Mei, Cesare Maccari e Fulvio Corsini permettono di ripercorrere il secolare amore di Siena per le arti figurative, attraverso alcune grandi personalità artistiche capaci di affermarsi in patria e non solo, dando conto dello straordinario valore delle collezioni della Banca Monte dei Paschi di Siena, indissolubilmente legate alla città, alla sua memoria e ai suoi valori. Le collezioni sono costituite da un numero

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a cura di Stefano Mammini

impressionante di dipinti, sculture e arredi, per lo piú di scuola senese dal XIV al XIX secolo, non senza interessanti incursioni sul Novecento italiano. Esse sono il frutto di una prolungata sedimentazione storica, avviata con vere e proprie committenze da parte di una pubblica istituzione fondata nel 1472, e proseguita in tempi piú vicini a noi con importanti acquisizioni e con l’allestimento, negli anni Ottanta del secolo scorso, di veri e propri spazi museali nell’antica chiesa di S. Donato, all’interno della sede storica di piazza Salimbeni. La raccolta è stata peraltro incrementata grazie a nuclei di opere provenienti dalle banche incorporate nel corso degli anni e, particolarmente, con l’acquisizione di una parte della celebre Collezione Chigi Saracini di Siena: una delle piú importanti collezioni private italiane, che ancora oggi si conserva nel palazzo di via di Città. Di tutto ciò la mostra offre una ponderata selezione, focalizzata sulle maggiori testimonianze della scuola senese, celebre in tutto il mondo. info tel. 0577 286300; e-mail: booking@operalaboratori.com; www.verniceprogetti.it

MANTOVA PISANELLO. IL TUMULTO DEL MONDO Palazzo Ducale fino all’8 gennaio

La mostra è pensata in occasione dei 50 anni dall’esposizione curata da Giovanni Paccagnini, con la quale fu presentata una delle piú importanti acquisizioni nel campo della storia dell’arte nel XX secolo: la scoperta nelle sale di Palazzo Ducale di Mantova del ciclo decorativo di tema cavalleresco dipinto a tecnica mista intorno al 14301433 da Antonio Pisano, detto il Pisanello. L’esposizione fa parte di un programma di ampia visione e lungo periodo per la valorizzazione dell’opera e della Sala dedicata all’artista, insieme all’attigua Sala dei Papi. Verrà infatti ripensato in maniera permanente l’allestimento dell’intero ambiente per la migliore fruizione di un ritrovamento eccezionale del patrimonio artistico italiano. Il progetto prevede di restituire una leggibilità completa delle pitture, strappate e ricollocate oltre cinquant’anni fa, grazie a un nuovo sistema di illuminazione e a una pedana sopraelevata che per la prima volta pone il visitatore a distanza ravvicinata dalle pareti (oggi il pavimento si trova a una quota piú bassa di ben 110 cm di quando l’opera fu

realizzata). Circa 30 opere, tra cui prestiti internazionali, quali i capolavori del Pisanello la Madonna col Bambino e i santi Antonio e Giorgio della National Gallery di Londra, per la prima volta in Italia dalla sua «partenza» nel 1862, e i disegni del Museo del Louvre di Parigi; ma anche l’Adorazione dei Magi di Stefano da Verona dalla Pinacoteca di Brera di Milano e, non da ultimo, la preziosa Madonna della Quaglia, una tavola giovanile di Pisanello, considerata tra le opere simbolo del Museo di Castelvecchio di Verona, disponibile anche in virtú di un accordo di valorizzazione in essere tra i due musei sui rapporti artistici tra Verona e Mantova. info tel. 0376 352100; https:// mantovaducale.beniculturali.it; Call Center: tel. 041 2411897; www.ducalemantova.org MILANO LE PIETÀ DI MICHELANGELO. TRE CALCHI STORICI PER LA SALA DELLE CARIATIDI Palazzo Reale. Sala delle Cariatidi fino all’8 gennaio

L’esposizione consente di apprezzare l’arte e l’inventiva michelangiolesca attraverso il confronto di tre calchi otto-

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novecenteschi, in ideale continuità con la mostra appena conclusa con grande successo al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Le tre Pietà di Michelangelo, nella forma dei loro calchi in gesso, giungono ora a Milano, dove sono eccezionalmente riunite, in uno spettacolare ed emozionante allestimento, nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. Il calco della Pietà di S. Pietro della Città del Vaticano fu realizzato nel 1975 all’interno del Laboratorio Calchi e Gessi dei Musei Vaticani da Ulderico Grispigni; l’occasione della sua realizzazione giunse in un momento drammatico per la Pietà ovvero l’atto vandalico del 1972 ai danni della scultura, che resero necessaria la preparazione di un nuovo calco. Il calco della Pietà di S. Maria del Fiore a Firenze, detta Pietà Bandini, conservato nella collezione della Gipsoteca fiorentina dell’Istituto d’Arte di Porta Romana, risale al 1882 circa e si deve al formatore fiorentino Oronzo Lelli. Il calco della Pietà Rondanini fu commissionato nel 1953 al formatore milanese Cesare Gariboldi, allo scopo di determinare al meglio e in totale sicurezza, durante le prove di allestimento della statua in marmo, l’ubicazione ideale per la scultura, conservata dal 1952 nel Castello Sforzesco. Oggi esposto in mostra dopo una accurata pulitura, è conservato nei depositi del Museo d’Arte Antica. info www.palazzorealemilano.it NEW YORK I TUDOR. ARTE E REGALITÀ NELL’INGHILTERRA RINASCIMENTALE The Metropolitan Museum of Art fino all’8 gennaio

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MOSTRE • La Carità e la Bellezza Milano – Palazzo Marino, Sala Alessi

fino al 15 gennaio info tel. 800 167619; e-mail: serviziculturali@civita.art; www.comune.milano.it

È

tornato l’appuntamento natalizio con l’arte di Palazzo Marino, che questa volta riunisce quattro capolavori dell’arte fiorentina e toscana, tutti realizzati tra il Tre e il Quattrocento. Carità è la splendida scultura realizzata da Tino di Camaino, rimasta per circa due secoli all’ingresso del Battistero del Duomo di Firenze, monumento-simbolo dell’identità fiorentina, e successivamente ospitata presso il Museo dell’Opera del Duomo. Lo stile dello scultore, allievo di Giovanni Pisano, predilige forme semplici, solide, impostate su volumi geometrici, ed è del tutto paragonabile a quello utilizzato, nello stesso periodo, da Giotto. La figura allegorica della Carità è una donna che si occupa di due bambini, allattandoli al seno. L’Adorazione dei Magi, raffinatissimo tabernacolo del Beato Angelico, gioiello del Museo di San Marco, è stato realizzato intorno al 1430 ed è il frutto di una combinazione di tecniche tra pittura, miniatura, oreficeria e intaglio. Oltre a offrire un tema squisitamente natalizio, il tabernacolo offre un saggio della sensibilità di Beato Angelico verso i colori, che scintillano preziosi sull’oro del fondo. La Madonna col Bambino di Filippo Lippi, proveniente da Palazzo Medici Riccardi, è una delle ultime e piú compiute opere su tavola del pittore, che la realizzò negli anni Sessanta del Quattrocento, appena prima di trasferirsi a Spoleto per affrescare l’abside del Duomo. Quarta opera in mostra, la Madonna col Bambino dipinta intorno all’anno 1500 da Sandro Botticelli e oggi conservata nel Museo Stibbert. Dopo aver raggiunto l’apice della fama e della carriera al tempo di Lorenzo il Magnifico, negli anni che seguono la morte del suo mecenate (1492) Botticelli è fortemente impressionato dalle predicazioni apocalittiche di Gerolamo Savonarola. Un’inquietudine che si riflette sulla sua produzione artistica di quest’ultimo scorcio di vita, che lascia intatto il suo straordinario talento pittorico ma condiziona la sua intensa resa poetica.

Dall’ascesa al trono di Enrico VII nel 1485 alla morte, nel 1603, di sua nipote, la regina Elisabetta I, la casata dei Tudor fece delle arti uno strumento di legittimazione e celebrazione del proprio potere. Una stagione rievocata dalla rassegna allestita dal Metropolitan di New York, che si avvale di una ricca selezione di opere, oltre un centinaio, che comprendono dipinti, arazzi, sculture, armature e altri oggetti d’arte, provenienti dalle collezioni del museo stesso e frutto di importanti prestiti. All’epoca dei Tudor, l’Inghilterra accolse una folta comunità internazionale di artisti e mercanti e le corti dei regnanti che si succedettero in quegli anni furono pienamente

cosmopolite, avvalendosi dell’operato di scultori fiorentini, pittori tedeschi, arazzieri fiamminghi e dei migliori armaioli, orefici e stampatori: ingegni e talenti che contribuirono all’emergere di un autentico e originale stile inglese. In mostra si possono ammirare le opere realizzate durante il regno dei cinque sovrani Tudor: Enrico VII, Enrico VIII, Edoardo VI, Maria I ed Elisabetta I. E altrettante sono le sezioni tematiche in cui si articola il percorso espositivo, che concorrono a definire l’immagine assunta dalle residenze dei Tudor, nelle quali la vastità e lo sfarzo dei saloni e delle gallerie si alternavano all’intimità delle alcove. info www.metmuseum.org

MILANO L’ORANTE (…NEL TUO NOME ALZERÒ LE MIE MANI…) Complesso monumentale di S. Eustorgio fino al 15 gennaio

L’esposizione prende spunto dal frammento di un’epigrafe funeraria paleocristiana, rinvenuta nell’area del cimitero nel Complesso Monumentale di S. Eustorgio, raffigurante un defunto, probabilmente un soldato o un funzionario della burocrazia imperiale, con le braccia allargate e innalzate nell’atteggiamento dell’orante. Oltre a questo reperto, a


AGENDA DEL MESE ispirare il progetto espositivo è il versetto del Salmo 63 «Cosí ti benedirò per tutta la vita: nel tuo nome alzerò le mie mani», e l’intento è quindi quello di raccontare il gesto dell’orante nell’atto di alzare le mani verso il cielo, presente nell’iconografia paleocristiana cosí come oggi nel momento della recita del Padre Nostro. La mostra si divide in sei sezioni che, attraverso le immagini, portano all’attenzione del pubblico la tipologia del gesto, analizzandola non solo da un punto di vista storicoarcheologico, ma anche e soprattutto nel significato profondo del rapporto del devoto con Dio. info www.museosanteustorgio.it; Facebook e Instagram:

quadro inedito della produzione artistica fiorita a Tolosa nel XIV secolo. A quell’epoca la città era fra le piú importanti di Francia, con Parigi, Lione, Orléans e Rouen e conobbe una vera e propria età dell’oro soprattutto nella prima metà del Trecento. Inglobata nel regno di Francia nel 1271, Tolosa seppe comunque conservare il suo carattere originale e si rese protagonista di una significativa crescita economica, traendo vantaggio dall’insediamento dei papi ad Avignone, per via degli stretti legami dei pontefici francesi con l’Università tolosana e con gli Ordini mendicanti insediati in città. Del tutto dà conto la mostra, che nella prima parte documenta l’organizzazione di Tolosa e la vita quotidiana dei suoi abitanti, mentre nella seconda riunisce una serie di pregevoli opere d’arte, che fanno da contorno a quattro statue provenienti dalla scomparsa cappella di Rieux. info www.musee-moyenage.fr

museodisanteustorgio

TREVISO PARIS BORDON 1500-1571. PITTORE DIVINO Museo Santa Caterina fino al 15 gennaio

Treviso dedica al suo piú grande pittore, Paris Bordon (1500-1571), definito dallo storiografo veneziano Marco Boschini, il «Divin Pitor» – termine che ha usato solo per Raffaello e Tiziano – la piú ampia rassegna monografica mai realizzata finora con opere eccezionali, molte delle quali mai esposte in Italia. L’esposizione racconta la creatività e la qualità straordinaria dell’opera dell’allievo di Tiziano, riunendo i suoi capolavori provenienti dai piú prestigiosi musei del mondo. È Giorgio Vasari a considerare Paris Bordon l’unico allievo di Tiziano meritevole di attenzione, tanto da dedicargli una lunga appendice nella biografia del Vecellio nell’edizione del 1568 delle Vite. Non esistono opere e documenti capaci di fare

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chiarezza sulle date del suo apprendistato, ma di certo sappiamo che nel 21 giugno 1518 Paris è indicato come «pictor habitator in Venetiis in contrata Sancti Iuliani». Il giovane pittore non tarda a dimostrare una certa emancipazione dal maestro, volgendo il suo interesse alle nuove tendenze introdotte da Palma il Vecchio e dal Pordenone. La mostra intende riscoprire proprio la varietà, l’originalità e la ricchezza della produzione del genio trevigiano riunendo insieme i suoi sensuali ritratti femminili, le rappresentazioni mitologiche, le scene sacre delle grandi pale d’altare e le piccole opere destinate alla devozione privata. A coronamento della visita in mostra viene proposto un itinerario di confronti e

rimandi, curato dal direttore dei musei cittadini, Fabrizio Malachin, per riscoprire capolavori della Pinacoteca del Museo Santa Caterina o disseminati all’interno del territorio trevigiano e veneto. info tel. 0444 326418; e-mail: mostraparisbordon@gmail.com; www.mostraparisbordon.it PARIGI TOLOSA 1300-1400. LA FIORITURA DI UN GOTICO MERIDIONALE Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo fino al 22 gennaio

Il nuovo progetto espositivo proposto dal Museo Nazionale del Medioevo si avvale delle acquisizioni scaturite dagli studi piú recenti per tracciare un gennaio

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BRESCIA LA CITTÀ DEL LEONE. BRESCIA NELL’ETÀ DEI COMUNI E DELLE SIGNORIE Museo di Santa Giulia fino al 29 gennaio

Forte di una selezione di 120 opere, la mostra indaga per la prima volta su una fase storica fondamentale per la costituzione dell’identità della città e del suo territorio, prendendo in esame un arco cronologico che parte dalla seconda metà del XII secolo, epoca in cui compaiono le prime tracce delle istituzioni civiche comunali, al 1426, anno della dedizione a Brescia alla Repubblica di Venezia. Si tratta di un’epoca segnata da importantissime trasformazioni, in cui la città crea la sua forma e la sua identità dal punto di vista architettonico, con il baricentro nella piazza, su cui affacciano il palazzo comunale e le cattedrali, e anche sul versante

politico, affermando il suo primato nel territorio. Esplorando l’origine e l’evoluzione di quegli elementi che ne hanno forgiato il carattere viene indagata la nascita di alcuni simboli civici arrivati fino ai nostri giorni: dallo stemma del leone rampante, vero emblema identitario urbano reso celebre da Carducci che lo associò

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gennaio

all’eroismo della città martire delle Dieci giornate, fino ai culti civici dei santi Faustino e Giovita, alle Sante Croci e alla figura della Vergine che ha una posizione centrale nella devozione civica di Brescia medievale, simboli che ritmano tuttora il calendario delle festività cittadine. info www.bresciamusei.com ROMA ROMA MEDIEVALE. IL VOLTO PERDUTO DELLA CITTÀ Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 5 febbraio

dal contesto ambientale, oggi profondamente modificato, come il corso del Tevere con porti e ponti dove si svolgevano vita e attività urbane. L’immersione nella realtà del Medioevo romano si approfondisce poi esaminando le ricche committenze di papi e cardinali, l’attività di artisti e botteghe, il fascino della città come imprescindibile méta di pellegrinaggio anche per re e imperatori. Ricchi apparati didattici illustreranno in mostra i molteplici volti dell’indiscussa capitale dell’Europa medievale. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museodiroma.it BOLOGNA GIULIO II E RAFFAELLO. UNA NUOVA STAGIONE DEL RINASCIMENTO A BOLOGNA Pinacoteca Nazionale fino al 5 febbraio

Riscoprire il volto perduto della Roma fra VI e XIV secolo e il suo ruolo cardine nell’Europa cristiana e medievale sia per i semplici pellegrini sia per regnanti e imperatori. Questo l’obiettivo della nuova mostra allestita negli spazi del Museo di Roma in Palazzo Braschi. Articolato in 9 sezioni, il percorso espositivo nasce con lo scopo di far conoscere aspetti poco noti del patrimonio dell’Urbe, attraverso una selezione di oltre 160 opere tra mosaici, affreschi e opere mobili, provenienti prevalentemente da raccolte e collezioni pubbliche romane e da luoghi di culto, oltre che da prestigiose istituzioni museali come i Musei Vaticani. Parte, infatti, dalla scoperta della città medievale attraverso i suoi luoghi piú iconici, quali basiliche e palazzi, ma anche

Il Ritratto di Papa Giulio II della Rovere, uno dei capolavori di Raffaello, viene eccezionalmente esposto alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, opera clou della mostra «Giulio II e Raffaello. Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna». Giulio II fu il pontefice che assoggettò Bologna allo Stato della Chiesa, cambiando profondamente il corso della storia cittadina e avviando, anche grazie alla presenza di artisti come Bramante e Michelangelo, una nuova stagione del Rinascimento in città. Il Ritratto è un dipinto a olio su tavola, commissionato da papa della Rovere a Raffaello e realizzato a Roma intorno al 1511-1512. Oltre alla versione conservata alla National Gallery di Londra, se ne conoscono diverse copie, alcune anonime, altre di importanti artisti come quella attribuita a Tiziano, conservata

alla Galleria Palatina di Firenze. Si tratta di esemplari che testimoniano l’interesse per il personaggio effigiato e per il modello interpretativo raffaellesco, che rimane dominante nella ritrattistica dei papi per la gran parte degli artisti nei secoli successivi. Vasari e Lomazzo parlano di un ritratto del papa realizzato da Raffaello presente nella basilica di S. Maria del Popolo a Roma. L’opera, passata nella collezione Borghese nel 1608, era stata in seguito venduta all’imperatore Rodolfo II e da allora se ne erano perse le tracce. Nel 1976 uno studioso della National Gallery di Londra sciolse l’enigma del dipinto, che era stato acquistato nel 1824 dal museo e che si trovava in Inghilterra dalla fine del Settecento. Fu ritrovato infatti sulla tavola un numero d’inventario, il 118, che si scoprí corrispondere con quello della Galleria di Scipione Borghese al 1693. Le analisi scientifiche hanno poi confermato l’autografia raffaellesca e un restauro ha restituito la qualità pittorica dell’opera, fino ad allora nascosta sotto strati di vernice ingiallita. info www.pinacotecabologna. beniculturali.it BRUGES FACCIA A FACCIA CON LA

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AGENDA DEL MESE MORTE. HUGO VAN DER GOES, UNO SGUARDO NUOVO SUGLI ANTICHI MAESTRI Ex ospedale di S. Giovanni fino al 5 febbraio

Cuore del progetto espositivo realizzato negli spazi dell’ex ospedale di S. Giovanni è la Morte della Vergine, un magnifico olio su tavola al quale Hugo van der Goes lavorò fra il 1475 e il 1483. Recentemente sottoposto a restauro, il dipinto è contornato da una settantina di opere selezionate fra la collezione permanente del Museo di Bruges e concesse in prestito da varie raccolte europee. La Morte della Vergine è stata oggetto di un intervento condotto fra il 2018 e il 2022, i cui risultati si sono rivelati di estremo interesse sia per l’apprezzamento della composizione e delle sue caratteristiche originarie, sia per un migliore inquadramento critico di van der Goes, che è stato di stimolo per l’avvio di nuovi studi sulla sua figura. Fra i maestri che lo affiancano nella mostra, possiamo segnalare i nomi di Hans Memling, Petrus Christus, Geertgen tot Sint-Jans, Jan Provoost e Albrecht Bouts. info www.museabrugge.be MACERATA CARLO CRIVELLI. LE RELAZIONI MERAVIGLIOSE Palazzo Buonaccorsi e altre sedi fino al 12 febbraio

Il progetto espositivo dedicato a Carlo Crivelli (1430/1435 circa-1495) invita a scoprire le meraviglie della pittura di uno dei maestri del Rinascimento, attraverso una terra ricca di storia e arte. Il percorso parte da Macerata, all’interno di Palazzo Buonaccorsi, con 7 dipinti di Crivelli selezionati con l’intento di riportare nel territorio di

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provenienza alcune opere e prosegue in 8 comuni della Regione Marche (Corridonia, San Ginesio, Sarnano, Monte San Martino, San Severino Marche, Serrapetrona, Belforte del Chienti e Camerino) che conservano lavori dell’artista o a esso fortemente collegati in una serie di, come suggerisce il titolo del progetto, relazioni meravigliose. Pittore inquieto, sperimentatore, pieno di grazia e di genio, Carlo Crivelli è una delle figure piú intriganti del XV secolo. Veneziano di nascita, in seguito a una vicenda giudiziaria in cui fu coinvolto, abbandona la laguna giungendo prima a Zara per poi trasferirsi nelle Marche (dal 1468 al 1495), influenzando in modo definitivo la storia dell’arte di quel territorio e non solo. Ignorato da Giorgio Vasari, sconosciuto per decenni, riscoperto e adorato soprattutto dagli artisti preraffaelliti inglesi, conteso

dai collezionisti del mondo, Carlo Crivelli a oggi è una figura indipendente che proietta il suo fascino, fatto di invenzioni sempre diverse, perfezione tecnica e mistero. info www.musei.macerata.it CITTÀ DEL VATICANO DALLA SPADA ALLA CROCE. IL RELIQUIARIO DI SAN GALGANO RESTAURATO Musei Vaticani fino al 18 febbraio

Un furto clamoroso, nel 1989, dal Museo del Seminario Arcivescovile di Siena. Uno straordinario recupero, piú di trent’anni dopo, grazie al Comando dei Carabinieri, Tutela Patrimonio Culturale. E infine il restauro, eseguito nei Laboratori dei Musei

Vaticani. È questa l’occasione per inaugurare la mostra «Dalla Spada alla Croce. Il reliquiario di San Galgano restaurato». Al centro della vicenda vi sono una croce astile, due pissidi, cinque calici e, soprattutto, un capolavoro della produzione orafa senese del XIV secolo, il Reliquiario di San Galgano, oggetto mirabile e di intensa devozione popolare. Su di esso, decorate finemente in preziosi smalti traslucidi, sono raffigurate le scene della vita del santo e della sua spada. Secondo la tradizione, Galgano sarebbe nato nel borgo senese di Chiusdino. Cavaliere appartenente alla piccola nobiltà locale, si convertí alla vita ascetica ed eremitica dopo le visioni dell’Arcangelo Michele, come rappresentato nelle sei scene del Reliquiario. Condusse la sua vita monastica nell’Eremo di Montesiepi, da lui edificato su una collina vicina al luogo dove sarebbe sorta l’Abbazia. Morí, secondo le fonti, il 30 novembre 1181. Appena quattro anni dopo fu convocata una commissione di inchiesta, che indusse papa Lucio III a proclamarlo santo nel 1185. A Galgano è attribuito nella sua rappresentazione iconografica, il celebre segno della spada conficcata nella roccia che diventa una croce davanti alla quale inginocchiarsi e pregare. La sua fama tuttavia si afferma sullo sfondo della diatriba fra Papato e Impero sulle «investiture» e nel contesto dell’espansione dell’Ordine gennaio

MEDIOEVO


Cistercense grazie all’opera di san Bernardo di Chiaravalle. info tel. 06 6982 o 69883145 o 69884676; e-mail: info.mv@ scv.va; www.museivaticani.va MONZA STREGHERIE. FATTI, SCANDALI E VERITÀ SULLE SOVVERSIVE DELLA STORIA Villa Reale fino al 26 febbraio

La mostra riunisce stampe antiche firmate dai maggiori incisori e artisti degli ultimi

supplizi e le pene da fare soffrire a chi era accusato di stregoneria. E poi ancora un bulino di Albrecht Dürer del 1501 raffigurante La strega a rovescio sul caprone, le xilografie del Maestro del Virgilio di Grüninger del 1502, Il giovane principe impara la magia di Hans Burgmair, del 1515, e La strega e il palafreniere di Hans Baldung Grien del 1544/45. info www.stregherie.it VENEZIA IL RINASCIMENTO IN FAMIGLIA: JACOPO E GIOVANNI BELLINI, CAPOLAVORI A CONFRONTO Gallerie dell’Accademia fino al 12 marzo

due secoli e da straordinari illustratori anonimi dimenticati, presentando scene di malefici, torture, sabba osceni, crudi episodi di stregoneria ma anche scene luminose di streghe buone, zingare che guariscono bambini dalle malattie e simboli magici nascosti in quadri pastorali. Si tratta di un centinaio di opere, scelte all’interno della collezione Guglielmo Invernizzi. Tra i pezzi della raccolta vi sono alcuni trattati immancabili in un percorso dedicato alla stregoneria, fra i quali spicca il Malleus Maleficiarum, il piú consultato manuale sulla caccia alle streghe, nella pregiata edizione del XVI secolo, nel quale sono indicati caso per caso i

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gennaio

Lo scambio di opere importanti con musei italiani e stranieri ha dato alle Gallerie dell’Accademia la possibilità di creare nuovi racconti, intrecciare nuove storie con dipinti della collezione permanente, parlare di iconografia, di provenienze, di stile. Visto il successo degli appuntamenti già realizzati, il museo presenta ora il nuovo programma Nelle Gallerie, dedicato alle occasioni di incontro e relazione tra opere e istituzioni. Ospite d’onore è questa volta un dipinto giovanile di Giovanni Bellini la Madonna col Bambino, nota anche come Madonna Trivulzio, dalla Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano. L’opera è allestita accanto alla preziosa Madonna col Bambino benedicente e cherubini di Jacopo Bellini – parte della collezione permanente – a cui il restauro appena concluso ha restituito una sorprendente leggibilità nei valori formali e della tecnica esecutiva. Stupefacente è la brillantezza emersa dagli azzurri, costituiti da azzurrite nei cherubini e molto probabilmente da blu

oltremare nel manto della Vergine, dai rossi dipinti a vermiglione e lacca, cui le lumeggiature in oro a conchiglia conferiscono un crepitante scintillio. I due dipinti si possono ammirare nella sala III del primo piano dove sono riuniti altri dipinti eseguiti dai Bellini, la piú importante impresa familiare della Venezia quattrocentesca, in un arco di tempo compreso dagli anni Quaranta agli anni Sessanta: le opere qui presenti di Giovanni e Gentile testimoniano in modi e gradi diversi il cammino avviato per affrancarsi dal linguaggio piú arcaico del padre Jacopo, aprendosi alle novità del

linguaggio rinascimentale elaborate a Padova da Francesco Squarcione e Andrea Mantegna, sulla base degli stimoli ivi introdotti da Donatello. info tel. 041 5222247 oppure 2413942; www.gallerieaccademia.it ROVERETO GIOTTO E IL NOVECENTO MartRovereto fino al 19 marzo

Il museo roveretano presenta 200 opere di artisti moderni e contemporanei ispirate a Giotto, il maestro che rivoluzionò la pittura medievale. Il percorso comincia con una

grande installazione immersiva che riproduce la Cappella degli Scrovegni di Padova, capolavoro assoluto del pittore toscano, e continua fra le creazioni di grandi autori e autrici del XX secolo accomunati dalla passione per la figura di Giotto, studiato, imitato, o preso a modello di perfezione e spiritualità. Nel primo Novecento Carlo Carrà, Mario Sironi e Arturo Martini, ma anche Gino Severini, Massimo Campigli, Achille Funi, Ubaldo Oppi, rintracciarono in Giotto il principale testimone di un’eternità alla quale guardare. Pochi decenni piú tardi, gli insegnamenti giotteschi influenzano l’opera di alcuni protagonisti dell’arte italiana come Giorgio Morandi, Fausto Melotti, Mario Radice, Lucio Fontana, ma anche il lavoro di grandi artisti internazionali come Henri Matisse, Yves Klein, Mark Rothko, Josef Albers e Tacita Dean. info tel. 800 397760 oppure 0464 438887; e-mail: info@ mart.trento.it; www.mart.trento.it TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile

La mostra si inserisce nel progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei

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AGENDA DEL MESE musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it BOLOGNA L’ALTRO RINASCIMENTO. ULISSE ALDROVANDI E LE MERAVIGLIE DEL MONDO Museo di Palazzo Poggi fino al 10 aprile

Il progetto espositivo, realizzato in occasione del

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cinquecentenario della nascita di Ulisse Aldrovandi (15221605), accompagna il visitatore in un viaggio alla scoperta di un episodio del Rinascimento tanto importante quanto poco conosciuto, perché messo in ombra dai capolavori dell’arte e dell’architettura che tutto il mondo riconosce: il risveglio delle scienze naturali. Se gli artisti avevano cercato di imitare e superare i capolavori della classicità, i filosofi le idee, e gli umanisti la letteratura, negli ultimi decenni del Cinquecento Ulisse Aldrovandi e un piccolo gruppo di naturalisti, medici e farmacisti italiani decisero di ripercorrere le orme di Aristotele e di Plinio,

fatto da Aldrovandi alla città, sia alle raccolte dell’Istituto delle Scienze creato piú tardi da Luigi Ferdinando Marsili. «L’altro Rinascimento» riunisce infatti molti dei «gioielli» custoditi dall’Alma Mater, in gran parte mai esposti prima, fra i quali il Codice Cospi, uno dei soli tredici codici precolombiani sopravvissuti al mondo, alcune delle piú antiche mappe del mondo conosciuto, i volumi con le tavole illustrate fatte dipingere da Aldrovandi, e naturalmente la collezione naturalistica del grande scienziato bolognese, unica arrivata sino a noi nella sua quasi interezza, oltre che la piú grande, importante e

trasformandosi da umanisti in scienziati. Cominciarono a raccogliere collezioni che diventeranno i musei di storia naturale e fecero realizzare le prime vere immagini della natura, creando un immaginario della natura che è ancora il nostro. Della straordinaria vicenda di questo manipolo di proto-scienziati si sarebbero perse le tracce, se l’Università di Bologna non avesse conservato nelle sue collezioni e nella sua biblioteca un patrimonio eccezionale di oggetti, immagini, libri e manoscritti, legati sia al lascito

famosa del suo tempo. info e-mail: aldrovandi500@unibo. it; www.unibo.it/aldrovandi500; facebook: sma.museiunibo; palazzopoggi.museiunibo; instagram: @museiunibo; youtube: Sistema Museale di Ateneo-Università di Bologna; hashtag: #Aldrovandi500

anche le parole di Melania Mazzucco: il tutto a creare un’inedita «mostra racconto». Nessun pannello storicoartistico, nessuna didascalia che vada oltre l’essenzialità, solo le meravigliose creazioni dei Bassano e l’intenso filo del racconto della vita dei Dal Ponte, poi noti al mondo appunto come «i Bassano», protagonisti indiscussi della pittura del Rinascimento veneto. La loro epopea ebbe inizio con la discesa, correva l’anno 1464, a Bassano di Jacopo di Berto, conciatore di Gallio, nell’Altopiano di Asiago. Giunto sulle rive del Brenta, Jacopo trovò dimora in Contra’ del Ponte da cui deriverà il cognome futuro della celebre famiglia di pittori. Suo figlio Francesco, poi detto il Vecchio perché primo della dinastia, cominciò ad avventurarsi nell’arte della pittura. Alchimista dilettante, cartografo e decoratore piú che grande artista, Francesco dette vita a creazioni d’arte sacra che rispondevano alle richieste del mercato locale avviando un’eterogenea, attivissima bottega. Qui collaborano i figli, Giambattista e Jacopo, giovane di immenso talento che, con il

BASSANO DEL GRAPPA I BASSANO. STORIA DI UNA FAMIGLIA DI PITTORI Museo Civico fino al 2 maggio

A raccontare le vicende della dinastia dei Bassano non sono soltanto le loro opere, ma gennaio

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suo pennello, avrebbe scritto pagine indelebili della storia dell’arte e della pittura italiana e non solo. Genio mite e riservato, è a lui che si deve il cambio di passo: quella che sino ad allora era soprattutto una forma di artigianato decorativo prende la valenza di grande arte. Arte coltivata, con successo, anche dai suoi figli – il talentuoso e melanconico Francesco il Giovane, Giambattista, e poi i diligenti Leandro e Gerolamo, fino al nipote Jacopo Apollonio che disegnava di nascosto – ai quali «il Bassano» seppe trasmettere amorevolmente la sapienza e la poesia della sua arte. I loro dipinti, ammantati da un ineffabile «mistero del quotidiano», conquistarono il mercato internazionale: grandi quadri di devozione sacra destinati alle chiese, ma anche ritratti, commoventi notturni e intense pastorali che, dalla piccola Bassano, giunsero ad arricchire le grandi collezioni reali, da quella di Rodolfo II a Praga, alla Madrid di Filippo II, giungendo fino alle Americhe. Una storia che si conclude quando Jacopo Apollonio, formatosi sotto la guida dello zio Leandro, realizza le ultime repliche prodotte sui disegni e i modelli del nonno Jacopo. La storia dei Bassano, una vera e propria epopea per immagini iniziata sul finire del Quattrocento, esce cosí di scena avendo all’attivo oltre un secolo di grandissima fortuna. info tel. 0424 519901; e-mail: biglietteriamusei@comune. bassano.vi.it; www.museibassano.it

facendo di ciascun visitatore l’eroe di un’avventura inedita, che ha luogo all’epoca dei Franchi: è questo il sorprendente risultato della mostra attualmente allestita negli spazi del castello di Saint-Germain-en-Laye, che propone un approccio decisamente inconsueto al tema affrontato, che è quello dell’età merovingia e del suo primo sovrano, Clodoveo. Il percorso espositivo, ludico e interattivo al tempo stesso, rievoca dunque i tratti distintivi del primo Medioevo, dispensando nozioni di storia e archeologia. Ai visitatori è data la possibilità di vestire i panni di un personaggio vissuto al tempo dei Merovingi e di costruire un proprio «percorso di vita», grazie a un’applicazione

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE

web o a libri-gioco. La fruizione delle diverse risorse – giochi, libri, video – è totalmente libera e ciascuno può scegliere la soluzione che preferisce, diventando attore della visita ed eroe della storia che ha confezionato. info www.museearcheologienationale.fr

IL MONDO DI CLODOVEO Musée d’Archéologie nationale fino al 22 maggio

ACQUI TERME (ALESSANDRIA)

Il Museo d’archeologia nazionale si trasforma in un grande gioco di fuga collettivo,

GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO

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gennaio

Museo Archeologico di Acqui Terme 27 maggio

fino al

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it TORINO

museo – cosí come di altri musei di arte asiatica in ambito europeo? E ancora: quali sono i problemi posti dalla conservazione e dal restauro, subordinati al gusto e alle tecniche che cambiano nel tempo? Qual è il rapporto fra buddhismo e nuove tecnologie? Da queste domande prende avvio la nuova mostra «Buddha10», un progetto che parte dalle opere presenti nelle collezioni per aprire prospettive piú ampie relative a questioni che riguardano il museo, le sue collezioni e su cosa significa gestire, custodire e valorizzare un patrimonio di arte asiatica in ambito occidentale. Nelle sale dedicate alle esposizioni temporanee, in uno spazio essenziale ed evocativo, oltre venti grandi statue buddhiste in legno o pietra di epoche diverse (dal V al XIX secolo) delle collezioni del MAO sono accostate ad alcune sculture – tra cui oltre trenta bronzetti votivi della collezione Auriti e due straordinarie teste scultoree in pietra di epoca Tang (618-907 d.C.) – provenienti dal Museo delle Civiltà di Roma, con cui il Museo ha avviato una proficua e articolata collaborazione, e a un importante prestito proveniente dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova. info tel. 011 4436927; www.maotorino.it

BUDDHA10. FRAMMENTI, DERIVE E RIFRAZIONI DELL’IMMAGINARIO VISIVO BUDDHISTA MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 3 settembre

Quali significati hanno gli oggetti rituali presenti nelle collezioni del MAO e come venivano utilizzati e percepiti nel loro contesto originario? Perché e come sono entrati a far parte del patrimonio del

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aso unico al mondo, la città di Istanbul si estende su due continenti, l’Europa e l’Asia, qui divisi dalle acque del Bosforo. La storia di quella che è oggi una vera e propria metropoli ebbe inizio con ogni probabilità per mano di coloni greci, dopo i quali molte furono le genti che s’insediarono sul Corno d’Oro, segnando piú di una «rinascita». Dopo che Costantino ne aveva fatto la Nuova Roma, la città divenne la capitale dell’impero bizantino, per poi trasformarsi nella splendida culla del potere ottomano. Una vicenda plurisecolare, dunque, che il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre e documenta in maniera puntuale, evidenziandone i passaggi cruciali e sottolineando l’importanza dei suoi protagonisti, fra i quali si annoverano grandi condottieri, sultani, nonché uomini di scienza e cultura, come il celebre architetto Sinan. Soprattutto, l’Istanbul di oggi conserva straordinarie testimonianze di quel passato: ecco perché i suoi monumenti, dalle antiche mura bizantine agli splendidi edifici a cupola delle moschee ottomane, contrassegnate dallo slancio dei tanti minareti, rappresentano pagine di storia aperte. Sono il racconto, vivo, di una città tra Europa e Oriente, tra Cristianesimo e Islam, tra passato e futuro.

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GLI ARGOMENTI

28/11/22 19:26

• Le origini • Da Bisanzio a Costantinopoli • La conquista selgiuchide • Istanbul e i suoi tesori • Alla ribalta della storia: Maometto II, Solimano il Magnifico, Sinan



restauri branda castiglioni

Il velo

ritrovato

di Elena Percivaldi

Nel 1935 il sepolcro di un importante umanista e mecenate, il cardinale Branda Castiglioni, viene aperto per indagarne il contenuto. La sorpresa è grande: la tomba appare intatta e le spoglie dell’alto prelato sono coperte da un magnifico manufatto tessile. Andato misteriosamente perduto ma poi ricomparso, il prezioso reperto è stato recentemente sottoposto a un sapiente restauro. Oggi, il suo «ritorno» accompagna i festeggiamenti per i 600 anni della Collegiata di Castiglione Olona...

Sulle due pagine il calco del monumento funebre del cardinale Branda Castiglioni, realizzato in cemento Duralbo. Castiglione Olona (Varese), antibattistero. A sinistra operazioni di microaspiratura condotte nel corso dell’intervento di restauro eseguito sul velo funebre del cardinale Branda Castiglioni.

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ascosto in una tomba per secoli, ritrovato negli anni Trenta del Novecento e subito dopo «dimenticato» fino al restauro odierno, che ne ha svelato finalmente tutti i segreti. È il velo funebre del cardinale Branda Castiglioni (1350-1443), l’umanista e mecenate che, tra Medioevo e Rinascimento, fece di Castiglione Olona (Varese), una «città ideale» dell’umanesimo. Il manufatto è stato restaurato nell’ambito di «Restituzioni», il programma condotto da Intesa Sanpaolo in collaborazione con il Ministero della Cultura allo scopo di salvaguardare

e valorizzare il patrimonio artistico nazionale. Dopo essere stato esposto per quattro mesi a Napoli il prezioso velo, finora trascurato dagli studiosi, è tornato nel borgo sepriese nel nuovo allestimento del Museo della Collegiata. Un evento che si inquadra all’interno del fitto programma di celebrazioni per il sesto Centenario della Collegiata di Castiglione Olona, eretta nel 1422 per iniziativa di Branda Castiglioni e oggi conosciuta come uno dei piú splendidi esempi di stile gotico lombardo. (segue a p. 26)


restauri branda castiglioni

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Vescovo e mediatore Branda Castiglioni nacque a Castiglione Olona nel 1350. Vescovo di Piacenza, fu deposto dalla sua cattedra da papa Gregorio XII per aver aderito al Concilio di Pisa (1409). Venne quindi creato cardinale (1411) dall’antipapa Giovanni XXIII e inviato come legato pontificio in Germania, Boemia e Polonia. Ai concili di Costanza e Basilea appoggiò Eugenio IV. Operò come mediatore tra la Chiesa e Filippo Maria Visconti. Aperto alle idee umanistiche, commissionò a Masolino da Panicale gli affreschi per la chiesa di S. Clemente a Roma e per quella del suo paese natale, nel quale morí nel 1443.

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SVIZZERA TRENTINOALTO ADIGE

Lago Maggiore

Lago di Como

Varese

PIEMONTE

In alto un’altra immagine del restauro del velo funebre. A sinistra Madonna col Bambino che benedice il cardinale Branda Castiglioni alla presenza dei santi Lorenzo, Clemente, Ambrogio e Stefano, e simboli dei quattro evangelisti, lunetta che sormonta l’ingresso della Collegiata di Castiglione Olona. 1428.

Lago di Garda

Castiglione Olona Bergamo

Monza Milano

Lumezzane

Cortenuova Brescia

VENETO

Crema Vigevano

Pavia

P i a n u r a Pa d a n a

Cremona

Mantova

Voghera

EMILIA-ROMAGNA

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restauri branda castiglioni Era il pomeriggio del 13 giugno 1935 quando il sepolcro di Branda Castiglioni fu aperto davanti alle autorità e ai giornalisti accorsi per vedere il volto dell’uomo al quale si doveva la trasformazione di Castiglione Olona in quella che Gabriele d’Annunzio definí «Isola di Toscana in Lombardia». Si sospettava infatti che i resti del cardinale, morto il 3 febbraio 1443 a Castiglione dopo aver percorso come legato pontificio gran parte dell’Europa orientale, fossero stati prelevati dal grande sarcofago di marmo che lo ritrae, collocato nella Collegiata da lui fondata, per essere sepolti, in applicazione alle nuove norme di disciplina ecclesiastica funeraria volute da Carlo Borromeo, sotto il pavimento della chiesa.

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Grande fu quindi lo stupore degli astanti quando, all’apertura del sepolcro, la cassa fu trovata al suo posto e intatta, ancora rivestita della pece che la sigillava da quasi cinque secoli.

Con la mitra sul capo

«Trasportata nell’abside e aperta – si legge nella breve relazione pubblicata allora da Pio Bondioli nel Notiziario di Aevum – mostrò il cadavere del celebre prelato, nella stessa posizione che lo raffigura la scultura del sarcofago: la mitra sul capo, un ampio paludamento intorno al corpo, guanti bianchi sulle mani incrociate sul petto, calze nere ai piedi. L’abito era costituito dal saio scuro agostiniano, al quale nella

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parte superiore era stata cucita una lunga striscia di porpora, a ricordare l’umiltà del frate e la grandezza del cardinale. Il teschio, a cui aderivano ancora i tegumenti della pelle annerita, rivelava nell’ampiezza della fronte, nella profondità delle orbite e nella forza della mascella inferiore il temperamento volitivo del Castiglioni, rappresentante tenace e generoso dell’ortodossia cattolica ai tempi di Martino V ed Eugenio IV, e insieme fautore entusiasta degli studi umanistici e mecenate d’artisti». Ma le sorprese non erano ancora finite. Sopra la bara venne rinvenuto un foglio di pergamena con il curriculum vitae di Branda: «tre paginette di chiaro carattere notarile» come le definisce il Bondioli che ne

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fu il primo editore, in un latino piuttosto scolastico ma che costituisce a oggi la sintesi piú completa e attendibile della sua vita. Lo straordinario documento, ora custodito presso l’Archivio Storico della Parrocchia di Castiglione Olona, era opera di Giovanni da Olmütz, il prete moravo che il cardinale chiamò a Castiglione per dirigere la scuola di grammatica e di canto del borgo da lui stesso fondata. Sorprendentemente la relazione non fa alcuna menzione del velo, né esso viene citato nei numerosi articoli di giornale usciti nei giorni seguenti il soVeduta d’insieme del velo funebre del cardinale Branda Castiglioni, morto il 3 febbraio 1443 a Castiglione Olona.

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restauri branda castiglioni

pralluogo. Neppure la Soprintendenza, né la diocesi, schedarono il manufatto. Le ragioni della sconcertante «dimenticanza» potrebbero ricercarsi, forse, nel fatto che fosse consuetudine che il viso di un defunto venisse coperto da un telo, peraltro immediatamente tolto dopo l’apertura della cassa per accertarsi dello stato dei resti. Cosí come può darsi che il velo sia stato sottratto furtivamente, e quindi ovviamente non dichiarato, insieme agli altri frammenti dei vestimenti – tra i quali una porzione di stola, un fiocco dei guanti, un pezzo di feltro e i calzari – che saranno in seguito esposti nel Museo della Collegiata insieme al velo, prima del prelievo per il recente restauro.

Il restauro e l’analisi

L’intervento, molto impegnativo a causa della fragilità e delle precarie condizioni di conservazione del tessuto, è stato svolto da Milena Gigante di Open Care Milano, che ha operato sotto la direzione delle funzio-

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narie della Soprintendenza competente Tania De Nile, Benedetta Chiesi, Sonia Segimiro in accordo con l’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Milano. I dettagli si possono leggere nel corposo volume Restituzioni 2022. Tesori d’Arte restaurati (Edizioni Gallerie d’Italia-Skira). Grande cautela ha richiesto in particolare la delicatezza del buratto, l’esile tessuto in lino che fa da supporto al ricamo in seta con losanghe e fiori. A differenza del filet, che è una rete di nodi, il buratto è realizzato a telaio, con i fili alternati di ordito, dall’andamento sinuoso, e i fili di trama dritti a formare la garza di supporto al ricamo. Il suo consolidamento ha quindi permesso la sopravvivenza del manufatto. Costituito da fiori e foglie in lino intagliato, il bordo del velo ha richiesto una cura ancor piú attenta perché gli elementi decorativi apparivano attorcigliati su se stessi e i filati metallici, fissati con seta a seguire il disegno, erano in parte scomposti e slegati: una volta disteso il bordo e ricuciti nella corretta posizione i gennaio

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Sulle due pagine alcune fasi del restauro del velo funebre. A sinistra, un test di pulitura; in basso, operazioni di consolidamento.

filati, è quindi scaturita «una nuova e sorprendente leggibilità». Le analisi del velo hanno inoltre evidenziato tracce di colle animali e la presenza disomogenea di microrganismi: potrebbe trattarsi di collagene proveniente dal volto del cardinale, a contatto del quale il tessuto era stato steso al momento della deposizione nel sepolcro.

I seicento anni della Collegiata

Il sesto Centenario della Collegiata di Castiglione Olona, eretta il 7 gennaio 1422 in virtú di una bolla di papa Martino V, verrà celebrato fino al 2025, anniversario della consacrazione della chiesa, avvenuta il 25 marzo 1425. Ricco è il programma degli eventi, che costituisce un’occasione irripetibile per raccontare anche la figura del suo illustre e affascinante fondatore. Tra gli appuntamenti, si segnalano l’esposizione del citato curriculum vitae del cardinale, fino a oggi mai mostrato al pubblico, il Palio dei Castelli, organizzato dalla Pro Loco di Castiglione Olona nel nome di Branda Castiglioni, e i concerti, uno dei quali ha visto l’esecuzione del mottetto Nuper rosarum flores di Guillaume Dufay (1397 circa-1474), ascoltato da Branda nel 1436 nella sua prima esecuzione, avvenuta a Firenze durante la consacrazione della Cattedrale di S. Maria del Fiore.

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restauri branda castiglioni In questa pagina confronto tra una porzione del velo prima (a sinistra) e dopo l’intervento di restauro. Nella pagina accanto veduta panoramica di Castiglione Olona (Varese). Sulla sinistra, si staglia la Collegiata fondata dal cardinale Branda Castiglioni.

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Particolarmente importante – e foriero di sorprese – si è rivelato inoltre il restauro, avviato nel luglio 2021, del calco della lastra tombale del cardinale, realizzato nell’estate del 1935 in occasione della ricognizione della salma, quando si approfittò della rimozione della pietra per effettuarne una copia a scopo didattico che rendesse apprezzabile la scultura originale, poco visibile in quanto posta a ridosso di un basso arco tra il presbiterio e l’abside sinistra della Collegiata. Preparando l’avvio dei lavori, l’attuale conservatrice del Museo ha reperito in Archivio un documento che ha consentito di precisare il materiale con il quale fu realizzata la copia: non gesso, come a lungo si è creduto, ma cemento Duralbo, dal caratteristico colore bianco. Negli anni Trenta del Novecento il cemento Duralbo ebbe grande diffusione – grazie alle sue qualità estetiche – per la realizzazione di elementi decorativi connessi ad architetture, ma anche per opere scultoree autonome. Promosso dalla Parrocchia Beata Vergine del Rosario grazie alla generosità di un privato, il restauro del calco è stato realizzato da Lucia Laita, anche in questo caso in accordo con l’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Milano e con la Soprintendenza. E ha permesso anche di stabilire che a realizzare la forma in gesso e la successiva gettata in cemento fu la ditta Antonio Belli di Varese.

Uno scrigno di bellezza

Il coperchio del sarcofago, che rappresenta il cardinale in posizione giacente, è uno dei pochi ritratti sicuri di Branda Castiglioni. Tra questi spicca quello nella lunetta, databile al 1428, che orna il portale d’ingresso della Collegiata e che raffigura il prelato mentre, in ginocchio, riceve la benedizione della Madonna con il Bambino (vedi foto alle pp. 24/25). Intitolata ai santi Stefano e Lorenzo, la grande chiesa, in purissimo stile gotico lombardo, fu ornata per volontà di Branda con diversi cicli di affreschi tra i quali le Storie di Maria, dipinte sulla volta da Masolino da Panicale, amico e collega di Masaccio, tra il 1432 e il 1435. Al pennello di Masolino si deve anche la decorazione dell’attiguo battistero: il risultato furono le importantissime Storie del Battista (1435), punto di svolta nella storia dell’arte, in quanto rappresentano l’esordio lombardo della prospettiva brunelleschiana, che segnò la transizione dal tardo-gotico al Rinascimento. A Masolino, inoltre, Branda affidò gli affreschi destinati ad abbellire lo studiolo che si fece riservare nella sua residenza, Palazzo Branda Castiglioni. Adibito a Museo, oggi conserva al suo interno, come un prezioso scrigno gotico, la stanza ammobiliata di Branda, la cappella di S. Martino con la Gerusalemme Celeste e il Mistero Eucaristico opera di Lorenzo di Pietro, detto il

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Dove e quando Museo della Collegiata Castiglione Olona (VA), via cardinal Branda Info tel. 0331 858903; e-mail: info@museocollegiata.it; www.museocollegiata.it Vecchietta (1437) e, al piano nobile, la splendida loggia rinascimentale con gli Uomini Illustri realizzati da un altro artista di scuola senese. Ma non è tutto. Il borgo di Castiglione Olona vanta l’imponente Castello di Monteruzzo, nome con cui è noto Palazzo Castiglioni del Monteruzzo: grande dimora nobiliare con impianto a «U» aperta e porticato a cinque campate rivolto verso la valle dell’Olona. Il palazzo, che presenta due torri angolari dotate di piombatoie e merlature, fu costruito tra la fine del XVII secolo e l’inizio del successivo, dopo la definitiva distruzione del ben piú antico castello medievale che dominava l’abitato e il fiume dall’alto della collina poco distante. Da non perdere, infine, il ponte medievale e l’originale chiesa del Santissimo Corpo di Cristo (nota anche come chiesa di Villa), che affaccia sulla piazza principale della cittadina. Di matrice brunelleschiana, è immediatamente riconoscibile dalla presenza, sulla facciata, di due monumentali statue attribuite alla scuola milanese dello scultore Jacopino da Tradate, morto forse a Mantova nel 1465, raffiguranti san Cristoforo e sant’Antonio Abate. Di notevole importanza infine, per quanto discosto – si trova in frazione di Gornate Superiore, su un poggio in via delle Selve – l’antico oratorio di S. Michele, risalente almeno all’VIII secolo: al suo interno conserva alcuni rari affreschi altomedievali tra i quali un interessante Giano bifronte, parte di una perduta allegoria dei mesi.

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armi e armaioli

Un’eccellenza

italiana S S

di Maria Paola Zanoboni

Il diffuso impiego di armamenti offensivi e difensivi rappresentò uno sbocco di primaria importanza per il mondo produttivo durante tutta l’età di Mezzo e oltre. Protagonisti di questo fiorente giro di affari furono i maestri artigiani attivi, soprattutto, nel Nord Italia. Dai loro laboratori uscirono manufatti di qualità eccezionale, trasformatisi – soprattutto quando l’avvento della polvere da sparo ne diminuí l’efficacia bellica – in autentiche opere d’arte

Sulle due pagine Firenze, Galleria degli Uffizi. L’officina di un armaiolo raffigurata in un affresco realizzato da Ludovico Buti per la volta di una delle sale dell’Armeria, una sezione della Galleria voluta dal granduca Ferdinando I alla fine del Cinquecento per esporre le armature di proprietà della famiglia. 1588.

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ia nel Medioevo che nel Rinascimento, armi e armature assicurarono il benessere a piú di una città della Penisola e, in particolare, di alcune località dell’Italia centro-settentrionale. La fabbricazione, l’assemblaggio, il trasporto e la compravendita di elmi, corsaletti, archibugi, armature, alabarde consentirono infatti ai mediatori di arricchirsi, ai produttori di prosperare e agli artigiani di sopravvivere. In Italia, Milano (per le armi difensive e le armi bianche) e il Bresciano (dal secondo Cinquecento, soprattutto per le armi da fuoco), emergevano come centri principali di produzione e commercio, favoriti anche dalla vicinanza alle aree di approvvigionamento della materia prima. Lo stretto collegamento tra le miniere e i centri di lavorazione del ferro necessario alla produzione era infatti un elemento fondamentale per la diminuzione dei costi, almeno nella prima fase di trasformazione. A Milano e a Brescia, vicine ai principali centri estrattivi dell’epoca (le valli del Bergamasco e del Bresciano) si sviluppò dunque, almeno a partire dal XIII secolo, l’industria delle armi offensive e difesive, e l’ottima qualità del materiale ferroso della zona favorí (soprattutto a partire dal Trecento) anche l’esportazione di parte del semilavorato verso l’Italia centrale e meridionale, verso la Spagna e verso Avignone, dove la presen-

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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armi e armaioli

za della corte papale (1305-1378) aveva sviluppato una domanda non indifferente. Oltralpe si distinguevano soprattutto i centri tedeschi, e Colonia in particolare, ma non rimangono comunque notizie, almeno per l’epoca piú antica, al di fuori di quelle relative all’Italia e alla Germania. Milano fu un’importante produttrice di armature fin dall’XI secolo – tanto che già nel 1066 viene citata la «via Spadari» –, mentre a Colonia il primo riferimento all’attività risale al XIII secolo, quando vi si trovano menzionati spadai, fabbricanti di cotte di maglia, e di elmi. L’importanza delle spade di Colonia è testimoniata già nelle ordinanze municipali di Strasburgo, risalenti al 1180, in cui viene citata l’importazione per via fluviale di questo articolo proveniente dalla città renana. Era invece originario di Mila-

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no il primo armaiolo medievale di cui si conosca il nome, chiamato nel 1232 a Vercelli affinché aprisse una bottega per fabbricare cotte di maglia, mentre solo tra il 1292 e il 1316 rimane traccia di qualche artigiano attivo nel settore a Colonia.

Famosi in tutta Europa

Come accennato, i principali centri di produzione di armi e armature erano dunque attivi in Italia (che ne rappresentò sicuramente, almeno fino all’inizio del XVI secolo l’area principale di esportazione), e in Germania. A partire dal XIII secolo si incontrano in tutta Europa tracce del commercio di armature italiane, fino all’apogeo raggiunto verso il 1450, nel momento in cui gli armaioli milanesi raggiunsero l’apice della loro fama. Poco limitati da vincoli corporativi, essi seppero sviluppare una capacità produttiva che assicurò

loro il monopolio delle esportazioni in tutta l’Europa occidentale e meridionale: le armature di Milano erano richieste in Inghilterra, Francia, Spagna, e persino a Rodi, e non pochi governanti rimasero tanto colpiti dalla qualità di questi prodotti, che vollero avere al proprio servizio artigiani della città. Nel 1398, per esempio, il conte di Derby, incaricato da Enrico IV d’Inghilterra, chiese a Gian Galeazzo Visconti un’armatura da utilizzare per un duello. Il duca di Milano gli inviò non soltanto quanto richiesto, ma anche quattro dei suoi migliori armaioli. Nello stesso periodo troviamo maestranze milanesi a Greenwich, Innsbruck, Tours, Parigi, Lione, Bruges. In Italia i produttori milanesi avevano botteghe a Brescia, Ferrara, Modena, Mantova, Venezia, Urbino, Roma, Napoli. La capacità produttiva era tale che, poco prima gennaio

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Armatura da parata realizzata dall’armaiolo milanese Lucio Piccinino (attivo nella seconda metà del XVI sec.) per Filippo III di Spagna (1578-1621). Madrid, Real Armería. Nella pagina accanto Allegoria della gloria mondana di Francesco Maria Sforza, miniatura di Giovanni Pietro Birago, 1490-1496. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Il duca di Milano è attorniato dai suoi generali, che l’artista ha identificato con alcuni grandi condottieri del passato, tra cui Scipione, Giulio Cesare, Annibale, Epaminonda, Temistocle.

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armi e armaioli In questa pagina armatura completa in acciaio, ferro, ottone, cuoio e tessuto, prodotta a Norimberga. 1500-1530. Chicago, Art Institute of Chicago. Nella pagina accanto, in alto elmo da torneo, prodotto a Norimberga. 1540-1570. Chicago, Art Institute of Chicago.

della battaglia di Maclodio (1427), la capitale del ducato visconteo fu in grado di rifornire l’esercito di 4000 armature per la cavalleria e di 2000 per la fanteria. Grande rivale di Milano era Brescia, che, inizialmente sotto il dominio visconteo, divenne in seguito la principale fornitrice di armi destinate alla Repubblica di Venezia. Almeno 167 produttori (di cui sono rimasti i nomi) lavorarono nella città tra il 1388 e il 1486, molti dei quali provenivano da Milano, mentre altri avevano botteghe in entrambe le città. La qualità dei manufatti degli armaioli bresciani risulta evidente dall’importanza della clientela che si rivolgeva a loro nel secondo Quattrocento: il duca di Ferrara Nicolò d’Este, il marchese di Mantova Federico Gonzaga, Guidobaldo da Montefeltro duca di Urbino, e persino il sultano turco.

La concorrenza tedesca

Nella pagina accanto, in basso armatura da fante in acciaio, ferro, cuoio e tinta di nero. Produzione tedesca, 1550-1560. Chicago, Art Institute of Chicago.

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All’inizio del Cinquecento gli artigiani di Brescia furono in grado di equipaggiare un esercito di 6000 uomini. Alla produzione delle armi destinate a Venezia, in ogni caso, non provvedeva soltanto Brescia, ma la Serenissima disponeva di altri centri, sebbene molto piú modesti, dove approvvigionarsi: in Friuli e sulla costa dalmata, e in particolare nel territorio di Ragusa. Nella seconda metà del XVI secolo alcune città della Germania subentrarono progressivamente a quelle italiane: Colonia divenne il principale centro di esportazione di manufatti di media e bassa qualità, affiancata da Augusta e Norimberga. Nella città renana, dove già nel 1399 gli armaioli si erano separati dai fabbricanti di cotte di maglia per formare una propria corporazione, la produzione di armature conobbe un tale sviluppo gennaio

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che i mulini idraulici necessari per la lavorazione si dimostrarono presto insufficienti, tanto che il consiglio cittadino dovette deliberare la costruzione di sei nuovi impianti. Anche le botteghe si moltiplicarono, sempre rivolte a una produzione di massa.

L’elmo e il guanto

Nei centri della Germania meridionale, invece, la produzione era limitata a un numero molto piú esiguo di pezzi di gran pregio, destinati a una clientela aristocratica. A Norimberga alle maestranze del settore veniva richiesto un altissimo grado di specializzazione: per acquisire la qualifica di maestro era necessario presentare un pezzo interamente realizzato di propria mano, come un elmo o un guanto. L’elevata specializzazione delle sue maestranze, e il facile accesso a una zona ricca di miniere di ferro, fecero di Norimberga un importante centro di produzione di manufatti di media qualità. Nel 136263 la città potè fornire ben 1816 armature complete all’imperatore Carlo IV. A partire dalla seconda metà del Quattrocento gli armaioli di Norimberga poterono beneficiare della situazione privilegiata della città, situata abbastanza vicino al confine con l’Ungheria, e quindi in prima linea nei rifornimenti agli eserciti che lottavano contro il pericolo ottomano. La dinastia norimberghese dei Grunwalt lavorò per l’imperatore Massimiliano I e per molti altri principi e sovrani. Dopo il 1450 Augusta e Innsbruck svilupparono manifatture tali da poter competere con quella di Milano: tra il 1470 e il 1480 le armature per l’impe-

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ratore Federico III e per suo figlio Massimiliano furono prodotte ad Augusta, dal principale artigiano della città, nonché uno dei piú ingegnosi artefici del settore, Lorenz Helmschmid (il cui cognome significa appunto «fabbricante di elmi»), che poi creò, sotto il patrocinio degli Asburgo, un particolare tipo di armatura fatta di parti intercambiabili, che poteva essere utilizzata sia in battaglia che nei tornei. Progettò poi numerosi modelli particolari, di cui si conservava il disegno nel

suo taccuino, andato perduto durante la seconda guerra mondiale, ma del quale rimangono fortunatamente numerose fotografie. Lorenz era l’armaiolo preferito dell’imperatore Massimiliano, e la collaborazione tra i due diede esiti assai proficui. Altri armaioli di Augusta rifornirono Carlo V.

Il ferro della Stiria

Anche Innsbruck, circondata da corsi d’acqua e favorita dal facile accesso alle miniere di ferro della Stiria, assunse un ruolo importante a partire dalla metà del Quattrocento, grazie alla politica d’incentivo al settore adottata dall’arciduca Sigismondo (1427-1496), che divenne protettore e cliente degli armaioli della città, ai quali conferiva direttamente le commissioni,

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armi e armaioli

Miniatura raffigurante la battaglia di Poitiers, combattuta nel 732 fra Arabi e Franchi, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1400-1405. Chantilly, Musée Condé.

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la festa di san giorgio

Uno spettacolo unico La festa di San Giorgio, che si teneva a Milano all’epoca del duca Galeazzo Maria Sforza (1466/1476) nel mese di aprile, veniva celebrata con parate sfavillanti per il luccichio di armi e armature, dei colori delle divise, dei pennacchi e delle bordature preziose. Giostre e tornei si alternavano a grandi apparati, barde e corazzine da torneo decorate, vesti e ornamenti preziosi. In quest’occasione i soldati assediavano le botteghe cittadine degli armaioli e dei produttori di oggetti di lusso per acquistare abiti di gala e armi da parata. Paolo Giovio descrive con abbondanza di particolari la sfilata di San Giorgio: oltre 2000 cavalieri indossavano abiti ricamati ed elmi con pennacchi altissimi, mentre i cavalli erano coperti da barde dorate. L’apparato, la pompa e la solenne coreografia facevano di questa festa uno spettacolo unico. gennaio

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anziché installare un laboratorio esclusivo per le manifatture di corte, come avrebbe invece fatto in seguito Massimiliano I. In questo modo gli artigiani di Innsbruck tenevano proprie botteghe ed erano in competizione tra loro per ottenere le ordinazioni dell’arciduca. Negli anni Sessanta del Quattrocento gli armaioli di Muhlau (la località contigua a Innsbruck dove erano riuniti) potevano ormai competere con quelli milanesi, al punto che Sigismondo inviava le loro creazioni in dono ai principali regnanti d’Europa. Va segnalata infine la città di Landshut, che, come gli altri centri della Germania meridionale, sviluppò soltanto verso la metà del XV secolo una manifattura fiorente e di gran qualità, alla quale si rivolsero, nel Cinquecento, anche Filippo II di Spagna e suo figlio Don Carlos. I Paesi Bassi seguivano l’Italia e la Germania per l’importanza della loro produzione, indirizzata, dalla seconda metà del Quattrocento, all’esportazione su larga scala di armature di media e bassa qualità. Faceva eccezione Bruges, centro manifatturiero di armature di pre-

gio a partire almeno dal Trecento, quando un artigiano della città riforniva Edoardo II d’Inghilterra, mentre abili fabbricanti di cotte di maglia si trasferirono ad Avignone, dove entrarono in contatto con artefici milanesi. Numerosi artigiani milanesi aprirono poi botteghe direttamente a Bruges nella seconda parte del XV secolo, realizzando armature per le giostre e i tornei del duca di Borgogna.

Armature di lusso

La città fiamminga di Tournai costituiva però sicuramente il polo d’eccellenza del settore in quest’area: era l’unico centro della zona in cui il numero degli addetti alla produzione delle armi superava quello degli impiegati nella manifattura tessile. Fin dal XII secolo Tournai contava 23 armaioli rispetto a 3 lavoratori tessili, nel XIV secolo 187 su 72, e solo nel XV secolo le proporzioni si rovesciarono con 232 impiegati nel settore delle armi, e 330 nel tessile. Centro importante per la produzione di armature di lusso fu anche Bruxelles. La Francia occupò un ruolo del tutto marginale in questo settore,

con l’eccezione di qualche armaiolo a Parigi e nelle località lungo la Loira (Angers, Tours, Bourges), e soprattutto a Tours, dove erano insediate le manifatture reali. Per il resto fioriva l’importazione di prodotti italiani e, dall’inizio del Quattrocento a Bordeaux, Tours e Lione si stabilirono numerosi artigiani lombardi, provenienti soprattutto dalla zona del lago di Como. In Inghilterra il solo centro di una certa importanza era Londra. Enrico VIII fondò a Greenwich l’armeria reale, reclutando gli artefici in Italia, nelle Fiandre e in Germania. Nella Penisola Iberica doveva esistere una produzione, di cui però si sa poco. Nel 1257 è testimoniata a Barcellona una corporazione dei fabbricanti di cotte di maglia, mentre alcuni armaioli lavoravano a Valenza, a Saragozza, a Burgos e a Siviglia. Alla fine del Cinquecento si installò a Pamplona una manifattura di prodotti di gran pregio. Come in Francia, anche in Spagna rivestirono un ruolo notevolissimo gli artigiani italiani. In Italia, a partire dai secoli XI e XII, la rinascita cittadina, la formazione dei comuni e le lotte intesti-

Il Cassone dei Tre Duchi. Bottega lombarda, 1480-1494 (con integrazioni moderne). Milano, Castello Sforzesco. La tavola rappresenta i duchi di Milano Galeazzo Maria Sforza, suo figlio Gian Galeazzo e il duca di Bari, Ludovico Maria Sforza. Ciascun cavaliere è accompagnato da uno scudiero ed è contrassegnato, oltre che dagli stemmi sulle gualdrappe, dal nome. La scena può essere ritenuta simile alle parate che si tenevano a Milano in occasione della festa di San Giorgio.

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armi e armaioli Cotta di maglia in acciaio. Manifattura europea, 1375-1425. Chicago, Art Institute of Chicago. Questi armamenti da difesa si diffusero dalla metà del XII sec.

ne subito scoppiate al loro interno avevano suscitato una domanda crescente di prodotti metallici e armi, e un conseguente e continuo sviluppo tecnologico che aveva portato alla realizzazione di due tipologie fondamentali di armamento difensivo: la cotta di maglia – diffusasi in Europa verso la metà del XII secolo, dopo la seconda crociata – e l’armatura a piastra, che soppiantò definitivamente la cotta soltanto durante la prima metà del Quattrocento (1420 circa). L’evoluzione dell’armamento difensivo rappresentava una diretta conseguenza delle mutazioni delle tecniche di offesa, e in particolare dell’utilizzazione sempre maggiore, durante il XIII secolo, della balestra, la cui potenza, efficacia e precisione nel tiro costrinsero a modificare progressivamente ma radicalmente le protezioni di uomini e cavalcature. Detta anche usbergo o lorica, la cotta era una giubba di maglia metallica che ricopriva il busto e le braccia scendendo fino alle caviglie; la difesa della testa veniva completata da un cappuccio di maglia detto «camaglio», che poteva essere staccato o formare un pezzo unico con la cotta; su di esso veniva calato l’elmo d’acciaio che, nella prima metà del Duecento era di forma cilindrica, chiuso, con i fori per gli occhi, mentre in seguito fu sostituito dal cappello di ferro. Già all’inizio del Duecento la lorica venne affiancata e talora sostituita dalla pancera, cioè da una cotta piú corta e leggera, rinforzata però da un doppio strato di maglie metalliche a maggior protezione delle parti vitali; fu anch’essa soppiantata verso la metà del Duecento da un corpetto, costituito da lamelle d’acciaio, connesse fra loro

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da un sostegno di cuoio. Gli arti inferiori erano protetti da gambiere di maglia d’acciaio, mentre pare che rimanessero scoperti i piedi: la ferita che provocò la morte del signore della Marca Trevigiana Ezzelino da Romano nel 1259 fu dovuta appunto a questo motivo.

«Sartoria» militare

Formate da un intreccio di minuscoli anelli in filo di ferro (materiale a sua volta realizzato dai trafilatori), le cotte venivano tagliate su misura, come fossero un tessuto, da pezze rettangolari realizzate in precedenza. Questa mansione era svolta da maestranze femminili, come documentato a fine Trecento nel carteggio del mercante Francesco Datini. Per dare loro una foggia, si aggiungevano o toglievano anelli «scalando» le maglie, e quando queste protezioni metalliche perdevano accidentalmente anellini venivano «rammagliate» da maestranze specializzate. Durante il

XIII secolo la fabbricazione delle cotte raggiunse la perfezione con la ricercata e sofisticata maglia ad anelli detta «a grano d’orzo», cioè a trama molto fitta, che risultava perciò particolarmente robusta, pur permettendo una grande agilità di movimento. Notevoli furono i miglioramenti anche dal punto di vista estetico: il filo di ferro di cui le maglie erano costituite venne mescolato al filo d’ottone per ottenere un ornamento a disegni e, a ulteriore accentuazione del decoro, le cotte furono sottoposte a processi di tintura multicolore. Già dall’inizio del Trecento e soprattutto dalla seconda metà del secolo – epoca decisiva per l’evoluzione del settore –, alle parti in maglia vennero alternate progressivamente piastre metalliche per ottenere una maggiore protezione dai colpi. Il perfezionamento dell’armatura «a piastra» continuò in seguito con l’aggiunta di pezzi sempre piú articolati (spallacci, cubitiere, bracgennaio

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Miniatura raffigurante un fabbricante di cotte di maglia, dall’Hausbuch der Mendelschen Zwölfbrüderstiftung (Registro della Fondazione Mendel dei dodici fratelli). 1425 circa. Norimberga, Stadtbibliothek.

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armi e armaioli ciali, gambiere). Nel 1399 a Colonia i fabbricanti del nuovo tipo di prodotto si separarono da quelli di cotte di maglia per costituire una propria corporazione. L’evoluzione divenne completa nella prima metà dei XV secolo, quando l’intera protezione di difesa era ormai a piastra. L’uso della maglia non fu però abbandonato del tutto: venne mantenuta (di tipo piú sottile e leggero) sotto l’armatura, a protezione dei punti piú vulnerabili. Alla fine del XV secolo trionfò definitivamente l’armatura intera, completamente chiusa, sia per il guerriero che per la sua cavalcatura, un trionfo che durò incontrastato sino alla seconda metà del Cinquecento, quando il crescente progresso delle armi da fuoco rese sempre piú anacronistico questo tipo di difesa, che appesantiva enormemente il combattente, impedendogli una mobilità adeguata alle nuove tecniche di combattimento. Il declino della produzione avvenne in modo fulmineo: ad Augusta – uno dei principali centri attivi nel settore del XVI secolo – nel 1560 erano ancora attive 22 botteghe, che scesero a 9 nel 1621, per arrivare a 4 nel 1624. Gli atelier superstiti alimentavano ovunque ormai soltanto il mercato delle armature da parata. Nell’armatura «a piastra» il termine «corazza» designava la protezione difensiva completa, costituita a sua volta da «arnesi» ovvero cosciali, a protezione degli arti inferiori; spallacci, bracciali e guanti a protezione di quelli superiori; una «celata», caschetto a forma di cuffia, spesso senza visiera; e un «bacinetto», parte dell’armatura a protezione della testa, che constava di una parte anteriore, la visiera, e di una posteriore che proteggeva la nuca, detta coppo. Coppi e visiere potevano essere

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ornati con foglie di ottone o d’argento, mentre, per attutire i colpi, i bacinetti venivano rivestiti con cotone, velluto o drappo d’oro, e nelle armature da parata erano talora sormontati dai «tuelli» che sostenevano piume e piumaggi.

I modi della produzione

L’organizzazione produttiva della metallurgia medievale comprende-

va sia l’artigianato autonomo, ossia quel modo di produzione caratterizzato dalla proprietà di bottega, utensili, e materia prima, sia la manifattura decentrata o accentrata, cioè quel tipo di organizzazione al cui vertice stava il mercante imprenditore al quale erano sottoposti in varia misura maestri e lavoranti. A Milano nella seconda metà del Quattrocento, l’artigianato autonomo riguardava buona parte dei fabbricanti di minuteria metallica (soprattutto chiodi, fibbie, bottoni, perline e decorazioni), e i produttori di spade, lance e speroni, che erano in grado, partendo dalla materia prima di arrivare a un prodotto finito facilmente smerciabile. La manifattura, sia accentrata (la produzione si svolgeva cioè soltanto nella bottega dell’imprenditore), sia decentrata (per cui il lavoro veniva svolto nelle botteghe satelliti da lui dipendenti), riguardava invece la fabbricazione delle armature, settore in cui ciascun artigiano era specializzato nella realizzazione di singoli pezzi non vendibili, e costretto perciò a dipendere da un imprenditore, l’armaiolo (proprietario di miniere, magli, altiforni, fucine), che gli forniva le materie prime, spesso anche gli utensili, e ne coordinava il lavoro, preoccupandosi poi dell’assemblaggio dei pezzi e della vendita. Questo tipo di organizzazione «capitalistica» del lavoro si era diffusa un po’ ovunque, soprattutto a partire dal Quattrocento, col definitivo prevalere dell’armatura a piastra su quella di maglia: se in precedenza inArmatura quattrocentesca di produzione italiana. Brescia, Museo delle Armi «Luigi Marzoli». gennaio

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gionamento delle materie prime allo smercio del prodotto finito sui mercati internazionali.

La divisione del lavoro

La fabbricazione delle singole parti di un’armatura aveva portato infatti a un’estrema divisione del lavoro, e a una notevolissima specializzazione, richiedendo contemporaneamente la disponibilità di capitali ingenti, oltre a un coordinamento e a un colA sinistra armatura composita, con corpetto di stoffa, fabbricata a Milano per un balivo della famiglia dei Matsch nel 1365. Sluderno (Bolzano), Castel Coira.

fatti la produzione era riconducibile a un gran numero di artigiani piú o meno autonomi nei confronti del capitale mercantile e collegati con la domanda internazionale tramite il mercante – al quale vendevano un prodotto eseguito direttamente con materie prime e strumenti propri –, nella seconda metà del secolo gli armaioli si affermarono anche come operatori mercantili, concentrando nelle proprie mani tutte le fasi della produzione, dall’approvvi-

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legamento diretto con la domanda, costituita spesso da grandi personaggi, principi e sovrani. Gli artigiani del settore, maestri compresi, erano perciò ridotti ormai nella condizione di lavoratori dipendenti, normalmente retribuiti a cottimo e spesso indebitati con l’armaiolo per generi di prima necessità. Maestri-salariati, spesso in una precaria situazione economica, caratterizzata dall’indebitamento e dalla facilità a scivolare nell’indigenza, si trovano perciò assai frequentemente nelle botteghe degli armaioli milanesi del secondo Quattrocento. L’indebitamento aveva spesso come conseguenza la perdita dei mezzi di produzione, fatto che poteva trasformare l’artigiano autonomo in lavoratore dipendente, riducendolo talvolta in condizioni miserrime: non sono rari i casi di salariati costretti alla fuga e al furto di generi di prima

A destra armatura da cavaliere in acciaio decorato con incisioni realizzata a Milano dall’armoraro Pompeo della Cesa.1580-1585. Firenze, Museo Stibbert.

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armi e armaioli Miniatura raffigurante la dea Minerva, incoronata, che insegna agli uomini l’arte della fabbricazione delle armature, da una traduzione anonima francese del De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio. 1440 circa. Londra, British Library.

niva concesso un letto, magari vicino alla stalla), e anzi alcuni imprenditori, tra cui il principale armaiolo milanese, Antonio Missaglia, invitavano esplicitamente i propri dipendenti a portarsi il pranzo. Conseguenze di questa situazione erano un indebitamento costante che toccava – fatto del tutto inconsueto – persino gli apprendisti, e le frequenti fughe: nel 1476 Antonio Missaglia lamentava di aver prestato a molti «operarii armorum» notevoli somme che non gli erano state restituite per la fuga dei lavoranti che le avevano ricevute.

I traversatori

necessità, come una libbra di carne o una coperta. Praticamente tutti i maestri, i lavoranti e persino gli apprendisti assunti dai principali armaioli milanesi negli anni Sessanta e Settanta del Quattrocento erano legati all’imprenditore da contratti di cottimo, lavoravano nella sua bottega, che si configurava cosí come un grande atelier, o in botteghe decentrate, sempre di proprietà dell’im-

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prenditore, per le quali i maestri versavano un affitto (che veniva richiesto loro anche quando svolgevano l’attività in una parte della bottega principale). Anche quando il loro livello di specializzazione era elevato, questi lavoratori dipendevano completamente dall’armaiolo per la materia prima, il combustibile e gli utensili. Le assunzioni non prevedevano mai vitto e alloggio (al massimo ve-

Categoria nettamente separata da quella degli armaioli erano i traversatori che svolgevano un lavoro estremamente specializzato consistente nella smerigliatura (cioè nel levigare e lucidare mediante lo smeriglio), nella realizzazione di cerniere per connettere tra loro determinate parti dell’armatura (come la visiera e il coppo), di fori di aerazione e di forellini per fissare il rivestimento interno in pelle dell’armatura. Tutto questo veniva effettuato mediante appositi mulini ad acqua, i magli. Nella seconda metà del XV secolo a Milano i traversatori formavano una cerchia ristretta di maestri e lavoranti imparentati tra loro e completamente indipendenti dagli armaioli veri e propri, per i quali lavoravano ma senza alcun vincolo di subordinazione. La situazione di privilegio di questi artefici era determinata dalle caratteristiche stesse della loro attività che, oltre a configurarsi come fase finale e determinante del processo produttivo, svincolata dalle altre fasi e non gennaio

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dipendente da un’unica tipologia di capitale mercantile (clienti dei traversatori potevano essere infatti i grandi armaioli imprenditori, ma anche artigiani autonomi come gli spadari e i fabbricanti di lance e di coltelli), presupponeva sia un’estrema specializzazione tecnica, sia la disponibilità di ingenti capitali per gli affitti elevatissimi degli impianti. Sempre nel capoluogo lombardo, verso il 1470, essi furono in grado di costituire una corporazione autonoma e di imporre le proprie tariffe e le proprie condizioni agli armaioli (rifiutavano, per esempio, di lavorare per gli armaioli insolventi). Persino il principale imprenditore di Milano, Antonio Missaglia, in un’occasione fu costretto a scrivere al duca che non poteva consegnare i pezzi commissionatigli perché il maestro traversatore era ammalato e non se ne trovavano altri.

Armatura da uomo d’arme con elmo, realizzata a Milano dall’armoraro Tommaso Missaglia e appartenuta a Gian Galeazzo d’Arco. 1445-1450.

Milano e i Missaglia

Nonostante la scarsa documentazione relativa al Duecento e al Trecento, sappiamo dal frate umiliato e cronista Bonvesin della Riva che, già alla fine del XIII secolo, nel capoluogo lombardo, oltre 100 artefici milanesi erano esperti nella «mirabile lavorazione delle maglie metalliche» per la fabbricazione di quelle armature che i mercanti distribuivano poi in svariati centri vicini e lontani (persino nei territori arabi e saraceni). E ugualmente il domenicano Galvano Fiamma (1298-1344) cita a piú riprese le cotte di maglia prodotte nella città. Nel 1385 esisteva una corporazione degli spadari milanesi che comprendeva un buon numero di specializzazioni diverse: fodratori, limatori, scalpellatori, manichieri, imbornitori, lustratori e doratori. In seguito, per tutto l’arco del XV secolo, Milano si distinse nella fabbricazione di armature, tanto che i principi stranieri inviavano spesso nella città le loro ma-

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estranze perché vi apprendessero tecniche nuove o perfezionassero le loro conoscenze. Le armature lombarde erano assai richieste in tutta Italia ed Europa, in particolare in Inghilterra, Spagna, Francia. Soltanto le armature di Norimberga si avvicinavano per qualità a quelle lombarde. Colonie di artigiani milanesi erano presenti ad Avignone nella seconda metà del Trecento, a Napoli e a Roma nel Quattrocento. A salvaguardia dell’eccellenza milanese nel settore, furono emanate nel corso del XV secolo dai Visconti e dagli Sforza misure severissime, volte a evitare la migrazione delle maestranze e la diffu-

sione delle tecnologie di lavorazione, tanto piú che il commercio di armi e armature rappresentava un importante cespite per le entrate ducali, grazie ai dazi imposti sulle esportazioni. Ciononostante, qualche armaiolo ottenne il consenso ducale a recarsi alle corti inglese e francese. Viceversa, chi fuggiva senza autorizzazione veniva obbligato a tornare in patria. I principali fornitori dei duchi di Milano furono i Negroni da Ello, detti Missaglia, tra i quali si distinsero Tommaso, nella prima metà del Quattrocento, e il figlio Antonio, che cominciò a operare verso il 1450 e morí verso il 1494/95. Questi imprenditori si occupavano

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armi e armaioli del ciclo produttivo completo, dalla gestione delle miniere situate in Valsassina, alla prima lavorazione del materiale, che veniva effettuata sul posto, alla sbozzatura col maglio del materiale grezzo (i magli si trovavano sia in città, sia lungo i fiumi e canali che la circondavano), alla rifinitura e all’assemblaggio delle singole parti di ogni armatura. Sbozzato in forme diverse, corrispondenti alle parti di armatura a cui era destinato, il ferro subiva poi un’ulteriore lavorazione e il perfezionamento finale nelle varie fucine situate nella «casa dei Missaglia». Questa costruzione, che sopravvisse a Milano fino al 1901 quando fu sacrificata da un’impietosa speculazione edilizia, era stata divisa nell’Ottocento in piccoli appartamenti poverissimi e profondamente trasformata con sopraelevazioni e squarci enormi per permettere l’accesso ai piani superiori. A lungo la sua storia fu anzi ignorata e solo poco prima di demolirla ne venne ricostruita la planimetria originale.

Casa e bottega

Situata in pieno centro cittadino, tra via Spadari e via Torino, e costituita da una serie di edifici (alcuni dei quali del XIV secolo) che formavano un complesso molto esteso, fungeva da abitazione e fabbrica contemporaneamente. I lavori piú rumorosi dovevano svolgersi nelle officine piú interne dell’isolato, tanto che il complesso veniva chiamato «porta dell’inferno». Nell’edificio principale e in quelli perimetrali venivano realizzate invece le fasi piú ricercate e «nobili» della lavorazione: in locali ampi e ben illuminati trovavano posto i cesellatori, gli ageminatori e i disegnatori. In un’ala perimetrale si trovava l’abitazione del (segue a p. 51)

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Da armi a gioielli Spesso, nel XIV e ancor piú nel XV secolo, le armature da parata costituivano veri e propri capolavori di oreficeria: i bacinetti a protezione del capo erano smaltati o adorni di perle e pietre preziose, e ugualmente le altre parti dell’armatura. Pezzi di questo genere vennero commissionati, per esempio, dal duca di Borgogna Carlo il Temerario (1467) e da Enrico VIII d’Inghilterra (1513); armature altrettanto preziose si utilizzavano anche per i cavalli. Questo genere di oggetti raffinatissimi andò arricchendosi e perfezionandosi nel corso del XVI secolo, quando alla crisi del settore, che colpí ovunque e sempre di piú questo articolo, a partire soprattutto dalla seconda metà del secolo, si cercò di far fronte indirizzandosi verso prodotti di lusso di altissimo livello, la cui domanda non era toccata dal declino. Si andò cosí progressivamente formando un gruppo ristretto di armaioliorefici-scultori, la cui particolare formazione, fatta di un percorso di apprendistato di parecchi anni nelle botteghe di ciascuno di questi specialisti, li metteva in grado di padroneggiare contemporaneamente tutte le possibili tecniche artistiche indispensabili a fare di un’armatura un’opera d’arte. Un percorso formativo dunque che collimava perfettamente con la polivalenza delle botteghe rinascimentali. Questo iter venne intrapreso, per esempio, dal milanese Giovan Battista Panzeri, importante produttore e mercante di armature di lusso, che fu apprendista come armaiolo presso il celebre Giovanni Paolo Negroli, negli anni Quaranta del Cinquecento, per poi divenire allievo dello scultore Agostino Busti detto il Bambaia (suo parente), e quindi collaborare per tre anni in una bottega di oreficeria, dove, oltre a imparare il mestiere, aveva l’obbligo di mettere a profitto le altre arti che già conosceva, impegnandosi a disegnare, a lavorare l’argilla o la cera, e a creare i disegni e i modelli che fossero stati necessari alla creazione degli oggetti in oro e argento. La maggior parte di questi artefici erano italiani (e soprattutto milanesi o lombardi), anche se non mancavano i Tedeschi, i Fiamminghi, i Francesi, specializzati nella realizzazione di opere-gioiello, con caratteristiche del tutto differenti da quelle delle armature gennaio

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Uno scudo da parata e una borgognotta (tipo di celata con cresta e visiera saliente, spesso munita anche di guanciali mobili; nella pagina accanto) forgiati da Filippo di Iacopo e Iacopo Filippo Negroli per l’imperatore Carlo V. 1541 e 1533. Madrid, Real Armería. Attivi tra la metà del XV e il XVI sec., i Negroli, dei quali, in quattro generazioni, sono documentati almeno 26 armaioli, si distinsero per abilità e gusto decorativo, sia nella realizzazione di armature di linea classica, sia in quelle ispirate a modelli ispano-moreschi.

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comuni. Si trattava di veri e propri scultori specializzati in questo particolare genere di articolo. Uno dei piú importanti tra loro fu Leone Leoni (1509-1590), originario di Menaggio, sul lago di Como, famoso soprattutto per le opere in bronzo che realizzò per Carlo V e per il duca di Parma e Piacenza, per il quale confezionò una celata cosí bella da fargli ottenere l’incarico di «maestro delle stampe della zecca». Negli stessi anni il pesarese Bartolomeo Campi, orefice, architetto militare e specialista in ingegneria difensiva, creò a Pesaro un’armatura di gala in stile romano per Carlo V, che si conserva tuttora, e che reca incisa la sua firma. Simile allo stile del Campi, quello del celebre armaiolo milanese Filippo Negroli (1531-1561), molto elogiato da Giorgio Vasari e Giovanni Paolo Lomazzo. Lavorò sempre insieme al fratello Francesco, orefice e doratore di Carlo V. A differenza dai grandi armaioli quattrocenteschi come i Missaglia, che erano mercanti e imprenditori «puri», al vertice del processo produttivo, i fratelli Negroli, titolari di una bottega a conduzione familiare in cui l’aspetto artisitico era sicuramente prevalente, lavoravano di persona, rendendosi materialmente autori soprattutto delle operazioni artisticamente piú rilevanti: Francesco come ageminatore, e Filippo come disegnatore, cesellatore e realizzatore di opere a sbalzo. Al terzo fratello, Giovan Battista, venivano affidate invece mansioni di minore impegno artistico (anche se di non minore perizia tecnica), come la foratura dei pezzi per inserirvi le viti, o la rifinitura. Proprio per garantire l’elevatissima qualità artistica dei prodotti che uscivano da un atelier che aveva Nella pagina accanto armatura da parata in acciaio, oro, lega di rame, argento, cuoio e velluto, opera di Lucio Piccinino. 1576-1590. Londra, Wallace Collection. Pezzo di fattura spettacolare, presenta una ricca decorazione a rilievo, con soggetti tipici del gusto neoclassico dell’epoca, quali Ercole e il leone nemeo, soldati romani, figure allegoriche e mostri mitologici.

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Pettorale di armatura di Filippo Negroli (attivo tra il 1532 e il 1551). Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

già come cliente Francesco della Rovere, e che avrebbe fornito di lí a poco Carlo V, nel 1533 Francesco Negroli era stato mandato dal padre (che dirigeva la bottega prima che subentrassero i tre fratelli) come apprendista presso i Figini, proprio in quegli anni «inventori» (ovvero i riscopritori e introduttori a Milano) dell’antica e complessa arte dell’agemina (consistente nell’ornare con incisioni in metallo prezioso manufatti in ferro o bronzo). Secondo una consuetudine tipica degli imprenditori milanesi rinascimentali, dunque, Gian Giacomo Negroli aveva mandato il figlio a imparare un’arte appena introdotta in città e dalle straordinarie potenzialità artistiche (ed economiche), in un momento in cui la domanda di prodotti di lusso sempre piú sofisticati sviluppava le tecniche e incentivava le nuove «invenzioni» o la riscoperta di quelle dell’antichità classica. Straordinari sono anche i pezzi di un altro Negroli, Giovan Paolo (1530-1561), che si dedicò a opere molto elaborate artisticamente, destinate agli Asburgo e ai re di Francia. Milanese è anche Lucio Marliani detto il Piccinino (15701589), uno dei piú importanti artisti della città, conosciuto soprattutto grazie alle notizie forniteci dallo storico Paolo Morigia (1595): delle sue opere rimane soltanto l’armatura da parata (1578) di Alessandro Farnese, duca di Parma e Piacenza. In termini di stile, la maggior parte di queste opere riprendono motivi tratti dall’antichità classica: bassorilievi con maschere, festoni, cornucopie, amorini, personaggi mitologici, figure allegoriche, riproduzioni di battaglie dell’epoca greca e romana. Altre volte, soprattutto armature complete come quella di Alessandro Farnese, riproducevano a sbalzo i tessuti auroserici damascati. Nella seconda metà del Cinquecento, infatti, si era verificata sotto l’influenza

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armi e armaioli Questo sistema decorativo trova il suo culmine nella straordinaria armatura di Alessandro Farnese, duca di Parma, realizzata verso il 1576-80, interamente brunita in blu scuro e ricoperta da una ricchissima decorazione a sbalzo, cesellata e ageminata in oro e argento. Molti di questi pezzi di oreficeria sono giunti fino a noi: tra i piú famosi lo «scudo della Medusa», appartenuto a Carlo V, e opera di Francesco Negroli (1541), oltre a numerosi altri elmi, scudi gambali, balestre in avorio o metallo istoriato, e a qualche armatura intera, oggi dispersi nei principali musei del mondo. Le principali raccolte di questo genere si trovano all’armeria reale di Torino (forse la piú ricca del mondo), e nel palazzo reale di Madrid, ma manufatti di questo tipo si trovano anche al Museo Nazionale del Bargello di Firenze, al British Museum di Londra, al Kunsthistorisches Museum di Vienna, a Praga. Negli ultimi due decenni del Cinquecento l’armatura italiana decorata conobbe ancora qualche momento di splendore, prima di spegnersi definitivamente: questi equipaggiamenti difensivi, sempre piú pesanti per tentare di resistere alla crescente potenza delle armi da fuoco, finirono per scomparire dai campi di battaglia con la guerra dei Trent’anni (1618-1648). Elmo forgiato dall’armaiolo milanese Lucio Piccinino. 1565. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Rüstkammer.

del manierismo un’evoluzione nella decorazione delle armature verso temi ricercati ed eruditi. Fungeva da ispirazione un immaginario tendente al fantastico, in cui la profusione decorativa lasciava spazio anche a scene tratte dalla mitologia, dalla Bibbia, dalla storia antica e contemporanea. Modelli per questi artisti, oltre all’arte classica, erano i disegni, e soprattutto le incisioni (che avevano larga circolazione), dei discepoli dei maggiori pittori contemporanei (come Raffaello e Giulio Romano), da cui gli armaioli–artisti cinquecenteschi traevano ispirazione, rielaborandoli con raffinatezza e creatività. E se ricorrevano in genere a stampe italiane, piú prossime alla loro sensibilità artistica, gli armaioli milanesi non disdegnavano di ispirarsi a opere di artisti del Nord Europa. Le figure venivano di solito lavorate a bassorilievo, e i dettagli dello sfondo incisi e ageminati.

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Elsa con decorazioni in oro, rubini e cristallo di rocca dello stocco realizzato da Federico Piccinino per il principe Cristiano II di Sassonia. 1605. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Rüstkammer.

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Da leggere Felice Fossati, Per il commercio delle armature e i Missaglia, in Archivio Storico Lombardo LIX (1932); pp. 279-297; Luciana Frangioni, Una cotta di maglia milanese a Firenze sulla fine del Trecento, in Studi in memoria di Federigo Melis, Giannini, Napoli 1978; vol.II, pp. 479-495 Luciana Frangioni, Un’industria d’arte per le armature e le armi, in Artigianato Lombardo. 2-L’opera metallurgica, Milano 1978; pp.46-64 Luciana Frangioni, Martino da Milano «fa i bacinetti» in Avignone (1379), in Ricerche Storiche, XIV (1984) Luciana Frangioni, Le merci di Lombardia, in Commercio in Lombardia, vol. I, Silvana Editoriale Milano 1986; pp.55-118 Luciana Frangioni, La tecnica di lavorazione dei bacinetti: un esempio Avignonese del 1379, in Tecnica e società nell’Italia dei secoli XII/XVI, Atti dell’undicesimo Convegno Internazionale di Studio

Missaglia, mentre un’altra zona, sempre perimetrale, era adibita a esposizione e a magazzino. I pezzi di maggior pregio, fatti su misura, erano portati a termine nelle officine di via Spadari, mentre in quelle esterne venivano prodotte le armature di secondaria importanza, richieste in grandi partite. Per tutta la seconda metà del Quattrocento, Antonio Missaglia e fratelli rifornirono non solo i duchi di Milano, ma tutte le piú importanti casate cittadine e le principali corti italiane (compresa quella pontificia), e d’Oltralpe (i re di Francia, Inghilterra, Aragona, Danimarca). Furono però afflitti in continuazione dalla perenne insolvenza degli Sforza, che nel 1466 avevano ormai accumulato un debito di oltre 100 000 lire (somma astronomica per l’epoca) nei confronti di Antonio, nonostante

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tenutosi a Pistoia nei giorni 28-31 ottobre 1984, Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, Pistoia 1987; pp.191-208 Luciana Frangioni, Sui modi di produzione del settore metallurgico nella seconda metà del Trecento, in Società e Storia, n. 45, 1989; pp. 545-565 Luciana Frangioni, Le manifatture in età comunale e signorile, in Franco Della Peruta (a cura di), Storia illustrata di Milano, vol. III, Sellino, Milano 1992 Luciana Frangioni, Alcuni problemi su modi di produzione del settore metallurgico (seconda metà del XIV secolo), in Studi di storia medioevale e di diplomatica, XIV (1993); pp. 7-24 Jacopo Gelli, Gaetano Moretti, Gli armaioli milanesi. I Missaglia e la loro casa, Hoepli, Milano 1903 Emilio Motta, Armaioli milanesi nel periodo visconteo-sforzesco, in Archivio Storico Lombardo, XLI (1914); pp. 187 ss

le sue ripetute richieste di qualche anticipo per poter pagare almeno i fornitori e gli operai. Ciononostante alcuni ambasciatori veneti che passarono per Milano nel 1492 descrissero Missaglia come «homo rico el quale tiene continuo molti huomini che fanno armature in casa sua con grandissima spesa. In casa sua è dapertutto armature de ogni sorta per molte migliaia di ducati».

Croci e corone

I rapporti produttivi in questo settore sono spesso ricostruibili grazie all’esame dei marchi di fabbrica: le armature, infatti, erano sempre siglate col marchio dell’officina che le aveva prodotte; ne veniva firmata ogni singola parte ed erano autorizzati a imprimere il loro simbolo soltanto i maestri. Le sigle sormontate da una corona appartenevano esclusivamente ai grandi impren-

Matthias Pfaffenbichler, Armeros: artesanos medievales, Ediciones Akal, Madrid 1998 Mario Scalini, Armi e armature, in Arti e storia nel Medioevo, vol. II, Einaudi, Torino 2003; pp. 441-453 Mario Scalini, L’armatura fiorentina del Quattrocento e la produzione d’armi in Toscana, in Guerra e guerrieri nella Toscana medievale, Edifir, Firenze 1990; pp. 83-126 Bruno Thomas, Ortwin Gamber, L’arte milanese dell’armatura, in Storia di Milano, a cura della Fondazione Treccani degli Alfieri, vol. XI, Milano 1958; pp. 698-798 Maria Paola Zanoboni, Artigiani, imprenditori, mercanti. Organizzazione del lavoro e conflitti sociali nella Milano sforzesca (1450/1476), La Nuova Italia, Firenze 1996 Maria Paola Zanoboni, Salariati nel Medioevo, secoli 13.-15.: guadagnando bene e lealmente il proprio compenso fino al calar del sole, Nuove carte, Ferrara 2009

ditori come i Missaglia, privilegiati dai duchi e dai fornitori di corte; quelle sormontate da una croce indicavano un piccolo imprenditore. I marchi permettono di ricostruire il percorso di fabbricazione del pezzo su cui venivano apposti e quindi i rapporti tra i maestri e gli imprenditori: la presenza di una sola sigla coronata significava che il pezzo era stato prodotto dal lavorante nell’officina e sotto la diretta sorveglianza dell’imprenditore; due sigle, una delle quali coronata e l’altra no, significavano invece che il pezzo era stato realizzato da un maestro autorizzato alla firma e che lavorava per un grosso imprenditore. Questo sistema non era utilizzato soltanto a Milano, ma in tutti i grandi centri europei di produzione di armature di pregio: Augusta, Norimberga, l’armeria reale di Londra.

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DICEMBRE 2022 MEDIOEVO n. 311

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vivere al tempo del decameron/13

Una giornata

particolare

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Quali erano le abitudini quotidiane di donne e uomini del Trecento? Quali le loro preoccupazioni, i vizi, le virtú? Per scoprirlo vi proponiamo un viaggio a ritroso nel tempo, con una sosta di ventiquattro ore… in compagnia di Giovanni Boccaccio

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e davvero – come sostenne il grande storico francese Jacques Le Goff – «il Medioevo è stato un momento essenziale del nostro passato e che un viaggio nel Medioevo potrà darvi il duplice piacere di incontrare insieme l’altro e voi stessi», allora il Decameron ci offre questa straordinaria possibilità. Attraverso i narratori e i protagonisti delle novelle, potremo infatti conoscere le abitudini, le espressioni, le paure, i luoghi comuni – per alcuni aspetti ancora attuali – della società trecentesca. Faremo dunque un viaggio suggestivo, della durata di ventiquattro ore, che si snoda tra le pagine di questo capolavoro della letteratura. Lo spunto dell’opera di Boccaccio è la fuga da Firenze di sette giovani donne e tre giovani uomini della nobiltà cittadina, i quali, per scampare all’epidemia di peste del 1348, si rifugiano nelle loro ville sulle colline di Fiesole. Racconta Pampinea alle amiche per convincerle: «Sí come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra [città] uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia [ai poderi, che tutte abbiamo in abbondanza], ce ne andassimo a stare e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo…» (giornata I, introduzione). Fin dall’introduzione, veniamo a sapere come i ricchi dispongano abitualmente di una dimora in campagna nei dintorni di Firenze per sfuggire alla canicola cittadina. Anche la facoltosa Giovanna «come usanza e delle nostre donne, l’anno di state [tutti gli anni durante l’estate] con questo suo figliuolo se ne andava in contado a

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La compagnia dei dieci novellatori danza nel giardino, da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France.



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una sua possessione» (giornata V, novella 9). Se dall’entroterra fiorentino ci trasferiamo sulla costa, scopriamo che in città come Napoli – «antichissima e forse cosí dilettevole, o piú, come ne sia alcuna altra in Italia» – per sfuggire al caldo «molte brigate di donne e di cavalieri… [vanno] a diportarsi [divertirsi] a’ liti del mare e a desinarvi e a cenarvi» (III, 6).

Quasi un piccolo Eden

La descrizione del contado fiorentino è idilliaca: «Le piagge [i pendii] delle quali montagnette cosí digradando giuso verso il pian discendevano, come ne’ teatri [anfiteatri] veggiamo dalla loro sommità i gradi infino all’infimo venire successivamente ordinati, sempre restringendo il cerchio loro. E erano queste piagge, quante alla piaga del [verso il] mezzogiorno ne riguardavano [orientate], tutte di vigne, d’ulivi, di mandorli, di ciriegi, di fichi e d’altre manniere assai d’albori fruttiferi piene senza spanna perdersene [senza che ne restasse incolta una spanna]». La campagna completa cosí la bellezza della vicina città, contribuendo nello stesso tempo al suo benes-

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sere. Il giardino della villa prescelta dalla lieta brigata diventa una sorta di piccolo Eden privato, in cui i giovani, accompagnati da un «famiglio» [una sorta di maggiordomo] e dalla servitú, cenano, cantano, suonano, ballano e, soprattutto, raccontano: «Levate le tavole [sparecchiato, anche per l’uso di tavole sui cavalletti] con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar [danzare in tondo, tenendosi per mano] sapessero e similmente i giovani e parte di loro ottimamente (…) cominciarono soavemente una danza a sonare». Un’attività preferibile al gioco «nel quale l’animo dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo piacer dell’altra o di chi sta a vedere», consiste nel narrare novelle «il che può porgere dicendo uno [mentre uno solo narra], a tutta la compagnia che ascolta diletto» (I, introduzione). La campagna non è descritta soltanto nella piacevolezza della natura, ma con un occhio attento a chi abitualmente l’abita. Dalle storie raccontate dagli ospiti della villa, infatti, lo scrittore certaldese fa emergere un’immagine negativa dei villici: attaccati al denaro e creduloni, come l’avida monna Belcolore, gennaio

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In questa pagina la seconda novella dell’ottava giornata: il curato di Varlungo prima di andar via lascia in pegno il proprio mantello a monna Belcolore; un chierico riconsegna alla donna un mortaio per scambiarlo con il mantello, da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto la terza novella dell’ottava giornata: Calandrino, ingannato da Maso del Saggio, insieme a Bruno e Buffalmacco cerca l’elitropia nel torrente Mugnone; vittima della beffa dei suoi amici, Calandrino bastona sua moglie Parigi, da un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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Miniatura raffigurante due musicisti e un gruppo di giovani danzatori, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

moglie di un contadino di Varlungo «piacevole e fresca foresozza [contadinotta], brunazza e ben tarchiata e atta a saper meglio macinare [qui in senso equivoco, riferimento erotico] che alcuna altra» (VIII, 2). Ha buon gioco il cinico frate Cipolla, che gira per le chiese di campagna mostrando una penna di pappagallo, un uccello sconosciuto ai contadini, con lo scopo di ottenere generose offerte per potere venerare la pseudo reliquia (VI, 10). Dotato di arte oratoria, lo scaltro religioso sostiene infatti che si tratta di una piuma dell’arcangelo Gabriele, persa nella camera della Ver-

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gine Maria durante l’Annunciazione. Un giorno però, senza che il frate se ne accorga, alcuni burloni sostituiscono nell’astuccio la piuma con del carbone. Quando l’astuto Cipolla lo apre e constata l’assenza della penna, non si scompone e spiega che i tizzoni «esser di quegli che arrostirono San Lorenzo». Tutti motivi che fanno concludere a Boccaccio che, se i rozzi contadini arricchiti si trasferissero in città, la loro partecipazione alla vita urbana sarebbe molto dannosa.

Le illusioni di Calandrino

Spostiamoci ora in città. Il primo incontro alle porte avviene con i dazieri. La loro solerzia nel controllare gli ingressi e riscuotere il pedaggio è ricordata dall’ingenuo Calandrino, convinto di aver trovato l’elitropia nel fiume Mugnone, una pietra che lo rende invisibile: «E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapegennaio

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te quanto esser sogliano spiacevoli [seccanti] e noiosi que’ guardiani a voler ogni cosa vedere» (VIII, 3). Per saper cosa mangiare in un lauto banchetto ci viene in aiuto la stessa novella quando si parla del paese del Bengodi, un’espressione che usiamo ancora oggi per indicare il luogo dell’abbondanza. Lí: «Si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un’oca a denaio [la dodicesima parte di un soldo] e un papero giunta [per giunta]; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano (notiamo già quest’etichetta) grattugiato, sopra le quali stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni [lasagne sottili] e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi (…) E ivi presso correva un fiumicel di vernaccia [vino bianco secco molto pregiato] della migliore che mai si bevve».

Salvia come «dentifricio»...

Gli arrosti vengono posti sui taglieri e consumati a coppia dai commensali; autentiche prelibatezze sono il fal-

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La seconda novella della sesta giornata: il fornaio Cisti offre il suo vino a messer Geri Spina e all’ambasciatore del papa, da un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

co «degno cibo» (V, 9) e la gru, soprattutto se «grassa e giovane» (VI, 4). Come pesce sono molto apprezzati le lamprede di mare (Petromyzon marinus) e gli storioni d’acqua dolce (IX, 8). Il vino migliore è servito all’inizio del convito, quando si può gustare meglio: «Impose adunque messer Geri a uno de’ suoi famigliari [maggiordomi] che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense [per uno desse alla prima portata]». A tavola ci si lava spesso le mani servendosi di un acquamanile, operazione necessaria perché l’uso della forchetta viene introdotto molto gradualmente nel Medioevo. Dopo il pasto non si trascura l’igiene orale, per cui

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L’ottava novella della nona giornata: Biondello mostra a Ciacco le lamprede che ha acquistato al mercato; messer Filippo bastona Biondello; Ciacco e Biondello si riappacificano, da un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

si usano le foglie di salvia: «[Pasquino] s’incominciò a nettare i denti e le gengie, dicendo che molto ben gli nettava d’ogni cosa che sopr’essi rimasa fosse dopo l’aver mangiato» (IV, 7), un rimedio conosciuto ancora oggi.

Per il ristoro della mente e del corpo

Se non si hanno impegni, c’è chi si svaga a «legger romanzi [storie d’amore e cavalleria], chi a giuocare a scacchi e chi a tavole [un gioco eseguito con pedine e dadi]» (III, introduzione). Gli uomini vanno anche a «uccellare [andare a caccia di volatili], cacciare, pescare, giucare o mercatare [mercanteggiare]» (Proemio).

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Un altro piacevole modo per trascorrere il tempo consiste nel recarsi ai bagni, una sorta di odierna «spa» (acronimo di salus per aquam, salute attraverso l’acqua) medievale. Il Boccaccio lo racconta nel dettaglio: «Due schiave venner cariche: l’una aveva un materasso di bambagia bello e grande in capo e l’altra un grandissimo panier pien di cose; e steso questo materasso in una camera del bagno sopra una lettiera, vi miser su un paio di lenzuola sottilissime listate di seta e poi una coltre di bucherame [tessuto di lino candido di provenienza orientale] (…) con due origlieri [cuscini] lavorati a maraviglie [fantasia]». Finita la preparazione del letto, le due schiave si spogliano e «entrate nel bagno quello tutto lavarono e spazzolarono ottimamente». I clienti, pertanto, stanno nudi nel bagno caldo e vengono lavati e strofinati dalle donne con «sapone moscoleato [profumato al muschio]» e con quello «garofanato [al garofano]». Poi le serventi avvolgono gli ospiti in lenzuoli bianchi e sottili progennaio

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fumati all’acqua di rose e li accompagnano sul letto. Dopo che i clienti hanno finito di sudare, per asciugarsi sono avvolti dalle schiave in altri lenzuoli puliti «le quali li profumano con acqua di rosa, di fiori d’arancio e di fiori di gelsomino» (VIII, 10). Ma di profumi si fa uso anche nelle case private (dei ricchi). Per esempio: «Nella sua camera [Andreuccio] s’entrò la quale di rose, di fiori d’arancio e di altri odori tutta oliva [profumava]» (II, 5). La servitú, oltre a occuparsi dell’andamento della casa, si presta anche ad altri servizi, per esempio nel favorire non solo gli approcci sessuali clandestini delle padrone e dei padroni, ma anche nel facilitare le truffe, come la bella siciliana che convoca le sue vittime attraverso «una sua fanticella, la quale essa assai bene a cosí fatti servigi aveva ammaestrata» (II, 5). Chi non dispone di una spa, si concede un bagno nella «stufa» (III,2), una tinozza d’acqua calda oppure utilizza i bagni pubblici ogni qualvolta si rende neces-

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In alto miniatura raffigurante la bottega di un sarto, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

sario. Al sabato «usanza è delle donne di lavarsi la testa, di tor via ogni polvere, ogni sudiciume che per la fatica di tutta la passata settimana sopravenuta fosse» (II, conclusione). D’estate i capelli si asciugano al sole, d’inverno sono tamponati con teli caldi appena stirati, prima di sedersi vicino a camini o bracieri accesi.

L’amante nascosto

Nel Decameron troviamo anche un accenno all’omosessualità. Il notaio Ciappelletto da Prato «delle femine era cosí vago come sono i cani de’ bastoni» (I, 1). Anche di Pietro da Vinciolo la moglie dice «se’ cosí vago di noi [donne] come il can delle mazze». La donna «di pel rosso e accesa [di capigliatura e carnagione rossa], la quale due

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mariti piú tosto che uno avrebbe voluti» esasperata dalla situazione decide di prendersi un amante. Una sera che il marito è fuori a cena fa entrare in casa un garzone, ma il coniuge arriva prima del previsto e lei è costretta a nascondere l’amante in stalla sotto a una cesta. Un asino mette lo zoccolo sulle dita del giovane che urla dal dolore. Pietro lo scopre, riconosce nel garzone quello a cui «era andato lungamente dietro» e trascorrono tutti e tre insieme la notte. Per sfumare l’ammissione dell’omosessualità praticata, la mattina seguente il giovane sostiene di avere ricordi confusi rispetto al triangolo notturno (V, 10). Camminando per le città dalle strade strette e tortuose, incontriamo un gran numero di accattoni, di mendicanti e di storpi, veri e falsi. A Firenze, in Santa Croce, i Francescani distribuiscono ogni giorno «due grandissime caldaie [capaci recipienti] di broda [la parte liquida della minestra]» (I,6). A Treviso tutto il popolo si accalca intorno al cadavere di un certo Arrigo, ritenuto santo e con la speranza del miracolo «zoppi, attratti [paralitici] e ciechi e altri di qualunque infermità o difetto impediti, quasi tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani» (II, 1). Uomini e donne quando diventano inabili al lavoro sono disposti a tutto per campare. Come una mezzana

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«la quale sempre co’ paternostri [corona del rosario] in mano andava a ogni perdonanza [indulgenza] né mai d’altro che della vita dei Santi Padri ragionava e delle piaghe di san Francesco» che favorisce il tradimento della passionale sposa fulva, ma come ricompensa ottiene un misero «pezzo di carne salata» (V, 10). Elemosine e prostituzione sono importanti sistemi per far circolare la moneta. Boccaccio ricorda il meretricio a Firenze: un ruffiano tiene «a sua posta» una ragazza di nome Niccolosa e «la prestava a vettura» [dava a nolo, in tono dispregiativo: quasi fosse una giumenta] ai giovani ricchi che, come i narratori, hanno villa nel contado (IX, 5).

Espressioni ancora vive

Quanto ai modi di dire alcuni sono usati ancora oggi, come rendere «pan per focaccia» (V, 10) oppure «è meglio fare e pentere, che starsi e pentersi» (III, 5) che noi oggi traduciamo con «meglio avere rimorsi che rimpianti». Tra le espressioni ingiuriose, se qualcuno è giudicato insignificante si dice: «Premendoti tutto non uscirebbe tanto sugo che bastasse a una salsa» (IX, 5) oppure per indicare uno sciocco, un buono a nulla lo si apostrofa «lavaceci» cioè sei capace solo a lavare questi legumi (VII, 1). Come modo proverbiale per indicare disagio si esclama «mal vestiti e peggio calzati» (II, 6). Come ingennaio

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In questa pagina la decima novella della quinta giornata: Pietro di Vinciolo siede a tavola con la moglie e l’amante di lei; Pietro scopre l’amante della moglie calpestato da un asino accanto alla stia del pollame, da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto la sesta novella della terza giornata: due coppie di nobili napoletani, tra cui Ricciardo Minutolo e Catella, si incontrano sulla riva del mare; Ricciardo e Catella giacciono insieme nei bagni cittadini, da un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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vivere al tempo del decameron/13 La prima novella della seconda giornata: Martellino, fingendosi storpio, si mescola alla folla di fedeli per entrare in chiesa e vedere la salma di sant’Arrigo; scoperto l’inganno, Martellino si trova in tribunale dinanzi al giudice, da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto la sesta novella della nona giornata: un oste e la sua famiglia ospitano due giovani a dormire; la donna placa il marito chiarendo l’equivoco, da un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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tercalare è molto utilizzato il «deh», che suona come «dai»: «Deh! Fallo, poi ch’a torto / m’è gioia tolta e diporto [sollazzo]» (IV, conclusione): questa espressione è ancora molto in uso a Livorno. Anche oggi la tradizione dei soprannomi viene mantenuta in alcune regioni italiane, tanto che sugli annunci funebri, per esempio in Toscana, è riportato oltre al nome il nomignolo con cui la persona era conosciuta. Nel Decameron troviamo «Ciacco», un soprannome dispregiativo che forse stava per maiale, ghiottone o come diminutivo di Giacomo e di Jacopo; incontriamo Biondello: «Piccoletto della persona, leggiadro [ricercato] molto e piú pulito che una mosca [perché l’insetto sembra si pulisca continuamente con le zampine], con una cuffia in capo [gli uomini la portavano per riparare i capelli dalla polvere delle strade o da quella provocata dal loro lavoro] con una zazzerina bionda e per punto senza un capel torto avervi» (IX, 8). L’inetto servitore di frate Cipolla merita addirittura tre soprannomi «Alcuni [lo] chiamavano Guccio Balena altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco» (VI, 10). Il Decameron ci fa scoprire dettagli considerati umili dagli altri scrittori e per questo trascurati. Impariamo

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cosí che in città le abitazioni dispongono al piano di angusti gabinetti «alla turca», collocati fra due fabbricati. Per impedire che le «brutture» [deiezioni] finiscano sulla strada, vengono costruiti muretti di contenimento. Ne sa qualcosa Andreuccio da Perugia che sfortunatamente ci finisce dentro per una tavola che volutamente è stata sconnessa: «Gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola la quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era [sul quale si appoggiava], per la qual cosa capolevando [capovolgendosi] questa tavola con lui insieme se n’andò quindi giuso: e di tanto l’amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò» (II, 5).

I pericoli della notte

Di notte le città sono buie e pericolose, prive di riferimenti, se non per i lumicini sotto le immagini votive agli angoli delle strade. Il forestiero Andreuccio che si trova a Napoli desidera lavarsi in mare e sbaglia completamente direzione: «E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo a che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata

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la Ruga Catalana [Rua Catalana, via che allora come ora conduce dalla marina alla parte alta della città] si mise. E verso l’alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno, li quali temendo non fosser della famiglia della Corte [la polizia] o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in un casolare (…) ricoverò [si rifugiò]» (II, 5). Ci si muove attivamente entro la città ma anche

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da un centro all’altro: i mercanti per le fiere e per gli affari; i devoti per i pellegrinaggi, soprattutto a Roma e a Santiago di Compostella; gli uomini politici per raggiungere le sedi dei loro incarichi, come per esempio i podestà che rimangono in carica un anno e negli spostamenti portano con sé assistenti e servitú. I viaggi sono spesso pericolosi perché le vie di terra sono infestate da briganti, mentre quelle di mare da corsari. gennaio

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Tavola da gioco in osso, legno e corno con dorature e inserti in metallo. Manifattura veneziana, XV sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Le sistemazioni negli alberghi e nelle osterie sono ben poco confortevoli: non esistono camere singole, ma camerate e nei letti dormono due o tre viaggiatori. Quando il posto non basta, l’albergatore utilizza per gli ospiti anche la propria camera: «Ora non avea l’oste che una cameretta molto piccola, nella quale erano tre letticelli messi come il meglio avea saputo; (…) Di questi tre letti l’oste fece il men cattivo acconciare per li due [clienti] e fecegli coricare (…) nell’un de’ due che rimasi eran fece coricar la figliuola, e nell’altro s’entrò egli e la donna sua, la quale allato del letto dove dormiva pose la culla nella quale il suo piccolo figlioletto teneva» (IX, 6). Fiere e mercati sono frequentati anche da truffatrici e da truffatori che adocchiavano giovani inesperti come Andreuccio, il quale con una borsa contenente cinquecento fiorini d’oro si è recato a Napoli per comprare cavalli e: «Sí come rozzo e poco cauto piú volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa borsa» (II, 5). Dopo varie disavventure, per riguadagnare il denaro ormai perso, l’ingenuo Andreuccio si unisce alla combriccola che vuole rubare i gioielli di un arcivescovo morto da poco: intuendo il raggiro, si fa furbo, li inganna a sua volta e torna a casa con un prezioso rubino del sacerdote. Viaggiando si formano i giudizi e i pregiudizi su chi si incontra. I Veneziani sono «ciarlieri e creduloni, corruttori e corruttibili» (IV, 2); i Senesi balordi: «La bessaggine de’ sanesi» (VII, 10); i Marchigiani «uomini di povero cuore e di vita tanto strema [di animo gretto, misero e di vita tanto stretta, pidocchiosa] e tanto misera» (VIII, 5); le Bolognesi invece risultano cortesi e amorose: «O singolar dolcezza del sangue bolognese» (VII, 7); le Siciliane invece «del corpo bellissime ma nemiche dell’onestà» (VIII, 10). Ma come ci saremmo vestiti? La moda nasce proprio fra il XIII e il XIV secolo con l’invenzione dei bottoni che segnano i corpi e slanciano le forme. All’epoca dei novellieri, l’abbigliamento è caratterizzato da

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vesti indossate a strati per proteggersi dal freddo, vero incubo della donna e dell’uomo medievale. Sopra la camicia unisex, l’uomo copre il petto con una specie di panciotto, il farsetto, stretto e imbottito, indossa i pantaloni (le brache), le mutande di lino e calze anche solate, cioè tutt’uno con attaccate le scarpe: «si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba» (II, 5).

Bisso, zendado e altri lussi

Veste in comune, sia per l’uomo che per la donna, è un’ampia tunica con maniche lunghe e larghe, la cotta. Sopravveste molto utilizzata era un’altra tunica, la gonnella, piuttosto lunga, stretta ai fianchi da una cintura di cuoio, la «correggia» (VIII, 3). Quando fa freddo, si indossano un’altra lunga sopravveste, spesso foderata di pelliccia, la «guarnacca», (II, 9) e il mantello. In testa le donne maritate portano un velo, anche di bisso, una fibra tessile di origine animale, una sorta di seta naturale marina ottenuta dai filamenti di particolari molluschi bivalvi. Molto prezioso come tessuto è considerato lo zendado: un drappo di seta cruda, simile probabilmente al taffetà, che si presta bene per le imbottiture: «e di dosso gittatosi la schiavina [grossolano mantello con cappuccio] e ogni abito pellegrino [da forestiero], in una giubba di zendado verde rimase» (III, 7). La giubba è un abito elegante, indossato nelle occasioni solenni, il colore verde indica onorabilità. Nel 1330 a Firenze le leggi sul lusso (leggi suntuarie) proibiscono agli uomini di indossare giubbetti in questo materiale. Ma è giunta ormai la sera nella nostra giornata trascorsa nel Decameron. Si serrano le porte delle mura, si chiudono i cancelli dei quartieri malfamati, si mettono catene da una sponda all’altra del fiume per impedire incursioni notturne via acqua. Si va a dormire presto perché la sveglia è all’alba. I vestiti vengono posti sulle «stanghe» (II,5), pertiche orizzontali per proteggerli dai cani e dai roditori; si va a letto nudi con una cuffia in testa per difendersi dai parassiti. I letti di lusso come quelli dei narratori sono «incortinati» (II,5) cioè chiusi da cortine non tanto per una questione di privacy quanto per proteggersi dal freddo e dagli spifferi. Dopo un sonno popolato da sogni rivelatori e a volte da incubi tremendi, donne e uomini del Medioevo si svegliano per affrontare una nuova giornata al canto del gallo mentre noi al fastidioso suono di una sveglia qualunque. (fine)

Da leggere Arsenio e Chiara Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Laterza, Roma-Bari 2016

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di Domenico Sebastiani

In un mondo di

fate

Gli antichi Greci le chiamarono «Moire», i Romani «Parche»: donne dai poteri soprannaturali, in grado di arbitrare i destini di comuni mortali. Sono le figure dalle quali, nei secoli dell’età di Mezzo, prende forma la folta schiera di protagoniste di innumerevoli fiabe e saghe…

Le Parche filano il destino di Maria de’ Medici, olio su tela di Peter Paul Rubens. 1622 circa. Parigi, Museo del Louvre.


Dossier

I I

n molte delle cosiddette fiabe di magia, l’elemento magico è rappresentato dalla presenza di una figura femminile. Negativa, come la classica strega che cerca di intralciare i piani dei protagonisti o, al contrario, positiva, nei panni della fata benevola che, con i suoi consigli o incanti, riesce a indirizzare la vicenda verso un lieto fine. Talvolta, la fata stessa può possedere allo stesso tempo caratteri positivi e negativi. In senso lato, tali figure femminili, benefiche o malefiche che siano, rivestono il ruolo di artefici del destino del protagonista, e influiscono a seconda dei casi sullo sviluppo e sull’esito della trama. Emblematico è il caso de La Bella Addormentata, sia nella versione di Perrault che in quella successiva dei fratelli Grimm, in cui la nascita della bambina viene segnata dalla maledizione di una fata adirata (vedi anche «Medioevo» n. 302, marzo 2022; anche on line su issuu.com). Le fate del regno, infatti, vengono invitate a presiedere al banchetto per festeggiare la nascita della principessa, ma una di loro – che il re si era dimenticato di convocare – si vendica per lo sgarbo, decretando che la fanciulla sia punta da un fuso e muoia, mentre una fata buona (l’ultima chiamata a parlare) riesce a mitigare la cattiva sorte, trasformando la condanna alla morte in un lungo sonno. Altrove le fate delle fiabe sono protettrici e benevole, come la fata della Cenerentola di Perrault, che permette alla protagonista di partecipare al ballo del principe dopo aver trasformato in carrozza una zucca guidata da topi tramutati in cavalli, o la Fata turchina nel Pinocchio di Collodi, che salva il burattino e veglia su di lui fino alla metamorfosi in bravo ragazzo. In tali casi, dietro alle creature che presiedono alla nascita della bimba, o che indirizzano le sorti

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dei vari personaggi, si intravedono in modo neppure troppo celato le «dee del destino», cosí come sono state dipinte nell’antica mitologia, europea e non solo.

Un falso mito

Occorre in primo luogo, e sembra un gioco di parole, «sfatare» un’opinione comune, ossia che le fate siano nate nell’età di Mezzo, attorno al XII secolo, come afferma in modo perentorio la studiosa Laurence Harf-Lancner, nel suo studio Morgana e Melusina. Se infatti, come osserva Carlo Donà, da un punto di vista puramente onomastico, le fate nascono nel Medioevo romanzo, derivando dalle fatue o dalle Tria fata della tradizione clasApplique in bronzo in forma di cobra, probabilmente identificabile con una rappresentazione della dea Iside, dalla Siria. Età imperiale romana. Parigi, Museo del Louvre.

A destra Le Tre Fate (o Trionfo della Morte), arazzo di produzione olandese. Inizi del XVI sec. Londra, Victoria & Albert Museum. La composizione mostra le Parche – Atropo, Lachesi e Cloto – che hanno sottomesso la Castità.



Dossier Folclore irlandese

Mai fidarsi delle lavandaie! Eclatanti manifestazioni delle divinità della guerra irlandesi sono quelle correlate alla funzione di predire il destino a coloro che periranno. Tale ruolo di messaggere di morte viene confermato dalla funzione che svolgono in qualità di «lavandaie» ai margini di corsi d’acqua. La figura della «Lavatrice del Guado» (The Washer of the Ford) appare, per esempio, nel racconto The Destruction of Da Chocha’s Hostel, composto prima del X secolo, che racconta la disgraziata impresa di Cormac Conlingas. Quando il suo esercito è prossimo ad attraversare il Guado di Athlone per andare alla battaglia, lui e i suoi vedono una «donna rossa» (simbolo della morte violenta e di sangue) L’eroe irlandese Cú Chulainn trasporta il corpo del fratello Ferdiad al di là del guado, tavola a colori (da un dipinto di Ernest Wallcousins) realizzata per l’opera Celtic myth & legend, poetry & romance di Charles Squire. Londra, 1910. Nella pagina accanto pendente in argento raffigurante le Parche, da un modello di Valerio Belli. XVI sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.

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sul bordo del guado, intenta a lavare un carro e i relativi cuscini e bardature, e l’acqua tingersi di rosso. La creatura è Badb, dea irlandese della guerra, il cui compito è quello di annunciare all’eroe quando la sua ora è giunta al termine. Un episodio simile si ha nel racconto The Great Defeat on the Plain of Muirthemne, nel quale l’eroe irlandese Cú Chulainn, in cammino verso la battaglia, si imbatte in un donna snella e bionda che sta lavando in un torrente il suo armamentario. Questa volta la profezia non viene pronunciata dalla stessa donna, ma avviene per bocca del druido Cathbad che accompagna l’eroe, e che gli fa notare che si tratta della figlia di Badb che lava i suoi indumenti, in segno della sua futura morte. Tuttavia Cú Chulainn non desiste dalla sua impresa, andando incontro al suo destino. Il ruolo delle dee irlandesi come lavatrici del guado rientra nel piú ampio motivo della «lavandaia notturna», figura soprannaturale diffusa in ampie regioni d’Europa. Gli affioramenti del motivo, antichissimo e probabilmente di origine paleolitica, si sica, le donne «fatate» affondano le proprie radici in un passato alquanto remoto, che non è peraltro limitato all’Europa, ma che si ritrova anche nel Medio Oriente, in Mesopotamia, fino all’India e alla Cina. La diffusione geografica tanto vasta di creature soprannaturali femminili, dotate di caratteri analoghi, testimonia l’arcaicità del mitema. Francesco Benozzo, sostenitore della cosiddetta continuità paleolitica, in base all’analisi dei nomi delle fate nelle varie lingue e dialetti europei, ha individuato una triplice stratigrafia a livello di iconimi: la prima collegata ad animali totemici, e riconducibile alle società dei cacciatori del Paleolitico Superiore, la seconda legata all’idea di «profezia» (connessa alla necessità di studiare gli andamenti stagionali e di prevedere l’andamento dei raccolti in società già agricole) e collocabile nel Neolitico, e la ter-

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ritrovano nella penisola iberica, in Bretagna, nelle isole britanniche, Occitania, nelle zone alpine, per arrivare perfino nelle regioni appenniniche e in Sardegna. Le lavandaie possono apparire come vecchie spaventose o giovani bellissime, o con attributi animaleschi, come zampe di capra. Intente a lavare i panni in prossimità di un corso d’acqua, invitano i viandanti a strizzare gli stessi: se chi accetta torce gli indumenti nel verso opposto a quello della lavandaia (nella zona spagnola nello stesso verso), egli è destinato a cadere in disgrazia e morire. In altre zone, soprattutto nell’area alpina e in parte nell’area appenninica, le lavandaie – oltre a lavare i panni – si occupano anche di stendere o cucire, cantano ammaliando con la loro voce, si pettinano, danzano sui prati, lavorano la ceramica, incidono sui fenomeni atmosferici, preparano il pane, insegnano ai pastori le tecniche casearie e cosí via. Si può osservare, quindi, che le lavandaie in senso ampio possiedono al contempo doti fatesche profetiche (e matrigne) e attributi benevoli e dispensatori di abbondanza (materni). za (connessa ad attività femminili quali quella di lavandaia) risalente alle età dei Metalli, in cui, a suo dire, si potrebbe effettivamente parlare di «nascita» delle fate. A prescindere dai vari orientamenti e dall’individuazione di una data certa, sembra assodato che le fate, nei tratti fondamentali che le caratterizzano, abbiano un’origine ben anteriore al Medioevo. Se non è impresa agevole accertare quando le fate siano nate, non da meno è il compito di dare una definizione precisa di «fata». A tal proposito possiamo rimandare a un insieme di caratteristiche di base (almeno una dozzina) che sono state enucleate da Donà e che accomunano creature femminili di tradizione culturale di lunghissima durata e larghissima diffusione. La fata, per esemplificare, è l’archetipo della donna potente, è una sorta di «superdonna», dall’aspetto parzialmente antropomorfo, è (segue a p. 77)

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Dossier la battaglia di clontarf

La terribile tela La battaglia di Clontarf, svoltasi il venerdí santo 23 aprile 1014 tra le truppe irlandesi capeggiate dal mitico Brian Boru e i pagani uomini del Nord, fu narrata sia in racconti celtici che nordici. Nel Canto di Dödduðr (all’interno della Saga di Njáll), poco prima dell’inizio della battaglia, l’omonimo protagonista vede dodici cavalieri entrare nei quartieri femminili del centro abitato. Li segue e, vedutili entrare in un’abitazione, si mette a osservare da una fessura, attraverso la quale vede con grande sorpresa dodici donne intente a lavorare a un orrido telaio: «Il telaio aveva al posto dei contrappesi teste umane; e intestini, sempre umani, facevano da trama e ordito. Una spada fungeva da battitore e una

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freccia da spola. Le donne recitavano queste strofe: (...) “Tessiamo, tessiamo / la ‘tela delle lance’ [battaglia] / che il giovane re un tempo dominava. / Innanzi ci faremo, / penetrando la schiera, / quando i nostri alleati / colpi si scambieranno. / Tessiamo, tessiamo la tela delle lance / e del signore/schieriamoci al fianco. / Del principe vedono / gli scudi insanguinati / Guðr e Göndul [due valchirie] / del re protettrici. / Tessiamo, tessiamo la tela delle lance, / dove vanno le insegne / di uomini che uccidono. / Facciamo che la vita / loro non sia sottratta: / alle valchirie tocca / la scelta dei caduti”». Le donne sono Valchirie e, nel telaio che gronda sangue, filano i destini dei cavalieri che di lí a poco si affronteranno.


La battaglia di Clontarf, olio su tela di Hugh Frazer. 1826. Kamuela (Hawaii), Isaacs Art Center.

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Dossier Valchiria e un eroe morente, olio su tela di Hans Makart (1840-1884). Stoccolma, Museo Nazionale.

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sessualizzata e intreccia con gli uomini una relazione di tipo filiale, che può generare sul piano fatesco la figura della madre (e avremo in tal caso la fata nutrice, madrina o – nel caso ostile – matrigna), ovvero una relazione erotica (in questo secondo caso avremo la cosiddetta fata amante o la moglie fatata), anche se i due aspetti si intrecciano. La fata ha tratti in parte umani e sovraumani, è dotata di potenza magica e di conoscenze arcane, è

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strettamente associata al mondo animale tanto da possedere talvolta attributi ferini (come zampe d’oca o di rapace), si presenta solitamente come «pluralità» (di solito nel numero di tre o sette), dimora in luoghi marginali rispetto al mondo degli uomini, è solare ma allo stesso tempo ha un lato ctonio, oscuro e mortifero, e cosí via. Il modesto obiettivo di queste pagine, peraltro, è quello di esaminare succintamente l’aspetto materno (o matrigno) che le fate

assumono, e limitatamente al solo Occidente europeo. Per questo motivo muoveremo da quelle che sono state definite le «dee del destino», una sorta di antenate o progenitrici delle fate madrine stesse. Dee del destino che, come indica la parola, sono quelle che decidono le sorti degli uomini. Se assonanze simili si ritrovano persino nell’antico Egitto, come in Iside-Hermutis, assimilata alla Buona Fortuna, o come nelle «sette Hathor», divinità che,

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Dossier in un racconto risalente al XIII secolo a.C., si presentano in gruppo alla nascita dell’eroe predicendo il suo futuro, il nostro pensiero corre innanzitutto all’antica Grecia, ove esistono le Moire, le equivalenti delle Parche presso la cultura romana. In Omero, la Moira è una sola, ma nella Teogonia di Esiodo si passa a una triade, Cloto, Làchesi e Atropo. Secondo una versione figlie di Zeus e di Temi, secondo un’altra della Notte, le Moire presiedono ai momenti cardine della vita umana, ossia nascita, matrimonio e morte. Cloto, infatti, regge il filo dei giorni nella tela della vita, Làchesi dispensa la sorte avvolgendo al fuso il filo che a ciascuno viene assegnato e infine Atropo, l’irremovibile, taglia lo stesso quando giunge il momento di arrestare la vita.

Nel Grande Nord

Spesso nel mito le Moire sono presenti alla nascita di un dio o di un eroe, presagendone le future imprese o decretandone il destino, come nel noto episodio di Meleagro: figlio di Ares e Altea, le Moire si recano presso la culla del piccolo e predicono che diventerà un eroe di grandi virtú, ma Lachesi – guardando un pezzo di legno ardere nel camino – annuncia che la sua vita avrà la stessa durata di quel pezzo di legno. Altea, allora, afferra quel legno, lo sottrae al fuoco e lo nasconde, cercando di modificare il destino di suo figlio; ma un giorno, nel momento in cui Meleagro ucciderà i fratelli della madre, Altea, presa da rabbia incontrollabile, per vendetta getterà il pezzo di legno nel fuoco, provocando la morte dell’amato figlio ed eroe. Nella mitologia nordica attendono alla stessa funzione le Norne. Inizialmente dal numero indistinto e con affinità di funzioni, nell’Edda di Snorri vengono individuate in una triade, dimorano presso l’albero cosmico Yggdrasyll, accanto a Urðarbrunnr (la «fonte

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del destino») e hanno il compito quotidiano di irrorare con acqua e argilla i rami dell’albero, affinchè non secchino o marciscano. I loro nomi sono Urd (che significa il destino stesso), Verdandi (il divenire) e Skuld (il debito, o colpa). L’incerta etimologia potrebbe derivare da Norn, ossia «colei che bisbiglia un segreto». Benevole o malevole a seconda dei casi, a loro è deputato il compito di decidere il destino di tutti gli esseri viventi, persino quello degli dèi, tanto da poter essere considerate le uniche divinità a godere del privilegio dell’eternità nell’ambito della cosmogonia nordica. Come le Parche, spesso si presentano a convegno presso la culla del neonato e ne decidono la sorte, che nessuno potrà cambiare. Nella Saga dei Volsunghi e nell’Edda poetica si narra che il dio Loki si imbatte nel nano Andvari, il quale gli confida che una Norna infausta ha decretato il suo destino, ossia quello di vivere sotto forma di luccio in una cascata e di custodire l’oro che ivi si trova. In un passo delle Gesta Danorum, il cronista Saxo Grammaticus (XIIXIII secolo) le chiama col termine latino di Parche, sottolineando la sovrapponibilità di funzioni con quelle delle dee del destino dell’antichità classica: «Era costume degli antichi consultare gli oracoli delle Parche sul destino dei figli. Fridlevo (…) vide i tre seggi occupati da altrettante divinità. Di queste la prima concedeva al ragazzo una nobile fisionomia e grande disponibilità di benevolenza umana. La seconda gli donò superiore generosità e nobiltà d’animo. Ma la terza, donna d’animo piú protervo e piú prosperosa d’invidia, irrise alla disposizione piú benigna delle sorelle, e nel desiderio di pregiudicare i loro doni, aggiunse al futuro carattere del ragazzo il difetto dell’avarizia». Nella Breve storia di Nornagestr, racconto risalente al XIV secolo e quindi piú tardo rispetto alla tra-

dizione epica germanica, viene riportato un episodio che presenta straordinarie affinità con quello ellenico di Meleagro. Alla nascita del protagonista Gestr, vengono invitate alcune donne dotate di capacità divinatoria: le prime due predicono un futuro felice e grandi doti per il nascituro, ma la terza piú giovane – tenuta in poca considerazione dalle altre e per di piú gettata a terra da un gruppo di giovani che assistono alla scena, e per questo terribilmente irritata – dichiara che la vita del bambino avrà la durata della candela che in quel momento è accesa al fianco della culla. Anche negli Incantesimi di Merseburgo, formule magiche in antico tedesco probabilmente trascritte da un chierico attorno al IX-X secolo del monastero benedettino di Fulda, si fa riferimento alle Idisi (o Dísir), le quali possiedono il potere magico di intrecciare e sciogliere legami, di influire sugli eserciti e guerrieri in battaglia, e in generale sul benessere e sulla prosperità di una stirpe o di una famiglia. Non è chiaro, peraltro, essendo il termine dísir molto ampio a livello semantico, se rappresentino una categoria a sé stante, o se vadano a sovrapporsi ad altre creature femminili già note.

Valchirie e Matres

Rimanendo nel mondo celto-germanico, va fatto un cenno alle creature che decidono il fato specificamente nel campo guerresco. Abbiamo da un lato le Valchirie: spose di Odino, le Valchirie hanno le caratteristiche di dee della guerra, vestite di armi e armature cavalcano per i campi di battaglia e, in accordo col volere del capo degli dèi, scelgono coloro che sono destinati a entrare nel Valhalla, l’Aula dei prescelti, dove li attende un aldilà di abbondanti libagioni (in norreno Valkyria significa infatti «colei che sceglie i caduti»). Ma non tutte rispettano il volere del sovrano di gennaio

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La Valchiria, olio su tela di Peter Nicolai Arbo. 1869. Oslo, Nasjonalmuseet for kunst, arkitektur og design.

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Accadde a Besançon

Lo scherzo delle «buone cose» Nel Tractatus de diversis materiis praedicabilibus, Stefano di Bourbon descrive la burla che alcuni tipi tirano a un contadino, travestendosi da bonae res: «Parimenti, poiché nella diocesi di Besançon, in una certa parrocchia, la gente credeva a simili cose, dei ribaldi si travestirono da donne e, assunto il loro aspetto, entrarono con delle torce nella casa di un ricco contadino danzando lentamente e cantando: “Ricevi uno, restituisci cento”. E cosí sotto gli occhi del contadino portarono via tutti i suoi beni, mentre quello diceva alla moglie: “Sta’ zitta, e chiudi gli occhi! Diventeremo ricchi, perché quelle sono le ‘buone cose’ e centuplicheranno i nostri averi”». Fate vicino alla culla di un neonato, tavola a colori facente parte di una serie realizzata dal pittore, illustratore e cartellonista francese Georges Dascher. Fine del XIX-inizi del XX sec.

una con un neonato in braccio, le altre con una cornucopia o ceste di frutta, assumendo perciò, oltre alle le vesti di dee del fato, anche quelle dell’abbondanza e della fertilità.

Asgard: Brunilde, per esempio, per aver protetto un guerriero in disaccordo con Odino, verrà punita da questo con un sonno lunghissimo. Affini ma ancor piú sanguinarie, nell’antica mitologia irlandese, sono le tre dee della guerra Morrigan, Badb e Macha (talvolta Nemain), le quali, formando una triade, assumono il nome di Morrigna. Nei panni di splendide fanciulle o brutte megere, o sotto forma di corvi o altri animali, non partecipano direttamente agli scontri, ma con l’uso delle loro arti magiche cercano di influenzare l’andamento dei combattimenti, e godono del massacro della battaglia. In veste di «lavatrici del guado», invece, mentre lavano i panni o le armi di un eroe che le incontra nei pressi di un torrente, annunciano allo stesso di essere prossimo alla morte (vedi box alle pp. 72-73). Di tutt’altra matrice, ma comuni sia alle antiche popolazioni germaniche che celto-galliche, sono le antichissime figure femminili dette Matres, Matrae, Matronae o Matrone. Anch’esse spesso in triade, sono rappresentate iconograficamente

Il destino in un filo

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Tutte le dee del destino, a partire dalle Moire/Parche classiche, per finire con le Norne germaniche sono rappresentate come intente a filare. Nel mondo norreno, in particolare, il filo è immagine della vita stessa; basti pensare che uno dei carmi eddici dedicati all’eroe Helgi riporta che alla sua nascita vennero le Norne a prepararne il destino: «con forza torcevano i fili del fato, (...) là dipanarono i fili d’oro», cantano i versi con rara forza evocativa. Al pari delle loro colleghe del Mediterraneo, le Norne stabiliscono pertanto il destino degli uomini tessendone la trama. Anche le Valchirie filano, talvolta in contesti raccapriccianti, come nella Saga di Njáll: dodici donne, prima dell’inizio della battaglia di Clontarf, vengono descritte mentre lavorano a un telaio che presenta al posto dei contrappesi delle teste umane, e intestini umani come trama e ordito, a sottolineare la drammaticità dei destini dei guerrieri che di lí a poco si fronteggeranno (vedi box a p. 74). Come scrive la germanista Gianna Chiesa Isnardi, «L’atto del

filare, tessere, cucire o ricamare, sempre riferito a donne di nobile rango o alle valchirie (che come le norne hanno potere sul destino degli uomini), rappresenta perciò un atto creativo che si manifesta come un intervento del sovrannaturale nella vita dell’uomo, richiamo a un disegno superiore cui egli deve adeguarsi. Il filo è dunque ciò che unisce i diversi momenti della vita e li riconduce al loro principio». Anche per lo stesso Isidoro di Siviglia (VII secolo) – in un passo delle Etymologiae – Fata, Tria Fata, Fatuae e Parche vengono a coincidere, e attendono all’attività di filatura connessa con la determinazione delle sorti umane: «Tre dee modellano il Destino sulla loro conocchia e sul loro fuso con quelle stesse mani con cui torcono i fili della lana: perché tre sono i periodi del tempo: il passato che è già stato filato e annaspato nel fuso; il presente che passa tra le dita della filatrice; il futuro, e cioè la lana arrotolata sulla conocchia che ancora deve passare tra le dita di colei che fila, allo stesso modo in cui il presente deve diventare passato. Sono chiamate Parche perché non risparmiano nulla. È stato voluto che fossero tre: la prima per ordire la vita dell’uomo, la seconda per tesserla, la terza per spezzarla». Il filo è inoltre legato alla simbologia del legame come strumento invisibile di magia, anch’essa pratica di carattere prevalentemente femminile. Ciò spiega perché le future fate, nell’iconografia tradizionale, sono spesso intente a filare il filo della sorte mortale e associate all’immagine della conocchia e del fuso. Gian Paolo Caprettini, studioso di folclore, ha sottolineato come gli strumenti della filatura, attività eminentemente femminile fin dalla notte dei tempi, siano divenuti per ciò stesso nell’immaginario popolare un attributo di femminilità, e il derivante motivo della filatu(segue a p. 85)

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Dossier categorie letterarie

Racconti melusiniani e morganiani

Secondo lo schema di Laurence Harf-Lancner, si definiscono fate amanti quelle che si innamorano di un mortale. Queste figure amorose, in un certo qual modo, si ricollegano alle ninfe della mitologia classica e, comunque, a tutte quelle creature legate al culto delle acque, delle foreste e delle montagne, che erano solite avvicinare gli uomini e cercare di sedurli. Nell’ambito di questa struttura che si consoliderà in letteratura, Lancner individua due sottotipi narrativi, i racconti cosiddetti melusiniani e quelli morganiani. Nel primo tipo, che prende il nome dalla nota fata Melusina, un essere sovrannaturale femminile si invaghisce di un essere umano, lo sposa e lo segue nel mondo dei mortali, a patto che l’uomo sappia rispettare un divieto. Cosa che solitamente non accade, per cui la fata se ne ritorna per sempre nell’altro mondo, ma lascia una discendenza sulla terra. In contrapposizione a questa trama, se ne sviluppa un’altra, ove la fata si innamora di un umano e lo porta con sé nell’altro mondo. Il ritorno dell’uomo tra gli umani è sempre legato al rispetto di un divieto, la cui violazione comporta la morte dell’eroe oppure la definitiva scomparsa nel mondo fatato. Perciò, in tal caso, l’unione tra l’eroe mortale e l’essere femminile soprannaturale non porta a nessun frutto o filiazione. Come accennato, questo secondo tipo di racconti vengono definiti morganiani, perché nel XIII secolo fata Morgana incarna, nel folclore e nel racconto, il pericolo dell’altra dimensione dato che, nei romanzi che la vedono protagonista, cerca sempre di sottrarre alla società civile i suoi eroi e cavalieri, e di conquistare il loro amore. Sulle due pagine episodi della vita della fata Melusina, xilografie moderne tratte da un incunabolo del XV sec.

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La contesa fra Oberon e Titania, olio su tela di Sir Joseph Noel Paton. 1849. Edimburgo, National Gallery of Scotland. Protagonisti della scena, ispirata a un episodio del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, sono il re e la regina delle fate che si contendono il possesso di un bambino che Titania vuole trasformare nel suo paggio.

ra «meravigliosa» risulti un topos molto diffuso nella fiaba europea.

Madrine e amanti

Anche la tradizionale e ormai classica distinzione di Harf-Lancner circa le fate «madrine» e le fate «amanti» (e all’interno di quest’ultima categoria, i due sottotipi dei racconti melusiniani e morganiani; vedi box a p. 82), sembrerebbe da confutare, o almeno in parte da rivedere. Nel senso che, come precedentemente ricordato, le fate possiedono al contempo caratteristiche materne/matrigne e amorose. È pertanto da prendere con qualche cautela l’affermazione secondo la quale in un primo tempo nei romanzi francesi nel XII secolo vi sarebbero quasi soltanto fate madrine, e che le fate amanti si affermerebbero piú tardi, dando vita al nucleo narrativo in base al quale la creatura femminile si unisce all’uomo mortale per dar vita a una discendenza (nel caso dei racconti cosiddetti melusiniani) oppure porta con sé l’eroe nell’altro mondo, con un’unione quindi sterile. Tale distinzione, anche se non veritiera, è di utilità per un’operazione semplificatrice. Non si può negare, tuttavia, che in alcuni componimenti i tratti della fata madrina/ matrigna escano in superficie in maniera piú netta che in altri. Ecco dunque che nel romanzo di Escanor di Gérard d’Amiens (1280), le fate decidono i doni da conferire in dote a Galvano, ossia il coraggio, la cortesia nonché la prerogativa di veder aumentare la propria forza grazie all’irraggiamento

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

solare. Nel Cléomadès di Adenet Le Roi (1270 circa), l’eroe protagonista narra che le fate non solo hanno deciso alla nascita la sua sorte, ma che lo portano in volo ogni tre anni collocandolo su un cavallo di legno, in viaggi fantastici che evocano le credenze stregonesche sulle cavalcate notturne guidate da Dama Abonde, Diana o Erodiade. Nelle Merveilles de Rigomer (seconda metà del XIII secolo), uno degli ultimi romanzi di materia

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arturiana, Lancillotto e Galvano si mettono in cerca del castello irlandese di Rigomer, sottomesso a un malefico incantesimo per colpa di una fata indispettita. Nello stesso romanzo, Cligès si trova in un cimitero a combattere con una sorta di revenant/vampiro, che si desta non appena l’eroe gli estrae una lancia conficcata nel corpo. Il morto vivente gli racconta che quattro fate, alla sua nascita, gli diedero il destino di non rimanere mai feri-

to, se non andando a Rigomer, e anche quello di rimanere immobile fino a quando il troncone della lancia gli fosse rimasto in corpo, e di diventare feroce non appena gli fosse stato estratto. Alla fine Cligès si sbarazza dello «zombie» invincibile, rimettendogli la lancia nella ferita, e trafiggendone il cuore. Ma il caso piú eclatante di fate che intervengono a decretare il destino altrui si incontra in Huon de Bourdeaux, canzone di gesta ove gennaio

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Le versioni di Burcardo e Guglielmo d’Alvernia

Donne della foresta e cavalieri fatati

Le Parche, incisione di Giorgio Ghisi, da un originale di Giulio Romano. 1558. Washington, National Gallery of Art.

si narra di Aubéron, figlio di Giulio Cesare e della fata Morgana, nonché signore del regno di Féerie. Alla sua nascita, intorno alla culla accorrono le fate, che lo colmano di doni meravigliosi, ma la prima di loro – risentita per una ragione inspiegabile – lo punisce con una crudele condanna, come racconta

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Attorno al Mille, Burcardo di Worms, nel suo Decretum, noto penitenziale a uso del clero, accomuna due tipi di donne soprannaturali, ossia da un lato le Parche che decidono i destini dell’uomo, dall’altro esseri misteriosi femminili agresti o che vivono nelle foreste e che si congiungono ai loro amanti per poi sparire nel nulla. Con riferimento a entrambe, egli pone le sue consuete domande e relative ammende: «Hai creduto ciò che alcuni solitamente credono, cioè che esistano queste donne, chiamate dal popolo Parche, e che possiedano i poteri che a loro sono attribuiti? Hai creduto che alla nascita di un uomo facciano di lui ciò che vogliono, come se quell’uomo potesse, se lo volesse, trasformarsi in lupo, che la stoltezza del popolo chiama lupo mannaro, o assumere altra sembianza? Se hai creduto possibile o plausibile che l’immagine divina potesse assumere altra sembianza o altra apparenza se non per volontà di Dio onnipotente, devi far penitenza per dieci giorni a pane e acqua. Hai creduto quello che alcuni sono usi credere, cioè che esistano creature femminili agresti che vengono chiamate donne della foresta e di cui si dice che siano creature di sostanza corporea che si mostrano, quando vogliono, ai loro amanti per prendere piacere con loro, ma che, quando lo vogliono, si nascondono e svaniscono? Se hai creduto questo devi far penitenza dieci giorni a pane e acqua… Hai fatto ciò che alcune donne sono use fare in certi periodi dell’anno, hai cioè allestito in casa tua un desco e disposto su di esso cibi e bevande con tre coltelli affinchè, se mai venissero quelle tre sorelle, chiamate Parche da un’antica stoltezza che continua a perpetuarsi, lí potessero ristorarsi sottraendo in tal modo parte della reverenza dovuta a Dio, al Suo potere, al Suo nome, per farne dono al diavolo, credendo, te lo ripeto, che quelle creature che affermi essere sorelle, possano giovarti nel presente o nel futuro? Se hai compiuto tali gesti o se sono stati fatti con il tuo consenso, fai penitenza per un anno durante le feste comandate». Tempo dopo, anche Guglielmo d’Alvernia, vescovo di Parigi (1180-1249), nel De Universo, parla di creature che sono legate alla predeterminazione del destino degli uomini, esprimendosi in questo modo: «Ma ancora oggi presso molti popoli, e forse in tutti, esiste una simile credenza per ciò che riguarda molti di questi illustri cavalieri che vengono chiamati fatati, per indicare che le loro imprese sono state profetizzate o predette da dei o dee prima che esse si realizzassero. Alcuni hanno riportato che esistevano delle dee che facevano tali profezie soprattutto al momento della nascita. Questa credenza si basa forse su simili narrazioni e su affermazioni di uomini che dicevano di aver sentito delle dee parlare fra di loro sul destino dei bambini che nascono; o forse essi hanno trovato piú opportuno che fossero dee e non dei ad assistere le partorienti, al momento della nascita degli uomini. Anche se tali narrazioni sembrano aver origine nelle superstizioni e nei vaneggiamenti di vecchie, sono tuttavia diffuse quasi ovunque e non solo sono chiamati fatati molti uomini del passato, ma anche alcuni fra i miei contemporanei in terre non molto lontane da quelle in cui sono nato».

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lo stesso Aubéron: «Alla mia nascita ci fu gran gioia; / Tutti i baroni giunsero dal regno. / Le fate vennero a visitare mia madre; / Ma una vi fu che non fu messa a suo agio, / Cosí mi diede il dono che ora saprete: / Che io diventassi un piccolo nano gobbo; / Tale ora io sono, a causa del suo cuore irato». Poi, pentita della sua crudeltà, attenua il maleficio conferendogli una bellezza sovrumana. La seconda fata dona a Aubéron il potere di leggere nel cuore degli uomini, la terza di andare ovunque con la sola forza di volontà, la quarta l’innocenza di cuore che gli permette di divenire il fratello di tutti gli animali e di udire il canto degli angeli. Dalle fate il piccolo nano ottiene in

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dono anche un corno magico dalle proprietà sovrannaturali, capace di guarire gli ammalati, saziare gli affamati e rallegrare gli infelici.

Le sorti di Brunilde

L’intervento di fate in qualità di dee del destino si ritrova anche in altri componimenti che vanno ad arricchire le vicende del piccolo re di Féerie, come nella prima continuazione di Huon, e nel Roman d’Aubéron (in realtà una sorta di prequel di Huon de Bourdeaux), ove quattro fate madrine già intervengono alla nascita di Brunilde, futura nonna di Aubéron. Le prime tre la colmano di doni positivi mentre la quarta, come da copione, svolge

il ruolo di fata irritata e condanna la bambina, all’età di sette anni, ad allontanarsi dal mondo terreno e a entrare nel regno di Féerie, divenendone la regina e prefigurando cosí il regno del futuro nipote. Come si è detto, fata materna e nutrice e fata amorosa spesso coincidono e si sovrappongono, come nel romanzo Enfances de Brun de la Montagne (XIV secolo). All’inizio, infatti, si accenna all’usanza dei nobili di far condurre dai loro servi i figli nel folto della foresta, in un luogo solitario, in modo tale che le fate decidano il loro destino. Cosí quando a Butor de la Montagne nasce un figlio, egli decide di farlo portare alla fontana delle fate, ingennaio

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The Rose Bower, olio su tavola di Edward Burne-Jones. 1885-1890. Faringdon (Inghilterra), Buscot Park. Il dipinto fa parte della serie The Legend of Briar Rose, ispirata alla Bella addormentata dei fratelli Grimm.

contro al suo destino. Di lí a poco, compaiono nella radura tre dame, accompagnate da una luce intensissima e da canti melodiosi. Sono appunto fate che, nel ruolo di Parche, procedono a decidere la sorte del piccolo: la prima fa dono di bellezza, scienza e coraggio, mentre la seconda – indispettita perché le è stata tolta la parola – condanna l’infante a diventare «mendiant d’amour», ossia a cercare invano l’amore. La terza, per rimediare alla maledizione, si trasforma in fata amorosa e nutrice, in quanto si offre di allevare il fanciullo fino all’età di quindici anni, per trasformarsi successivamente in una dama piacente che accorre-

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rà a consolare il giovane Brun, non appena questi sarà vittima del primo amore infelice.

Tutti a tavola

Una scena classica della narrativa medievale romanza, che diverrà poi uno dei temi piú caratteristici dei racconti di fate, è quella che vede, al momento in cui un bambino viene al mondo, la preparazione di un banchetto in onore delle fate (il cosiddetto repas des fées) che verranno a decidere il destino del neonato. Dal positivo svolgimento o meno del banchetto dipenderà la benevolenza delle fate visitatrici. Un esempio si trova nel romanzo Amadas et Ydoine, ove fa la sua

apparizione anche il motivo folclorico della vendetta della fata. Ydoine, per sfuggire al promesso sposo, il conte di Nevers, e rimanere fedele all’amato Amadas, chiama in aiuto tre streghe le quali, grazie ai loro artifizi magici, assumono le sembianze di tre fate, spacciandosi agli occhi del conte quali Dee del destino (in maniera significativa i loro nomi – Cloto, Lachesis e Atropos – rimandano alle Moire greche). Durante la notte, alla vigilia delle nozze, appaiono al conte tra sonno e veglia, cominciano ad apparecchiare una magnifica tavola: «Una tovaglia ricca e grande, bella e bianca stendono dinanzi a sé, e tre coppe d’argento, molto belle, tre cucchiai e tre scodelle, e tre coltelli dai manici bianchi, e poi tre pani di fior di farina. Hanno cibi e vivande pregiate, e bevande di molti tipi. E dopo aver mangiato e bevuto iniziano a discorrere, e come Signore del Destino riferiscono i fatti di molte contrade, le faccende di tutto il mondo, sia della terra che del mare profondo». Poi gli confidano che furono loro stesse a essere presenti al banchetto tenuto alla nascita di entrambi gli sposi, e ad aver decretato per loro un triste futuro, a causa dell’ira in loro suscitata dall’esser state private di un coltello e di una forchetta. Per questo motivo avevano cosí deciso: se il conte di Nevers avesse avuto la sfortuna di avvicinare la moglie, sarebbe morto entro l’anno. Con questo stratagemma Ydoine riesce quindi a sottrarsi all’odiato marito e a preservarsi per l’amato Amadas. Un secondo caso di banchetto fatato si incontra in un brano del Jeu de la Feuillée, opera teatrale

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Walpurgisnacht!, ovvero il sabba di streghe nella notte di santa Valpurga, consumato, per massimo spregio, nella data in cui i cattolici celebrano la santa inglese che nell’VIII sec. evangelizzò la Germania, incisione di Michael Herz. XVII sec. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.

composta da Adam de la Halle nel 1276 per commemorare il miracolo della sainte Chandelle, solennità celebrata dalla Confraternita dei giullari e dei borghesi di Arras il giovedí seguente la festa della Trinità, che in quell’anno capitava il

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3 giugno. Ebbene, nel Jeu si narra che in quella notte due chierici – Riquiece Auris e Adam – imbandiscono una mensa in occasione dell’arrivo delle tre fate, che in questo caso hanno i nomi di Morgue, Arsile e Maglore.

Una distrazione fatale

Malauguratamente, i due chierici dimenticano di porre il coltello nel posto riservato alla terza fata per cui, mentre le prime due riservano laute elargizioni, Maglore si vendica dei giovani elargendo doni «infausti», rendendo calvo uno e impe-

dendo all’altro di realizzare il progetto di andare a studiare a Parigi. Il terzo caso è quello di Troilo e Zelandine, inserito nell’ambito del Perceforest, lungo romanzo del XIV secolo che narra la preistoria dell’Inghilterra di re Artú. Nel caso specifico tre dee – Venere, Lucina e Temi – presiedono alla nascita di Zelandine, figlia del re Zellande, sovrano dell’isola di Zelande; la terza dea, adirata perché non trova il coltello vicino al suo piatto, lancia una maledizione nei confronti della bambina, che si sostanzia in un sonno simile alla morte, a causa di gennaio

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Da leggere Laurence Harf-Lancner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo, Einaudi, Torino 1989 Carlo Donà, La fata-bestia e la bestia fatata: note per una definizione della fata, in Sonia Maura Barillari (a cura di), Fate, edizioni dell’Orso, Alessandria 2012; pp. 3-31 Carlo Donà, La fata serpente, WriteUp Site, Roma 2020 Francesco Benozzo, I nomi della fata nei dialetti d’Europa», in Sonia Maura Barillari (a cura di), Fate, edizioni dell’Orso, Alessandria 2012; pp. 43-56 Susanna Scavello, Tra idolatria e merveille: il «pasto delle fate» nella letteratura antico francese del XIII e XIV secolo, Università di Torino, 2016 Alessandra Tozzi, Brunilde e Rosaspina. Mito e fiaba dagli indoeuropei ai fratelli Grimm, Il Cerchio, Rimini 2012 Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici, Longanesi, Milano 1991 Sonia Maura Barillari, Protostoria della strega, Virtuosa Mente, Aicurzio 2014

un frammento di lino che le penetra il dito di una mano. Sarà poi anche grazie all’intervento dell’impacciato Troilo che la fanciulla si risveglierà dal sonno incantato, venendo a rappresentare il primo attestato medievale del motivo della Belle au bois dormant, che giungerà fino alle fiabe di Perrault e Grimm.

Dalle bonae res al sabba

Se i racconti romanzi associano chiaramente il tema del banchetto alle fate, prevalentemente in occasione della nascita di bambini, dalla cultura dotta latina del tempo –

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pressoché coeva, ma appannaggio esclusivo degli ecclesiastici – trapelano importanti testimonianze circa la credenza diffusa nel volgo di offerte alimentari che venivano date, in talune occasioni, a entità soprannaturali femminili, per propiziare benevolenza e prosperità. Si può pensare al riferimento che Burcardo di Worms (XI secolo), nel suo Decretum, fa alla superstizione di offrire «cibi e bevande con tre coltelli» a quelle che continua a chiamare Parche, oppure a ciò che dice Guglielmo d’Alvernia nel De Universo, circa la presenza di Satia o Domina Abundia, apportatrice di abbondanza nelle case che visita. Tale spirito femminile mangia e beve ciò che trova nelle tavole delle abitazioni, recando fortuna nel caso in cui i recipienti dei cibi e delle bevande siano stati lasciati aperti, disgrazia in caso contrario. Simili usanze, relitti antichissimi di convinzioni circa il ritorno dei morti e di entità soprannaturali che possono influire sul benessere o meno della comunità, si intersecano con la tematica delle bonae res («cose buone»), bonae mulieres, bonnes dames – nomi assunti a seconda delle zone – donne, appunto, che di notte si introducono nelle abitazioni e recano ricchezza e doni nel caso in cui siano ben ac-

colte. In un exemplum, Stefano di Bourbon (1180-1256) ci propone in chiave comica la scena di giovani travestiti da bonae res che, di notte e con le torce, entrano in casa di un contadino e, ingannandolo, svuotano di tutto l’abitazione, sotto gli occhi del credulone e di sua moglie (vedi box a p. 81). Nella gran parte dei casi documentati dagli ecclesiastici, si assiste, però, a un netto slittamento in negativo del significato di tali apparizioni. Se all’inizio potevano essere fatae nel senso di «dee del destino» o comunque presenze abbastanza neutre, se poi, basti pensare al Decretum di Burcardo, diventano superstizioni che richiedono solo blande penitenze, esse si trasformano ben presto in entità malefiche. Ne sono prova le attestazioni di Jacopo da Varazze (1228-1298) o di Jean de Mailly (1190-1260), circa episodi della vita di san Germano, in cui le bonae mulieres confessano di essere in realtà demoni, oppure quelle di Giovanni di Salisbury (1120-1180) che, nel Policraticus, fa riferimento a raduni, convivi e festini notturni, dovuti all’inganno del Maligno. La strada verso la trasformazione in sabba stregonico, di quello che all’inizio si presentava come repas des fées, era ormai segnata.

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Come un nido d’aquila di Franco Bruni


Molto resta ancora da chiarire sulla storia di uno dei piú spettacolari e meno conosciuti castelli d’Italia: quello di Roccascalegna, in Abruzzo. Oggi tornato ai fasti di un tempo grazie a un importante intervento di restauro

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ollocato in una cornice fiabesca, in posizione dominante sull’abitato (455 m slm), il castello di Roccascalegna (Chieti, Abruzzo), nel cuore del Sangro Aventino, è uno dei quei luoghi in cui il connubio tra l’asperità del paesaggio, a ridosso della catena della Maiella, e la presenza umana si combinano in un unicum dal fascino innegabile. Piuttosto sporadiche sono le notizie sulla storia piú antica del castello. La prima menzione risale al 1160: si tratta del Catalogus baronum, redatto dalla Duana Baronum, che, in epoca normanna, era l’ufficio regio preposto al controllo e alla gestione dei feudi del regno. Secondo lo storico locale Lucio Cuomo, è possibile che il sito castellano abbia origini longobarde, ma la sua denominazione non esclude altre ipotesi. Nel suddetto Catalogus, l’insediamento castellano è citato come Rocca Scarengia, possedimento del conte di Manoppello e «scarengia» potrebbe derivare da «scarenna», termine che, nel Nord Italia, indica un dirupo, quale potrebbe essere quello su cui il castello è costruito. Una seconda ipotesi farebbe derivare Roccascalegna dal nome longobardo Aschari: forse un capo militare che, nel corso dell’occupazione longobarda dell’Abruzzo, nel VII secolo, qui stanziò un avamposto a controllo della valle del Rio Secco, contro i Bizantini che occupavano la vicina zona costiera.

Tutte le immagini dell’articolo si riferiscono al castello di Roccascalegna (Chieti, Abruzzo). Veduta panoramica del castello. Da sinistra a destra, la Torre Angioina, piú in alto la Torre di Guardia (unica torre quadrata del complesso), la Torre del Carcere e la Torre della Sentinella.


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In alto veduta a volo d’uccello del castello. Sulla destra, si riconosce la chiesa di S. Pietro. Nella pagina accanto una suggestiva veduta invernale del castello e della vicina chiesa di S. Pietro AR

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Nell’XI secolo, la regione divenne terra di conquista dei Normanni che estesero il proprio dominio all’intera Italia meridionale. E a questo periodo risalgono, piú probabilmente, il primo insediamento e la fondazione del castello sotto il feudatario Beomondo, conte di Manoppello. Successivamente, in epoca sveva – siamo agli inizi del XIV secolo –, il sito di Roccascalegna viene definito «cum castellione», termine che non lascerebbe dubbi sulla presenza di un insediamento fortificato. Ulteriori fonti ci portano, infine, al XVI secolo, quando a Raimondo d’Annecchino, condottiero al servizio della corte aragonese, viene assegnata, insieme ad altri centri limitrofi, Roccascalegna, che resterà in feudo alla famiglia per un secolo.

Ripetuti passaggi di mano

Dal Catasto Onciario del 1525 (Archivio di Stato di Napoli) – come ricorda il già citato Lucio Cuomo – sappiamo che un discendente di Raimondo, Giovanni Maria d’Annecchino, lasciò un’impronta importante nella storia del castello. A lui si devono la costruzione di quattro torri e l’ampliamento della fortificazione. A seguito della perdita di tutti i feudi da parte di quest’ultimo, Roccascalegna, passò quindi di mano in mano,

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medioevo nascosto abruzzo sotto il dominio di varie famiglie. Nella seconda metà del XVI secolo, il feudo viene venduto alla famiglia Carafa, per poi passare, dal 1599 al 1717, alla famiglia de Corvis, di cui un solo componente, Giuseppe, vi dimorò stabilmente fino alla morte (1645). L’ultimo capitolo della storia del castello vede il passaggio del feudo ai Croce Nanni, che, nel 1985, hanno donato la proprietà al Comune. A quest’ultimo si deve l’esecuzione di un lungo intervento di restauro, ultimato nel 1996. L’ardito posizionamento su una rupe fanno del castello un ottimo punto di avvistamento, che giustificherebbe anche la decisione di ampliare, attorno

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all’XI-XII secolo, una precedente torre di avvistamento (VII secolo?), costruita presumibilmente durante l’occupazione longobarda di questi territori. I restauri degli anni Novanta del secolo scorso hanno in effetti evidenziato varie fasi costruttive, segnate da crolli e successivi rifacimenti, che impediscono di ricostruire con precisione le vicende del fortilizio. In ogni caso, per l’età piú antica, prima degli interventi di Giovanni d’Annecchino (1525), si può parlare di una prima fase normanno-sveva, durante la quale il castello era provvisto di torri quadrate (non piú esistenti, eccetto la Torre di Guardia) e di muri di cinta merlati, e una seconda

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fase angioino-aragonese, durante la quale vengono riedificate alcune torri e ricostruita la Torre di Guardia.

Sulla sommità dello sperone roccioso

«La Roccascalegna consiste in un Castello forte edificato in una rocca di pietra forte posto in altura di belli edificii (…) con quattro Torri novi et una Torre antica». Questa descrizione del 1525 è la prima a informarci, con qualche dettaglio, sull’aspetto architettonico del castello e risale all’epoca del già menzionato Giovanni Maria d’Annecchino: si parla di una fortezza con quattro torri circolari e una d’impianto quadrato, piú antica, collocata

nel punto piú alto dello sperone roccioso. Al XVI secolo risalgono anche la riedificazione e l’innalzamento delle mura, nonché la costruzione della cappella del Santissimo Rosario da parte dei Carafa (1577), oggi priva degli elementi architettonici che ne rivelano la destinazione originale. L’accesso al castello si trova alla fine di una ripida scalinata, di fattura recente, scavata sulla roccia, alla cui sommità stava in origine un ponte levatoio, accompagnato, sulla destra, dai resti di una torre circolare, la Torre di Sentinella, probabilmente ampliata nel XVI secolo dagli Annecchino. Superato l’accesso, sulla Sulle due pagine la chiesa di S. Pietro, con i monti della Maiella sullo sfondo. In basso, nel riquadro un’altra veduta del castello. Da sinistra a destra, in successione, la Torre Angioina, la Torre del Carcere, la Torre di Guardia (l’unica a pianta quadrata del complesso) e la Torre della Sentinella.

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In alto un ambiente utilizzato in origine come magazzino e ora destinato ad attività culturali. A sinistra la Torre di Guardia. Nella pagina accanto, a destra il cortile interno del castello.

sinistra si apre un portale che dava accesso a una torre circolare, crollata nel 1940. Piú avanti, sempre sulla sinistra, sono presenti, in successione, gli edifici che costituiscono il nucleo del castello. Innanzitutto, la Torre del Carcere, fatta costruire da Alfonso d’Annecchino nel 1525 – il suo nome è inciso sulla piccola architrave di una finestra della torre –, che, nel piano inferiore, ospitava la prigione. L’ambiente successivo è una cisterna destinata a raccogliere le acque piovane dai tetti degli edifici circostanti. Addossata alla cisterna, si trova la Torre Angioina, molto meno ampia di quella del Carcere. Ancora una volta

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sono gli elementi architettonici interni a suggerire la destinazione dell’ambiente: la presenza di un forno, al piano inferiore, lascia intendere che si tratta di un luogo anticamente adibito alle cucine; al piano superiore, si può invece presupporre la presenza di una mensa e/o comunque di un ambiente nel quale si svolgeva la vita quotidiana e potevano essere ricevuti gli ospiti. Accanto alla Torre Angioina, e nel punto piú estremo della rupe, sorge la piccola cappella del Santissimo Rosario (1577), un edificio semplice, con tetto a doppio spiovente, portale e un oculo in facciata: caratteristiche tipiche di un luogo di culto. Durante i restauri sono state gennaio

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trovate tracce di merlature sul muro di sinistra: è dunque probabile che, prima della sua trasformazione in cappella, l’edificio avesse una funzione differente.

La costruzione piú antica

Separata dal resto del complesso, e in posizione dominante rispetto alle restanti architetture, è la Torre di Guardia: l’unica a impianto quadrato, da cui si snoda, nelle sue prossimità, un camminamento di ronda che arriva alla Torre di Sentinella. Dalle indagini effettuate in occasione dei restauri, si presume che questa sia la costruzione piú antica dell’intero complesso (XIV-XVI secolo), eretta sul luogo (o nei pressi) di una torre precedente, ed edificata con materiale di diversa provenienza; la torre presenta aperture su ogni lato e una merlatura di coronamento. Oltre alle mura che circondano il complesso, innalzate sulla rupe, troviamo un secondo edificio, realizzato in prossimità del castello, a una quota inferiore: è la chiesa di S. Pietro, di origine medievale – probabilmente identificabile con la cosiddetta «cappella del Barone» –, ma che ha subito ampi rifacimenti tra il XV e il XVI secolo: sul portale è incisa la data del 1461, mentre la torre campanaria che l’accompagna, è il frutto di un restauro del XIX secolo; la presenza di merlature nella

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parte superiore della struttura suggerisce che sia stata, anticamente, una torre costruita a scopo difensivo. Come si può dunque intuire, molto resta ancora da chiarire sulla storia del castello di Roccascalegna. Di certo, a ogni passaggio di mano, le famiglie che di volta in volta hanno avuto il controllo del feudo hanno lasciato la propria impronta sul sito, con interventi volti ad ampliarne gli ambienti e a svilupparne le capacità difensive. Grazie ai restauri degli anni Novanta, il castello è tornato al suo antico splendore ed è divenuto il teatro di numerosi eventi e manifestazioni culturali. Non da ultima, la scelta di farne, nel 2015, una delle location del film Il racconto dei racconti del regista Matteo Garrone, che proprio a Roccascalegna ha ambientato una delle novelle dell’opera Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile al quale il film si è ispirato. Un tributo, anche questo, a uno dei piú spettacolari e meno conosciuti castelli d’Italia.

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Storie, uomini e sapori

Quando la cucina era un inferno... di Sergio G. Grasso

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er millenni, contadini, braccianti, servitori e tutti gli altri membri delle classi subalterne che avevano la fortuna di vivere sotto un tetto hanno abitato in casupole, capanne o baracche di una sola stanza, con al centro un cerchio di pietre che fungeva da fonte di calore, di luce e di fuoco per la cottura. Fumi e vapori trovavano via d’uscita in una semplice apertura sul tetto, quasi sempre di paglia e fatalmente preda delle fiamme. Basti pensare che, nel 1189, per limitare i frequenti roghi, Enry Fitz-Aylwin Londonestone, Lord Mayor di Londra, dopo un devastante incendio scatenato da un pogrom antiebraico, emise un decreto che obbligava a edificare i tetti in pietra e tegole; vent’anni piú tardi, una legge obbligava a intonacare i solai in paglia affinché resistessero meglio al fuoco e già nel 1276, a Lubecca, ogni parete doveva essere costruita con materiali ininfiammabili, pena la confisca della casa. Seppur lentamente, il focolare migrò dal centro alle pareti in pietra, con l’aggiunta di una canna fumaria che diminuiva il rischio di incendio. I primi caminetti a parete con spallette laterali fecero la loro comparsa nel Nord Italia tra il 1200 e il 1300; a Venezia se ne ha notizia nel 1227, a Pisa nel 1298, mentre a Roma se ne registra il primo esemplare nel 1370 nel palazzo del nobile padovano Francesco Carrara.

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Complemento irrinunciabile del caminetto era il gancio a catena o a braccio oscillante, al quale fissare il calderone in ghisa o in bronzo a diverse altezze. In alternativa, un supporto ad anello provvisto di gambe permetteva di poggiare direttamente sulle braci le pentole in terracotta. Nelle case popolari, oltre all’ebollizione, i modi piú economici per preparare il cibo erano la stufatura e la cottura «in umido», che, concentrando i preziosi succhi, garantivano anche il condimento, piú o meno brodoso, da raccogliere col pane o col cucchiaio.

Il forno: un lusso per pochi Solo le famiglie benestanti o nobili potevano permettersi un forno privato, che consumava molta preziosa legna. Le casalinghe portavano a cuocere il pane dai fornai, che nei borghi medievali e nelle città erano pochi, quasi sempre lontani tra loro e sottoposti a rigide normative sulla costruzione e il funzionamento dei loro impianti. In sostituzione del forno, per la cottura casalinga del pane si ricorreva a pentole in ghisa con coperchio che venivano letteralmente ricoperte di braci. Monasteri, case padronali, castelli e abitazioni borghesi erano i luoghi in cui i cuochi medievali esercitavano il loro mestiere. Se si escludono rare eccezioni – come Guillame

Tirel, piú noto come Taillevent, capo-cuoco del re di Francia, che fu profumatamente ricompensato per i suoi servigi – il cuoco non godeva di una reputazione migliore degli altri servitori. A parte la sua mancanza di istruzione (spesso entrava in cucina all’età di sei o sette anni), il cuciniere era considerato per ciò che era: un servo disordinato e puzzolente, irascibile e scontroso, dotato di un ruvido senso dell’umorismo e tendente a ubriacarsi sul posto di lavoro. Va detto, però, che vivere quindici ore al giorno dentro cucine anguste, fumose, fragorose e caldissime era un vero inferno; a questo si aggiungeva il continuo assedio di fornitori, servitori, perditempo, assaggiatori, cani, gatti, volpi, ratti e mosche. Non c’è da stupirsi, quindi, se il caratteristico mestolone fosse usato dal cuoco non solo per assaggiare il cibo, ma anche per disciplinare la brigata e scacciare i vari intrusi. Resta il fatto che, ancora nel XIV secolo, il lavoro di uno scrivano era considerato di gran lunga superiore a quello di un cuoco che soddisfaceva gli appetiti di un’intera corte. A partire dal XV secolo i cuochi a servizio delle famiglie aristocratiche iniziarono a considerare il loro lavoro molto piú di uno scialbo mestiere. Tra questi c’era anche Maître Chiquart, capo-cuoco del duca Amedeo VIII di Savoia e gennaio

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Disegno ricostruttivo della cucina del refettorio dell’abbazia cistercense di Rievaulx (North Yorkshire, Inghilterra), cosí come doveva presentarsi nel XIV sec. Fu uno dei piú ricchi complessi religiosi inglesi fino a quando non venne chiuso nel 1538, per ottemperare alla decisione di Enrico VIII di abolire i monasteri.

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Servizi da tavola in uso nel XV sec. in una tavola realizzata per l’opera Les arts somptuaires. Parigi, 1857. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la cottura di carni di maiale allo spiedo, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

autore del trattato Du fait de cuisine (1420), che si considerava un artista e uno scienziato responsabile della salute e del benessere dei suoi datori di lavoro, delle loro famiglie e dei molti ospiti di alto rango che partecipavano ai banchetti. Come Chiquart, altri cuochi di corte dovevano lavorare a stretto contatto con i medici, familiarizzando con la teoria ippocratica dei quattro «umori» il cui equilibrio dipendeva anche dalla sapiente combinazione delle quattro «nature» che caratterizzavano i diversi alimenti. A ogni alimento veniva assegnata una combinazione di due qualità umorali (caldo-secco, caldo-umido, freddo-secco e freddo-umido) che potevano essere esaltate o sminuite dal metodo di cottura impiegato. Questo era particolarmente importante per la preparazione della carne; cosí la carne di maiale, di natura fresca e umida, andava sottoposta all’effetto riscaldante e essiccante della tostatura; la lepre, come la maggior parte degli altri animali selvatici, aveva natura calda e secca quindi idonea alla lessatura. Oltre alla maestria nei metodi

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di cottura e alla consapevolezza «scientifica», il maestro cuciniere del Tre-Quattrocento doveva possedere un talento artistico tale da fargli ideare piatti con forme e colori seducenti. Benché la realizzazione di un banchetto importante rappresentasse la massima ambizione di un cuoco, la maggior parte del suo lavoro restava tediosa, faticosa e tutt’altro che glamour. A lui spettava di vigilare su tutte le forniture – dalla legna da ardere ai prodotti alimentari e alle stoviglie – e di comunicare scorte, necessità e spese agli uffici amministrativi, ai sovrintendenti di palazzo, ai custodi e i provveditori di tavola.

Quasi come un esercito Nel 1440 le cucine di Palazzo Colonna a Roma erano affidate alle diligenze di un maestro-cuoco assistito da due maggiori di cucina che impartivano ordini a una trentina di assistenti, tutti essenziali per la preparazione del banchetto: macellai, verdurieri, legnaioli, fuochisti, calderai, acquaioli, vinattieri, dispensieri… A questi si aggiungeva un imprecisato

contingente di sguatteri non pagati che giravano gli spiedi, pulivano il pesce, lucidavano pentole e padelle, spazzavano i pavimenti, rimuovevano la cenere e… dormivano in cucina. Questo fu anche l’apprendistato del grande Taillevent nel 1326, prima di divenire capo-cuoco di re Carlo V. Le grandi cucine aristocratiche del tardo Medioevo avevano mura in pietra, pavimenti di mattoni e diversi focolari addossati o incassati nelle murature. I duchi di Borgogna attribuivano grande importanza ai banchetti ufficiali e durante il XV secolo la loro corte era considerata quella in cui si mangiava e beveva meglio. Nel 1433 Filippo il Buono fece ristrutturare la cucina principale del palazzo di Digione su base quadrata, con 12 m di lato. Gli acquai occupavano un’intera parete, mentre i tre lati restanti ospitavano sei camini gemelli, sostenuti da colonne. Su un grande tavolo di pietra riscaldato da bracieri a carboni, venivano poggiati i vassoi di cibo per mantenerli caldi prima del servizio. I fumi venivano convogliati verso il tetto

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CALEIDO SCOPIO Disegno ricostruttivo della cucina dell’Old Wardour Castle (Wiltshire, Inghilterra) in epoca medievale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un signore seduto a una tavola riccamente imbandita, scelta come allegoria del mese di gennaio, dal Breviario Grimani. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. a cupola provvisto di finestre e lucernai. Attraverso un corridoio di servizio si raggiungeva un altro edificio che ospitava le dispense, il panificio, la pasticceria e un cortile con pozzo. Da quest’ultimo partiva una conduttura idraulica che consentiva di riempire i grandi bollitori sospesi sopra i caminetti; le acque reflue e di lavaggio venivano convogliate verso un canale a dispersione esterna. Le descrizioni delle feste dei duchi di Borgogna a Digione riempiono le Memoires di Olivier de la Marche (1425-1502) che riferiscono di zuppe fumanti, carni stufate, arrosti in civiere, pesci farciti, storioni lessati nel vino, piramidi di pollame arrosto e selvaggina di ogni specie. Quando si pensa alla logistica di un grande banchetto medievale, si ragiona sulla quantità di ingredienti necessari per preparare i settanta, ottanta, cento e piú piatti elencati in molte cronache e testi di gastronomia dell’epoca. Eppure, qualsiasi cuoco, anche il migliore, avrebbe fallito miseramente senza un’adeguata scorta di legna da ardere. Si stima che la sola arrostitura di un cinghiale di 70

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chili con le tecniche e gli strumenti di allora richiedesse non meno di 150 chili di combustibile, senza contare che la lessatura preventiva – che fu in uso sino al Seicento – ne richiedeva altrettanti. A questo provvedeva uno stuolo di garzoni che trasportavano in cucina fascine, ceppi e tronchi di denso legno secco. Solo verso la fine del Cinquecento si cominciò a sostituire la legna col carbone, meglio ancora se di pioppo che produceva un calore uniforme e duraturo, ma anche un fumo denso e scuro che ammorbava i locali.

Mantici e canne Camini e focolari richiedevano la presenza continua di inservienti incaricati di rintuzzare i tizzoni e le fiamme spingendo su grandi mantici o, peggio ancora, soffiando in lunghe canne, procurandosi ustioni alla gola o ai polmoni a causa dell’aria rovente inspirata. Prima ancora di mantenerlo vivo, l’operazione piú complessa riguardava l’accensione del fuoco. Ci si doveva procurare un’esca ben secca, battere la pietra focaia sull’acciarino e far cadere la scintilla giusta sull’esca per ravvivarla

subito soffiandoci sopra. Ottenuta la prima fiammella, la si posava sotto alcuni rametti secchi e poi si aggiungeva la legna via via piú grossa, facendo nel frattempo attenzione al tiraggio. Nelle case, quando il fuoco accidentalmente si spegneva, anziché ripetere la macchinosa operazione, le donne andavano dalla vicina chiedendo di poter accostare uno straccio alla fiamma con cui riaccendere il camino. Per questo motivo la sera si evitava di spegnere le braci che si lasciavano «dormienti» in attesa di ravvivarle il giorno successivo. Per evitare gli incendi, le si chiudeva con un coperchio ceramico bombato provvisto di fori di ventilazione. L’utilizzo di questo semplice strumento, nei grandi agglomerati urbani, veniva addirittura segnalato da tocchi di campana, che ricordavano alle persone di spegnere le fiamme e usare il copri-fuoco. I tronchi accesi venivano appoggiati su alari orizzontali o affastellati in gabbie verticali, ma sempre in modo da poterli rimuovere agevolmente con un ferro per adeguare il calore alla bisogna; piccoli cesti di metallo gennaio

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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante il duca di Berry (vestito di blu) che partecipa a un banchetto di Capodanno, dal manoscritto Les Très Riches Heures du duc de Berry. XV sec. Chantilly, Musée Condé. fallimento di un piatto dipendevano anche dalle temperature di cottura. I termometri non esistevano ed era difficile indicare la quantità di calore da somministrare ai cibi.

Il tempo di una preghiera

attaccati ai montanti verticali venivano riempiti di braci ardenti da porre sopra il coperchio dei tegami per «brasare». Per arrostire carne e pesce o per tostare il pane, si impiegavano griglie in ferro battuto, mentre spiedi di legno di lunghezze e spessori adeguati alle dimensioni e al peso del cibo, venivano posti direttamente sul fuoco o di fronte

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a esso, appoggiati sugli alari o ganci in ferro e girati a mano da un servitore. I grassi e i succhi che colavano dalle carni erano le «leccarde» e venivano raccolti in una larga padella posta sotto lo spiedo per essere poi mescolati a erbe odorose, aglio e aromi e serviti come salsa per le carni. Allora come oggi, il successo o

I trattati di cucina medievali sono pieni di suggerimenti su come impedire al cibo di bollire o bruciare nella pentola e su come evitare il sapore del fumo in un piatto, ma spettava al cuoco, alla sua esperienza e intuizione, determinare il punto esatto di cottura, basandosi su indicazioni vaghe come «cuocere a fuoco delicato», «tostare a vampa forte» o «temperare le braci». Altrettanto si può dire per i tempi di cottura che noi misuriamo con orologi e timer, ma che sei o sette secoli fa erano scanditi dai tempi di una preghiera o dalla durata del cammino su una certa distanza: una salsa si mescolava per il tempo necessario alla recita di tre Paternoster, le noci andavano lessate per un Miserere, alcuni ingredienti si bollivano per il tempo occorrente per camminare intorno a un campo e altri per percorrere mezzo miglio. Nemmeno i pesi e le misure venivano menzionati: per esprimere quarti, pinte, libbre, once, pollici oppure quantità e dimensioni, si ricorreva alla misura della scodella, del bicchiere o alle classiche manciate. Per le dimensioni si faceva riferimento alla grandezza di altri alimenti: «tanto quanto una noce», «grosso come un uovo», «del peso di una mela», o di parti del corpo: lunghezza in palmi e larghezza in dita. Comode e generiche erano le misure relative: «una presa di» «il doppio di», «un quarto della quantità di», «non piú di» e l’ineffabile «hoc sufficit». gennaio

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Quando i santi prendevano le armi

Sette dolori per un mistero di Paolo Pinti

I

nserire la Madonna tra i santi che hanno a che fare con le armi può sembrare irriverente o addirittura fuori luogo, ma non è cosí. Insieme ai santi, infatti, la madre di Dio non è certo fuori posto (peraltro, viene spesso apostrofata anche come «santissima») e ha un conosciutissimo legame proprio con le spade o i pugnali, nella sua qualifica di Madonna (o Vergine) Addolorata o dei Sette Dolori. Già sul finire dell’XI secolo si accenna ai cinque dolori della Madonna, simboleggiati da altrettante spade, diventate sette in seguito: il 15 agosto 1233, sette nobili fiorentini, poeti-attori della compagnia dei laudesi – che esprimevano il loro amore a Maria recitando laudi davanti a una sua immagine dipinta su parete, cosí come facevano i giullari con la donna amata – videro l’immagine stessa animarsi, apparendo addolorata e vestita di nero (a A destra Madonna dei Sette Dolori, pannello facente parte del cosiddetto Altare di Amburgo, tempera e foglia d’oro su tavola di Absolon Stumme. 1499. Varsavia, Museo Nazionale. In basso pugnale in metallo argentato, fatto a stampo, di modello fantasioso, destinato a una statua della Madonna dei Sette Dolori (ma anche per quadri, sui quali frequentemente troviamo infitti questi simulacri di pugnale in corrispondenza del cuore). Macerata, Collezione privata.

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lutto) per le lotte fratricide che affliggevano Firenze. Quei giovani deposero allora le armi, si vestirono anch’essi a lutto e istituirono la compagnia di Maria Addolorata, detta dei Serviti, ritirandosi in penitenza sul monte Sanario. Quindi, sette dolori, rappresentati da sette spade o pugnali, infissi nel cuore della Vergine. Ecco, qui di seguito, i dolori che, secondo la tradizione, afflissero la Madonna.

Tradizione e Sacre Scritture I. Profezia di Simeone sul Bambino Gesú Nel Vangelo, il vecchio Simeone predice a Maria le prove che dovrà incontrare e superare: «Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Luca 2,34-35). II. La fuga in Egitto della Sacra famiglia Maria e Giuseppe sono costretti a fuggire in Egitto per mettere in salvo il loro figlio durante la persecuzione di Erode (Matteo 2,13-21). III. La perdita del Bambin Gesú nel Tempio Quando Gesú è dodicenne Maria e Giuseppe lo perdono per tre giorni nel Tempio di Gerusalemme (Luca 2,41-51). IV. L’incontro di Maria e Gesú lungo la Via Crucis Quando Maria incontra Gesú mentre sale al Calvario portando la croce («dolore» facente parte della tradizione, non biblico). V. Maria ai piedi della croce dove Gesú è crocifisso Giovanni (19,2527) riporta nel suo Vangelo che Maria si ferma sotto la croce sulla quale è crocifisso Gesú: «Stavano presso la croce di Gesú sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesú allora, vedendo la madre e lí accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E

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In alto Madonna dei Sette Dolori, statua in legno policromo. Assisi, cattedrale di S. Rufino. I pugnali sono del tipo piú utilizzato in assoluto nel corso di secoli in queste raffigurazioni sacre. A destra un esempio del modello di pugnale piú seguito dagli artisti nel rappresentare la Madonna dai Sette Dolori. Qui il fornimento è interamente in legno dorato, con impugnatura a spirale, sormontata da un piccolo pomo, ed elso a «S» sul piano di lama, con corti e robusti bracci finenti a ricciolo. La lama può essere di metallo, come in questo caso, o di legno argentato. Si tratta della morfologia di gran lunga piú frequentemente riscontrabile in opere con tale soggetto, sempre uguale per secoli. Macerata, Collezione privata.

da quel momento il discepolo la prese nella sua casa». VI. Maria accoglie nelle sue braccia Gesú morto Gesú morto e deposto dalla croce è accolto da Maria nelle sue braccia prima di essere sepolto (tradizionale, non biblico). VII. Maria vede seppellire Gesú Maria è sul posto quando Gesú viene deposto nel sepolcro da cui risorgerà dopo tre giorni (tradizionale, non biblico). Tale culto conobbe una diffusione enorme e duratura – indimenticabile la canzone di Giorgio Gaber del 1972, Oh

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CALEIDO SCOPIO Madonnina dei Dolori – tanto che quadri o statue lignee (o di gesso o di cera) con la Madonna col cuore trafitto da uno o sette pugnali (o spade) sono presenti praticamente in ogni chiesa italiana. Va detto che immagini con le iniziali cinque spade/ pugnali sono pressoché introvabili, mentre è quasi ugualmente frequente trovarne con una sola arma o con sette: in pratica, quando vediamo un solo pugnale, siamo di fronte comunque a una Madonna dei Sette Dolori, vuoi come chiaro richiamo al tema dei dolori sopportati, sia come diretto richiamo alla predizione di Simeone «E anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Luca 2,34-35). Con questa premessa, andiamo a esaminare queste armi sulle innumerevoli immagini a nostra disposizione (Google andrà bene allo scopo, ma, certo, una semplice attenzione ogni qual volta si entra in chiese d’ogni dove sarebbe piú raccomandabile): ci accorgeremo di un fatto in apparenza solo curioso, ma, a un esame piú approfondito, davvero misterioso e intrigante, senza uguali nella storia dell’arte.

Dalle armi la data C’è da sapere che gli artisti di ogni tempo (almeno per quanto riguarda i secoli dal XIII al XX), quando rappresentavano un’arma si rifacevano a modelli «moderni» nella loro epoca: in poche parole, indipendentemente dal contesto temporale di quanto raffigurato nell’opera – che, notoriamente, riguardava in gran parte episodi biblici o dell’antichità greca e romana – le armi dipinte/scolpite sono sempre tipiche degli anni nei quali l’artista operava. Questo fatto non è di secondaria importanza, perché ne deriva una conseguenza molto interessante per la comprensione dei dipinti, in

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In alto, sulle due pagine pugnale di lamiera argentata sagomata a stampo, del modello piú usato per la Madonna Addolorata. Petriolo (MC), Museo dei Legni Processionali. Qui accanto pugnali in lamiera argentata di ridotte dimensioni (11,9 e 10,1 cm), sicuramente utilizzati per una piccola statua oppure su un quadro su tela della Madonna dei Sette Dolori. Novara, Collezione privata.

A sinistra pugnali in lamiera argentata, costantemente presenti su statue (ma anche su quadri) della Madonna Addolorata. Collezione privata. Ne viene mostrata anche la parte retrostante per far vedere gli accorgimenti adottati per evitare che la lamina si pieghi. A destra piccola statua con la Madonna Addolorata. Castelplanio (AN), Raccolta Civica d’arte. Abbiamo un solo pugnale, rappresentativo dei sette pugnali che ricordano i sette dolori patiti dalla Vergine. La foggia del fornimento richiama direttamente quella dell’esemplare di Petriolo, ugualmente fabbricata in lamiera argentata, modellata a stampo.


Qui sotto Madonna Addolorata con un solo pugnale, del tipo piú frequentemente utilizzato dai pittori durante i secoli. Petriolo (MC), Museo dei Legni Processionali. quanto l’oplologia – la scienza che si occupa dello studio delle armi antiche – in molti casi è in grado di datare con notevole precisione le armi raffigurate e persino di collocarle geograficamente, cosí da offrire un supporto determinante per la datazione dell’opera d’arte relativa. Il principio è semplice: se, per esempio, un determinato tipo di spada non compare prima della metà del XVII secolo, il quadro potrà essere solo successivo a tale epoca. Su queste basi, non sono pochi i casi in cui proprio tale datazione, scientificamente ineccepibile, sposta anche di molto quella generalmente accettata dalla critica d’arte. C’è, poi, un altro genere di armi sui quadri, ed è un tipo classicheggiante, ispirato in qualche

Tipologie fantasiose Ebbene, armi vere di questa fatta non sono mai esistite. L’elso a bracci a «S», certamente, è ben noto, molto diffuso nei pugnali della fine del XVI secolo e della prima parte del XVII secolo, ma in questa versione, con bracci corposi dalle estremità vistosamente arricciate, non ce n’è traccia. Non possiamo escludere che modelli simili siano

A sinistra Madonna Addolorata, statua in legno policromo. Civita di Bagnoregio (VT), chiesa di S. Donato. A destra due esempi di pugnale/spadino con fornimento in legno dorato e lame in metallo (ferro), spesso presente su statue della Madonna dei Sette Dolori. Collezione privata.

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modo a modelli ideali degli antichi greci e romani. Siano pugnali o spade, hanno un fornimento (tutto ciò che serve a impugnare l’arma e a proteggere la mano) con elso a bracci a «S» sul piano di lama, terminanti con ingrossi a ricciolo e manica a profonde spirali oblique, con pomo sferoidale. In altri casi, l’elso è tozzo e squadrato, di solito con le estremità definite da un piccolo elemento pure sferoidale.

esistiti davvero, ma in numero estremamente ridotto, anche come periodo di produzione, e oggi difficili da trovare. Per l’altro tipo di fornimento possiamo essere ancora piú certi che non sia mai stato prodotto, almeno fino alla fine del XVIII secolo, quando compaiono alcune armi, soprattutto francesi, con caratteristiche simili, sempre limitatissime come ambito geografico e come permanenza sulla scena. L’esame di parecchie centinaia

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CALEIDO SCOPIO A destra stemma con tre pugnali, di un tipo in uso nei secoli XVI e XVII. Arezzo, Duomo. Stranamente, non è utilizzato che sporadicamente nei quadri o statue della Madonna Addolorata coevi, a tutto vantaggio del modello coi bracci dell’elso rivolti in senso inverso.

di quadri e statue con questo soggetto in tutta Italia ci consente di appurare che solo l’uno o il due per cento presentano armi coeve all’epoca dell’esecuzione dell’opera, rispondenti a modelli «moderni» ed effettivamente esistiti; in tutti gli altri casi, per un buon sessanta per cento, troviamo pugnali come quelli riprodotti alle pagine 109 e 110 e per il resto modelli come quelli alla pagina108 (in basso), comunque non rispecchianti armi reali. In ogni altra scena sacra sono presenti armi fedelmente raffigurate, su tipologie in uso al momento e che l’artista utilizzava volendole rappresentare moderne. Non mancano, naturalmente, i modelli sopra descritti, di fantasia, che non si rifanno a quelli esistenti, ma che ricorrono in una misura

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In basso fornimento, interamente d’argento, di uno spadino tardoseicentesco, trovato infisso sul petto di una statua della Madonna Addolorata. Novara, Collezione privata. In origine, aveva un corto moncone di lama, poi sostituito da una lama antica. Il fatto che tutte le componenti siano in argento potrebbe indicare che tale arma sia stata realizzata appositamente per questo impiego religioso.

pari al venti per cento circa. Perché per la Madonna dei Sette Dolori – e solo per essa – accade l’esatto contrario, con armi «vere» in una percentuale irrisoria di casi e «di fantasia» per la quasi totalità?

Una disposizione conciliare? Modelli tramandati identici per almeno cinque secoli, del tutto astratti da quelli esistenti e conoscibili dall’artista. Se questa situazione fosse dovuta a qualche disposizione della Chiesa (si pensi al Concilio di Trento, dopo il quale la Maddalena, fino ad allora dipinta come una vecchia raggrinzita, con i capelli arruffati e vestita di stracci, compare in tutti i quadri come una giovane florida, con panni che coprono ben poco e con sguardo non proprio da penitente: la cosa, invero strana, fu notata da Federico Zeri, che ne parla in un suo saggio), come spiegare la presenza, comunque, di quadri con armi moderne, anche se in numero ridottissimo? Nessun artista e

soprattutto nessun committente avrebbe rischiato di andare incontro a guai per aver voluto un tipo di arma invece di un altro. E, poi, se in teoria si potrebbe concepire il proposito di non accostare al cuore della Vergine armi vere e proprie, preferendo un’asettica arma ideale, meno legata alla crudezza del mondo, non si spiega perché la stessa accortezza non sia usata per altri episodi del Vecchio o Nuovo Testamento, ugualmente importanti e delicati. Perché questo fenomeno riguarda soltanto la Madonna Addolorata? Ed è un fenomeno facilmente riscontrabile, giacché, come già detto, le opere d’arte con la Madonna Addolorata sono migliaia e dal loro esame si ricava la conferma delle considerazioni qui riportate. Riassumendo: le armi raffigurate in quadri e sculture di soggetto religioso sono, nella stragrande maggioranza dei casi, «attuali», cioè in uso all’epoca della realizzazione dell’opera, ma per quelle relative alla Madonna dei Sette Dolori troviamo quasi esclusivamente modelli che potremmo definire «di fantasia», uguali per secoli e non rispondenti ad armi reali, concretamente esistite. Offriamo dunque una rara panoramica di tali manufatti, che consente di avere un’idea del fenomeno. Un vero mistero, che potrà spingere chi legge a far caso a questo tipo di soggetto – facilissimo da incontrare – e a notare le tipologie delle armi raffigurate. gennaio

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Lo scaffale Alberto Luongo La Peste Nera Contagio, crisi e nuovi equilibri nell’Italia del Trecento Carocci Editore, Roma, 241 pp.

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e da cartine che aiutano a collocare i monumenti di volta in volta descritti. Tra questi «magnifici» 35 troviamo presenze illustri, come la Rocca Albornoziana di Spoleto, ma anche molti nomi meno noti, ma altrettanto meritevoli di una visita. Maria Alessandra Bilotta (a cura di) Medieval Europe in Motion 3

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Opera di taglio prettamente specialistico, il volume scaturisce dai contributi presentati in occasione dell’omonimo convegno internazionale e dal successivo approfondimento del tema da parte di Maria Alessandra Bilotta attraverso il progetto di ricerca postdottorale da lei condotto. Argomento centrale sono dunque le leggi e i manoscritti

di argomento giuridico, che, al di là della funzione per la quale furono redatti, sono opere quasi sempre impreziosite da splendide miniature. Il «movimento» al quale si allude nel titolo è perciò la loro diffusione nei vari Paesi europei, alla quale si lega la circolazione di ideologie, influenze culturali e canoni artistici. (a cura di Stefano Mammini)

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AUGUSTO

Il primo imperatore Il futuro Augusto ha soltanto diciassette anni quando, in Spagna, combatte al fianco di Giulio Cesare, che lo aveva adottato come figlio. E, nonostante la giovane età, si mette subito in luce per tempra e capacità di lettura degli eventi. Doti destinate, di lí a poco, a rivelarsi decisive: l’assassinio del padre adottivo, che lo aveva designato come erede, lo obbliga infatti ad assumere il potere. Che dapprima condivide e poi accentra nelle sue sole mani, diventando il solo arbitro delle sorti di Roma. Un’ascesa vertiginosa e, di fatto, inarrestabile, che culmina con la consacrazione a imperatore, titolo mai conferito prima di allora. Augusto si dimostra all’altezza del ruolo e non soltanto consolida l’egemonia romana su gran parte del mondo allora conosciuto, ma assicura all’impero anni di prosperità e di pace, sapientemente celebrati con la realizzazione di grandiosi monumenti e grazie a un’attività di propaganda costante e mirata. Non mancano i crucci, sul piano degli affetti familiari, ma il principe riesce a superare anche quelli, potendo contare sul conforto e l’appoggio di Livia Drusilla, moglie fedele e solidale. Un’esistenza straordinaria, insomma, che la nuova Monografia di «Archeo» racconta in tutti i suoi risvolti pubblici e privati, sottolineando, al contempo, l’eccezionale rilevanza politica e culturale dell’età augustea.

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