Medioevo n. 308, Settembre 2022

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MEDIOEVO n. 308 SETTEMBRE 2022

FE ST G IVA U LD B EL BI M O ED IO EV O

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

Mens. Anno 26 numero 308 Settembre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

PERUGIA CAPOLAVORI DELLA GALLERIA NAZIONALE

DECAMERON IRONIA E CONFLITTI DI CLASSE DOSSIER

ALLE ORIGINI DELLA QUESTIONE

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OLTRE LO SGUARDO I RACCONTI DELL’ANNUNCIAZIONE 20308 9

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MEDIOEVO A LETTO ANNUNCIAZIONE SALARIATI NEL DECAMERON GALLERIA NAZIONALE DI PERUGIA DOSSIER UCRAINA

COSTUME E SOCIETÀ IL MEDIOEVO A LETTO

IN EDICOLA IL 2 SETTEMBRE 2022



SOMMARIO

Settembre 2022 ANTEPRIMA

CALEIDOSCOPIO

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AMORI MEDIEVALI Finché morte non vi separi... di Federico Canaccini

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INCONTRI Nel segno di Federico

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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LIBRI Vita e mito di una donna speciale di Corrado Corradini 102 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Sigismondo e la spada di Paolo Pinti 108 LIBRI Lo Scaffale

COSTUME E SOCIETÀ

Dossier

A LETTO NEL MEDIOEVO Il mondo oltre la cortina di Chiara Frugoni, con un’introduzione di Furio Cappelli

112

22

22 STORIE OLTRE LO SGUARDO/16 L’Annunciazione

Ave, o piena di grazia... di Furio Cappelli

56

LUOGHI MUSEI Perugia Grandi firme in parata VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/9 «Ma quante zampe hanno le gru?» di Corrado Occhipinti Confalonieri

di Giuseppe M. Della Fina

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34

46

46 MEDIOEVO UCRAINO

Origini, identità e conflitti di un «Paese di confine» 75 di Francesco Colotta


MEDIOEVO n. 308 SETTEMBRE 2022

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01/08/22 15:56

MEDIOEVO Anno XXVI, n. 308 - settembre 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Corrado Corradini è storico del Medioevo. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Illustrazioni e immagini: Cortesia Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia: copertina e pp. 37, 42-43; Marco Giugliarelli: pp. 34/35, 36, 38-41 – Doc. red.: pp. 5, 4653, 60-61, 64/65, 68-69, 78, 84-85, 91 (alto) – Cortesia Festival del Medioevo: pp. 6-10 – Cortesia Società editrice il Mulino, Bologna: pp. 22-33 – Mondadori Portfolio: Album/Prisma: pp. 54, 72; Electa/Paolo e Federico Manusardi: pp. 56/57; AKG Images: pp. 58/59, 76/77, 108; Electa/Sergio Anelli: pp. 62/63, 111; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: pp. 66-67; Album/Fine Art Images: pp. 71, 75, 80/81, 82/83, 86, 91 (basso), 92, 94, 96, 98/99; Zuma Press: p. 76 (basso); Fine Art Images/ Heritage Images: pp. 82, 87, 88/89, 93; SIPA-USA: pp. 90, 97; Album/Oronoz: p. 95 (basso) – Shutterstock: pp. 62, 100-101 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 77 – Cortesia degli autori: pp. 102-105, 109, 110 – Cippigraphix: cartine alle pp. 79, 95. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito: https://arretrati.pressdi.it In copertina Sacra Famiglia con i santi Anna, Gioacchino e Giovannino, olio su tela di Domenico di Paride Alfani. 1510. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Prossimamente costume e società

Magia e stregoneria

libano

siena

Nei monasteri della Valle Santa

Santa Maria della Scala


amori medievali di Federico Canaccini

Finché morte non vi separi...

I

l 18 ottobre del 1469, a Valladolid, fu celebrato, in segreto, uno dei piú straordinari matrimoni del Basso Medioevo, quello che uní i due eredi delle piú importanti corone di Spagna: Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona. Le nozze sancirono l’unione personale tra i due regni, che però divennero una cosa sola nel 1516, all’indomani dell’elezione di Carlo V d’Asburgo. Figlia di Giovanni di Castiglia e di Isabella di Portogallo, Isabella aveva allora 18 anni e godeva di ampi diritti sulla corona di Castiglia. Ferdinando ne aveva 17 ed era figlio del re d’Aragona Giovanni II, nonché erede della corona. Isabella si era ritrovata a essere erede al trono a seguito della morte del fratello, Alfonso, candidato alla corona: la giovane sovrana aveva avuto il diritto di scegliere il proprio marito tra vari pretendenti e optò per l’aragonese sia per ragioni politiche, sia per sincere ragioni sentimentali, dovute alla giovane età del ragazzo, alla sua bellezza, nonché alla fama di coraggioso cavaliere meritata sul campo. Come accennato, il matrimonio venne celebrato in segreto e fu ricco di avventure, giacché parte della nobilità castigliana, e lo stesso re, manifestarono la loro

contrarietà. Ferdinando, da parte sua, non poteva portare grandi aiuti, poiché il suo regno era provato dalla guerra con la Francia e dovette sottostare, in qualità di futuro re di Castiglia, alla autorità della moglie, in veste di principe consorte. La giovane sposa seppe superare difficoltà economiche che si affacciarono alla porta della nuova famiglia reale e, pur dichiarata ribelle da Enrico IV, la coppia riuscí a superare anche questo scoglio, cosicché, nel 1474, Isabella poté finalmente diventare regina di Castiglia, con l’ausilio del marito, che si rivelò il piú fedele alleato nell’opera di restaurazione del potere regio. Una volta divenuto re d’Aragona, Ferdinando volle che la moglie godesse di tutti i diritti di sovranità, condividendo con lei le gioie e i dolori di una vita spesa insieme. Non piú giovane, la regina si dedicò allo studio del latino, per seguire personalmente le vicende diplomatiche: nel 1492, l’anno fatidico della spedizione di Cristoforo Colombo, iniziò una catena di lutti familiari che prostrarono la coppia reale. Ma, stando alle fonti, l’amore tra i due rimase inalterato sino alla morte, che sopraggiunse, per lei, il 26 novembre del 1504, mentre Ferdinando morí nel 1516.

Madonna dei Re Cattolici, tecnica mista su tavola forse dipinta da Fray Pedro de Salamanca. 1497 circa. Madrid, Museo del Prado. La Vergine e il Bambino ricevono l’omaggio di Ferdinando e Isabella – rappresentati con tratti piú giovanili di quelli che dovevano avere all’epoca del quadro –, alle cui spalle si riconoscono, rispettivamente, san Tommaso d’Aquino e san Domenico. Gli altri personaggi sono, da sinistra: l’inquisitore Tomás de Torquemada, il principe Giovanni, una infanta – forse Isabella – e un Domenicano, che potrebbe essere Pedro de Arbués.

MEDIOEVO

settembre

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ANTE PRIMA

Nel segno di Federico INCONTRI • «Dinastie.

Famiglie e potere»: se ne parla a Gubbio, nelle cinque giornate dell’VIII edizione del Festival del Medioevo

In alto replica della realizzazione di miniature su un codice manoscritto. Nella pagina accanto, dall’alto Chiara Frugoni – alla cui memoria è dedicata l’edizione 2022 del Festival del Medioevo –, Alessandro Barbero e Duccio Balestracci.

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S

arà «Dinastie. Famiglie e potere» il tema del Festival del Medioevo, in programma a Gubbio dal 21 al 25 settembre. L’immagine scelta per l’ottava edizione, è ispirata al celebre ritratto di Federico da Montefeltro immortalato da Piero della Francesca. Un omaggio esplicito all’enigmatico condottiero, mecenate e umanista del XV secolo, del quale quest’anno ricorrono i seicento anni della nascita, avvenuta proprio a Gubbio, il 7 giugno 1422. L’inconfondibile profilo del duca di Urbino viene riproposto come una immagine contemporanea, dai colori decisi. Quasi cubista. Con richiami a Arcimboldo e all’arte di Mondrian. Il ritratto (realizzato da Archi’s Comunicazione) è assemblato in forme geometriche e sovrapponibili.

A indicare i mille volti di un potere difficile da conquistare e anche da difendere. In nome dei legami del sangue, della forza delle armi e anche della potenza del denaro.

Grandi casate e signorie cittadine Per cinque giorni, medievisti, scrittori, storici dell’arte, scienziati, filosofi, architetti, giornalisti, archeologi e professionisti dei beni culturali accompagneranno il pubblico del Festival del Medioevo in un appassionante viaggio alla scoperta delle dinastie medievali, tra storia e antropologia, guerre e congiure, seguendo le tracce degli antichi lignaggi e l’ascesa, spesso irresistibile, di nuovi gruppi parentali. Fra le grandi casate europee e le signorie cittadine. Nomi legati alle radici profonde dei territori. Famiglie entrate da tempo nell’immaginario collettivo di un settembre

MEDIOEVO


Medioevo reale e insieme fantastico: Carolingi, Ottoni, Plantageneti, Altavilla, Hohenstaufen, Sforza, Medici, Borgia… Araldica e genealogie. Patrimoni e matrimoni. Parenti che spesso si trasformano in nemici. Dinastie economiche, militari e anche monastiche. Dalla «sippe» vichinga ai clan scozzesi, dagli imperatori di Bisanzio ai califfati dell’Islam. Fino ai baroni di Roma, i re longobardi, i Normanni, le famiglie crociate, i Mongoli e i loro khan, Venezia e i suoi dogi, il fratricidio legalizzato nel mondo ottomano, i lontani re africani, le grandi famiglie abbaziali e il degenerante fenomeno del nepotismo dei papi. L’edizione 2022 del Festival del Medioevo è dedicata alla memoria di Chiara Frugoni e la grande medievista verrà ricordata in un apposito appuntamento nel pomeriggio della giornata inaugurale.

Dal Medioevo al medievalismo Molti altri eventi arricchiscono i cinque giorni del Festival: la Fiera del libro medievale, con tutto quello che c’è da leggere sul Medioevo, il focus sui Medievalismi, che indaga la ricezione, l’utilizzo e la rappresentazione postmedievale dell’età di Mezzo, tra film, saghe televisive, letterature, musiche, fumetti e videogiochi; Scriptoria, evento dedicato all’arte dei miniatori e dei calligrafi; la Tolkien session e La scuola dei rievocatori, un appuntamento pensato per valorizzare, attraverso l’analisi e la ricostruzione delle fonti storiche, l’appassionato lavoro di centinaia di associazioni e di migliaia di rievocatori che in ogni regione d’Italia fanno rivivere la storia e le tradizioni popolari dei loro territori. La manifestazione offre anche mostre, eventi teatrali, recital, concerti di musica medievale, lezioni-spettacolo, laboratori di danza e visite guidate alla scoperta dell’Umbria medievale insieme

MEDIOEVO

settembre

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Le cinque giornate di Gubbio

ANTE PRIMA MERCOLEDÍ 21 SETTEMBRE

Incontri con gli autori - Centro Santo Spirito, Piazzale Frondizi 10,00 Cerimonia di inaugurazione 10,30 L’enigma Montefeltro 11,10 a.C.d.C. La nuova stagione di Rai Storia 15,30 La lezione di Chiara Frugoni 16,10 Cosimo il Vecchio: il ruolo del patriarca 16,50 La nascita della Rus’ di Kiev 17,30 Famiglie crociate

Marcello Simonetta Alessandro Barbero, Giuseppe Giannotti Virtus Zallot Lorenzo Tanzini Giorgio Cella Antonio Musarra

Serata Festival - Centro Santo Spirito, Piazzale Frondizi Alessandro Barbero - Storia di una dinastia editoriale GIOVEDÍ 22 SETTEMBRE Incontri con gli autori - Centro Santo Spirito, Piazzale Frondizi 9,30 10,10 10,50 11,30 12,10 15,30 16,10 16,50 17,30 18,10

Regnum Italiae: un secolo di ferro I baroni di Roma Le donne degli Ottoni Dinastie nel chiostro Pornocrazia e poteri nella Roma del X secolo I Carolingi e la nascita dell’Europa Il mestiere del doge Genova, famiglie e capitali Il potere a tavola I duchi di Borgogna

Andrea Puglia Sandro Carocci Paolo Golinelli Nicolangelo D’Acunto Massimo Oldoni Giuseppe Albertoni Gherardo Ortalli Gabriella Airaldi Massimo Montanari Franco Cardini

Focus Convento di San Francesco, piazza Quaranta Martiri GUBBIO AL TEMPO DI FEDERICO DA MONTEFELTRO Introduce e coordina Federico Fioravanti 9,15 9,40 10,00 10,30 11,00 11,30 12,00

Consegna borse di studio Festival del Medioevo agli studenti della Mastro Giorgio Nelli Consegna borse di studio Fondazione Mazzatinti Le monete di Federico Le meraviglie dello Studiolo L’Ordine della Giarrettiera, orgoglio del duca Battista Sforza Federico da Montefeltro e la scoperta delle Tavole di Gubbio

Federico Fioravanti e Francesca Pinna Filippo Mario Stirati e Anna Maria Monacelli Andrea Cavicchi Paola Mercurelli Salari Simone Filippetti Patrizia Biscarini Augusto Ancillotti

Serata Festival - Centro Santo Spirito, Piazzale Frondizi Cesare Catà - Shakeaspeare Juke-box VENERDÍ 23 SETTEMBRE Incontri con gli autori - Centro Santo Spirito, Piazzale Frondizi 9,30 10,10 10,50 11,30 12,10 15,30 16,10 16,50 17,30 18,10

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Alla corte del Khan La lunga marcia degli Altavilla Palermo, un vortice di matrimoni Federico II di Svevia oltre il mito Carlo I Angiò e i suoi discendenti Mansa Musa, l’uomo piú ricco della storia I califfi dell’Islam Fratricidi ottomani Il fenomeno del nepotismo Città di pietra: le fondamenta del potere

Marina Montesano Annick Peters-Custot Glauco Maria Cantarella Fulvio Delle Donne Francesco Paolo Tocco Amedeo Feniello Alessandro Vanoli Luigi Mascilli Migliorini Sandro Carocci Franco Cardini

Focus Convento di San Francesco, piazza Quaranta Martiri IL MONDO DI GAME OF THRONES Con il patrocinio dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo (ISIME) Introduce e coordina Umberto Longo 10,00 Potere e politica in Game of Thrones 10,40 Le famiglie del Nord 11,00 Le donne del Trono di Spade 11,40 Draghi, corvi e metalupi 12,10 Un gioco di troni per un altro Medioevo

Jacopo Bulgarini d’Elci Riccardo Facchini Francesca Roversi Monaco Davide Iacono Tommaso di Carpegna Falconieri

LA SCUOLA DEI RIEVOCATORI Introduce e coordina Umberto Maiorca 15,30 Le acconciature: Francesca Baldassarri «Tanto gentile e tanto onesta pare…» 16,00 Dal trattato alla rievocazione: l’arte Federico Marangoni delle armi dei maestri Fiore e Vadi 16,30 I vestiti nuovi nuovi dell’imperatore: Sara Paci Piccolo gli abiti di Carlo VIII e Piero de’ Medici per il Palio di Santo Stefano di Magra 17,00 L’esperienza della Public History Enrica Salvatori 17,30 Manifestazioni ispirate alla storia: parola ai rievocatori Serata Festival - Centro Santo Spirito, Piazzale Frondizi Leonardo Catalano - La guerra nell’arte/L’arte della guerra SABATO 24 SETTEMBRE Incontri con gli autori - Centro Santo Spirito, Piazzale Frondizi 9,30 I clan di Scozia 10,10 Saghe d’Islanda: una letteratura di famiglie 10,50 L’incestuosa dinastia di Artú 11,30 Una guerra lunga Cento Anni 12,10 L’età dei Plantageneti 15,00 Premio Italia Medievale 15,30 I tredici marchesi di Saluzzo 16,10 Attrazioni fatali alla corte degli Este 16,50 La signoria degli Sforza 17,30 Platone e la dinastia dei migliori 18,10 Famiglie e potere: il ritratto dei coniugi Arnolfini di Jean van Eick

Fabrizio de Falco Roberto Luigi Pagani Fortunata Latella Federico Canaccini Martin Aurell Giuseppe Bianchi Marco Piccat Jean Claude Maire-Vigueur Marcello Simonetta Matteo Saudino Claudio Strinati

Focus Convento di San Francesco, piazza Quaranta Martiri LEGGERE IL MEDIOEVO Introduce e coordina Andreas M. Steiner 10,00 Signori, vizi e peccati di gola 10,30 Dinastie: la storia con il Corriere della Sera 11,30 I Visconti, signori di Milano 12,00 I magnifici Estensi 12,30 I Dossier di Medioevo – Un caso di studio: York contro Lancaster

Claudia Berardi, Maria Marinangeli Barbara Biscotti, Franco Cardini Beatrice Del Bo Renata Salvarani Tommaso Indelli

I SIGNORI DELL’UMBRIA Introduce e coordina Umberto Maiorca 15,00 La famiglia dei Vitelli 15,30 I Bourbon di Santa Maria del Monte e di Sorbello

Gian Paolo Scharf Stefano Calonaci

settembre

MEDIOEVO


16,00 Braccio da Montone, Stefania Zucchini signore di Perugia 16,30 Le nozze di sangue dei Baglioni Franco Mezzanotte 17,00 La contesa di Orvieto: Alessandra Cannistrà Monaldi e Filippeschi e Davide Pompei 17,40 I Trinci, mecenati dell’arte Cristina Galassi 18,20 Bartolomeo d’Alviano, Erminia Irace impaziente della quiete Serata Festival - Centro Santo Spirito, Piazzale Frondizi Amedeo Feniello - La nascita della camorra DOMENICA 25 SETTEMBRE Incontri con gli autori - Centro Santo Spirito, Piazzale Frondizi 9,30 Costantinopoli città del potere 10,10 Ascesa e caduta dei Borgia 10,50 Lucrezia Borgia: la donna pedina del potere 11,30 Castiglia e Aragona 12,10 I re taumaturghi 15,30 Il potere del sangue. Le dinastie politiche nelle democrazie contemporanee 16,10 Sigismondo e la corte dei Malatesta 16,50 La storia dei Montefeltro 17,30 Viaggio nella biblioteca di Federico 18,10 Vita e avventure di Federico da Montefeltro

Tommaso Braccini Manuel Vaquero Piñeiro Maria Giuseppina Muzzarelli José Enrique Ruiz-Domènec Umberto Longo Alessandro Campi Elisa Tosi Brandi Tommaso di Carpegna Falconieri Salvatore Sansone Duccio Balestracci

Focus Convento di San Francesco, piazza Quaranta Martiri SCRIPTORIA: L’ARTE DEI MINIATORI E DEI CALLIGRAFI Introduce e coordina Arnaldo Casali 10,00 Le meraviglie della miniatura 10,40 Gli strumenti del calligrafo 11,10 Professione calligrafo: le prime gotiche 12,00 La scrittura, da Carlo Magno a Internet

Ivano Ziggiotti Ernesto Casciato Fernando Lembo di Pino Attilio Bartoli Langeli

TOLKIEN SESSION A cura della Associazione Italiana Studi Tolkieniani Introduce e coordina Roberto Arduini 15,30 Il peso della dinastia nell’eroe tolkieniano 16,00 Famiglie, hobbit e potere nella Contea: Baggins e Took 16,30 Fra Tolkien e re Artú: Ginevra, la regina eterna 17,00 La spada come emblema del potere

Wu Ming 4 Elisabetta Marchi Cecilia Barella Francesco Lodà

In alto Patrizia Bovi, dell’ensemble Micrologus, nel corso di un concerto. A sinistra l’ideatore e direttore del Festival del Medioevo, Federico Fioravanti (al centro), con Franco Cardini e Alessandro Barbero.

a spazi particolari dedicati alla rievocazione storica, all’artigianato e agli antichi mestieri. Nelle precedenti edizioni, temi del Festival sono stati: «La nascita dell’Europa» (2015), «Europa e Islam» (2016), «La città» (2017), «Barbari. La scoperta degli altri» (2018), «Donne. L’altro volto della Storia» (2019), «Mediterraneo. Il mare della Storia» (2020) e «Il tempo di Dante» (2021). Il Comune di Gubbio, principale sponsor pubblico, partecipa in modo determinante alla realizzazione di quello che è ormai

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ANTE PRIMA

considerato il piú importante appuntamento nazionale dedicato all’età medievale. Nell’ultima settimana di settembre è l’intera «città di pietra», dalla meravigliosa Piazza Grande al Palazzo Ducale di Federico da Montefeltro, dal convento di S. Francesco al complesso monumentale di S. Pietro, fino ai quattro storici e antichi quartieri, a trasformarsi nel palcoscenico ideale della manifestazione. Il Festival del Medioevo gode del patrocinio della Regione Umbria e dei patrocini scientifici dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo

(ISIME), della Società Italiana per la Storia Medievale (SISMED), della Società degli Archeologi Medievisti Italiani (SAMI), della Associazione Italiana di Public History (AIPH), della Enciclopedia Treccani, del Pontificio Consiglio per la Cultura e della Fondazione Giancarlo Pallavicini Onlus Umanitaria e Culturale. Partners per il settore didattico sono l’Università LUMSA e la Fondazione Giuseppe Mazzatinti di Gubbio. Grazie alla loro collaborazione, il Festival del Medioevo rilascia crediti formativi ai docenti, con diritto all’esonero dal servizio secondo la normativa attualmente in vigore.

Collaboratori e sostenitori I mensili di divulgazione storica «Medioevo» e «Archeo» sono media partner del Festival del Medioevo fin dalla prima edizione, insieme alla RAI, con RAI Cultura e i canali RAI Storia e RAI Radio3. Collaborano in modo stabile con la manifestazione anche Italia Medievale, portale web impegnato da molti anni nella promozione del patrimonio storico e artistico del Medioevo italiano, MediaEvi, pagina In alto Franco Cardini. A sinistra Massimo Oldoni.

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DOVE E QUANDO

Festival del Medioevo VIII edizione «Dinastie. Famiglie e potere» Gubbio 21-25 settembre Info www.festivaldelmedioevo.it Facebook specializzata nell’analisi dei medievalismi, Feudalesimo e Libertà, fenomeno social di goliardia e satira politica e l’Enciclopedia delle Donne, un’opera collettiva sul web che raccoglie le biografie di donne di ogni tempo e paese. Insieme al Comune di Gubbio sostengono la manifestazione la Regione Umbria, il GAL Alta Umbria, la Fondazione Perugia e la Camera di Commercio dell’Umbria. Tra gli sponsor principali Colacem, Gruppo Financo, Park Hotel Ai Cappuccini, Colabeton, CVR, Fondazione Giancarlo Pallavicini Onlus Umanitaria e Culturale, Tecla, Banco Desio, Metalprogetti, Fondazione Mazzatinti, BCC Pergola e Corinaldo, Ti Style IT e New Font. Il sito della manifestazione www. festivaldelmedioevo.it e la relativa pagina Facebook (67mila followers) sono gli indirizzi on line dedicati alla divulgazione storica del Medioevo piú visitati in Italia. (red.) settembre

MEDIOEVO


Correva l’anno 1460... I

l Palio delle Contrade di Vigevano nacque nel 1981 all’interno di una realtà locale povera di proposte culturali-ricreative, al fine di coinvolgere l’intera città riproponendo valori autentici e storici, con l’intenzione di onorare il Beato Matteo Carreri, patrono cittadino. La prima edizione del Palio delle Contrade della città di Vigevano si svolse cosí la sera di domenica 11 ottobre 1981, festa del Beato Matteo. Le coreografie e il gioco vennero preparati quasi all’ultimo momento. I costumi, inventati in pochi giorni, volevano riportare i Vigevanesi indietro nel tempo, nel XV secolo, quando il Beato Matteo percorreva le strade della Vigevano medievale. Il gioco era molto semplice: ognuna delle allora nove contrade partecipava con tre concorrenti, due ragazzi e una ragazza. I primi dovevano sostenere su una portantina la dama e trasportarla attraverso un apposito percorso a ostacoli, lungo la ripida via Carrobbio, per arrivare sino alla piazza Beato Matteo. Quella corsa delle Portantine ebbe un successo

di ambientazione il 1460, anno che vide l’avvento nella città della corte sforzesca. La famiglia ducale venne cosí rappresentata nel corteo storico dalle figure di Francesco I Sforza, Duca di Milano, sua moglie Bianca Maria Visconti Sforza e tre dei loro figli: Galeazzo Maria, Ippolita e Ludovico Maria, detto il Moro. Oggi il Palio si colloca in un ben definito ambito grazie alla rispondenza di un pubblico che gratifica le imprese e l’impegno di contradaioli e organizzatori. Il Palio ben presto è diventato «patrimonio di tutta la città». Accanto ai personaggi del Corteo Ducale, raffiguranti le antiche famiglie nobili del borgo vigevanese (recuperate attraverso la fedele ricerca storica effettuata dall’Associazione Sforzinda), oggi si possono ammirare Immagini di repertorio del Corteo Ducale organizzato in occasione delle passate edizioni del Palio delle Contrade della Città di Vigevano, la cui 46a edizione è in programma nelle giornate dell’8 e del 9 ottobre prossimi.

MEDIOEVO

settembre

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Errata corrige con riferimentoriuniti al Dossier insperato tale da convincere gli organizzatori a i popolani, nelle differenti corporazioni, che riproporre l’anno successivo il Palio, migliorando la che andò animano il borgo L’umanista alle crociate (vedimedievale ricreato nel cortile del progettazione e l’organizzazione dell’evento. Sforzesco. Il Palio è stato arricchito in questi «Medioevo» n. 220,Castello aprile 2015) desideriamo La necessità di inquadrarlo in un particolare momento ultimi anni dallariprodotta creazione precisare che la medaglia in bronzo a di alcuni gruppi storici: storico suggerí di ambientare la manifestazione Musici e Alfieri Novello dell’Onda p. 93 nel (in basso) ritrae Malatesta (alSforzesca, gruppo di tamburi periodo ducale, nel quale la città ebbe un’espansione e sbandieratori (dal 2019 costituitisi in associazione secolo Domenico Malatesta, 1418-1465) signore urbanistica e una rilevanza politica, religiosa e culturale autonoma); Armeriacome Ducale; Arcieri del Duca. Nati di Cesena, e non Sigismondo Malatesta, oltre i propri confini. Grazie al Palio molti Vigevanesi perDell’errore rievocare ci lascusiamo cultura del indicato in didascalia. conRinascimento e animare le e turisti poterono ammirare una parte del Castello, organizzate dall’Associazione Sforzinda, l’autore dell’articolomanifestazioni e con i nostri lettori. bellissimo monumento fino ad allora inaccessibile e i gruppi offrono anche a realtà esterne la possibilità di dunque totalmente sconosciuto. intrattenimenti davvero speciali. La necessità di inquadrare con maggiore precisione Il programma aggiornato è disponibile sul sito internet la collocazione storica suscitò il fervore di ricerche e di Associazione Sforzinda: www.paliodivigevano.it/ approfondimenti. Venne cosí scelto come anno preciso programma-2022.html


ANTE PRIMA

Conferme e novità

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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a XXIV Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, a Paestum presso il Tabacchificio Cafasso, l’area archeologica e il Museo Nazionale, la Basilica da giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2022, si presenta con tutti i numeri in positivo con 100 conferenze in 5 sale in contemporanea, 500 tra moderatori e relatori tutti in presenza, 150 espositori (ben 18 regioni e il Ministero della Cultura con 500 mq dedicati ai Parchi e Musei autonomi, dal Colosseo a Ostia, Sibari, Campi Flegrei, dal MANN di Napoli al Museo Nazionale di Matera e ancora Europa Creativa, Ales, Parco di Vulci, Parco di Gaiola), 20 Paesi Esteri, 40 buyer europei selezionati dall’ENIT e nazionali. Fiore all’occhiello sarà la presentazione ufficiale da parte del Ministero della Cultura della candidatura della via Appia Antica, nel percorso integrale da Roma a Brindisi e comprensivo della variante traianea, per l’iscrizione nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO (4 le Regioni interessate dal percorso e 100 gli enti territoriali competenti: 73 Comuni, 15 Parchi, 12 tra Città Metropolitane e Province). La BMTA, anche in questa edizione, metterà in campo buone pratiche per sviluppare il turismo esperienziale e il turismo sostenibile, affinché istituzioni, enti locali e organizzazioni datoriali possano farle proprie e concretizzarle a breve medio termine. Fra le iniziative in programma, segnaliamo: il primo Incontro Nazionale delle Città Ipogee intende dare risalto ai tanti luoghi sotto le nostre città realizzati dall’uomo, quali caverne, cripte, catacombe, gallerie, labirinti per individuare contenuti e strumenti per promuovere una offerta contrassegnata da bellezza, unicità, percorsi emozionali, sostenibilità, dove città e territori sono protagonisti. Il coinvolgimento della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e della Conferenza Episcopale Italiana, dei Comuni e delle Direzioni del Turismo delle Regioni, dell’ENIT, delle organizzazioni datoriali del turismo organizzato e dell’intermediazione, del Touring Club Italiano ha l’obiettivo di sviluppare un progetto interregionale dei territori protagonisti. La Conferenza sul sostegno del PNRR a favore delle destinazioni turistico-archeologiche, in collaborazione

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con l’Ufficio Italia del Parlamento Europeo, è l’occasione per presentare proposte migliorative alla luce dell’iter in corso con la partecipazione dei vertici del Parlamento Europeo, del Ministero del Turismo e della Cultura, delle Commissioni Attività Produttive della Camera e dei Beni Culturali del Senato, delle Organizzazioni Datoriali, dei principali Parchi Archeologici. ArcheoIncoming vuole incrementare la domanda turistica di prossimità europea e nazionale da parte dei tour operator specializzati, da sempre vocati all’outgoing, ma dalla pandemia in poi proiettati anche sul nostro Bel Paese. La loro partecipazione in qualità di buyer caratterizzerà il Workshop di sabato 29 ottobre anche su base nazionale. L’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», all’8ª edizione, alla presenza di Fayrouz Asaad, figlia di Khaled, e archeologa anch’essa, andrà a Zahi Hawass per la scoperta della città fondata da Amenhotep III (1391-1353 a.C.), «la piú grande città mai trovata in Egitto» in buono stato di conservazione e con mura quasi complete, vicino al palazzo dello stesso faraone, dall’altra parte del fiume Nilo rispetto alla città e capitale di Tebe (oggi Luxor). Il Premio Internazionale di Archeologia Subacquea «Sebastiano Tusa», alla 2ª edizione, premia quale riconoscimento alla carriera Eric Rieth, Direttore emerito del CNRS Centre National de la Recherche Scientifique di Francia e Responsabile del Dipartimento di archeologia navale presso il Museo Nazionale della Marina di Parigi. Il Parco Archeologico di Paestum e Velia, per il quale fu ideata nel 1998 la BMTA per affiancare il processo di valorizzare del sito inserito da quell’anno nel patrimonio mondiale dell’umanità, riaprirà le porte del Museo di recente rinnovato nelle sale e nei percorsi espositivi e sarà presente con la neodirettrice Tiziana D’Angelo e il consigliere di amministrazione Alfonso Andria, Presidente della Provincia alla nascita della BMTA, che ha sempre seguito da allora, avendo al suo fianco Mounir Bouchenaki, ora Presidente Onorario della Borsa, che all’epoca della candidatura del sito all’UNESCO ne era Direttore dell’Ufficio del Patrimonio e dopo Vice Direttore Generale per la Cultura. Per info: www.bmta.it settembre

MEDIOEVO



AGENDA DEL MESE

Mostre MILANO MEDIOEVO. STORIA, STORIE E MITO A FUMETTI Museo del Fumetto, dell’Illustrazione e dell’Immagine animata fino al 18 settembre

Il termine Medioevo, inteso come età di Mezzo, viene inventato nel Rinascimento e agli occhi dei sapienti di quel tempo si era trattato di un lungo periodo di decadenza, tra le meraviglie dell’antichità e le nuove che sarebbero sicuramente arrivate. Ma non fu cosí! In un periodo di 1000

anni, accadde davvero di tutto e molti di quegli eventi hanno ispirato fumettisti, artisti, ma anche registi e scrittori, imponendosi come un tassello fondamentale del nostro immaginario e della nostra storia. Fumetto, illustrazione e cinema d’animazione hanno avuto un ruolo fondamentale, parlando ai giovani lettori, talvolta ingannandoli, talvolta istruendoli, ma sempre con grandi immagini magnifiche di castelli, dame, armi, qualche mago e strega di troppo, e cavalieri a catturare l’attenzione. La mostra racconta attraverso tavole originali a fumetti, riproduzioni di armi e armature, manifesti, e molto altro un periodo storico fondamentale, sia

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a cura di Stefano Mammini

attraverso i punti fondamentali che permettono di comprendere meglio un millennio di storia, sia attraverso i miti e le leggende ancora amatissime ai giorni nostri, dal Sacro Graal a re Artú fino a Robin Hood passando, ovviamente, per il falso mito della terra piatta. info tel. 02 49524744; www.museowow.it ROMA TIZIANO. DIALOGHI DI NATURA E DI AMORE Galleria Borghese fino al 18 settembre

L’esposizione è nata in occasione del prestito di Ninfa e pastore, opera autografa realizzata dal maestro veneto intorno al 1565, concessa dal Kunsthistorisches Museum di Vienna nell’ambito di un programma di scambio culturale con la Galleria Borghese. L’incontro tra l’opera di Vienna e i dipinti di Tiziano presenti a Roma ha offerto l’opportunità di mettere in connessione le opere intorno ad alcuni temi costanti nella produzione del pittore: la natura, intesa come paesaggio ma anche luogo dell’agire

umano; l’amore nelle sue diverse forme, divino, naturale, matrimoniale; e il tempo, che scandisce la vita dell’uomo, ne regola il ciclo e lo assimila all’armonia dell’universo. Natura e amore sono legati da un rapporto armonico, parte del ciclo della vita, a cui allude l’allegoria amorosa e musicale di Ninfa e pastore, tra le ultime opere del maestro, considerata da alcuni la summa delle sue aspirazioni artistiche. La mostra ha trovato la sua sede naturale nella sala XX, al primo piano del museo, dove sono già esposti dipinti di scuola veneta e di Tiziano. L’attuale disposizione di Amor sacro e Amor profano e di Venere che benda Amore – posti uno di fronte all’altro – ha suggerito la collocazione di Ninfa e pastore lungo l’altro asse, di fronte a Le tre età sulla parete opposta, qui proposto nella replica di Sassoferrato che nel corso del Seicento copia – con ogni probabilità proprio per i Borghese – una versione presente a Roma del dipinto di Tiziano. Ninfa e pastore è il pendant perfetto del dipinto sulla parete opposta: si tratta della medesima riflessione, ma

alla fine della vita del vecchio pittore, sull’amore, sul tempo che scorre e tutto divora. info tel. 06 8413979; e-mail: ga-bor@beniculturali.it; www.galleriaborghese.it GUBBIO FEDERICO DA MONTEFELTRO E GUBBIO. «LÍ È TUCTO EL CORE NOSTRO ET TUCTA L’ANIMA NOSTRA» Palazzo Ducale, Palazzo dei Consoli, Museo Diocesano fino al 2 ottobre

La mostra ripercorre i momenti gloriosi vissuti dalla città di Federico e del figlio Guidubaldo, l’ultimo dei Montefeltro, dalla nascita del duca nel 1422 alla morte di Guidubaldo nel 1508. Diventa l’occasione per rileggere la storia di Gubbio tra la fine del Trecento e gli inizi del Cinquecento. Il percorso espositivo dà spazio, secondo ambiti peculiari, alle opere concesse in prestito da prestigiose istituzioni italiane e straniere nonché da collezionisti privati: manoscritti, dipinti, documenti, medaglie, monete, armi, armature, sculture, arredi. In particolare dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, che conserva l’intera biblioteca di Federico e dei suoi successori, giungono eccezionalmente quindici splendidi manoscritti, distribuiti fra le tre sedi. I natali eugubini di Federico sono avvalorati dalle sue stesse parole, quando, nel 1446, scrive che a Gubbio andavano il suo affetto e la massima intensità dei suoi sentimenti: «perché ve acertamo che lí è tucto el core nostro et tucta l’anima nostra», frase che diventa anche motivo di titolo per la mostra. Federico, inoltre, fece edificare a Gubbio un proprio palazzo, integrandovi quelle che erano le sedi delle settembre

MEDIOEVO


antiche magistrature della città umbra, abbandonate già nel 1321. Con una residenza in posizione urbica elevata e fronteggiante la cattedrale, ripropone la condizione del suo palazzo a Urbino: poteri politico e religioso affiancati e l’uno in prosecuzione dell’altro. Sottolinea cosí, anche idealmente e in continuità con la memoria dei luoghi del potere, il suo dominio. Federico muore il 10 settembre 1482 e gli succederà il figlio Guidubaldo. info Ufficio IAT Gubbio, tel. 075 9220693; e-mail: info@iat.gubbio.pg.it; www.mostrafedericogubbio.it

sostenuti per l’occasione e un’estesa campagna di analisi diagnostiche, l’esposizione diventa anche l’occasione per approfondire la conoscenza dell’operatività tecnica del pittore e degli interventi che nel corso del tempo hanno interessato le sue creazioni. Negli ultimi anni, la storia che ha legato Verona a uno dei suoi pittori piú affascinanti e rappresentativi si è arricchita di nuove testimonianze e significati, il primo dei quali ci

VERONA CAROTO E LE ARTI TRA MANTEGNA E VERONESE Palazzo della Gran Guardia fino al 2 ottobre

Gli spazi monumentali del Palazzo della Gran Guardia accolgono la prima mostra dedicata interamente a Giovan Francesco Caroto (1480 circa1555), con oltre 100 opere provenienti da alcune delle piú prestigiose collezioni italiane e internazionali, che documentano l’evoluzione del grande pittore, seguendolo dagli esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista. Attraverso una serie di restauri

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viene dal gesto generoso di cittadini veronesi a favore dell’artista e del Museo di Castelvecchio. Nel 2019, infatti, è giunta alla Pinacoteca del Museo, in dono dalla famiglia Arvedi, la splendida Veritas filia Temporis (La Verità è figlia del Tempo), una grande tela ottagonale che decorava in origine la volta dello

studiolo privato del gentiluomo e intellettuale veronese Giulio Della Torre, e che ora costituisce uno dei punti focali del percorso. Da segnalare anche la presenza della Madonna della farfalla, un’opera fra le piú belle e famose del pittore. Si tratta di un lavoro giovanile, un dipinto eseguito a olio su tavola, risalente agli anni 1510-1515 e al clima stilistico dell’esperienza a fianco di Mantegna e a contatto con la cultura mantovana e leonardesca. info www.mostracaroto.it FIRENZE LE TRE PIETÀ DI MICHELANGELO. NON VI SI PENSA QUANTO SANGUE COSTA Museo dell’Opera del Duomo, sala della Tribuna di Michelangelo fino al 3 ottobre

Vengono per la prima volta messe a confronto l’originale della Pietà Bandini, di cui è da poco terminato il restauro, e i calchi della Pietà Vaticana e della Pietà Rondanini provenienti dai Musei Vaticani. Collocate una vicina all’altra, le tre Pietà offrono l’opportunità di vedere l’evoluzione dell’arte di Michelangelo, nonché la sua maturazione spirituale, dalla prima giovinezza – quando a Roma scolpí per la Cappella dei Re di Francia nell’antica S. Pietro l’opera ora nella navata laterale nord della basilica – alla sua ultima stagione, quando, ormai vecchio, mise mano alla Pietà oggi a Firenze e poi alla Pietà Rondanini conservata a Milano. Si tratta di un percorso lungo piú di cinquant’anni, che conduce dall’ambizione del giovane che scolpí il proprio nome sul petto della Madonna della versione vaticana all’immedesimazione personale dell’anziano artista, che, in quella del Museo dell’Opera, raffigura se stesso nelle sembianze di Nicodemo. Vicino alla propria morte, Michelangelo meditava profondamente sulla Passione di Cristo, come egli stesso fece capire in un coevo disegno della Pietà, donato alla marchesa di Pescara Vittoria Colonna, dove scrisse la frase dantesca: «Non vi si pensa quanto sangue costa» (Paradiso XXIX, 91). Risultato sublime di questa meditazione spirituale fu l’esecuzione della Pietà Rondanini, la cui estrema bellezza rifulge nel tramonto della figura. info https://duomo.firenze.it URBINO FEDERICO DA MONTEFELTRO E FRANCESCO DI GIORGIO: URBINO CROCEVIA DELLE ARTI (1475-1490) Palazzo Ducale, Galleria

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AGENDA DEL MESE

Nazionale delle Marche fino al 9 ottobre

Nel sesto centenario della nascita di Federico da Montefeltro, la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino presenta, a partire dal prossimo 23 giugno, la grande mostra «Federico da Montefeltro e Francesco di Giorgio: Urbino crocevia delle arti (1475-1490)», che riunisce 80 opere – tra pitture, sculture, disegni, medaglie, affreschi staccati e codici –, un terzo delle quali provenienti dall’estero. L’esposizione propone un viaggio attraverso un periodo cruciale sia per Urbino e la sua corte, sia per la storia dell’arte italiana, che a quegli anni deve molto. Il percorso espositvo si articola in sette sezioni, che spaziano dall’epoca in cui Francesco di Giorgio viene incaricato del ruolo di «architettore» del duca, assumendosi le funzioni

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anche di soprintendere ai lavori strutturali e decorativi per la fabbrica del palazzo ducale, nel nome del quale si snodano anche gli approfondimenti conclusivi. Nel mezzo, come ha dichiarato Luigi Gallo, Direttore della Galleria Nazionale delle Marche, c’è spazio per documentare come il duca Federico avesse saputo «trasformare Urbino in una capitale del Rinascimento: alla sua corte si incontrarono artisti e letterati di estrazione e provenienza diversa, le cui reciproche influenze generano un clima culturale che si ripercuoterà nei decenni a venire. Quell’ambiente, che vide incontrarsi pittori come Piero della Francesca, Giusto di Gand, Pedro Beruguete e Luca Signorelli, gli architetti Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini e Donato Bramante, fu l’humus dal quale fiorì la genialità di Raffaello e sul quale, Baldasar Castiglione, plasmò il Cortegiano». Ad arricchire la rassegna contribuisce una seconda mostra, «“Quando vedranno i richi vistimenti”. Federico da Montefeltro e Battista Sforza. Vesti e Potere nel primo Rinascimento italiano», che propone la ricostruzione di sei abiti storici del XV secolo: due richiamano gli abbigliamenti del Dittico di Urbino di Piero della Francesca, il famoso doppio dipinto custodito nella Galleria degli Uffizi di Firenze; gli altri quattro (due femminili e due maschili) sono rifacimenti fedeli di abiti dell’epoca, frutto di un approfondito studio delle fonti storiche, giacché degli originali abiti dell’epoca purtroppo a noi non è giunto niente. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

SUTTON HOO (UK) SPADE REALI. IL TESORO DELLO STAFFORDSHIRE A SUTTON HOO Exhibition Hall fino al 30 ottobre

L’esposizione riunisce, per la prima volta, due fra le piú importanti scoperte di archeologia medievale mai compiute in Inghilterra: il tumulo n. 1 della necropoli di Sutton Hoo e il tesoro dello Staffordshire. Contesti che offrono una testimonianza straordinaria della maestria raggiunta dagli artigiani anglosassoni specializzati nella lavorazione dei metalli e dell’oro in particolare. Nel primo caso, scavi condotti nel 1939 portarono al ritrovamento di una nave funeraria reale che, alla luce degli studi piú recenti, avrebbe accolto le spoglie di Raedwald, re di East Anglia. Il tesoro dello Staffordshire è invece un insieme di 4600 frammenti di metallo prezioso, rinvenuto da un amatore, grazie al metal detector, nel luglio del 2009. Nella mostra viene sottolineato come gli oggetti, per via delle affinità stilistiche e tecnologiche, sembrano appunto riferibili all’ambito culturale del regno di East Anglia e databili nel VII secolo. Nel caso del tesoro, si tratta, in

larga prevalenza, di armi e accessori facenti parte di equipaggiamenti militari ed è stato calcolato che quelli rinvenuti siano i resti di almeno 100 o forse 150 spade differenti, i cui proprietari potrebbero essere stati i condottieri impegnati in molte delle grandi battaglie combattute nell’Inghilterra anglosassone in un’epoca di grandi mutamenti politici, religiosi e culturali. Quanto a Sutton Hoo, i reperti, concessi in prestito dal British Museum, comprendono, fra gli altri, vari esemplari delle spettacolari terminazioni piramidali dell’impugnatura delle spade, realizzate in oro, con inserti di granati, e lavorate a cloisonné. Oggetti che, quando affiorarono nel corso dello scavo, lasciarono subito intuire l’eccezionalità del tumulo n. 1 della necropoli reale. info www.nationaltrust.org.uk FIRENZE DA VINCI EXPERIENCE Cattedrale dell’Immagine, chiesa di S. Stefano al Ponte fino al 1° novembre

Torna, interamente rinnovata, Da Vinci Experience, un viaggio

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immersivo attraverso la vita e le opere di Leonardo. La parabola artistica e personale del maestro viene affrontata in 35 minuti di video immersivo suddiviso in sei blocchi tematici: biografia, colore, pittura, ingegneria/anatomia, acqua e aria. Una narrazione che parte dal racconto cronologico della vita del genio e poi si dirama tra gli effetti visivi dei video generativi che affrontano i tanti temi legati a Leonardo. La nuova Da Vinci Experience è una produzione divulgativa e, nella sezione didattica, è peraltro possibile osservare numerosi modelli delle macchine leonardesche, sia a grandezza naturale che in scala, mentre nell’area introduttiva sono esposte pregevoli riproduzioni anastatiche dei disegni del Genio. La visita permette infine di sperimentare la Da Vinci VR Experience, un’esperienza di realtà virtuale grazie alla quale il visitatore può confrontarsi con il funzionamento delle invenzioni di Leonardo da Vinci, entrando all’interno del carro armato e azionandone i meccanismi, navigando con la barca a pale, e inseguendo il sogno del volo umano. info tel. 055 2989888; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it; Facebook Cattedrale dell’Immagine ASCOLI PICENO SULLE ORME DI SAN MICHELE ARCANGELO. PELLEGRINI E DEVOTI NELL’ARTE Pinacoteca Civica fino al 6 novembre

Approda ad Ascoli Piceno la mostra itinerante voluta per approfondire il tema del pellegrinaggio attraverso opere che spaziano dal Medioevo al Seicento, seguendo un percorso all’insegna dei luoghi

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di culto di san Michele Arcangelo. I pellegrini e i devoti che in gran numero percorrevano gli itinerari di fede europei sono stati piú volte rappresentati dagli artisti che ne hanno messo in evidenza le particolarità dell’abbigliamento, con i segni caratteristici dell’avvenuto pellegrinaggio che consentiva di riconoscerli. I santi invocati durante il percorso, come san Rocco e san Giacomo Maggiore, venivano dunque effigiati dagli artisti con le vesti tipiche dei pellegrini al pari dei santi che nel Medioevo avevano portato la parola di Cristo in luoghi lontani e pericolosi, come san Giacomo della Marca raffigurato sempre con il bordone. La mostra vuole rendere omaggio a questo particolare legame e attingendo a un ricco patrimonio iconografico si è selezionato un nucleo di opere, in un percorso tematico che mette in risalto alcuni elementi particolari, come l’abito caratteristico dei pellegrini e le insegne esibite per certificare di aver intrapreso il viaggio verso i remoti luoghi santi. Fra le opere giunte ad Ascoli si segnala la tela del seicentista Francesco Cozza, recentemente rinvenuta a Roma presso un convento dove era stata nascosta sotto un dipinto moderno affinché le monache

non fossero turbate dalla visione del demonio nudo sconfitto da un atletico san Michele Arcangelo. info tel. 0736 298213 oppure 333 3276129; e-mail: info@ascolimusei.it TREVISO PARIS BORDON 1500-1571. PITTORE DIVINO Museo Santa Caterina fino al 15 gennaio 2023 (dal 16 settembre)

Treviso dedica al suo piú grande pittore, Paris Bordon, definito dallo storiografo

Bordon l’unico allievo di Tiziano meritevole di attenzione, tanto da dedicargli una lunga appendice nella biografia del Vecellio nell’edizione del 1568 delle Vite. Non esistono opere e documenti capaci di fare chiarezza sulle date del suo apprendistato, ma di certo sappiamo che nel 21 giugno 1518 Paris è indicato come «pictor habitator in Venetiis in contrata Sancti Iuliani». Il giovane pittore non tarda a dimostrare una certa emancipazione dal maestro, volgendo il suo interesse alle nuove tendenze introdotte da Palma il Vecchio e dal Pordenone. La mostra intende riscoprire proprio la varietà, l’originalità e la ricchezza della produzione del genio trevigiano riunendo i suoi sensuali ritratti femminili, le rappresentazioni mitologiche, le scene sacre delle grandi pale d’altare e le piccole opere destinate alla devozione privata. info Call Center prenotazioni: tel. 0444 326418; e-mail: mostraparisbordon@gmail.com; www.mostraparisbordon.it TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile 2023

veneziano Marco Boschini, il «Divin Pitor» – termine che ha usato solo per Raffaello e Tiziano – la piú ampia rassegna monografica mai realizzata finora con opere eccezionali, molte delle quali mai esposte in Italia. È Giorgio Vasari a considerare Paris

La mostra si inserisce nel progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al

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AGENDA DEL MESE alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio 2023

1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e

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L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso,

fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it

Appuntamenti

info www.festivalfilosofia.it

MODENA, CARPI, SASSUOLO

CACCAMO (PALERMO)

FESTIVALFILOSOFIA XXII EDIZIONE 16-18 settembre

Il Festivalfilosofia torna in piena capienza con quasi 200 appuntamenti gratuiti in tre giorni per approfondire il tema «giustizia». Oltre 50 lezioni magistrali affidate a grandi protagonisti del pensiero contemporaneo, mostre, spettacoli, iniziative per bambini e cene filosofiche. In

società interessate da una ricostruzione materiale e spirituale, la questione della giustizia riguarda temi di redistribuzione, ma anche criteri di accesso, tra merito, competenze e tutele. Tema non solo filosofico e politico, ma anche teologico, per eccellenza, il discorso della giustizia interseca il suo rapporto con la legge e la pena, ivi incluse le questioni di riconoscimento. Mentre nuovi soggetti emergono come destinatari e oggetti di giustizia, il tema si presta per una valutazione complessiva di passaggi di fondo della storia e della cultura italiana.

LE GIORNATE MEDIEVALI: UN SALTO NEL PASSATO Castello fino all’11 dicembre

Curata dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali-Sezione Regione Siciliana (SIPBC Sicilia), con la collaborazione del Comune di Caccamo e il patrocinio gratuito della Federazione Storica Siciliana, l’iniziativa propone rievocazioni storiche che si ripetono ogni mese. Fino a dicembre, presso il Castello medievale, si può assistere a una rievocazione intervallata da momenti di narrazione e spiegazione degli ambienti della fortezza. Il programma inizia alle 10,00 nella Sala Prades del Castello, per poi concludersi al baglio centrale. I visitatori saranno accompagnati alla visione commentata delle sale del piano nobile del maniero da figuranti in abito d’epoca. Questo il calendario delle prossime giornate: domenica 18 settembre; domenica 23 ottobre; domenica 20 novembre. info tel. 091 8149744,

cell. 339 3721811 o 320 0486901; e-Mail: sipbc.regionesiciliana@gmail.com, sicilia@sipbc.it

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MEDIOEVO



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

TEMPLARI

La storia, la leggenda, la memoria

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el 1095, nel corso del concilio di Clermont-Ferrand, papa Urbano II pronuncia il fatidico discorso con il quale esorta la cristianità a strappare il Santo Sepolcro di Gerusalemme dalle mani degli «infedeli»: le sue infuocate parole danno l’avvio all’epopea delle crociate ed è questa l’atmosfera nella quale germoglia il glorioso Ordine del Tempio, protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo». Gli uomini che ricamano sulle loro bianche uniformi la croce rossa si dedicano, inizialmente, all’assistenza dei pellegrini diretti verso i luoghi santi, ma presto scelgono di imbracciare le armi e danno cosí vita a una congregazione di veri e propri monaci-cavalieri, di cui Bernardo di Chiaravalle esalta le virtú. L’ascesa dei Templari diviene inarrestabile, anche grazie all’accumulo di ricchezze sempre piú consistenti, che consentono loro di moltiplicare le sedi, non piú soltanto in Oriente, ma, soprattutto, li fanno entrare a pieno titolo nei grandi giochi finanziari del tempo, come prestatori di denaro. E proprio questa svolta sarà all’origine della fine: agli occhi di molti l’Ordine del Tempio si è trasformato in una potenza pericolosa e incontrollabile e cosí, fomentata dal re di Francia Filippo il Bello, ha inizio una campagna denigratoria che assume in poco tempo i contorni della persecuzione. Si susseguono arresti, torture, condanne a morte e, con l’avallo di papa Clemente V, nel 1312, la nobile confraternita viene definitivamente soppressa. Una storia dapprima gloriosa e poi sempre piú fosca che il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre passo dopo passo, fino ai non pochi tentativi di rivitalizzare l’Ordine templare in età moderna.


Jacques de Molay conquista Gerusalemme, 1299, olio su tela di Claude Jacquand. 1846. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. L’artista ha qui immaginato un evento immaginario: alla data del 1299, infatti, il Gran Maestro dell’Ordine templare non si trovava nella Città Santa.

GLI ARGOMENTI

• Alle origini di un mito • L’età delle crociate • La nascita e la Regola • La vita quotidiana • L’organizzazione • La crisi • Il templarismo

IOEVO MED Dossier

353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

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L’ORDINE DEI TEMPLARI

di Federico Canaccini

IN EDICOLA IL 15 LUGLIO 2022

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Sulle due pagine la quarta novella dell’ottava giornata in un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Nel particolare riprodotto in questa pagina, il parroco di Fiesole viene sorpreso dal vescovo e dai fratelli di Piccarda mentre giace a letto con la serva Ciuta; nella vignetta precedente (vedi alla pagina accanto), monna Piccarda visita il parroco per invitarlo nella sua casa.

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MEDIOEVO


costume e società

Il mondo oltre la cortina

A LETTO NEL MEDIOEVO di Chiara Frugoni, con un’introduzione di Furio Cappelli

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l Decameron del Boccaccio è ricco di novelle particolarmente salaci (come peraltro conferma la serie dedicata alla raccolta di cui trovate in questo numero la nuova puntata, alle pp. 46-55). In questi racconti vengono spesso presi di mira frati francescani o sacerdoti che fanno leva sul proprio abito per abbindolare le donne, e per indurle a concedere le loro grazie. E nella novella del «preposto di Fiesole» (la settima della terza giornata) la vittima designata è monna Piccarda, una piacente vedova che «un vecchio sacerdote baldanzoso, altero e presuntuoso» – cosí lo definisce Chiara Frugoni – vorrebbe accogliere nel proprio letto. Senonché

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costume e società monna Piccarda mette in atto un inganno. Finge di accettare l’incontro amoroso, e convoca il prete nella propria stanza, ingiungendogli di rispettare un silenzio e un buio assoluti, per non indurre al sospetto i suoi fratelli. Il malcapitato, però, non ritrova sotto le coperte la bella vedova bensí una sua fantesca, Ciuta, talmente sgraziata da essere nota come Ciutazza. Lei «si sacrifica» volentieri, su suggerimento della padrona, proprio perché le sue sembianze non le permettono di avere tutte le esperienze amorose che desidera. Gli amplessi si sono già svolti in buon numero, quando all’improvviso il prete peccaminoso si ritrova di fronte a un folto pubblico. La luce gli mostra le inquietanti fattezze della fantesca, e per giunta, proprio davanti al letto, si mostrano i fratelli di monna Piccarda in compagnia del vescovo in persona! Lo hanno convocato per cogliere il sacerdote in flagrante.

«Povera Ciutazza!»

Oltre alle rampogne e alle penitenze inflitte dal presule, il prete deve poi subire i continui dileggi dei ragazzi per strada, che lo additano dicendo «Vedi colui che giacque con la Ciutazza». A questo punto, con un moto di istintiva simpatia, Frugoni commenta: «Povera Ciutazza!». Non è certo il vecchio sacerdote la vittima da compatire, bensí questa donna «marchiata» dalla propria bruttezza e dallo sguardo spietato della gente. È solo uno dei tanti esempi di quelle storie che si inanellano nel nuovo libro di Chiara Frugoni, e ci piace evidenziarlo perché vi ritroviamo una verve narrativa e quello sguardo attento e partecipe che contraddistinguono in modo indelebile le ultime fatiche della grande medievista scomparsa. S’intitola A letto nel Medioevo. Come e con chi, ed è un lascito prezioso, proprio perché viene pubblicato dopo

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Miniatura raffigurante la moglie di Putifarre che cerca di sedurre Giuseppe, dalla Bibbia Furtmeyr. XV sec. Augsburg, OttingenWallerstein Bibliothek.

che la studiosa è venuta a mancare. Vi ha lavorato instancabilmente fino all’ultimo, riuscendo a completarlo, ed è il coronamento perfetto di una vita consacrata allo studio e alla divulgazione. Nell’arco di 8 capitoli, il libro prende in esame un arredo domestico fondamentale, il letto appunto, per farne un osservatorio privilegiato sulla società e sulla mentalità del Medioevo. Come sempre un sigillo inconfondibile delle opere di Frugoni, un’ampia carrellata di immagini particolarmente pregnanti e di rara reperibilità – tratte in massima parte dalle miniature dell’epoca – fa da ossatura allo sviluppo del volume, in un perfetto accordo tra racconto e visione, tra fonte letteraria e iconografia. In questo modo possiamo capire come il letto potesse rimarcare le differenze dello status sociale, come potesse essere non solo luogo del riposo, ma anche luogo di lavoro e di incontro (non solo amoroso). Al punto che dietro le cortine che spesso lo scherma-

no – in modo da proteggere dai morsi del freddo chi vi è coricato o seduto – assistiamo allo svolgersi delle attività piú diverse, compresi il gioco degli scacchi e le riunioni di corte. E naturalmente assistiamo alle innumerevoli situazioni indotte dalla sessualità, dove, nel tipico atteggiamento dell’epoca, l’attenzione spesso divertita agli aspetti narrativi si alterna alle riflessioni morali sui peccati della carne. L’aspetto che emerge piú fortemente da questa lettura, è quello di una visione scrupolosa e al tempo stesso lieta. L’ultimo libro di Chiara Frugoni si chiude con un sorriso, che in un momento incantato – complice una splendida novella di Boccaccio, quella di Salabaetto – sembra cancellare ogni segno di tristezza e di mediocrità dall’esperienza umana, facendo tesoro di «fatiche, pensieri ed emozioni» di un mondo lontano, ma che è ancora vivo in ogni segno che ha lasciato. Furio Cappelli settembre

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Miniatura raffigurante la Natura che si affaccia nel sogno di Évrart de Conty, da un’edizione de Les Echecs amoureux. 1490-1495. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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costume e società Ecco, nelle pagine che seguono, alcuni brani tratti dal volume di Chiara Frugoni, che qui appaiono per gentile concessione della Società editrice il Mulino.

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a contrapposizione di due letti è l’efficace dimostrazione di due diverse condizioni di vita. In una miniatura del XV secolo tratta da uno Speculum historiale il letto del povero mandriano Spartacus, costituito da frasche tenute insieme da pochi paletti di legno, è posto entro una capanna con un malandato tetto di paglia, mentre quello del neonato nipote di re Astiages è collocato sopra una pedana. Sovracoperta, amplissime cortine e «soffitto» sono di stoffa del prezioso colore blu intenso, che solo i sovrani possono permettersi: quasi una piccola stanza di seta e d’oro collocata nel palazzo reale. L’episodio è tratto da Erodoto (Storie, I, 108) e la miniatura lo racconta riunendo simultaneamente le varie fasi. Al

centro Astiage ascolta i sapienti che gli svelano il significato del sogno, rappresentato ai suoi piedi: dal grembo della figlia Mandane è nata una vite colma di grappoli d’uva. Mandane avrebbe partorito il futuro Ciro II che avrebbe usurpato il trono del nonno. A sinistra Astiage consegna allora il neonato al fidato Arpago con l’incarico di uccidere il bambino. Arpago però preferisce delegare l’infanticidio al bovaro Metradate, che qui ha invece il nome di Spartacus. Costui porta a casa propria il piccolo, il quale verrà allevato dalla moglie in sostituzione del figlio appena partorito e subito spirato: è la scena di destra. Il tipo di letto è veramente un indicatore sociale. Il pittore e miniatore Jean Bourdichon rappresentò le quattro condizioni della società in quattro fogli separati attraverso quattro famiglie collocate in altrettanti ambienti differenti: la bottega del falegname, il lavoro

artigianale; i genitori sontuosamente abbigliati con i due figli in una magnifica sala, la ricchezza; una coppia pelosissima accanto a una grotta (la donna allatta un bambino), l’uomo selvaggio o lo stato di natura; una coppia disperata e in cenci, l’uomo miserabile o lo stato di povertà. Protagonista in quest’ultimo caso è l’enorme letto costituito dalla struttura in legno, da uno strato di paglia, due lenzuola e una coperta a pezzi: vi è coricato un povero ammalato che si sta lamentando; è storpio, come denunciano le bende e le stampelle posate a sinistra. La moglie è accoccolata a terra in un gesto di disperazione. La catapecchia in legno sta crollando ma c’è quasi una parodia del letto a cortina nella scelta di un identico rosso, colore prezioso, sia per la coperta sia per il tendaggio che a mo’ di «soffitto» è steso sopra l’indigente. (...) Miniatura raffigurante il sogno del re Astiage nella quale compaiono il letto del povero e quello del ricco, da un’edizione del Miroir historial di Vincenzo di Beauvais. 1463. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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I monaci nelle celle e gli eremiti nelle loro capanne dormono su letti particolarmente spartani, su letticelli, ma spesso non dormono affatto da soli. Emblematica è la quarta novella della prima giornata del Decameron. In un monastero della Lunigiana vi era fra gli altri religiosi un monaco giovane, «il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie potevano macerare». Un giorno sul mezzodí, mentre i confratelli dormivano, andando intorno alla chiesa posta in un luogo assai solitario, «vide una giovinetta assai bella forse figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contrada la quale andava per gli campi certe erbe cogliendo. Né prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale». Le si avvicinò, entrò in confidenza e la convinse ad andare con lui nella sua cella. «E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente con lei scherzava, avvenne che l’abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui, sentí lo schiamazzio che costoro insieme facevano»; si fermò, si mise ad ascoltare e capí cosa stesse succedendo. Invece di farsi aprire, come era la sua prima intenzione, l’abate decise di aspettare che il monaco uscisse, il quale però, a sua volta, avendo udito «alcun stropiccio di piedi per lo dormentorio, a un piccolo pertugio puose l’occhio e vide apertissimamente l’abate stare ad ascoltarlo». Immaginando il castigo che gli sarebbe stato comminato, il giovane senza perdersi d’animo architettò il modo di scansarlo. Disse alla fanciulla di non muoversi mentre lui avrebbe cercato di farla uscire senza che nessuno la vedesse. Nel frattempo l’abate era tornato sui suoi passi. Il giovane monaco allora chiuse la propria cella a chiave e la portò all’abate – come doveva fare ogni volta che se ne allontanasse – dicendogli di voler

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andare nel bosco per completare il carico di legna che durante la mattina non aveva terminato. L’abate allora, per raccogliere maggiori informazioni e poter meglio punire il peccatore, acconsentí; andò poi ad aprire la cella dove era la giovanetta che, vedendosi scoperta, si mise a piangere. A sua volta l’abate, che

Miniatura raffigurante il letto di un povero. Inizi del XVI sec. Parigi, École Nationale Supérieure des Beaux-Arts.

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costume e società nonostante la vecchiaia aveva subito avvertito «cocenti» gli stimoli della carne, preferí rassicurarla e alla fine chiederne (e ottenerne) i favori. Dopo baci e abbracci «in sul letticello del monaco salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della dignità e alla tenera età della giovane, temendo forse di non offenderla per troppa gravezza, non sopra il petto di lei salí, ma lei sopra il suo letto pose e per lungo spazio con lei si trastullò». Ovviamente anche il giovane monaco – che non era affatto andato nel bosco – si mette a guardare dal pertugio e vede premiata la propria malizia. Poco dopo l’abate, tornato in cella, fa chiamare il giovane con l’idea di rimproverarlo aspramente e di farlo incarcerare, ma alla reprimenda l’accusato prontamente ribatte: «Messere, io non sono ancora tanto all’Ordine di San Benedetto stato, che io possa avere ogni particularità di quello apparata; e voi ancora non m’avavate mostrato che i monaci si debban far dalle femmine priemere, come da’ digiuni e dalle vigilie; ma ora che mostrato me l’avete, vi prometto,

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Nella pagina accanto La nascita di Maria, dipinto su tavola di Cennino Cennini. 1385-1395. Colle di Val d’Elsa, Museo San Pietro. In basso miniatura raffigurante i costumi sregolati in monastero, da Le livre appellé Decameron. XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

L’uso delle cortine

Per pudore o contro il vento? Tante precauzioni e tanta stoffa erano motivate non da una ragione di riservatezza o di pudore, ma dal bisogno di ripararsi dagli spifferi e dal gelo che rendevano a volte veramente inospitale la camera da letto. Lo afferma anche il domenicano Giordano da Pisa in una predica: «Perché fai le coltrici? Per allettare il sonno, che t’è necessario, e per riposarti. E perché fai le cortine? Perché temi il vento». Sempre Franco Sacchetti racconta il «sollazzevole inganno» teso da un buffone, Agnolo Moroni di Casentino, che, essendo stato sistemato in un letto già occupato da un certo Golfo, si era coricato «da piedi» con un piccolo mantice, ben deciso a sloggiare il compagno e avere lo spazio tutto per sé. Soffiando da sotto le coperte piú e piú volte provocò un forte vento, costringendo il povero Golfo a ispezionare ripetutamente la stanza alla ricerca di una finestra o di un uscio rimasti aperti o di uno spiffero proveniente dal soffitto, finché, vinto, si recò in un’altra camera dove, in un unico letto, dormivano varie persone che però gli fecero posto.

se questa mi perdonate, di mai piú in ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare». L’abate dovette giocoforza ricredersi: chiese al monaco il silenzio per quello che aveva visto, lo aiutò a

far uscire in sicurezza la fanciulla e poi «piú volte si dee credere ve la facesser tornare». Il miniatore che ha illustrato la storia ha posto il dormitorio di legno all’interno del solido monastero in muratura; venendo in aiuto al lettore ha tolto porte e porticine, ma ha variato arbitrariamente l’architettura delle due celle assumendo che l’abate si fosse congiunto con la fanciulla nella sua propria cella, mentre lo aveva fatto «in sul letticello del monaco». Non ha osato rappresentare però l’insolita posizione dell’anziano benedettino. Non voglio abbandonare questa novella senza sottolineare il disprezzo del Boccaccio verso l’abate, che dovrebbe guidare e ammaestrare i confratelli e che invece non solo dimentica il suo ruolo e l’età, che dovrebbero aiutarlo a resistere con saggezza alla tentazione, ma si mostra un essere umanamente bieco. Per prima cosa è incerto se umiliare o meno la giovane al pensiero che settembre

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costume e società possa appartenere a una famiglia importante, mostrando cosí di essere guidato da un criterio non morale ma di tornaconto: «E pensando seco stesso che questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d’averla a tutti i monaci fatta vedere, s’avvisò di voler prima veder chi fosse e poi prendere partito». Quando poi decide di punire il giovane monaco, ecco le motivazioni: «Avvisò di riprenderlo forte e di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse la guadagnata preda»: la fanciulla è solo una preda, quasi un cibo prelibato da non spartire con nessuno. Oltre a tutto, è greve e obeso; l’abate evidentemente si guardava bene dal seguire l’austera dieta e i digiuni previsti dalla regola.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un letto con mensola e baldacchino di legno. 1354-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso capolettera miniato raffigurante una coppia a letto, da Le Régime du corps de maître Aldobrandin de Sienne. Fine del XIII sec. Londra, British Library.

(...) Fra il VI e l’XI secolo, nota Jean-Louis Flandrin, per eccellenza il tempo dei monaci, costoro erano divenuti la coscienza della Chiesa; la loro influenza anche sui laici fu enorme perché i vescovi piú importanti venivano selezionati tra le loro file. Avevano scelto la continenza e il celibato necessari a loro avviso alla salvezza; fecero perciò tutto il possibile perché la Chiesa riducesse obbligatoriamente le occasioni anche di unione legittima fra i coniugi, moltiplicando i loro periodi di continenza periodica. Se tali precetti fossero stati seguiti non ci sarebbe potuta essere regolazione delle nascite migliore. Le categorie dei tempi proibiti riguardavano sia gli avvenimenti fisiologici della donna sia quelli relativi al ciclo li-

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turgico settimanale e annuale. Non si potevano avere rapporti con la moglie durante le sue mestruazioni, per gli ultimi due mesi di gravidanza, nei quaranta giorni dopo il parto e durante l’allattamento. Era proibito unirsi la domenica, in tutte le principali feste del culto, degli apostoli e nelle relative vigilie, durante la quaresima, e ancora durante i venti giorni prima del Natale, le Quattro tempora e le Rogazioni, e in tutte le feste fissate dalla legge. Insomma i giorni proibiti

coprivano circa la metà dell’anno, e aumentavano nel caso la donna fosse incinta o avesse appena partorito e allattasse. Per applicare le penitenze ai trasgressori, i confessori si basavano sui penitenziali, su manuali cioè in cui ogni peccato era accompagnato rigidamente dalla relativa sanzione, senza che fossero minimamente tenuti presenti i sentimenti e le intenzioni delle persone, le aggravanti o le attenuanti: contava solo il puro dato materiale. Ecco qualche esempio tratto dal penitenziale del grande canonista Burcardo di Worms, dell’XI secolo: «Ti sei unito a tua moglie quando aveva le mestruazioni? Se tu l’hai fatto, farai penitenza dieci giorni a pane e acqua»; «Ti sei unito a tua moglie il giorno del Signore? Tu farai penitenza quattro giorni a pane e acqua»; «Ti sei contaminato con la tua sposa durante la Quaresima? Tu farai penitenza quaranta giorni a pane e acqua o darai ventisei soldi in elemosina». Ma l’inchiesta diventava veramente morbosa quando il sacerdote per esempio chiedeva: «Con la tua sposa, o con un’altra donna, ti sei unito da dietro, alla maniera dei cani? Tu farai penitenza dieci giorni a pane e acqua» (da notare che è indifferente con chi avvenga l’atto sessuale). Sarà stata una posizione legittima quella che si vede in fig. 61? (qui riprodotta in questa pagina). Da quando, a partire dall’XI secolo, i preti non si poterono piú sposare, non sono mai piú stati in primo piano nella pastorale rivolta ai laici l’affetto, la tenerezza o l’amore fra i coniugi. Si cerca di settembre

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colpevolizzare anche l’atto sessuale legittimo, citando i testi di Girolamo e di Gregorio Magno. Scrive san Girolamo: L’uomo saggio deve amare la moglie con giudizio e non con passione. Che egli domini lo sfogo della voluttà e non si lasci portate con precipitazione all’amplesso. Niente è piú infame di amare una sposa come una amante. […] Gli uomini non si presentino alle loro spose come amanti ma come mariti. E ancora, anche se un uomo non ha commesso un peccato contro natura o una infedeltà, è lo stesso colpevole d’adulterio se ha provato piacere, dal momento che bisogna solo pensare al fine della procreazione; infatti, secondo Giona d’Orléans, che dice di riportare

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letto italiano

Paese che vai, giaciglio che trovi... Rispetto alla Francia dove è privilegiato il letto con cortine e «cielo» di stoffa, in Italia, a meno di essere davvero molto ricchi, nel XIV secolo un buon letto è fatto di un solido legno ed è circondato da cassepanche, senza che vi sia alcuna altra protezione in tessuto, soprattutto sopra la testa del dormiente. Al massimo possiamo trovare una tenda scorrevole su anelli infilata a un bastone fissato ai lati delle pareti, come per esempio nella Nascita di Giovanni Battista in un messale miniato a Firenze nella prima metà del XIV secolo: qui le tende sono in seta con motivi dorati sui due lati della stoffa e al cassone è stata sostituita una lunga panca con lo schienale addossato al letto. Tipicamente italiano è il letto in cui la testiera si curva come un mini-baldacchino, come per esempio il letto presente in un manoscritto del Roman de Guiron le Courtois miniato nell’Italia settentrionale. Il malato, amorevolmente soccorso dai compagni, è appoggiato al capezzale e a un altro cuscino, sostenuti da una mensola con coperchio, all’interno della quale venivano riposti piccoli oggetti, mentre il ripiano serviva da appoggio per un bicchiere o una bottiglia.

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costume e società A sinistra miniatura raffigurante la Sacra Famiglia che si ferma a dormire in un ospizioospedale. Inizi del XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso miniatura raffigurante una coppia che conversa davanti al focolare. 1460 circa. Coligny, Fondation Martin Bodmer.

dormire in ostello

Gli imprevisti di un viaggiatore L’alloggio in una locanda contemplava, si può dire sempre, la necessità di dormire in un letto con uno o piú sconosciuti. Mettersi in viaggio nel Medioevo era una pericolosa avventura. A seconda della meta c’era chi faceva testamento. Ci si spostava per guadagnare e commerciare, per un impegno religioso, come il pellegrino peccatore o il pellegrino fervente, desiderosi di dirigersi verso un santuario, o semplicemente per ritrovarsi fra amici. C’era però in agguato il concreto pericolo di fare brutti incontri, di essere rapinati da ribaldi o di ammalarsi per la fatica e per gli strapazzi. Sovente ci si imbatteva in frane, ponti crollati, nell’intrico dei cespugli e della vegetazione difficile da superare, dato che era venuta a mancare la regolare manutenzione delle strade cosí attiva ed efficace nell’impero romano. Tutti disagi di cui il cardinale Iacopo Stefaneschi è ben consapevole, quando scrive, nell’anno giubilare voluto nel 1300 da Bonifacio VIII, la lode del buon pellegrino che non teme «i digiuni, fame, sete lancinante, monti impervi, valli profonde, pioggia battente»; non teme di abbandonare «i bei figli, il grande palazzo e i ricchi beni, il pianto della sposa sola, gloria dell’illustre stirpe; i fiumi, gli affanni, le spese, il mare, l’oste arrogante, la tarda età, il sesso,

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le veglie, l’aria gelida non potranno lacerare l’animo se per il pellegrino s’apre il regno dei cieli». «L’oste arrogante»: in effetti neppure una volta raggiunta la meta cessavano i disagi e le pene del pellegrino. Lo spiega bene il cronista Buccio di Ranallo (1294-63) deprecando gli usi degli osti romani che facevano pagare caro perfino il pavimento, e ancor piú il saccone e il materasso; chiedevano prezzi esorbitanti, e avevano la pessima abitudine di aggiungere alle tre o quattro persone per letto – cosa accettata come fatto normale – altri ospiti, fino a raddoppiarne il numero, e purtroppo bisognava chinare la testa. Ma ascoltiamolo: «Lo peggio che facevano quilli mali Romani / quando albergavano la sera, dico, li ostulani / che se monstravano angeli, et poi erano cani: / letta promettevano et davano splaczi plani. / Da sey denari ad sette tollevano per bordone, / ad otto, nove et diece chi jaceva in saccone / ad dudici et ad tridici chi in materazo fone / come lo dice Buccio, però che lo provone. / Promettevano lo letto ad quatro et ad tre persone; / poy ché venía ad jacere; ad sei vi nne colcone, / et ad sette et ad otto; piú volte questo fone; / l’omo se llo durava per non fare questione». settembre

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Curiosità

Gli usi molteplici del letto Mentre noi abbandoniamo di giorno il luogo dove dormiamo al silenzio e alla solitudine, nel Medioevo la camera da letto era animata da varie attività. La stanza infatti si adattava rapidamente ai desideri e ai bisogni di chi ci viveva. Innanzitutto, proprio per la piacevolezza del materasso imbottito e per il calore offerto, se necessario, dal fuoco acceso, faceva le veci del nostro soggiorno. Qui venivano ricevute le persone: nella Châtelaine de Vergy, come abbiamo visto, Guglielmo non ha alcuna titubanza nell’accettare l’invito di giocare a scacchi nella camera da letto della duchessa. E la bella siciliana, per convincere meglio Andreuccio da Perugia di essere sua sorella, dopo averlo introdotto in camera «postisi a sedere insieme sopra una cassa che a piè del suo letto era, cosí gli cominciò a parlare» (segue il ben congegnato racconto fino all’agnizione finale). Una situazione analoga a quella che costituisce il soggetto della miniatura seguente, tratta dall’Épître d’Othéa di Christine de Pizan, dove vediamo una coppia conversare davanti all’immancabile camino acceso o della miniatura successiva, dove ci sorprenderà sapere chi sono i personaggi a colloquio.

il pensiero di san Girolamo, «Adultero è chi ha un amore troppo ardente verso la propria moglie». Molto capzioso il ragionamento di Gregorio Magno: «Noi non pretendiamo che il matrimonio sia colpevole […] l’unione carnale lecita non può avere luogo senza la voluttà della carne. […] Però la voluttà di per sé stessa non può in alcun modo essere senza colpa». E il grande papa ricorda san Paolo: «quando disse: “chi non può trattenersi si sposi”, e si prese cura di aggiungere anche: “io dico questo per indulgenza non come comando”. In effetti ciò che è permesso non ha bisogno d’indulgenza perché è giusto. Parlare d’indulgenza indica che c’è della colpa».

In alto miniatura raffigurante un conte che dorme in un letto a cortine e il valletto – in realtà la moglie travestita – in uno a rotelle. 1450 circa. New York, The Hispanic Society of America.

Da leggere Chiara Frugoni, A letto nel Medioevo. Come e con chi, Società editrice il Mulino, Bologna www.mulino.it

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Grandi firme in parata di Giuseppe M. Della Fina

La Galleria Nazionale dell’Umbria, a Perugia, ha svelato il suo nuovo allestimento. Il percorso di visita, arricchito da nuovi spazi, offre l’opportunità di compiere un viaggio nella produzione artistica della regione, abbracciando un vasto arco temporale. E propone originali dialoghi con le creazioni dell’alto artigianato e dei maestri attivi in età moderna e contemporanea

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Tutte le immagini che corredano l’articolo si riferiscono alle opere e al nuovo allestimento della Galeria Nazionale dell’Umbria di Perugia, ospitata dal Palazzo dei Priori. La Cappella dei Priori, uno degli spazi inseriti nel nuovo percorso di visita. Sulle pareti Benedetto Bonfigli dipinse, tra il 1454 e il 1480, il ciclo con le Vite di Sant’Ercolano e San Ludovico di Tolosa, dedicato a due dei patroni di Perugia. Alle finestre, le vetrate realizzate dall’artista Vittorio Corsini, che reinterpretano quelle originali, andate distrutte.


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a Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia si presenta in una nuova veste, con ambienti recuperati e un percorso espositivo rinnovato e aperto agli sviluppi piú recenti della museologia, pur senza dimenticare che – come ha osservato il direttore Marco Pierini – ripensare un museo vuole dire: «saper tenere fermo lo sguardo sulla storia e sulla tradizione». Allo stesso tempo si è cercato di trasformare «un museo accessibile in un museo accogliente». Vediamo, innanzitutto, le novità principali: la Sala del Grifo e del Leone è entrata nella disponibilità del museo e vi è stata posizionata una biblioteca di storia dell’arte, ricca di 30 000 volumi, a significare che un museo è un luogo di studio e di ricerca e non solo di esposizione. La raccolta perugina ha anche acquisito la cosiddetta Sala dell’Orologio, legata alla figura del filosofo Aldo Capitini (1899-1968), l’ideatore, tra l’altro, della Marcia per la Pace Perugia-Assisi. Il padre era il custode del campanile e, in quelle stanze, egli elaborò il suo pensiero e scrisse alcuni dei suoi saggi piú significativi. Negli anni Trenta del Novecento in Italia era al potere il Partito Nazionale Fascista, al quale, non condividendone le scelte, rifiutò d’iscriversi. Di conseguenza il filosofo dovette abbandonare la Scuola Normale di Pisa dove lavorava, tornare a Perugia e vivere dando lezioni private. In proposito abbiamo la testimonianza del poeta Gaio Fratini (1921-1999), che lo ricordò, da ultimo, nell’articolo «A lezione di greco

da Capitini l’antifascista» (ne Il Giornale, 21 gennaio 1999): «Solevo fare di corsa le scale “infinite” che portavano alla stanzetta di Aldo Capitini, lassú, in cima al Palazzo dei Priori. Sopra di noi l’orologio suonava i quarti (…) Lui seguitava a parlarmi di Machiavelli e di Foscolo, a tradurmi dal vivo Tacito e Svetonio, ma ogni tanto le nostre lezioni si interrompevano per l’arrivo di qualche amico a me allora sconosciuto. Ricordo i giovani visi di Guido Calogero, Umberto Morra, Gian-


Nella pagina accanto l’esposizione della Madonna della Confraternita della Consolazione, tempera su tavola di Pietro Perugino, dall’oratorio dei Disciplinati di S. Maria Novella a Perugia. 1496-1498 circa.

franco Contini». Fratini aveva peraltro ricordato l’incontro con il filosofo già nei versi della poesia Perugia dall’elicottero, nella quale rammentava il 1938 e «l’aerea stanza di Capitini».

Sale monografiche

Un’altra novità è la creazione di sale monografiche dedicate agli artisti maggiori presenti con le loro opere in Galleria. Due sono dedicate a Pietro di Cristofaro Vannucci, noto come il Perugino: una – posizionata al terzo piano – accoglie le opere della giovinezza e della prima maturità; l’altra, al piano inferiore, le prove dei suoi ultimi vent’anni di attività. Uno sguardo, quindi, sulla sua intera produzione, che consente di seguire da vicino gli anni di formazione e gli artisti di riferimento come l’acquisizione di una tecnica e di una sensibilità cromatica, che spinsero il banchiere Agostino Chigi a definirlo in una lettera: «Il meglio maestro d’Italia». Nel 2023, il quinto centenario della morte del grande pittore sarà celebrato con varie iniziative, di cui l’allestimento delle due sale all’interno della Galleria costituisce un’anteprima. Un’ulteriore novità significativa è la scelta di esporre creazioni di artisti contemporanei di origine umbra (o che in Umbria hanno lavorato), tra cui Gerardo Dottori, Alberto Burri e Piero Dorazio. Proviamo allora a vedere piú da vicino il percorso espositivo: la prima sala è dedicata all’arte del Duecento in Umbria caratterizzata da una grande attenzione per il sacro e, in particolare, per l’esperienza religiosa proposta da Francesco e Chiara d’Assisi. Tra

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Croce dipinta, assegnata a un artista anonimo designato come Maestro di San Francesco. 1272. L’opera, dipinta a tempera e oro su tavola, venne realizzata per la chiesa perugina di S. Francesco al Prato.

A giudizio del banchiere Agostino Chigi, Pietro Perugino era «Il meglio maestro d’Italia» le numerose opere esposte, spicca una straordinaria croce dipinta del Maestro di san Francesco. Poco oltre, nell’ambiente successivo, l’attenzione si sposta verso la scultura e, in particolare, sulle due fontane perugine della fine del Duecento: si possono osservare elementi della Fontana Maggiore realizzati da Nicola e Giovanni Pisano e frammenti superstiti della «Fontana degli Assetati» di Arnolfo di Cambio. Nella Cappella dei Priori (sala 3) l’artista Vittorio Corsini ha reinterpretato in chiave moderna le vetrate andate distrutte (vedi foto in apertura, alle pp. 34/35), mentre nella sala che segue si può ammirare la Madonna col Bambino di Duccio di Buoninsegna. Si passa quindi (sala 5) all’incontro con l’arte di Firenze e di Siena, le cui innovazioni arrivarono rapidamente in Umbria grazie alle fabbriche della basilica di Assisi e della cattedrale di Orvieto. Di notevole suggestione è l’ambiente successivo, che originariamente aveva fatto parte di una casa torre: vi sono state posizionate opere legate all’uso privato e devozionale e risalenti alla prima metà del Trecento.

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il progetto

Nel segno del dialogo Il nuovo allestimento della Galleria Nazionale dell’Umbria, voluto dal direttore Marco Pierini, è stato realizzato dagli architetti Daria Ripa di Meana e Bruno Salvatici. La collezione è costituita prevalentemente da dipinti di

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ambito sacro e il percorso di visita è scandito dalla scansione temporale delle opere. I curatori hanno voluto segnalare il dialogo stretto tra i vertici raggiunti in pittura e scultura e il fiorente artigianato artistico regionale: un dialogo che si svolgeva

tra botteghe di livello diverso – magari ubicate a poca distanza l’una dall’altra – e talvolta all’interno della stessa bottega. I cantieri stessi delle chiese e dei palazzi in costruzione costituivano occasioni d’incontro, di confronto e d’ispirazione.

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Nella sala 7 continua la documentazione della produzione artistica trecentesca umbra e dell’influenza esercitata dai già citati cantieri della basilica di S. Francesco ad Assisi e del Duomo di Orvieto: qui merita d’essere segnalata la presenza del Polittico di San Francesco al Prato di Taddeo di Bartolo, mentre nell’ambiente seguente spiccano la Madonna col Bambino, capolavoro di Gentile da Fabriano, e le medaglie di Pisanello esposte per la prima volta. L’autunno del Medioevo è documentato nella sala 9, nella quale sono riunite opere differenti tra loro per tecnica e funzione: dai cassoni medievali ai reliquiari, dalle pale di altare ai cofanetti in avorio. La primavera

del Rinascimento s’incontra invece nella stanza successiva, con capolavori del calibro del Polittico Guidalotti del Beato Angelico (vedi foto a p. 42) e della Pala della Sapienza Nuova di Benozzo Gozzoli. La sala 11 è costituita da un loggiato che si affaccia su corso Vannucci: venne realizzato da Galeazzo Alessi in un intervento teso a ridisegnare il piano nobile del Palazzo dei Priori alla metà del Cinquecento. Ora accoglie alcune sculture di Agostino di Duccio, mentre nell’ambiente successivo s’incontra la produzione di Giovanni Boccati da Camerino. La sala 13 accoglie l’opera identitaria della Galleria, il Polittico di Sant’Antonio (vedi foto a p. 43, a sinistra), firmato

In alto la serie delle otto tavolette raffiguranti i miracoli di san Bernardino. 1473. Nella pagina accanto Marco Pierini, direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria, illustra Ductus, opera dell’artista contemporaneo Roberto Paci Dalò. A destra Cristo in pietà, cimasa della Pala dei Decemviri, olio su tavola del Perugino (al secolo, Pietro Vannucci). 1483-1495 circa.

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musei perugia

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

da Piero della Francesca, mentre Benedetto Bonfigli – pittore prediletto delle istituzioni perugine nel terzo quarto del Quattrocento – è protagonista delle sale 14 e 15. Si passa quindi alla formazione e ai primi successi di Pietro Vannucci, detto il Perugino, con dipinti quali, per esempio, i Miracoli di San Bernardino (vedi foto alle pp. 38/39, in alto), la Pietà del Farneto, l’Adorazione dei Magi (vedi foto a p. 43, a destra), l’Annunciazione Ranieri. Dopo le opere che consentono di ripercorrere la carriera di Fiorenzo di Lorenzo, la sala 18 è dedicata a Bartolomeo Caporali, protagonista della vita artistica perugina del secondo Quattrocento insieme a Benedetto Bonfigli prima dell’affermazione del Perugino. Segue un vasto ambiente realizzato e decorato dopo la cosiddetta Guerra del Sale del 1540 (un tentativo di insurrezione da parte della città di Perugia, scatenato dalla richiesta di un aumento del prezzo del sale e che, represso, comportò l’assoggettamento definitivo allo Stato Pontificio, n.d.r.), nell’ambito di un progetto che prevedeva la trasformazione degli appartamenti dei Priori nella sede del vicario pontificio: ora funge da luogo di sosta della Galleria. Nella sala 20, sulla parte destra, Roberto Paci Dalò ha realizzato Ductus, un murales a grafite acquerellabile e inchiostro con immagini e parole relative a snodi della storia e dell’arte in Umbria: suggestioni che fissano nella memoria quanto si è visto sinora e preparano a quello che ancora resta da vedere. Oggetti legati alla vita quotidiana e, in particolare, all’esercizio delle funzioni di governo svolte nel Palazzo dei Priori, ma anche magnifiche tovaglie di tradizione locale sono esposti nella sala 21, mentre nella sala successiva (22) tornano i grandi maestri, con la Pietà di Piero di Cosimo e la Pala di Paciano di-

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In alto uno scorcio della sala 8, con, sulla sinistra, il Polittico di Pietralunga (1403) di Ottaviano Nelli e il Trittico del Farneto (1425 circa) assegnato a un artista designato come Maestro del Trittico del Farneto (Pellegrino di Giovanni?). Sulle due pagine la sala 18, nella quale spicca la Pietà dipinta a olio su tavola da Piero di Lorenzo, detto Piero di Cosimo, già nella chiesa di S. Martino a Preci di Norcia. 1510 circa.

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Le novità

Acquisizioni e debutti Nelle sale della Galleria sono ora esposte anche opere acquisite di recente o, in precedenza, conservate nei depositi. Tra esse si possono segnalare: l’Imago Pietatis di Giovanni Baronzio; il Salvator Mundi di Melozzo da Forlí; il bozzetto acquistato nel 2018 della Presentazione di Gesú al tempio di Giovambattista Naldini, un’opera già presente in Galleria; la Madonna col Bambino e santa Gertrude di Giuseppe Maria Crespi; Sant’Anna, san Gioacchino e Maria Bambina di Francesco Mancini.

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musei perugia gli imperdibili

Maestri d’ogni tempo Come accennato nel testo, i curatori del nuovo allestimento della Galleria Nazionale dell’Umbria hanno voluto segnalare le interrelazioni tra arte e alto artigianato, con l’intenzione di ricostruire una temperie culturale nella sua interezza e complessità. Si possono, comunque, segnalare alcuni dei grandi nomi presenti per suggerire la ricchezza delle collezioni del museo perugino: Duccio di Buoninsegna, Gentile da Fabriano, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Piero della Francesca, Perugino, Luca Signorelli, Pinturicchio, Orazio Gentileschi, Valentin de Boulogne, Gian Lorenzo Bernini, Pietro da Cortona, Jean-Baptiste Wicar, Gerardo Dottori, Alberto Burri.

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pinta da Luca Signorelli; nella stanza seguente – la seconda dedicata a Perugino – trovano collocazione opere della sua produzione tarda. E, subito dopo, protagonista assoluta è la Pala di Santa Maria dei Fossi, uno dei capolavori di Bernardino di Betto detto Pinturicchio. Nella sala 25 viene affrontato il rapporto di Perugia con Raffaello: in proposito va ricordato che, fino agli inizi del Seicento, si conservavano in città almeno sei opere dell’artista e, piú avanti, si ricostruiscono le vicende della pala con l’Incoronazione della Vergine commissionata a Raffaello dalle Clarisse di Monteluce. Le sale 27 e 28 accolgono opere di vari artisti che si misurano con l’eredità di Perugino, mentre la stanza 29 è incentrata sulla famiglia degli Alfani, pittori attivi per un secolo: dagli esordi di Domenico, nato nel 1480, alla morte del figlio Orazio avvenuta a Roma nel 1581. Nella sala 30 viene proposto uno sguardo d’insieme sul secondo Cinquecento e le sue tensioni; nella sala che segue è testimoniata la diffusione del linguaggio di


A sinistra Polittico di Sant’Antonio, olio su tavola di Piero della Francesca. 1467-1469 circa. A destra Adorazione dei Magi, tempera su tavola del Perugino. 1475 circa. Nella pagina accanto il Polittico Guidalotti, tempera e olio su tavola del Beato Angelico. 1447-1449 circa.

Caravaggio in Umbria nella prima metà del Seicento con opere importanti di Orazio Gentileschi (Santa Cecilia che suona la spinetta e un angelo) e Valentin de Boulogne (Noli me tangere e Cristo e la samaritana).

L’«incursione» barocca

Grazie a opere appartenute alla collezione di Valentino Martinelli e donate al Comune di Perugia dallo storico dell’arte nel 1997, le sale 32-33 documentano il barocco romano attraverso creazioni di Pietro e Gian Lorenzo Bernini. Di quest’ultimo sono un raro dipinto – Ritratto di gentiluomo – un bozzetto autografo per un Christo «ligato» e due crocifissi realizzati originariamente per gli altari della Basilica vaticana. Come già ricordato, la sala 34 è dedicata ad Aldo Capitini, mentre la successiva vede protagonista Pietro da Cortona, con opere di grande valore come la Natività della Vergine e la tavola della Madonna col Bambino e Santa Martina. Il classicismo seicentesco occupa le sale 36-37, con

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la Sacra Famiglia con i santi Anna e Giovannino di Gian Domenico Cerrini, detto il Cavalier Perugino, e la Purificazione di Maria di Andrea Sacchi. Un tempo adibita a refettorio del palazzo, la grande sala seguente accoglie numerose opere che vanno dalla seconda metà del Seicento al primo Ottocento, tra le quali si possono segnalare due ritratti del pittore francese Jean-Baptiste Wicar, molto legato alla figura di Luciano Bonaparte, uno dei fratelli di Napoleone. Il percorso di visita si chiude con la sala 39, nella quale viene illustrata la produzione artistica novecentesca: qui possiamo ricordare il Tramonto lunare di Gerardo Dottori, il Bianco e nero C2 di Alberto Burri e Andi(I)Rivieni, 1970 di Piero Dorazio.

Dove e quando Galleria Nazionale dell’Umbria Perugia, Palazzo dei Priori, corso Vannucci 19 Orario apr-ott: ma-do: 8,30-19,30; lu, 12,00-19,30; nov-mar: ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 075 58668415 o 5721009; e-mail: gan-umb@cultura.gov.it, gnu@sistemamuseo.it; www.gallerianazionaledellumbria.it

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vivere al tempo del decameron/9

«Ma quante zampe hanno le gru?» di Corrado Occhipinti Confalonieri

Nobili, artigiani e salariati: il rapporto tra ceti differenti è un tema costante nel racconto di Boccaccio. Consapevole dei rischi di una «conflittualità di classe» sempre in agguato, l’autore del Decameron sembra voler suggerirne una soluzione. Narrando – con il consueto ricorso all’ironia – le vicende di un fornaio ambizioso, di un cuoco astuto e di un palafreniere innamorato di una regina 46

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l di là del suo valore letterario, il Decameron di Giovanni Boccaccio è una preziosa fonte di notizie sui ceti piú modesti della società medievale, come gli artigiani e i salariati. Sebbene presenti nei villaggi e nei borghi, la città era lo sbocco naturale di questi lavoratori, perché gli acquirenti di beni e servizi erano piú numerosi, cosí come la manodopera a disposizione. E la specializzazione professionale degli artigiani viene ricordata ancora oggi dai nomi di strade come via della Spiga, via degli Orefici, via dei Calderari [costruttori di recipienti in rame], via dei Mercanti, via

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dei Pattari [straccivendoli], via dei Cestari. Le novelle che vedono protagonisti i salariati gettano luce sul rapporto che li legava ai datori di lavoro. In alto il pagamento dei salariati del Comune di Siena, da una tavoletta di biccherna attribuita alla bottega di Sano di Pietro. 1430 circa. Siena, Archivio di Stato. Nella pagina accanto la seconda novella della sesta giornata nell’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Il fornaio Cisti offre il suo vino a messer Geri Spina e all’ambasciatore del papa.

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vivere al tempo del decameron/9

Nella giornata VI, novella 2, Cisti (abbreviazione di Bencivenisti) «d’altissimo animo fornito, la Fortuna fece fornaio» vede passare davanti alla sua bottega ogni giorno persone di alto lignaggio. Fra queste riconosce «messer Geri [Spina] e gli ambasciatori del Papa ed essendo il caldo grande, s’avisò [pensò] che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco». Data la sua bassa condizione, il fornaio non osa farsi avanti con una proposta esplicita, ma trova un espediente affinché sia il signore a chiedergli un buon bicchiere di vino. Cisti «avendo un farsetto bianchissimo indosso [gilet imbottito indossato sopra la camicia] e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali piú tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese [boccale di terracotta fabbricato a Bologna] nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento, sí erano chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s’era [aveva sputato per schiarirsi la gola] cominciava a ber sí saporitamente questo suo vino, che egli ne avrebbe fatta venir voglia a’ morti».

Quattro bicchieri e una brocchetta

Nel Medioevo, prima di gustare una bevanda prelibata era un’abitudine plebea lo schiarirsi la gola cosí, ma, in realtà, era un trucco di Cisti per attirare l’attenzione dei nobili passanti. Dopo due o tre volte che assiste a quella scena, Geri è invogliato, chiede al fornaio di assaggiare quel buon vino assieme ai suoi compagni. Cisti «fatta di presente [subito] una bella panca venire di fuor dal forno, gli pregò che sedessero» e lui stesso lava «quatro

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bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino, diligentemente diede bere a messer Geri e a’ compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti [da molto tempo] bevuto; per che, commendatol [lodato] molto, mentre gli ambasciatori vi stettero [finché gli ambasciatori stettero a Firenze], quasi ogni mattina con loro insieme n’andò a ber messer Geri». Gli artigiani come Cisti avevano la bottega al piano terra ed esponevano i loro prodotti sulla strada, su banchi in muratura o in legno: non c’erano vetri, perché le vetrine compaiono solo nel Seicento. Per la carenza di spazi, l’attività era proiettata verso l’esterno e questo poteva provocare disagi alla circolazione nelle strette strade medievali. All’interno, lo spazio del pianterreno era sfruttato al massimo in lunghezza; la bottega era spesso dotata di un retrobottega e di un soppalco in cui riporre le merci, gli attrezzi e per farci dormire gli apprendisti se necessario; al primo piano o sul retro abitavano l’artigiano e la sua famiglia. Intuiamo che Cisti è benestante: mette a disposizione dei nobili avventori un vino bianco pregiato, dispone di personale che gli porta la «bella panca» per strada. Dopo qualche tempo gli ambasciatori hanno terminato il loro compito e sono in procinto di partire. Messer Geri organizza un banchetto in loro onore a cui invita anche Cisti «il quale per niuna condizione [in nessun modo] andar vi volle»: data la sua umile condizione sociale, si sarebbe sentito a disagio. Per la prima portata del convito, messer Geri vuole offrire agli invitati mezzo bicchiere del buon vino di Cisti e ordina a un servitore di andare a prenderlo. Si tratta di un grande onore per il fornaio, perché, come sottolinea anche l’apostolo Giovanni (2,10): «Tutti sersettembre

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In alto la seconda novella della sesta giornata in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1360-1390. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Le vignette raffigurano, da sinistra: Elissa, regina della sesta giornata, con altre fanciulle e due giovani che placa un litigio fra Tindaro e Licisca; il fornaio Cisti che offre del vino a messer Geri Spina e agli ambasciatori; Cisti che discute con il servo di Geri. A destra la Tavola delle Corporazioni. Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo.

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vivere al tempo del decameron/9 vono da principio vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono». Il servitore «forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse [prese] un gran fiasco» in modo da poterlo gustare con il resto della servitú. Quando vede arrivare il cameriere con il capiente otre, l’arguto fornaio intuisce il trucco e gli dice: «Figliuolo, messer Geri non ti manda da me» e lo fa tornare indietro a mani vuote per due volte. Il servitore domanda spazientito al fornaio chi pensa lo mandi e gli risponde: «A Arno». Il cameriere riferisce la risposta a messer Geri, che capisce il riferimento, si fa mostrare il fiasco e «vedutol disse: “Cisti dice il vero”; e dettagli villania gli fece torre [portare] un fiasco convenevole». Quando il fornaio vede il piccolo recipiente, s’illumina: «Ora so io bene che egli ti manda a me» e contento lo riempie.

Nascita di un’amicizia

Verso sera, Cisti fa portare una botticella del suo vino a messer Geri e di persona gli dice: «Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dí [nei giorni passati] co’ miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, cioè che questo non sia vin da famiglia [vino leggero, da darsi alla servitú], vel volli staman raccordare [ricordare]. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene piú guardiano [di piú conservarlo per voi], tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi [di qui in avanti] come vi piace». Geri rimane molto colpito da questo generoso gesto: oltre a stimare Cisti come uomo di grande valore, diventa suo amico. La novella dà prova di come il Medioevo non sia stata un’epoca vissuta all’insegna dell’egualitarismo, ma avesse connotazioni fortemente gerarchiche e, come ha affermato lo storico Arsenio Frugoni: «Gerarchia è individuazione di dignità, di compiti. Questa individuazione è fortemente espressa nelle città». Nonostante messer Geri lo abbia invitato al banchetto, Cisti rifiuta; ma lo stesso fornaio si considera di un livello superiore rispetto alla servitú e infatti non gli dà il suo vino pregiato. Boccaccio evidenzia il desiderio di Cisti di essere riconosciuto come bravo cittadino dalle persone altolocate, ma mostra anche come sappia stare al suo posto: questo gli consente di conquistare l’amicizia del nobile Geri che si trova ai vertici della società. Cisti è abbiente, ma a Boccaccio non sfuggono gli artigiani e i salariati modesti che popolano le città come Arrigo, un buon diavolo d’origine tedesca che a Treviso si guadagna da vivere facendo il facchino, considerato «uomo di santissima vita e di buona era tenuto da tutti» (II, 1), oppure la coppia di coniugi napoletani, il marito muratore e la moglie filatrice, che «guadagnando assai sottilmente [scarsamente], la loro vita reggevano come potevano» (VII, 2). Dal mondo fiorentino, caratterizzato dalla fiorente produzione di stoffe, lo scrittore

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accenna a Simona, la filatrice che lavora a domicilio per il lanaiolo, mentre il lanino le distribuisce la lana e ritira il filato, oltre a descrivere i luoghi cittadini in cui i giovani della loro condizione si danno appuntamento per gli incontri amorosi (IV, 7). Spostiamoci adesso fuori dalle mura cittadine: Currado Gianfigliazzi (VI, 4) «liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo continuamente in cani e in uccelli s’è dilettato, le sue opere al presente lasciando stare [per non parlare ora dei suoi atti di maggiore importanza]» va a caccia con il suo falcone a Peretola [contado di Firenze], cattura una gru e «trovandola grassa e giovane, quella mandò a un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio e era viniziano; e sí gli mandò dicendo che a cena l’arrostisse e governassela [la preparasse] bene». Nel Medioevo la gru era considerata una prelibatezza e figurava nei ricettari di cucina. Il cuoco mette il volatile a cuocere: a fine cottura emana un tale profumo da attirare l’attenzione di Brunetta «una femminetta della contrada», di cui Chichibio è innamorato. La giovane «pregò caramente [con amorosa insitenza] Chichibio che ne le desse una coscia». All’inizio il cuoco non vuole soddisfare la richiesta perché la gru

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In alto vignetta raffigurante Chichibio e Currado a cavallo che osservano le gru in volo, da un’edizione manoscritta del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra la medesima novella nel Decameron illustrato dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Chichibio offre una coscia della gru a Brunetta e poi, con Currado, osservano le gru in volo.

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arrostita è destinata alla tavola del padrone, ma quando Brunetta gli dice: «In fé di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia» Chichibio cede e «spiccata l’una delle cosce alla gru, gliela diede».

Arrosto con sorpresa

Currado ha ospiti a cena e quando vede arrivare in tavola la gru senza una coscia si sorprende: manda a chiamare il cuoco. Alla richiesta di spiegazioni, Chichibio gli risponde: «Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba». Currado si arrabbia: «Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vid’io mai piú gru che questa?». Chichibio insiste, ormai non si può piú tirare indietro: «Egli è, messer, com’io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi [nelle gru vive]». Il nobile non vuole continuare la discussione davanti ai suoi ospiti: «Io il voglio vedere domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altrimenti sarà, che io ti farò conciare in maniera, che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci [in questo mondo] viverai, del nome mio». All’alba del giorno dopo, Currado «a cui non era per lo dormire l’ira cessata, tutto ancora gonfiato» e Chichibio «con la maggior paura del mondo» montano a cavallo e si recano a cercare delle gru. Nei pressi di un fiume ne individuano dodici che stanno ancora dormendo su una zampa sola, come sono solite fare questa specie. Chichibio osserva con prontezza: «Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno». Currado gli risponde: «Aspettati [Aspetta], che io ti mostrerò che elle n’hanno due», si avvicina alle gru

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vivere al tempo del decameron/9 In questa pagina la seconda novella della terza giornata in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Un palafreniere si traveste come il re per introdursi nelle stanze della regina; il re cerca il colpevole del tradimento tra i servi inginocchiati al suo cospetto. Nella pagina accanto la medesima novella nel Decameron illustrato dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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e grida «Ho, ho». Le gru si svegliano, mettono le due zampe a terra, prendono la rincorsa e si alzano in volo per scappare. Currado è convinto di aver dimostrato al cuoco di avere ragione: «Che ti par, ghiottone [canaglia]? parti [ti sembra] che elle n’abbian due [di zampe]?». Chichibio è nel panico e «non sappiendo egli stesso donde si venisse [non sapendo egli stesso da quale parte della mente gli venisse quella idea]» ribatte con prontezza: «Messer sí, ma voi non gridaste “ho, ho!” a quella d’iersera; ché se cosí gridato aveste ella avrebbe cosí l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste». A Currado la risposta piace e tutta la sua ira si trasforma in una sonora risata: «Chichibio, tu hai ragione: ben lo doveva fare». Con la sua prontezza di spirito, il cuoco si salva e si riappacifica con il suo signore. In questa novella notiamo come Chichibio è disposto a rischiare il licenziamento e a subire severe punizioni fisiche per amore di Brunetta ma la sua arguzia, stimata dal suo nobile padrone, lo salva. Anche un palafreniere (III, 2) è pronto a tutto per una passione amorosa, ma questa volta senza speranza. Agilulfo re dei Longobardi (560-616) è sposato con Teodolinda «bellissima donna, savia e onesta molto». Lo stalliere della regina «uomo quanto a nazione [origine] di vivissima condizione ma peraltro da troppo piú che da cosí

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vil mestiere [ma per tutto il resto d’animo, di qualità piú alte, piú generose che a cosí vile mestiere non convenisse], ed è la persona bella e grande cosí come il re fosse», si innamora perdutamente della regina. Il palafreniere sa di non avere alcuna speranza di conquistare Teodolinda, cela i suoi sentimenti a tutti anche se, in modo cavalleresco, è consapevole del grande dono di amare una donna di cosí elevate virtú.

Un desiderio difficile da frenare

L’innamorato «studiosamente faceva, oltre a ogni altro [piú che ogni altro] de’ suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per che intervenia [accadeva] che la Reina, dovendo cavalcare, piú volentieri il pallafreno [cavallo] da costui guardato [governato] cavalcava che alcuno altro: il che quando avveniva, costui in grandissima grazia sel reputava [lo riteneva una grazia] e mai dalla staffa non le si partiva, beato tenendosi qualora pure i panni toccar le poteva». Quando però «la speranza diventa minore tanto l’amor maggior farsi, cosí in questo povero pallafreniere avvenia, in tanto che gravissimo gli era poter comportare [sopportare] il gran disio [desiderio] cosí nascosto come facea, non essendo da nessuna speranza atato [sostenuto]». Non potendo liberarsi di questo amore impossibile, il giovane decide di morire, ma prima vorrebbe

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Miniatura raffigurante la bottega di un venditore di carne ovina, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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soddisfare il suo desiderio con Teodolinda almeno una volta. Consapevole del fatto che avrebbe ricevuto un rifiuto dalla virtuosa regina, il palafreniere pensa a un espediente: sa che Agilulfo non dorme con lei, ma, quando vuole trascorrere la notte con la moglie, si reca nelle sue stanze da solo, tenendo un lumicino in una mano e una bacchetta nell’altra con cui bussa una o due volte alla porta per farsi aprire dall’ancella. Per alcune notti il giovane studia il comportamento di Agilulfo e decide di sostituirsi a lui. Dopo essersi procurato un mantello, un lume e una bacchetta, lo stalliere «in una stufa [bagno caldo] lavatosi bene acciò che non forse l’odor del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello inganno» si nasconde nella sala che separa le camere del re e della regina. Quando gli sembra che tutti dormono «e tempo parendogli o di dovere al suo disiderio dare effetto o di far via con altra cagione alla bramata morte [di aprir la strada con questo sistema alla morte desiderata]» indossa il mantello, simile a quello del re, accende il lume «con la pietra e con l’acciaio [con la pietra focaia e l’acciarino]» e bussa alla porta di Teodolinda. Apre la porta un’assonnata cameriera che al buio non si accorge dello scambio di persona. La regina sta dormendo nel letto a baldacchino, il palafreniere si toglie il mantello, apre le cortine, si infila nudo nel letto e sapendo che il re «quando turbato era niuna cosa voleva udire, senza dire alcuna cosa o senza essere a lui detta piú volte carnalmente la reina cognobbe».

Tradito da un battito

Seppur a malincuore, il palafreniere deve andarsene: raccoglie il mantello, prende il lume e torna in camerata. Poco dopo, Agilulfo si infila nel letto di Teodolinda, che, stupita del suo buonumore, gli chiede: «O signor mio, questa che novità è stanotte? voi vi partite pur testé [appena] da me e oltre l’usato modo di me avete preso piacere, e cosí tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate». Il re capisce subito che la moglie è stata ingannata, ma preferisce non dirle nulla, perché «avrebbe a torto contristata la donna e datala materia di disiderare altra volta quello che già sentito avea» e stando zitto non gli avrebbe causato disonore. Agilulfo segue il consiglio della regina di non affaticarsi ulteriormente ed esce «pieno d’ira e maltalento [sdegno]» dalla stanza, deciso a scoprire il colpevole. In gran segreto si reca sopra la stalla, nel dormitorio della servitú: «estimando che, qualunque fosse colui che ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse potuto ancora il polso e ’l battimento del cuore per lo durato affanno, potuto riposare, tacitamente (…) a tutti cominciò a andar toccando il petto per saper se gli battesse». Lo stalliere finge di dormire e, quando si accorge della presenza del re, si spaventa, il suo battito cardiaco accelera ancora piú forte. Agilulfo lo individua,

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non dice nulla, ma prende un paio di forbici e taglia i capelli al palafreniere da un lato che «a quel tempo portavan lunghissimi» in modo da poterlo riconoscere la mattina seguente. L’astuto palafreniere intuisce le intenzioni del re e, con una forbice utilizzata per tagliare la criniera ai cavalli, esegue la stessa operazione sui suoi colleghi, in modo che abbiano tutti il suo stesso taglio di capelli. La mattina seguente, Agilulfo ordina che tutta la servitú venga portata al suo cospetto e si accorge che la maggior parte è «co’ capelli al medesimo modo tagliati» e, meravigliatosi, pensa che «Costui il quale io vo cercando, quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra di essere d’alto senno». Agilulfo non vuole «per piccola vendetta acquistare gran vergogna» e rivolto a tutti i convocati dice: «Chi l’fece nol faccia mai piú» e li congeda. Il sovrano sa che sotto interrogatorio e tortura il colpevole avrebbe confessato, ma non vuole che venga «contaminata l’onestà della donna sua». I servitori non capiscono cosa il re avesse voluto dire, tranne il palafreniere che «sí come savio, mai, vivente il re, non la scoperse, né piú la sua vita in sí fatto atto commise alla fortuna [mai piú con un’azione simile mise la sua vita a repentaglio]». Il tratto comune delle novelle dedicate agli artigiani e ai salariati è dunque la benevolenza dei nobili nei loro confronti: messer Geri rispetta Cisti e diventa suo amico; Currado Gianfigliazzi apprezza la prontezza di spirito di Chichibio; Agilulfo perdona lo stalliere. Boccaccio raggiunge cosí un duplice scopo: fa scoprire il mondo degli umili ai suoi lettori e sottolinea come alcuni si lascino andare ad azioni poco ponderate. In questo modo valorizza la capacità dei nobili di ragionare prima di agire, ma anche di comprendere la prospettiva di chi esercita «il vil mestiere». Ribadisce insomma la necessità di rifondare la società secondo gli antichi valori cavallereschi, confermando cosí i nobili come classe dominante dotata di buon senso. Del resto, lo scrittore ha bene in mente la rivolta dei macellai fiorentini del 1342, quando sostennero, armi in pugno, la signoria del duca di Atene, Gualtieri VI di Brenne, creando grave scompiglio in città. Scrive il cronista fiorentino Giovanni Villani nella Nuova Cronica: «[Gualtieri] puttaneggiava co’ beccari [macellai], vinattieri, scardassieri [addetti alla scardatura della lana] e artefici minuti, dando loro consoli e rettori a loro volere [e] (…) consistenti sgravi fiscali». Dopo la peste del 1348, Boccaccio sottolinea come i salari si sono alzati «in modo sconveniente» (I, introduzione). Tutti pericoli che andavano tenuti sotto controllo ricompattando la società intorno ai saggi nobili, affinché artigiani e salariati non costituissero una minaccia ma una risorsa.

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«Ave, o piena di grazia...» di Furio Cappelli

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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L’Annunciazione è uno degli episodi del Nuovo Testamento più rappresentati dagli artisti dell’età di Mezzo e del Rinascimento. Non tutte le raffigurazioni del prodigioso episodio, però, combaciano con il racconto delle Sacre Scritture. Per comprenderle, infatti, è necessario rileggere alcune pagine dei Vangeli apocrifi…

Mosaico raffigurante Maria che riceve l’annuncio dell’arcangelo Gabriele mentre attinge acqua da un pozzo con una brocca. XII sec. Venezia, basilica di S. Marco. Il gesto della Vergine evoca le versioni dell’Annunciazione tramandate dai Vangeli apocrifi.

«Guardai per aria e vidi che l’aria stava come attonita, guardai la volta del cielo e la vidi immobile e gli uccelli del cielo erano fermi». Protovangelo di Giacomo: 18, 2 MEDIOEVO

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ve Maria», ovvero «Ti saluto, o Maria», è l’incipit di una preghiera (o meglio: della preghiera per eccellenza dedicata alla Vergine), ma è anche l’inizio di un dialogo che si stabilisce tra due personaggi in una scena celeberrima, rappresentata in una schiera sterminata di opere d’arte dal III secolo in poi. Si tratta dell’Annunciazione, quando l’arcangelo Gabriele appare di fronte a Maria e le annuncia, appunto, la nascita di Gesú. Le sue prime parole sono: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» (Luca: 1, 28). Sin dalle piú remote raffigurazioni – come nella catacomba di Priscilla a Roma – si stabilisce una chiara simmetria tra i due personaggi. L’angelo e la fanciulla appartengono a due dimensioni ben distinte, la celeste e la terrena, e questo aspetto viene sottolineato disponendo le due figure sui lati. Da un lato (solitamente da sinistra) sopraggiunge Gabriele, dall’altro Maria viene sorpresa da questa apparizio-

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ne nel suo ambiente domestico, come è evidenziato dal testo biblico (l’arcangelo entra «da lei», nella sua casa), e per dare questo senso di concreta intimità bastava raffigurarla seduta. Un raggio di luce emanato dal cielo, con la colomba dello Spirito Santo lungo la scia prodigiosa, si dirige sulla Vergine e indica il concepimento di Gesú, che si attua nel momento stesso in cui Gabriele riferisce il messaggio divino. Il principale testo di riferimento, il Vangelo di Luca (1:26-38), non specifica cosa stesse facendo Maria al momento dell’apparizione, ma una fonte molto preziosa a questo riguardo è costituita da alcuni Vangeli apocrifi, a partire dal cosiddetto Protovangelo di Giacomo. Vi leggiamo, in primo luogo, che Maria era stata affidata dai genitori Anna e Gioacchino ai sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, sin dalla tenera età di tre anni, affinché potesse assecondare la sua già prorompente devozione al Signore. Insieme a questa fede, – cosí profonda da volersi dedica-

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re a Dio preservando la propria verginità per tutta la vita –, Maria aveva precocemente maturato una grande dimestichezza con la pratica della tessitura, lavorando la lana con la stessa abilità di una donna anziana (Protovangelo, 6:2).

Un anziano carpentiere

Quando sopraggiunge l’età in cui una donna deve essere data in sposa, a dodici anni, la sua presenza nel Tempio suscita imbarazzo, poiché una donna in età fertile è fonte di impurità in un luogo sacro. La verginità, per giunta, nel mondo ebraico era equiparata alla sterilità, e non era particolarmente indicata come mezzo di perfezione. I sacerdoti decisero cosí di porre il problema al Signore, e ne ottennero come risposta che la fanciulla si doveva fidanzare con un vedovo che avrebbe ricevuto un segno prodigioso in tal senso. A questo fine, tutti quelli che sarebbero accorsi al Tempio dovevano affidare un bastone come proprio testimone

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nel Santo dei Santi (l’area sacra accessibile ai soli sacerdoti). La scelta di Dio ricadde su un titubante Giuseppe, un anziano carpentiere edile (non un semplice falegname, bensí un esperto in costruzioni) che vide fuoriuscire una colomba dal proprio bastone. Il fidanzato di Maria torna ai suoi cantieri, spostandosi fuori sede (il Vangelo dello Pseudo-Matteo specifica che era diretto a Cafarnao, sul Lago di Tiberiade), e lascia la fanciulla nella sua casa per sei mesi. Frattanto i sacerdoti del Tempio si ricordano di lei. Occorre infatti realizzare una grande tenda da allestire proprio nel santuario del Signore, e a tal fine vengono reclutate alcune vergini della stirpe di Davide, (segue a p. 62) Roma, basilica di S. Maria Maggiore. Particolare del mosaico dell’arco trionfale nel quale si vede Maria, in abiti regali, intenta a filare la porpora, mentre dall’alto scendono l’arcangelo Gabriele e una colomba, simbolo dello Spirito Santo. 432-440.

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oltre lo sguardo/16 rosso porpora

La regina delle vergini La sorte destina a Maria una materia (la porpora) che rimanda alla dignità regale, e sia il rosso porpora che la tinta scarlatta evocano il sangue. Possono pertanto prefigurare il sacrificio stesso di Cristo. Questo aspetto è chiaramente rimarcato nell’Annunciazione a mosaico della cattedrale di Kiev (Ucraina, 10431046), dove la Vergine, in posa stante, stende un lungo filo rosso dal fuso che tiene in mano. Il tema della regalità, d’altro canto, è reso esplicito nel Vangelo dello Pseudo-Matteo (8:5), dove si racconta che le altre fanciulle coinvolte dai sacerdoti chiamarono «quasi per scherzo» Maria «la regina delle vergini», proprio perché a lei era toccata la porpora, nonostante fosse la piú piccola di tutte. Ma un angelo apparve loro e le ammoní dicendo: «Queste parole non saranno dette per scherzo, ma rappresenteranno una profezia verissima». Maria si presenta proprio in abiti regali, intenta a filare la porpora, nei A sinistra e nella pagina accanto, a destra il mosaico dell’Annunciazione della cattedrale di Kiev (Ucraina). 1043-1046.

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In basso particolare di un affresco del Cubicolo dell’Annunciaizone, nelle catacombe di Priscilla (Roma), nel quale Maria, nel ricevere l’annuncio di Gabriele, è raffigurata come un regina in trono. III sec.

mosaici dell’arco trionfale di S. Maria Maggiore a Roma (432-440), la piú antica basilica che le è stata dedicata (vedi foto alle pp. 58/59). D’altro canto, anche se non si presenta in veste di imperatrice, la Vergine delle Annunciazioni è sempre una donna adulta e di alta statura, e ogni volta che compare seduta – come si vede già nella catacomba di Priscilla – è inquadrata in un seggio possente che sembra piú un trono che il semplice sgabello indicato nel Protovangelo (11:1).

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tra cui la stessa fidanzata di Giuseppe. Si tira a sorte per stabilire quale fanciulla dovrà occuparsi della filatura dei vari colori, e a Maria toccano «la vera porpora e lo scarlatto» (Protovangelo, 10:2). Seguendo la narrazione dei Vangeli apocrifi, al momento dell’annunciazione Maria era dunque in casa sua, intenta a filare. Si specifica per giunta che l’evento si svolse in due tempi e in due luoghi distinti. La fanciulla, infatti, lascia per un momento il lavoro ed esce di casa con una brocca per attingere l’acqua, e in quel mentre sente nell’aria la voce dell’arcangelo, senza poterlo scorgere: «Ave, o piena di grazia!» (Protovangelo, 11:1). L’apparizione si compie di seguito, quando Maria rientra in casa e, lasciata la brocca, si rimette a filare.

Echi bizantini

Nella versione a noi familiare non c’è questa narrazione in due tempi, ma quel prologo, nel quale Maria appare fuori di casa con la brocca in mano, godette di una certa fortuna iconografica in area bizantina. L’esempio a noi piú vicino – in una situazione di proverbiale influsso di Costantinopoli – è un riquadro a mosaico della basilica di S. Marco a Venezia (XII secolo; vedi foto in apertura, alle pp. 56/57). In quel caso i due momenti del racconto sono uniti, perché l’arcangelo appare già in cielo, e la Vergine non si limita quindi ad ascoltare la sua voce. La raffigurazione trae forza scenografica dal pozzo e dalla brocca, con un rigoglioso albero che, di lato, fa da pendant alla casa di Maria (un edificio alto, ben costruito e rifinito, che sembra piuttosto una chiesa). In questo modo si evidenzia il valore simbolico dell’acqua

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In alto l’Annunciazione nella versione realizzata a mosaico da Pietro Cavallini nella basilica romana di S. Maria in Trastevere. 1296 circa. A destra Annunciazione, tempera e oro su tavola realizzata da Simone Martini, con la collaborazione di Lippo Memmi, per l’altare di S. Ansano del Duomo di Siena. 1311-1333. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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oltre lo sguardo/16 Annunciazione, formella in origine appartenente alla Maestà della Vergine realizzata da Duccio di Buoninsegna per il Duomo di Siena. 1311. Londra, National Gallery.

come fonte di vita e di rigenerazione, e la brocca stessa, nella sua natura di recipiente, può alludere proprio al ruolo di Maria come «ricettacolo» o «talamo» di Dio nel momento stesso in cui Gesú viene concepito. L’elemento simbolico, in un’allusiva forma naturale, si ritrova in seguito con il ruolo del giglio, che si presta a esprimere la purezza di Maria, secondo il dettame del Cantico dei Cantici: «Come un giglio fra i cardi, / cosí la mia amata tra le fanciulle» (2:2). Vi si può anche cogliere un riferimento al virgulto (il Messia, ossia Cristo) che scaturisce da una stirpe illustre: «Poi un ramo uscirà dal tronco di Iesse / e un rampollo spunterà dalle sue radici» (Isaia, 11:1). Il giglio appare spesso al centro della scena, immerso nell’acqua grazie a una brocca di terracotta o di vetro, come si vede nell’Annunciazione degli Uffizi (1333), che Simone Martini realizzò per l’altare di S. Ansano al Duomo di Siena, in collaborazione con il cognato Lippo Memmi (vedi foto alle pp. 62/63). Maria ha un’espressione indimenticabile di ritrosia e di sgomento, e Gabriele – con il manto che sembra volteggiare per effetto del suo volo appena compiuto – le offre un ramo di sempreverde, in segno di pace.

Le innovazioni di Duccio

Proprio in ambito senese un illustre precedente era dato dall’Annunciazione che Duccio di Buoninsegna appose a corredo della grande Maestà della Vergine destinata proprio al Duomo (1311). La tavoletta era situata sulla predella del lato frontale, ed è ora conservata presso la National Gallery di Londra (vedi foto in queste pagine). Pur restando in linea con la tradizione, Duccio introdusse alcune novità. Collocò il vaso di gigli (in terracotta) al centro della scena, e sviluppò in maniera interessante l’ambientazione. Lo scranno su cui era seduta Maria si era spesse volte esteso in alto con lo schienale, e poteva entrare in una complessa fantasia architettonica che alludeva alla casa di Maria in un modo piuttosto rutilante. Se si osserva un illustre precedente a Roma, ossia la versione a mosaico di Pietro Cavallini a S. Maria in Trastevere (1296 circa), si vede infatti che lo schienale del trono si sviluppa fino a delineare al culmine una conca degna di un’abside, e, tutt’intorno, si crea una elegante struttura a due piani, dal chiaro significato trionfale (vedi foto a p. 62, in alto). In questo modo, naturalmente, si evoca l’architettura di una chiesa, e Maria è appunto l’immagine stessa della Ecclesia nella teologia dell’epoca. Duccio rinuncia a questa simbologia cosí smaccata,

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Sulle due pagine veduta d’insieme e particolari dell’Annunciazione affrescata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni. 1303-1305. Fedele ai canoni tradizionali, il maestro toscano introduce una composizione «spezzata», nella quale i protagonisti dell’episodio, Gabriele e Maria, appaiono in riquadri collocati simmetricamente ai lati dell’arco trionfale.

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e sviluppa invece il senso di uno spazio domestico che si estende su tutta la scena, coinvolgendo entrambi i personaggi. Lo sfondo della parete si articola proprio in corrispondenza delle due figure, evidenziate dagli archi che delimitano due rispettivi comparti, che alludono a un portico o a un tabernacolo. Gabriele, in movimento, supera il proprio spazio. Maria, di fronte alla porta di casa, rimane invece al centro del suo settore, ma si mostra chiaramente agitata. Lo spavento è espresso dalla mano sul petto. Le ginocchia lievemente flesse indicano un principio di svenimento, e il libro che tiene in mano sembra sul punto di cadere a terra. Proprio il libro delle Scritture ha sempre piú soppiantato, già nel XII secolo, i tradizionali attributi di Maria filatrice, il fuso e la rocca. Si rinuncia cosí allo spunto narrativo degli Apocrifi e si mette in primo piano una immagine della Vergine incentrata sulle Il particolare dell’affresco nel quale si vede la Vergine Maria che riceve l’annuncio all’interno della propria abitazione. Spicca l’elaborata costruzione prospettica dell’edificio.

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sue capacità di meditazione e sul suo ruolo salvifico. Quest’ultimo aspetto è reso ancor piú manifesto quando si leggono alcune parole del libro raffigurato. Nella tavola di Duccio, infatti, si ritrova la profezia di Isaia: «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio... » (7:14).

Simmetrie giottesche

Insieme alle rappresentazioni a scena unica, le Annunciazioni possono anche essere costituite da due scomparti simmetrici, con l’Arcangelo su un lato e la Madonna sul lato opposto. Nel mezzo si può aprire un arco, una porta, una nicchia o anche una semplice finestra, purché si trovi sull’asse centrale dell’ambiente. La piú nota Annunciazione di questo genere si può ammirare presso la Cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova (1303-1305), dove il soggetto è «spezzato» dall’arco trionfale, chiuso in origine da un tramezzo (o iconostasi; vedi foto in queste pagine). Su questo diaframma, al centro, era situato in origine il crocifisso oggi conservato nei Musei Civici, che Giotto stesso eseguí in perfetta sintonia con la iconologia dell’insieme. Al cul-

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S. Vincenzo al Volturno

Nel segno di Bisanzio Una Annunciazione ad affresco a due scomparti figura nella cripta di S. Lorenzo dell’abbazia molisana di S. Vincenzo al Volturno, edificata e decorata all’epoca dell’abate Epifanio (824-842), e già

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nell’XI secolo, nei presbiteri di illustri chiese, si registrano alcuni precedenti della soluzione adottata da Giotto. Le due figure già citate della cattedrale di S. Sofia a Kiev (1043-1046), per esempio, si situano sui pilastri orientali settembre

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mine della parete troneggia l’Eterno, contornato dagli Angeli, e questa scena racconta proprio il momento in cui Dio dispone la propria incarnazione. Trovandosi sull’asse principale dell’aula, l’Annunciazione assume inoltre una forte valenza simbolica, al culmine del percorso salvifico intrapreso dal fedele. In tal modo, come ha evidenziato la storica dell’arte Ursula Schlegel (1923-2012), la Vergine «è il sentiero e la porta del Paradiso». L’arco centrale, d’altronde, allude per definizione alla porta coeli. Raffigura infatti un passaggio tra due dimensioni (come l’arcobaleno) e può alludere alla stessa volta celeste, esattamente come il catino dell’abside. L’idea di proporre l’Annunciazione su due scomparti separati era già assai diffusa in area bizantina, laddove le due figure dell’Arcangelo e della Madonna si trovavano a decorare i battenti lignei della porta di accesso al santuario (templon), nel mezzo della iconostasi. In quel contesto, infatti, il soggetto maggiormente praticato era proprio l’Annunciazione, a formare una grande

icona a due scomparti. I piú antichi esempi superstiti risalgono al XII secolo, e si osservano soprattutto presso le chiese monastiche del Sinai e del Monte Athos, ma l’uso di iconostasi con soggetti dipinti sembra risalire al IX secolo. Non mancano, d’altro canto, icone propriamente dette di forma «bilaterale», con i due personaggi collocati entro i rispettivi scomparti, come si vede in uno splendido esemplare macedone di Annunciazione su tavola, commissionato dall’arcivescovo Leone di Ohrid nella seconda metà dell’XI secolo.

La conferma di un talento eccezionale

Naturalmente non si finirà mai di esaltare la maestria di Giotto a Padova per il modo in cui i due scomparti della scena, con i loro fondali convergenti, offrano una prova sorprendente di scorcio prospettico. Il pittore toscano sfoggia il medesimo virtuosismo nei due celebri coretti che fanno da pendant alle due figure proprio alla base dell’arco trionfale, in linea con il perduto tramezzo di chiusura. Resta comunque evidente che egli poté

A destra l’Annunciazione affrescata nella cripta di S. Lorenzo dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno (Molise). 824-842. Nella pagina accanto il mosaico absidale della cattedrale di Torcello (Venezia), in cui l’Annunciazione è spartita ai lati della Vergine con il Bambino. Metà del XII sec., su una precedente edizione dell’XI sec.

di sostegno della cupola, ai lati della grande Vergine orante dell’abside, che intercede presso l’Eterno per la salvezza dei peccatori. A Torcello, nella laguna veneziana, il mosaico dell’Annunciazione affianca il catino absidale maggiore della cattedrale, e nella sua prima edizione si deve a due botteghe di marca bizantina attive intorno alla

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metà dell’XI secolo. Sono eloquenti, poi, i casi osservabili nei complessi musivi della Sicilia normanna, a partire dalla Cappella Palatina di Palermo (1143-1150). L’influsso determinante della cultura bizantina, a Kiev, ossia nella capitale dell’antica Rus’, oppure in Macedonia, in Serbia, nella laguna veneziana o in Sicilia, favoriva evidentemente la diffusione di questo particolare schema compositivo.

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oltre lo sguardo/16 la versione di crivelli

Tra realtà e immaginazione La National Gallery di Londra, oltre a conservare la preziosa Annunciazione di Duccio, vanta tra le sue opere piú significative del Rinascimento l’Annunciazione del veneziano Carlo Crivelli (vedi foto alla pagina accanto). Si tratta di una tavola dipinta nel 1486 e destinata alla chiesa dell’Annunziata di Ascoli Piceno. Lo spunto per la commissione era stato fornito dal fatto che proprio nella ricorrenza dell’Annunciazione, il 25 marzo 1482, la città aveva ottenuto da papa Sisto IV una blanda forma di autonomia. Questo spiega la dicitura Libertas ecclesiastica che si legge alla base della singolare pala. La circostanza non si limita, però, a questo ricordo epigrafico, dal momento che Crivelli reinventa la scena in forma di rievocazione urbana, ambientandola sulla direttrice viaria di una sontuosa città fare tesoro di una concezione iconografica che si era formata e propagata proprio grazie a quella «maniera greca» che egli seppe soppiantare. Ma la genialità di Giotto, comunque, stava anche nell’accortezza con cui poteva ispirarsi alle usanze che si tenevano in onore della Vergine, con tutte le implicazioni sceniche che esse comportavano nei diversi rituali. In particolare, l’Arena, il luogo dell’antico anfiteatro dove fu edificata la Cappella degli Scrovegni, era coinvolta nella festa del 25 marzo dedicata appunto all’Annunciazione. Una solenne processione religiosa e civica partiva dalla cattedrale per concludersi proprio nel luogo in cui Enrico Scrovegni eresse la sua chiesa. L’Eterno, in cima all’arco trionfale, era dipinto su una tavola per consentire l’apertura di un uscio da cui poteva planare una colomba, simbolo dello Spirito Santo, esattamente come avveniva in cattedrale durante la stessa ricorrenza, e la messinscena doveva essere funzionale alla rappresentazione della salutazione angelica che si svolgeva proprio all’Arena, al culmine della processione.

Rappresentazioni «teatrali»

La stessa scenografia dei dipinti si potrebbe ricollegare all’utilizzo di fondali mobili, ma anche se il nesso tra la sacra rappresentazione e la costruzione pittorica risultasse ben piú flebile di quanto si è creduto, rimane indubbio che la sensibilità spaziale di Giotto molto deve alle esperienze «teatrali» sempre piú curate e coinvolgenti che si svolgevano all’interno delle chiese. Di certo, dall’Arena in poi si sviluppa un concetto teatrale e simbolico dell’Annunciazione, con una inten-

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ideale. La casa stessa di Maria, in primo piano, sfoggia elaborate decorazioni marmoree, e sullo sfondo si nota un arco trionfale. Proprio in cima all’arco, un personaggio è intento a leggere un messaggio appena recapitato da un piccione viaggiatore, di cui si vede la gabbietta. Evidentemente, si tratta di un gustoso ammiccamento. La notizia della concessione papale alla città marchigiana fa da contraltare al messaggio divino recapitato dall’arcangelo Gabriele. Dentro alla città ideale si delinea poi la città reale. Il patrono sant’Emidio la regge con le proprie mani, sotto forma di un grande «plastico», e si interpone proprio al momento dell’annuncio a Maria, richiedendo l’attenzione dell’arcangelo, al fine di ottenere la protezione divina sui suoi devoti concittadini. Nella pagina accanto Annunciazione con sant’Emidio, tempera a uovo e olio su tavola (poi trasportata su tela) di Carlo Crivelli. 1486. Londra, The National Gallery.

sa e ininterrotta sequela di esempi illustri nel corso del Rinascimento, al di qua e al di là delle Alpi. Quando Van Eyck dipinge per la chiesa belga di S. Bavone di Gand il Polittico dell’Agnello Mistico (1432), l’Arcangelo e Maria vennero nuovamente posizionati entro scomparti simmetrici, sia pure entro un ambiente unitario, sulle ante di chiusura della macchina d’altare (vedi foto a p. 72). La disposizione dei personaggi su due tavole distinte ricollega inconsapevolmente l’opera fiamminga alle porte lignee istoriate dei templa bizantini, mentre l’impaginazione entro una «scatola» prospettica (un interno di casa nobiliare con le finestre aperte su una città, la stessa Gand) costituisce un campo di ricerca prettamente rinascimentale, con innumerevoli varianti compositive e ambientali, ma sempre nel segno di un costante riferimento alla purezza virginale di Maria, specchiata dalla nitida compostezza dell’ambiente in cui l’evento si svolge. In questo modo si portava a definitiva maturazione una idea «scenica» già presente nell’arte bizantina, laddove la Madonna era ritratta in un contesto allusivo, seduta in trono in uno spazio paraliturgico che, come visto, giocava sul rapporto tra la chiesa (la casa di Dio) e la casa di Maria. Questa ambiguità ha finito per definire il duplice sbocco del tema in un’ambientazione prettamente domestica o ecclesiale. In entrambi i casi si porta a compimento una vera e propria sintesi tra gotico e bizantino, come ebbe a defisettembre

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oltre lo sguardo/16 Da leggere Marcello Craveri (a cura di), I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1990 Alessandra Ghidoli, Annunciazione, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1991; anche on line su treccani.it Erika Langmuir, National Gallery. Piccola guida, National Gallery Publications, Londra 1998 Chiara Frugoni, Gli affreschi della Cappella Scrovegni a Padova, Einaudi, Torino 2005

Polittico dell’Agnello mistico, olio su tavola di Hubert e Jan van Eyck. 1432, Gand, cattedrale di S. Bavone. All’Annunciazione sono riservati i due scomparti laterali superiori.

nirla lo storico dell’arte Erwin Panofsky (1892-1968). Gli artefici di questa sintesi sono, a suo avviso, due pittori contemporanei che abbiamo qui incontrato, il fiorentino Giotto e il senese Duccio, entrambi impegnati in memorabili Annunciazioni a pochi anni di distanza l’uno dall’altro (1305-1311). Ciascuno a proprio modo, entrambi hanno assunto e rielaborato i contenuti della tradizione bizantina. Grazie a loro, le antiche concezioni spaziali acquistano una nuova concretezza,

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e rinascono cosí gli «interni conchiusi», ossia quelle scene che hanno una plausibilità poiché delimitate e scorciate in modo credibile. La scena del dialogo tra Gabriele e Maria, apparentemente statica e ripetitiva, è divenuta cosí uno spazio privilegiato per costruire un senso moderno della visione.

NEL PROSSIMO NUMERO • Giona nel ventre della balena settembre

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di Francesco Colotta

Il Gran Principe di Kiev Svjatoslav I, detto il Coraggioso. Abile guerriero, condusse numerose campagne, grazie alle quali ampliò considerevolmente i domini della Rus’. Morí in battaglia, sul Dnepr, nel 972.

MEDIOEVO UCRAINO

Origini, identità e conflitti di un «Paese di confine» Fertile e strategico, fin dall’antichità l’attuale territorio ucraino fu conteso tra Oriente e Occidente. Con l’epopea della Rus’ di Kiev visse il suo apogeo, ben presto oscurato da una serie di crisi violente e dominazioni oppressive. In quella fase di declino, lontana ottocento anni, sono da ricercare le cause dei conflitti di oggi...


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olto della storia viene deciso dalla geografia», osservava nel 1832 il giovane Nikolaj Gogol’, reduce dai suoi primi successi letterari. Senza dubbio il destino dell’Ucraina fu tracciato, nei secoli, dalla morfologia del territorio, dalla sua particolare conformazione fisica, che favorí il transito di popolazioni e, anche, reiterate invasioni: solo un breve segmento dei suoi confini, quello a sud-ovest, è difeso dai maestosi rilievi dei Monti Carpazi, mentre le restanti frontiere sono segnate dalle rocce di modesta altitudine del Ripiano Podolico, da grandi pianure e da foreste. Da sempre terra contesa, era nota fin dall’antichità per il patrimonio delle sue campagne, fertili e rigogliose, magnificate da Erodoto insieme all’abbondante pescosità del fiume Boristene, l’attuale Dnepr, «che fornisce pesci enormi

privi di lische» e «molte altre autentiche meraviglie ittiche» (Storie IV, 53): un corso d’acqua imponente, agevolmente navigabile, ambita via commerciale nelle rotte che dal settentrione approdavano alle coste del Mar Nero. Anche l’etimologia del termine «Ucraina» suggerisce un profilo in prevalenza geografico del Paese: in slavo antico (u okraina), tradotto comunemente «sul confine», il nome evoca una condizione di «terra di mezzo», di limes tra Occidente e Oriente; diversamente, in lingua ucraina, il

toponimo della nazione viene associato all’espressione krajina, nel significato di «regione», «paese», richiamando l’identità di un luogo, l’idea di un radicamento.

Alle soglie della storia

L’area dell’odierna Ucraina fu anticamente abitata da popolazioni nomadi di origine tracia, i Cimmeri, e di stirpe iranica, gli Sciti e i Sarmati. A partire dal VI secolo a.C., le rive settentrionali del Mar Nero furono conquistate da gruppi di coloni greci e, successivamente, soggette al protettorato In alto, sulle due pagine spada e fodero in oro di produzione scita, da Bolschaja Beloserka (Ucraina). Kiev, Museo dei Tesori Storici dell’Ucraina.

Fibbia di cintura in lega di rame dorata con inserti in pietre dure di produzione visigota, forse proveniente dalla Spagna. 525-575. Londra, British Museum.

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dell’impero romano. Nell’era delle invasioni barbariche dominarono i Goti (270) e si sviluppò la cosiddetta Cultura di Cernjachov, dalla matrice ancora controversa, germanica o paleoslava, o forse il prodotto di un’interazione tra diverse comunità. L’arrivo degli Unni (nel 370), che controlleranno a lungo il territorio, determinò una netta frattura con il passato: «Mandando in rovina la complessa “cultura” di Cernjachov» – scrive lo slavista Francis Conte – furono gli Unni a infrangere «la sequenza delle civilizzazioni sedentarie, spalancando al posto un vuoto» (Gli Slavi, Einaudi, Torino 2006). All’alba del Medioevo (V secolo) il vuoto venne colmato dalla comparsa di una misteriosa tribú protoslava, gli Anti, celebrata dallo storico ucraino Mychajlo Serhijovyc Hruševs’kyj (1866-1934) come fondatrice di uno Stato nazionale ante litteram; altri studiosi identificano quella presunta istituzione politica nel primo Stato unitario degli Slavi Orientali, ovvero dei progenitori di Russi, Ucraini e Bielorussi. Di presunti prototipi della nazione ucraina ne saranno individuati altri nei secoli successivi. Dopo una breve sottomissione al khanato dei ProtoBulgari, nel VII secolo l’area venne occupata dai Cazari, popolazione seminomade di etnia turca, che si

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In basso rython in argento dorato in forma di testa di una saiga, l’antilope tipica delle steppe, dall’Ucraina. Produzione sasanide, V-VI sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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donbass com’era

Principato di Kiev (IX-XI sec.) Vie commerciali di penetrazione dei Variaghi (IX sec.)

Quella terra disabitata

slave unite nelle prime Slavi Tribú formazioni statali russe (IX sec.) Principato di Kiev alla fine del IX sec. e territori sotto la sua influenza

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L’estensione iniziale e le successive conquiste della Rus’ di Kiev. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Oleg con le sue truppe sotto le mura di Costantinopoli, deciso ad assediarla, dalla Cronaca Radziwill. Fine del XV sec. San Pietroburgo, Accademia delle Scienze.

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era distinte per qualità belliche bloccando l’avanzata araba nel Caucaso. Il loro avvento in quel territorio, a lungo trascurato negli studi storici, costituí un fenomeno di rilievo anche per i lasciti culturali, religiosi e istituzionali che ne emersero. Tradizionalmente di culto tengrista (il tengrismo è una religione animistica, originaria dell’Asia Centrale, n.d.r.), la nobiltà cazara si convertí in blocco al giudaismo, non solo per vocazione di fede,

Per secoli la regione corrispondente al Donbass (oggi solo in parte sotto il controllo ucraino, in seguito all’offensiva militare russa) fu un territorio quasi disabitato, nel quale transitarono popolazioni stanziate in aree limitrofe, Sciti, Unni, Alani, Proto-Bulgari e Peceneghi. Divenne in seguito dominio del khanato dei Cazari e dei Cumani, restando fuori dai confini della Rus’. Proprio dai suoi avamposti, nel XIII secolo, i Mongoli attaccarono il principato kieviano determinandone il crollo: prologo della caduta fu la celebre battaglia del 1223 combattuta presso il fiume Kalka, nella zona dell’odierno Oblast’ di Donec’k, nella quale le truppe della Rus’ subirono una sconfitta decisiva, cadendo nella trappola della falsa ritirata nemica. Alla fine del Medioevo il territorio risultava sotto l’amministrazione dei Tatari di Crimea, in seguito fu frequentato dai Cosacchi della Zaporižžja e del Don, mentre in età moderna entrò a far parte dell’impero russo. Il centro politico della regione era Solanoye (oggi Slov”jans’k), costruito dallo zar Alessio Michajlovic (1629-1676) in prossimità di una fortezza. La regione, secondo fonti polaccolituane, continuava tuttavia a essere poco popolosa («landa devastata»). Nel XVIII secolo la destinazione d’uso del territorio cambiò radicalmente: la scoperta di un bacino carbonifero diede l’avvio a un vero e proprio boom economico. Si aprí una nuova era e la terra un tempo deserta diverrà contesa. ma anche per ragioni strategiche. La scelta avrebbe consentito al regno dei Cazari «di porsi come forza di mezzo, come alternativa tra

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l’assetto della rus’ di kiev

I tre pilastri della società L’organizzazione statale della Rus’ era ripartita su tre livelli. Al vertice figurava il sovrano-principe, dotato della fedele družina, la sua guardia personale. In seconda fila, nell’assetto dei poteri, agiva la duma dei nobili, il parlamento dei proprietari terrieri senza un rilevante peso decisionale, ma in grado comunque di esercitare una certa pressione sui monarchi. Terzo pilastro istituzionale era il vece, l’assemblea cittadina dei «liberi», che riuniva i capifamiglia e aveva voce in capitolo su questioni di particolare rilievo, come le campagne militari. La gerarchia sociale era composta dall’aristocrazia (principi e muži), dal ceto medio dei mercanti (ljudi), dai contadini (smierd) e, infine, dai servi della gleba (slugi).


Svjatoslav I si difende strenuamente presso l’isola di Chortycja, sul Dnepr, nel 972, dopo essere rimasto vittima di un’imboscata tesa dai Peceneghi. Lo scontro gli fu fatale, perché il Gran Principe finí con il soccombere.

l’Europa cristiana a ponente e il Califfato musulmano a levante» (Giorgio Cella). Nel khanato cazaro – che nella fase di massima espansione arrivò a comprendere parte degli attuali Azerbaigian, Russia meridionale e Kazakistan – accorsero gruppi di Ebrei dalle regioni limitrofe, che si integrarono in un contesto multietnico, secondo le testimonianze di cronisti e geografi arabi. È ancora oggi al centro di una serrata discussione multidisciplinare – con la partecipazione di storici e demografi, genetisti e linguisti – l’ipotesi avanzata per la prima volta dallo scrittore e filosofo Arthur Koestler nel celebre saggio La tredicesima tribú (1976), circa l’origine cazara degli Ebrei ashkenaziti che, nei secoli successivi, avrebbero popolato l’Europa Centrale e Orientale. A cavallo tra il IX e il X secolo i Cazari subirono gli attacchi di uno Stato in ascesa, la Rus’ di Kiev. Il khanato dovette cedere domini, ma lasciò, tuttavia, una significativa eredità politica, che venne raccolta dai nuovi governanti: questi inglobarono il preesistente sistema amministrativo, l’organizzazione militare e… i titoli. Sono i coevi Annales Bertiniani a riferirlo, narrando che il leader dei Rus’ si faceva comunemente chiamare kagan («Rex illorum Chacanus vocabulo»), proprio come il monarca dei Cazari.

L’epopea della Rus’

Due processi migratori incisero sull’assetto politico del territorio oggi ucraino a partire dal IX secolo: mentre numerose tribú slave dell’Asia centro-meridionale

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

si stavano trasferendo verso ovest, gruppi di navigatori vichinghi provenienti dalla Scandinavia sbarcarono non lontano dalle zone paludose sulle quali, nel Settecento, Pietro il Grande fonderà San Pietroburgo. Testimonianze archeologiche confermerebbero il transito di genti nordiche in quel distretto, specificamente nei pressi del Lago Ladoga: nel sito russo di Aldeigjuborg/Staraja Ladoga, infatti, sono stati rinvenuti numerosi reperti, tra i quali un frammento di arco in legno del IX secolo con incisione in caratteri runici, che si ritiene corredasse l’equipaggiamento di un gruppo di guerrieri scandinavi. Quei navigatori, di presumibile origine svedese, si spinsero all’interno e approdarono a Novgorod, – l’odierna Velikij Novgorod in Russia – e da lí raggiunsero Kiev. Erano noti con il nome di Variaghi, forse perché vincolati a un giuramento – vár in lingua norrena – che li obbligava all’obbedienza assoluta

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In alto miniatura raffigurante l’imperatore bizantino Giovanni I Zimisce che riceve gli ambasciatori di Svjatoslav I, dalla Cronaca Radziwill. Fine del XV sec. San Pietroburgo, Accademia delle Scienze. A destra, sulle due pagine miniatura raffigurante lo scontro fra Peceneghi e Svjatoslav I, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.


nei riguardi di un comandante. Secondo quanto narrato nei già citati Annales Bertiniani (IX secolo) i Variaghi erano chiamati Rus’, mentre la semi-leggendaria Cronaca di Nestore (XII secolo) asserisce che furono proprio loro a fondare lo Stato medievale di Kiev. Ulteriori indizi provengono dalle saghe norrene, che indicano con l’espressione Garðaríki («regno delle città») alcuni stanziamenti scandinavi sul corso del fiume Volchov, e dall’etnonimo con cui i Finlandesi identificavano – e definiscono ancora oggi – la Svezia, «Ruotsi». Queste

comunità di Vichinghi svedesi non coltivarono ambizioni di conquista a Oriente, ma interessi prevalentemente mercantili e «trovarono ampi spazi per promuovere importantissimi commerci» (Gianna Chiesa Isnardi).

Slavi o Scandinavi?

La presunta influenza nordica sulla Rus’ è questione tutt’oggi spinosa, poiché attribuirebbe un’«anima» occidentale allo Stato kieviano. Gli storici sono da secoli in perenne fase di disputa. Da una parte si trovano schierati i fautori della co-

siddetta «teoria normannista», che propendono per l’origine scandinava dei fondatori; formulata per la prima volta nel Settecento da studiosi tedeschi (Gottlieb Siegfried Bayer, August Ludwig von Schlözer, Gerhard Friedrich Müller), conobbe ampia fortuna almeno fino alla metà del Novecento. Per contrasto si diffuse, soprattutto in ambito sovietico, la «teoria antinormannista» – sugli studi del linguista del XVIII secolo, Michail Vasil’evic Lomonosov – che sosteneva l’ipotesi di una radice autoctona, quindi slava, della Rus’: venivano


Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Miniatura raffigurante Jaroslav il Saggio che combatte contro il fratello Svjatopolk il Dannato, dalla Cronaca Radziwill. Fine del XV sec. San Pietroburgo, Accademia delle Scienze. Lo scontro si risolse a favore del primo, che poté cosí salire al trono di Kiev.

contestate le limitazioni e l’arretratezza della tesi «normannista», elaborata «prima che fosse nota la protostoria della Russia meridionale» (Nicholas V. Riasanovsky), e si supponeva l’esistenza di una primigenia entità politica composta da tribú slave – tra i quali Poljani, Severiani e Ulici – integrata da popolazioni nomadi (Boris Alexandrovic Rybakov). Nonostante il persistere della «guerra tra teorie», oggi si fa strada

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un’interpretazione di compromesso: l’influenza variaga sull’origine della Rus’ fu indubbia, ma occorre ridimensionarne la portata, ipotizzando un’interazione tra componenti scandinave, slave e ugro-finniche. Risulta piú credibile, in definitiva, raffigurare lo Stato kieviano come un modello multiculturale e multilinguistico, secondo quanto attestato dagli slavisti Omeljan Pritsak e Horace Lunt.

Un’arteria nevralgica

L’affermazione della Rus’ fu prodigiosa, a partire dalle gesta di Oleg († 912), sovrano che si lanciò in ripetute campagne militari contro i Bizantini e le bellicose tribú slave dei Drevljani e Poljani. Il suo nome è legato anche allo sviluppo

dell’itinerario di corsi d’acqua che univa il Mar Baltico al Mar Nero, la cosiddetta «via dai Variaghi ai Greci», arteria che consentí di rendere piú efficiente la rete di scambi con i mercati di Bisanzio. Il successore di Oleg, Igor (877-945), interrompendo una stagione di conflitti, cercò di consolidare le relazioni economiche con Costantinopoli, ma ottenne condizioni penalizzanti. Dopo un interregno di diplomazia «internazionale», gestito dalla vedova di Igor, Olga (890-960), si aprí una fase di guerre espansionistiche con l’erede designato, il figlio Svjatoslav (941-972), che però agí con eccessiva spregiudicatezza sul fronte militare. Forte dei successi contro i vicini Bulgari, mise a punto un ambizioso piano di attacco settembre

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cristianesimo di rito greco, estendendola in seguito alla popolazione con un battesimo di massa sul fiume Dnepr. Secondo la tradizione russa, la prima cerimonia sarebbe stata, invece, officiata nell’antica Cherson, nei pressi di Sebastopoli. Cosí Vladimiro si legò alla cristianità ortodossa, ma non chiuse, almeno inizialmente, le relazioni con l’Europa cattolica: le tendenze antilatine ebbero, infatti, «un carattere ristretto e formale» e la scelta per l’Oriente «non portò all’isolamento intellettuale del paese e alla sua limitazione nazionale» (Volodymyr Rychka).

Kiev. Monumento a Jaroslav il Saggio, ritratto mentre offre un modello della cattedrale di S. Sofia. La statua è stata realizzata nel 1997, su un bozzetto di Ivan Kavaleridze, e collocata in prossimità della Porta d’Oro.

all’impero bizantino, sottovalutandone le proverbiali capacità difensive, e fu sconfitto ad Arcadiopoli nel 970. Trovò la morte due anni dopo in un’imboscata, per mano dei Peceneghi. Secondo la leggenda, dal suo teschio fu ottenuto un calice su cui venne inciso un motto ammonitore: «Chi è avido del bene altrui, spesso perde il proprio». La fase di fioritura della Rus’ sopraggiunse con il figlio di Svjatoslav, Vladimiro I (9701015), che aspirava a costruire uno Stato forte e autocratico, investito di un’aura religiosa, sul modello bizantino. Un tempo pagano, nel 988 celebrò in modo sontuoso la sua conversione al

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Dossier Ritratto del Gran Principe di Kiev Vladimiro II Monomaco, olio su tela di un artista russo non identificato. Metà del XIX sec. Egor’evsk, Museo d’Arte e di Storia. Nella pagina accanto la spada di Vladimiro II Monomaco in una tavola a colori della metà dell’Ottocento. Mosca, Biblioteca Statale Russa.

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Con Bisanzio si saldarono anche le relazioni politiche, in virtú dell’appoggio che Vladimiro aveva fornito all’imperatore Basilio – vittima di una feroce opposizione interna –, un’alleanza sancita sul piano dinastico con le nozze tra la sorella del monarca, Anna, e il principe di Kiev. Apogeo del sodalizio fu la creazione, nella capitale bizantina, della cosiddetta Guardia Variaga, milizia d’élite degli imperatori, composta da effettivi kieviani.

tra autorità e cittadini. In quegli anni la scelta di militare nell’orbita bizantina venne bilanciata da una politica di unioni dinastiche con le potenze dell’Europa cattolica: Jaroslav sposò una principessa svedese e le tre figlie convolarono a nozze con monarchi e nobili ungheresi, francesi e norvegesi. La Rus’ visse una rinnovata ma effimera età di gloria durante il governo di Vladimiro II Monomaco (1053-1125). In questa fase

Cronaca di un declino

Come spesso accade nelle vicende dei grandi potentati, la stabilità della Rus’ fu minata da dissidi interni. Tra la capitale e il territorio di Novgorod a nord, antichi dissapori vennero alimentati da un contrasto «istituzionale»: al centralismo di Kiev si contrapponeva l’orgoglio autonomista della città motore dell’economia statale. Le «maggiori ragioni dell’instabilità», però, andavano ricercate «nella struttura di governo», che conservava «sulla scia della piú antica tradizione germanica, il principio di successione del seniorato» (Marcello Garzaniti). Questo sistema rotale, in cui il potere veniva trasmesso in linea collaterale e poi al figlio del fratello maggiore, contribuí, per la sua complessità, a innescare contrasti nella dinastia. Alla morte di Vladimiro, la corsa alla successione degenerò in guerra civile: i figli si affrontarono armi in pugno e, dopo scontri durissimi, prevalse Jaroslav (978-1054) che venne soprannominato «Il Saggio» per l’erudizione e le qualità di riformatore. Al suo periodo risale un’organica raccolta di leggi (la Russkaja Pravda), ritenuta all’avanguardia per l’epoca nel regolare i rapporti

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secolo, l’esito di un assedio in Vicino Oriente fece precipitare il corso della storia: il 12 aprile 1204, dopo una strenua resistenza, Costantinopoli capitolò di fronte ai crociati. Senza il suo principale alleato, l’ormai indebolita Rus’ si trovò a fronteggiare con armi spuntate l’avanzata dei Tataro-Mongoli che, nel 1240, rasero al suolo Kiev. «Dio ha diretto contro di noi un popolo crudele – scrisse il monaco Serapione, uno dei sopravvissuti all’invasione –; gente che non ha risparmiato né la bellezza della fanciulla, né l’impotenza degli anziani, né la debolezza dei bambini». A distanza di sei anni, secondo la testimonianza del missionario francescano Giovanni Pian del Carpine, Kiev era ridotta a circa duecento case e sul terreno giacevano «teschi e ossa di defunti».

La questione mongola

comparve per la prima volta il termine Ucraina, citato nella Cronaca di Kiev in riferimento all’uccisione, nel 1187, di Volodymyr Hlibovych, principe della piccola roccaforte di Perejaslav, a sud della capitale: «L’Oukraina pianse per lui», riporta il testo. In seguito, all’alba del XIII

Dopo l’invasione mongola, l’area della Rus’ patí un processo di frammentazione, con il sorgere di nuove entità politiche e il rafforzamento dei centri di potere preesistenti. Comprese anche alcune regioni limitrofe, alla metà del XIII secolo quattro principati dominavano la scena: Novgorod, Vladimir-Suzdal, Moscovia e Galizia-Volinia. I primi tre si estendevano a nord e nelle pianure orientali, la GaliziaVolinia a sud ovest, attratta nella sfera d’influenza dei regni di Polonia e Lituania. In questa fase cominciarono ad accentuarsi le differenze tra le principali componenti etniche del dissolto Stato kieviano, i futuri popoli Russi, Ucraini e Bielorussi. Con il nuovo scenario si profilò – secondo lo storico Massimo Vassallo – «una divisione tra i futuri Russi (abitanti delle aree che subi-

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Mongoli sotto le mura di Vladimiro, olio su tela di Vassily Maximov. 1910. Mosca, Museo Storico Statale.

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ranno per oltre due secoli il giogo mongolo, sino al 1480) e i «ruteni», ovvero gli abitanti delle aree che, o non subirono la dominazione mongola del tutto (gran parte della Bielorussia, de facto Galizia e anche Volinia) o ne furono solo parzialmente e piú brevemente toccate (Ucraina centrale e Bielorussia orientale)». Per salvare i sudditi da un massacro, ma anche per tutelare la propria identità religiosa, alcuni regnanti di area russa decisero volon-

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tariamente di divenire tributari del costituito Khanato dell’Orda d’Oro (la regione amministrativa dell’Impero tataro-mongolo). Ritenevano, infatti, gli eredi di Gengis Khan piú tolleranti nei riguardi della fede ortodossa rispetto ai regnanti cattolici e optarono, nella loro ottica, per il male minore. Emblematica fu la vicenda del principe di Novgorod, Aleksandr Nevskij (1220-1263) il quale, acerrimo nemico degli Svedesi e dell’Ordine Teutonico, seppur in modo sofferto si sottomise

ai Mongoli. Nell’animo «conservava un amore incancellabile per l’ortodossia e la ferma opposizione a ogni ingerenza latina», una risolutezza che sancí «la definitiva frattura tra la Russia settentrionale, cuore del futuro Stato russo unificato, e l’Occidente cattolico romano» (Catherine Durand-Cheynet). A nulla servirono le missioni papali a Novgorod, finalizzate ad aprire una fase di dialogo e di alleanze. Ai dignitari cattolici, giunti al suo cospetto, Nevskij avrebbe gelidamen-

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Dossier Nazione, Ortodossia, Eurasia

La Russia contro l’Occidente L’odierna «questione Ucraina» evoca una tendenza culturale radicata nella storia politica russa: la difesa dell’identità dei popoli slavi contro un presunto progetto di colonizzazione da parte dell’Occidente – nel caso attuale, Mosca non gradisce la stretta connessione di Unione Europea e Stati Uniti con il governo di Kiev. L’orientamento serpeggia fin dal Medioevo: il patto di ferro di Aleksandr Nevskij – uno dei padri della Russia – con Bisanzio e la sua avversione nei riguardi dei regni cattolici ne rappresentarono in un certo senso il preludio. Costituito l’impero zarista, il sentimento di ostilità permase fino all’avvento al trono di Pietro il Grande nel 1721, che aprí, invece, una fase di grandi riforme guardando all’Europa occidentale e alla sua cultura, una vocazione abbracciata anche da Caterina II (1762-1796), lettrice entusiasta di Montesquieu, Diderot, Voltaire e di altri illuministi. Nel 1833, l’introduzione della cosiddetta «triade dei valori» (Autocrazia, Ortodossia, Nazionalità) per iniziativa

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del Ministro dell’Educazione zarista Sergej Uvarov, sancí l’allontanamento dalle fascinazioni liberali e il ritorno al mito dei popoli slavi uniti da principi eterni e immutabili. Il rifiuto del sistema di valori dell’Occidente venne riaffermato, a partire dal 1917, dal regime sovietico, che concentrò le proprie battaglie ideologiche sulla condanna del sistema economico capitalista. Radicalmente anti-occidentali si professarono anche gruppi di intellettuali dissidenti alla dittatura comunista – ma in seguito alcuni si allinearono – che diedero vita al movimento dell’eurasismo, i cui modelli culturali spaziavano dal bizantinismo alla civiltà mongola. Nei loro proclami la tradizione ortodossa, con il suo rigore morale, si ergeva a baluardo della spiritualità contro la secolarizzazione e la decadenza del mondo moderno. Gli euroasisti assegnavano alla Russia un ruolo autonomo rispetto alle altre culture, ritraendola come un vero e proprio continente, dotato di una specificità antropologica e geografica.

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Tra i primi ideologi del movimento spicca la figura del linguista Nikolaj Sergeevic Trubeckoj (1890-1938), il quale teorizzava l’opposizione radicale alla moderna visione del mondo romanogermanica votata a dottrine individualistiche e al riduzionismo tecnico-scientifico. Fondamentale si rivelò anche il contributo dello storico Lev Nikolaevic Gumilëv (1912-1992), con gli studi relativi all’influenza mongola sull’identità russa e con l’elaborazione del concetto di «passionarietà», elemento vitale nel processo di etnogenesi di un popolo. Si ispirano ad alcune tesi di Gumilëv gli esponenti del neo-eurasismo, tra i quali figura il filosofo Aleksandr Dugin: la missione della Russia, un impero «metafisico» che si contrappone a un Occidente considerato corrotto e decadente, assume in questo ambito anche un respiro geopolitico, prefigurando una futura alleanza dello spazio ex sovietico con altre potenze limitrofe per combattere l’egemonia liberale. Nella pagina accanto uno scorcio del memoriale inaugurato nei pressi di San Pietroburgo in occasione degli ottocento anni dalla nascita di Alexandr Nevskij, per rendere omaggio al santo principe. A destra, in alto Aleksandr Nevskij, olio su tela del pittore russo Afanasij Efremovich Kulikov. Fine del XIX-inizi del XX sec. Kaluga, Museo Regionale d’Arte. Qui accanto lo storico Lev Nikolaevic Gumilëv (1912-1992).

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te risposto: «Non abbiamo bisogno delle vostre istituzioni né di lezioni da ricevere da voi». L’influenza mongola sugli Slavi Orientali divenne, a distanza di secoli, fattore di disputa in chiave nazionalistica. In età moderna, uno dei motivi di polemica da parte ucraina contro i Russi fu proprio la presunta «corruzione» dei loro costumi subita nel corso della lunga dominazione mongola. Il pregiudizio trovava eco nell’espressione attribuita al principe belga Charles Joseph de Ligne (1735-1814), e da alcuni anche a Napoleone Bonaparte, secondo la quale sotto la personalità di un Russo si nasconderebbe sempre un «Tartaro». Per tutta risposta, nel XIX secolo, alcuni settori della cultura russa, aderenti alla corrente dell’euroasismo (vedi box in queste pagine), rivalutarono gli anni di occupazione mongola e i suoi lasciti: l’efficienza del modello di governo, la disciplina sociale, il mito della «civiltà delle steppe» contrapposta alla debolezza dei popoli occidentali. «Sen-

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Dossier Con Danilo (1253-1264), figlio di Roman il Grande, il principato visse il suo apogeo, raggiungendo un’estensione dai Monti Carpazi al fiume Dnepr – Kiev compresa – ma sempre sotto la minaccia dell’espansionismo dell’Orda d’Oro. Soggetto, in seguito, alla signoria di quest’ultima, Danilo continuò comunque a considerare i Mongoli, insieme all’Islam, la principale minaccia per la civiltà cristiana, una visione condivisa dalla Chiesa di Roma, che contro quei nemici progettava nuove crociate. La comunione ideologica tra il principato e i papi fu sancita nel 1253, con la decisione di Innocenzo IV di incoronare Danilo «primo re di tutti i Rus’», nella prospettiva di una maggiore collaborazione politica.

L’età dell’oro

za Tatari non ci sarebbe stata la Russia», sostenne il geografo Pëtr Savickij, uno degli esponenti di punta del movimento. Una lettura in controtendenza con i giudizi storici tradizionali – zaristi e sovietici – secondo i quali la dominazione dell’Orda d’Oro rappresentava una pagina comunque infausta. Se da parte ucraina veniva biasimata l’influenza mongola sui costumi della Russia, negli ambienti culturali e politici russi si accusava l’Ucraina di aver snaturato la propria identità, subendo «contaminazioni» da parte della Polonia e della Lituania fin dopo la caduta della Rus’ di Kiev. Lo esplicitava ufficialmente la Circolare Valuev del 1863, con cui l’impero zarista proibiva

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l’uso della lingua ucraina (piccolorussa): quell’idioma – si legge nel provvedimento – «non è altro che russo guastato dall’influenza del polacco». In ambienti panslavisti si giunse addirittura a definire l’Ucraina un’«invenzione della Polonia». Nella fase di tramonto della Rus’ un altro potentato conquistò l’egemonia in quel distretto: il Principato di Galizia e Volinia, ulteriore protostato nazionale secondo la storiografia ucraina (Mychajlo Serhijovyc Hruševs’kyj, Stepan Tomashivskij). Galizia e Volinia, in precedenza entità autonome, furono unite per iniziativa di Roman Mstislavic il Grande (1168-1170), già protagonista di una dura resistenza ai Mongoli e anche all’avanzata islamica.

Questa «vocazione occidentale» della Galizia-Volinia si espresse anche nelle forme di governo adottate: già la Galizia, prima dell’unificazione con la Volinia, «aveva un sistema istituzionale per certi versi distinto da quello di matrice orientale-bizantina», con la figura del principe che «non esercitava un potere dispotico e assolutistico» (Giorgio Cella). Nel periodo d’oro, per effetto di un trend economico virtuoso, fiorirono le arti, la letteratura e le città (Leopoli su tutte). In seguito il principato entrò in crisi per le stesse dinamiche intervenute nel declino della Rus’: frammentazione interna, debolezza del potere centrale e minacce in prossimità dei confini. L’egemonia sul territorio, nel frattempo, era stata conquistata dal Granducato di Lituania, in virtú delle politiche espansionistiche dei monarchi Algirdas (1296-1377) e Gediminas (1316-1341), che sfiorarono l’impresa di estendere i loro possedimenti dal Mar Baltico al Mar Nero. Con l’Occidente cattolico i Lituani ebbero un rapporto tortuoso, che scontava la persistenza settembre

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Miniatura raffigurante la battaglia combattuta il 5 aprile 1242 da Aleksandr Nevskij contro un fronte guidato dall’Ordine dei Cavalieri Teutonici sulle acque ghiacciate del lago dei Ciudi (detto anche Peipus), situato sull’odierno confine fra la Russia e l’Estonia. XVI sec. San Pietroburgo, Biblioteca Nazionale di Russia. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la battaglia combattuta e vinta da Aleksandr Nevskij contro gli Svedesi sulla Neva, il 15 luglio 1240. XVI sec. San Pietroburgo, Biblioteca Nazionale di Russia.


Dossier

Miniatura raffigurante Algirdas, che divenne granduca di Lituania, nel 1344 (o 1345). Introdusse nel Paese il cristianesimo e, grazie alle vittoriose campagne militari, creò un grande Stato, dal Baltico al Mar Nero. .

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Golfo di Finlandia Estonia danese

Haspal Leal Pernau

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Golfo di Riga

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Cavalieri Portaspad a

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di una forte identità pagana della loro cultura religiosa. Solo per necessità strategiche vennero stretti rapporti con la Chiesa romana: nel 1322 il granduca Gediminas, preoccupato per gli attacchi dell’Ordine Teutonico, inviò numerose missive a papa Giovanni XXII, nella speranza di ottenere una sorta di protezione diplomatica. Con la dissoluzione del principato, la Galizia e la Volinia occidentale si apparentarono al regno di Polonia, mentre la Volinia orientale passò sotto il dominio della Lituania. Le due corone governarono in modo diverso sui territori acquisiti: Varsavia cercò, anche con la forza, di imporre i propri modelli politico-culturali, l’adozione del latino come lingua ufficiale e di una religione di Stato; i Lituani, al contrario, mostrarono maggiore rispetto per le tradizioni delle nuove comunità affiliate.

Vescova do di Ö

L’assetto geopolitico della Livonia, negli anni immediatamente successivi alla battaglia del lago dei Ciudi.

Narva

Repubblica di Novgorod Dorpat

Lago go ddeieii CCiudi go iuiu 1242

Vescovado di

Dorpat

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Granducato di Lituania 0

50 Km

La città di Leopoli in una incisione basata sull’originale del Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg. 1617.

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Dossier ideologie

Alle radici del nazionalismo ucraino Nell’Ottocento, Istorija Rusov – un saggio di autore anonimo – celebrava il destino di un’Ucraina indipendente dalle influenze della Russia «tatara» e della Polonia cattolica. Il volume divenne il manifesto patriottico degli Ucraini in epoca zarista, quando non era riconosciuto loro lo status di comunità nazionale, con un retaggio di cultura, tradizioni e lingua. Proprio la questione linguistica provocò una prima protesta organizzata, per iniziativa di numerosi intellettuali, in difesa del patrimonio letterario colpito dalla Circolare Valuev (1863) e dall’Editto di Bad Ems (1876), che vietavano la diffusione dell’ucraino. Si può ritenere che il movimento nazionalista prese forma da questo humus colto, dal dinamismo di eruditi e scrittori, in assenza del tradizionale apporto dell’élite cosacca, russificata durante il regno di Caterina la Grande. In breve tempo emersero personalità del mondo della cultura, destinate a rivestire un ruolo politico – Nikolaj Ivanovic Kostomarov, Taras Hryhorovyc Ševcenko e altri studiosi gravitanti intorno alla Confraternita dei santi Cirillo e Metodio, società segreta sciolta nel 1847 dal governo zarista – che formularono la proposta di una federazione di popoli slavi, dotati di autonomia. Capitale dell’irredentismo fu senza dubbio il territorio della Galizia, in particolare il versante

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occidentale – definito Piemonte ucraino dallo storico americano Paul Robert Magocsi – all’epoca inglobato nell’impero austro-ungarico, una dominazione che favorí il diffondersi nella regione dei miti patriottici elaborati dal Romanticismo. La storia del nazionalismo nel XX secolo seguí gli eventi bellici che investirono l’Europa. Nel gennaio 1918, dopo la disgregazione della Russia zarista e dell’impero austro-ungarico, fu proclamata la Repubblica Nazionale Ucraina (UNR), ma l’indipendenza ebbe breve durata. La rivoluzione bolscevica riportò l’Ucraina in una condizione di sottomissione: gran parte del territorio fu acquisito dall’Unione Sovietica, mentre a ovest la Polonia conservava la sua influenza su alcune regioni. Negli anni della dittatura comunista si passò dalla «indigenizzazione» (korenizacija) imposta da Lenin, che consentí ai popoli dell’URSS di conservare le proprie tradizioni, alla repressione di Iosif Stalin che culminò nella grande carestia, con milioni di morti. Numerosi partiti nazionalisti vennero fondati nel Novecento, con le piú svariate tendenze: dal Partito Rivoluzionario Ucraino di orientamento marxista all’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini del discusso leader Stepan Bandera, che collaborò con i nazisti nel secondo conflitto mondiale, divenendo poi elemento indesiderato al Terzo Reich.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Gli scenari della storia, però, mutarono ancora rapidamente. Lituania e Polonia, cosí diverse e cosí orgogliose della propria identità, celebrarono nel castello di Krewo un epocale matrimonio destinato a durare 400 anni. È il 1385 e nasce l’Unione polacco-lituana, sancita da un legame dinastico. A nozze convolarono il granduca lituano Jogaila e l’erede al trono di Polonia Edvige Jadwiga. Perché venne ratificata un’intesa cosí stretta? Nuove minacce si erano profilate all’orizzonte, da ovest e da est, suggerendo ai due regni di unire le forze: incutevano timore l’aggressività settembre

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Nella pagina accanto ritratto dello storico

Nikolaj Ivanovic Kostomarov. A sinistra

nazionalisti ucraini riuniti sotto il monumento in onore di Stepan Bandera, a Leopoli, per celebrarne l’anniversario della nascita.

dell’Ordine Teutonico e la crescita del limitrofo Granducato di Mosca, reduce dalla vittoria contro i Mongoli nella battaglia di Kulikovo (1380). L’ascesa moscovita si tradusse, nel corso dei regni di Ivan III (1462-1505) e di Basilio III (15031533), in una campagna militare sui territori dell’antico principato kieviano, con il sogno di restaurare il glorioso Stato medievale sotto l’egida della «Terza Roma» (Mosca, terza capitale della cristianità dopo la Città Eterna e Costantinopoli). Le ambizioni del Granducato russo acquisivano, quindi, una dimensione escatologica.

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Con il trascorrere degli anni, i Polacchi presero progressivamente il sopravvento nell’alleanza con i Lituani. Il processo culminò nel 1569, con l’Unione di Lublino: l’atto sancí la nascita della Confederazione polacco-lituana (Rzeczpospolita), assegnando la maggior parte della Galizia-Volinia, compresa Kiev, direttamente a Varsavia. Non fu però un dominio agevole: il proposito della Confederazione di diffondere il cattolicesimo suscitò la reazione popolare ma, nonostante le proteste, i modelli culturali dell’Occidente penetrarono nel tessuto sociale. Ne è prova la

mutazione delle lingue degli Slavi Orientali nei territori della vecchia Rus’: all’epoca del principato kieviano si parlava sostanzialmente un unico idioma, con poche differenze dialettali, ma nel XVI secolo le diversità aumentarono, soprattutto per le influenze subite dalle amministrazioni polacco-lituane.

Arrivano i Cosacchi

Un altro evento contribuí ad alimentare la lotta tra le identità religiose: nel 1595, con la stipula dell’Unione di Brest – su iniziativa della metropolia di Kiev-Halyc – all’interno della Confederazione

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Dossier DAI PRINCIPI DI KIEV A IVAN IL GRANDE 862 Rjurik conquista Novgorod. I Variaghi, capeggiati da Rjurik, approdati sul territorio slavo si impadroniscono delle città sorte lungo la via del commercio e fondano lo Stato della Rus’ di Kiev. 864 Inizio della missione di Cirillo e Metodio. Dopo aver inventato un nuovo alfabeto e tradotto i libri sacri, i due monaci bizantini partono per la missione di evangelizzazione di tutte le genti slave. Saranno i loro discepoli a raggiungere Kiev. 988 Vladimiro si fa battezzare. Al battesimo del Gran Principe di Kiev fa seguito la cristianizzazione in massa del popolo della Rus’; agli occhi dell’Occidente i Russi divengono popolo civilizzato. 1169 Andrej Bogoljubskij sposta la capitale da Kiev a Suzdal’. Il Gran Principe di Kiev trasferisce la sua dimora in una città piú ricca popolosa: Suzdal’. È l’inizio di una nuova fase politica e storica che avrà il suo compimento nell’ascesa di Mosca. 1224 Battaglia sul fiume Kalka. Primo scontro tra la Rus’ e Tatari. Dopo la vittoria i Mongoli ripiegano verso la loro terra; i governanti della Rus’ si illudono che il pericolo di nuove invasioni sia scongiurato. 1240 Bathu conquista Kiev. La capitale della Rus’ è messa a ferro e fuoco dalle truppe di Bathu; l’intero Gran Principato è rmai nelle mani dei Tatari. Vi rimarrà per duecento anni. 1242 Battaglia sul lago Pejpus. Aleksandr Nevskij, principe di Novgorod, sconifigge i cavalieri dell’Ordine Teutonico. Per i Russi la battaglia simboleggerà il trionfo della fede greco-ortodossa su quella cattolica romana. 1328 Mosca diviene sede del Metropolita russo. La scelta della nuova sede dei vertici della Chiesa ortodossa russa consacra la città a capitale della fede sancisce definitivamente il legame tra potere temporale e potere spirituale. 1380 Battaglia di Kulikovo. Dimitrij Donskoj, Gran Principe di Mosca, unendo in un solo esercito le forze armate dei principi russi sconfigge clamorosamente l’esercito tataro. 1478 Ivan III conquista Novgorod. Annientando l’indipendenza della città russa di piú profonda e radicata tradizione democratica, Ivan III compie un passo decisivo verso l’unificazione dei principati in un unico grande regno. polacco-lituana venne istituita la Chiesa greco-cattolica (Uniate), soggetta alla giurisdizione del papa romano, anche se libera di celebrare i riti del cristianesimo orientale. Ampi settori dell’aristocrazia rutena aderirono (forse per convenienza), mentre i contadini si opposero all’editto, trovando sodali di lotta, agguerriti nella difesa della tradizione ortodossa: i Cosacchi. Comunità di nomadi, erano stanziati in una vasta regione che comprendeva le coste settentrionali del Mar Nero, la Russia Me-

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ridionale e il Dnepr, in zone considerate «terra di nessuno». Sulla loro epopea sono state scritte pagine memorabili della letteratura moderna, dal ritratto epico composto da Nikolaj Gogol’ in Taras Bul’ba (1835) all’inno all’avventura con tratti autobiografici de I Cosacchi (1863) di Lev Tolstoj. L’apologia delle gesta di questi temerari guerrieri accomuna diversi Paesi slavi, ma è in ambito ucraino che assurge a mito nazionalista, con la saga dell’originaria Sic di Zaporižžja, «il forte oltre le rapi-

de» sul corso del Dnepr, la prima grande roccaforte cosacca. Il sentimento antipolacco derivava non solo dall’annosa questione religiosa, ma anche da un vissuto di rapporti conflittuali, non sanati dal gesto distensivo di Varsavia di inquadrare alcune truppe scelte della Zaporižžja nelle proprie milizie, i cosiddetti «registrati». Con tali antefatti si giunge al 1648, l’anno della grande rivolta contro la nobiltà rutena e il governo della Polonia guidata con successo dal comandante cosacco Bogdan settembre

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Chmel’nyc’kyj. La vittoria sul campo fece da preludio alla fondazione di un’entità territoriale indipendente, l’Etmanato dei Cosacchi, il precursore forse piú «compiuto» di Stato nazionale secondo gli Ucraini, che ne tracciarono anche un profilo ideologico, con venature libertarie e democratiche. Una testimonianza di tale attitudine istituzionale si rintraccerebbe nel tenore delle assemblee dei Cosacchi: «Tutti avevano eguali diritti e potevano partecipare ai frequenti e chiassosi consigli (rady) in cui solitamente la

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spuntava la fazione che gridava piú forte». (Orest Subtelny).

Tra Russi e Svedesi

Il rifiuto dei Polacchi di procedere al riconoscimento dell’Etmanato spinse i Cosacchi nelle braccia della potenza rivale di Varsavia, la Russia, con la quale venne sottoscritto il trattato di Perejaslav (1654). Siamo di fronte all’ennesimo tornante della storia, destinato a generare interpretazioni discordanti: per i Russi il trattato segnò la riunificazione dei popoli Slavi Orien-

L’ambasceria di Ermak al cospetto di Ivan il Terribile, olio su tela di Sergej Chikunchikov. 1996. Collezione privata.

tali sotto l’autocrazia dello zar; gli Ucraini, invece, condannavano l’accordo come atto di oppressione ai danni dei Cosacchi. La diatriba ruota intorno al significato politico del trattato. Rappresentò un atto di condivisa unificazione? O solo un matrimonio di interesse? O ancora, l’Etmanato era totalmente sotto il dominio russo? Oppure divenne solo una sorta di protettorato?

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Dossier

Il matrimonio sancito a Perejaslav conobbe momenti di crisi già durante la leadership di Chmel’nyc’kyj e fu la conseguenza di repentini cambi di scenari strategici e di alleanze. I Cosacchi strinsero contatti con gli Svedesi, nemici della Russia, proprio mentre lo zar era in trattativa diplomatica con Polacchi e Lituani. Con il successore di Bogdan Chmel’nyc’kyj, il figlio Yurii, l’Etmanato rivolse le sue attenzioni verso Occidente e si legò ufficialmente a Varsavia, suscitando la prevedibile irritazione dei Russi.

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Il nuovo valzer delle alleanze ratificò di fatto la separazione in due macro-aree dell’odierna Ucraina: Mosca, nel timore di perdere l’avamposto strategico, inviò truppe a presidio e riuscí a occupare solo la riva sinistra del Dnepr, mentre la riva destra rimase sotto il controllo polacco, una spartizione decretata nero su bianco dall’armistizio di Andrusovo del 1667. La stipula, nel 1686, della Pace Eterna tra Polonia e Russia, calmò i venti di guerra, ma non a lungo.

Per secoli, fino agli eventi sanguinosi di oggi, lo scontro delle interpretazioni sarebbe infuriata ancora coinvolgendo eventi storici, sovrani, luoghi, condottieri. Emblematica, in questo senso, fu la figura del cosacco Ivan Mazepa (1639-1709), alleato prima degli zar, poi degli Svedesi: per i Russi rappresentò la personificazione del traditore («una serpe» lo avrebbe definito Aleksandr Puskin), per gli Ucraini, invece, fu un patriota che cercò di ampliare la sfera delle relazioni internazionali… settembre

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Da leggere

Sulle due pagine una veduta d’insieme della Porta d’Oro di Kiev, costruita fra il 1017 e il 1024, e un particolare della decorazione dei battenti in bronzo della Porta.

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Francis Conte, Gli Slavi, Einaudi, Torino 2006 Marcello Garzaniti, Gli Slavi. Storia, culture e lingue dalle origini ai nostri giorni, Carocci Editore, Roma 2019 Giorgio Cella, Storia e geopolitica della crisi Ucraina, Carocci Editore, Roma 2021 Massimo Vassallo, Storia dell’Ucraina. Dai tempi antichi ad oggi, Mimesis, Milano 2020 Nestore l’Annalista, Cronaca degli anni passati, San Paolo, Milano 2005 Luciano Vaccaro (a cura di), Storia religiosa dell’Ucraina, Centro Ambrosiano, Milano 2007 Nicholas V. Riasanovsky, Storia della Russia, Bompiani, Milano 2008 Giovanni Codevilla, Il Medioevo Russo. Secoli X-XVII, Jaca Book, Milano 2021 Catherine Durand Cheynet, Alessandro Nevski, Salerno editrice, Roma 1987

Giorgio Pasini, Note di storia dell’Europa orientale nel Medioevo, Centro Ambrosiano, Milano 2001 Giovanna Moracci, Alberto Alberti (a cura di), Linee di confine. Separazioni e processi di integrazione nello spazio culturale slavo, Firenze University Press, Firenze 2014 Gabriele De Rosa, Francesca Lomastro (a cura di), L’età di Kiev e la sua eredità nell’incontro con l’Occidente, Viella, Roma 2003 Michele Bernardini, Donatella Guida, I Mongoli, Einaudi, Torino 2012 John Hure, Cosacchi, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1999 Aldo Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Libri Scheiwiller, Milano 2003

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Vita e mito di una donna speciale LIBRI • Paolo Golinelli,

uno dei piú autorevoli studiosi della figura di Matilde di Canossa, ha dato alle stampe una ponderosa opera dedicata alla Gran Contessa. Originale nell’impostazione e ricca di acquisizioni inedite e sorprendenti

«Q

uesto libro raccoglie i risultati delle ricerche di molti decenni» (p. 12), ricerche condotte dall’autore in prima persona e da altri. Sono passati trent’anni, infatti, dalla prima biografia (Matilde e i Canossa nel cuore del Medioevo, Milano, Camunia, 1991; Giunti 1996; Mursia 2004), in cui la vicenda storica di Matilde di Canossa era posta in connessione con quella dei suoi antenati; in questa, invece, alla vita della Gran Contessa si accompagna una parte interamente dedicata al mito. È nella vicenda storica di Matilde, infatti, che affondano le radici, il mito e la rivisitazione che, a partire Matilde di Canossa a cavallo, olio su tela di Paolo Farinati. 1587 circa. Verona, Museo di Castelvecchio.

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Paolo Golinelli Matilde di Canossa Vita e mito Salerno Editrice, Roma, 473 pp., ill. col. 32,00 euro ISBN 978-88-6973-643-8 www.salernoeditrice.it dalla sua morte, ne è stata proposta, a seconda dei differenti momenti storico-culturali. Naturale e quasi inevitabile l’Epilogo (Matilde nostra contemporanea?), ove quel punto interrogativo vuole circostanziare, con il necessario equilibrio e «distanziamento storico», la nostra valutazione dell’intero operato della Contessa di Toscana, «resistendo

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Miniatura raffigurante Matilde di Canossa e l’architetto Lanfranco all’apertura della tomba di san Geminiano, nel 1106, dal manoscritto Relatio de innovatione ecclesie Sancti Geminiani ac de translatione eius beatissimi corporis. XIII sec. Modena, Archivio Capitolare. alle tentazioni di facili ma false attualizzazioni» (p. 25). «Una donna speciale nel suo tempo» (p. 7) per produzione documentaria, per ruolo che come donna svolse negli eventi del suo tempo, per quanto su di lei fu scritto allora a detrimento o in lode, per essere stata «unica donna tra il papa e l’imperatore» a svolgere il

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ruolo di intermediaria nell’incontro di Canossa del 1077, come la miniatura del codice di Donizone (Vat. Lat. 4022) celebra.

Non fu mai un’eroina nazionale Ma nella lotta tra papa e imperatore, Matilde dovette scegliere, per cui ella svolse un «ruolo divisivo», che si rifletté sia a quel tempo, sia, nei secoli seguenti, sulla valutazione che di lei venne data. Matilde, infatti, in Italia, «non è mai diventata un’eroina nazionale» (p. 8) come lo è diventata Giovanna d’Arco per la Francia, giovane, martire e artefice principale nella costruzione della moderna nazione

transalpina, secondo il parallelismo creato dall’autore, dietro lo stimolo di Michel Parisse (La Jeanne d’Arc italienne, in «Histoire», 77, 1985, pp. 22-29). Ma, osserviamo noi, nella vicenda storica della penisola italiana, Matilde avrebbe potuto diventarlo? Ed esiste un «eroe nazionale» condiviso in Italia? Nella simbiosi di Vita e mito affonda «la spada di storico» di Golinelli, enunciando, fin dal Prologo, attraverso il ricorso alla metafora della striglia («la spazzola metallica con la quale si asporta il sudiciume dal vello del cavallo» p. 9), la metodologia che informa tutta la sua indagine. settembre

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Da un lato, ricostruire, nel limite del possibile storico, la figura di Matilde quale dovette essere a quel tempo, «scrostandola» di tutte le stratificazioni successive; dall’altro, delineare il mito di Matilde, e far emergere quell’immaginario culturale collettivo che, nelle varie epoche, ha visto in lei la costruttrice di chiese, ponti e castelli, o la sostenitrice della causa papale, ovvero, all’opposto, colei che costrinse un imperatore a umiliarsi. Nel delineare in senso cronologico la figura e la vita di Matilde di Canossa, dove pubblico e privato si intrecciano, l’autore ci restituisce tutta la parabola storica della Contessa, evidenziandone la dimensione europea (propiziata e favorita dalla figura della madre Beatrice e dai suoi matrimoni). In particolare, viene sottolineato il «ruolo di mediatrice che poteva avere Matilde nello scacchiere europeo del tempo» (p. 120), come emerge nelle pagine dedicate a Matilde e la crociata.

Un aspetto poco indagato Ci si pone, poi, l’interrogativo, caro alla storiografia di ambiente anglofono, di Matilde guerriera (cap. 16), al quale Golinelli risponde sulla base dell’analisi di un aspetto finora poco frequentato della Contessa, vale a dire la sua spiritualità. È tenendo conto del rapporto dialettico presente in Matilde tra vita attiva e vita contemplativa e delle sue aspirazioni verso il chiostro che si spiega anche la sua presenza sul campo di battaglia, «ma non per combattere, semmai per dettare la tattica da seguire» (p. 140), una tattica improntata alla difesa piú che all’attacco. La lettura iconografica fatta da Golinelli della miniatura raffigurante l’apertura dell’arca del santo patrono di Modena nel corso dei lavori di costruzione del nuovo duomo della città (vedi foto a p. 104) introduce e guida il

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lettore nel rapporto tra Matilde e le città: «Matilde in questo contesto è ancora un punto di riferimento essenziale, ma in un quadro nel quale entrano altri personaggi» (p. 190). È l’affacciarsi della nuova e dinamica realtà cittadina, preludio alla successiva affermazione della nuova esperienza comunale, una realtà che «non trovò nell’ambiente matildico una vera opposizione» (p. 192); semmai Matilde cercò di «controllare» (p. 199) le trasformazioni in atto, il cui esito non fu sempre benevolo nei suoi

Miniatura raffigurante Enrico IV che prega Matilde di Canossa e Ugo di Cluny, affinché intercedano per lui presso papa Gregorio VII, dalla Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. confronti (vedi la distruzione dei simboli del suo potere a Bologna, dopo la sua morte). Con il capitolo 28°, L’ultima Matilde, si chiude la prima parte del libro e come «introduzione iconografica» all’argomento viene riprodotto il quadro di Paolo

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CALEIDO SCOPIO Farinati (ultimato nel 1587; vedi foto in apertura alle pp. 102-103), un dipinto che, nella copia del figlio Orazio, era conservato sul sepolcro della Contessa – e tuttora sovrasta il sepolcro vuoto – nell’abbazia di S. Benedetto di Polirone, ove Matilde volle essere sepolta. A prima vista, si potrebbe notare un contrasto tra la tematica trattata nel capitolo e l’illustrazione presente nel quadro. In questo, infatti, Matilde è rappresentata a cavallo, rivestita del mantello rosso (quindi in abito regale) e tiene lo sguardo fisso verso un punto indefinito oltre lo spazio della tela. Il cavallo incede in modo solenne nella stessa direzione dello sguardo della Gran Contessa e gira l’occhio sinistro verso l’osservatore esterno, quasi a invitarlo a fermarsi per contemplare la scena. Sullo sfondo un paesaggio montuoso: un richiamo alle colline dell’Appennino Reggiano (come è già stato notato anche da altri) ove l’avventura canossana era iniziata? In realtà, a mio avviso, nell’intenzione di Farinati, era forse presente (dal punto di vista cristiano) proprio il richiamo all’eternità (la direzione nella quale Matilde sta andando con lo sguardo fisso nel vuoto): collocato sul sepolcro di Matilde, il quadro voleva forse trasmettere l’idea di un cammino deciso verso quella vita eterna a cui la Contessa aveva anelato e che il monastero di Polirone (fondazione canossana, affiliato a Cluny e quindi partecipe delle garanzie spirituali che l’Ordine cluniacense disponeva e che il materiale inserimento del nome nel Liber Vitae garantiva) era in grado di procurare. Ma nell’opera di Golinelli la rappresentazione del quadro viene ad assumere la funzione di «ponte» tra la Vita e il Mito di Matilde: il mito è la consacrazione nel tempo del ricordo di un personaggio illustre. Ovviamente di una Matilde vincitrice e trionfante, seppur

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figura controversa allora e poi, non certo nella sua dimensione di perdente e sconfitta nel suo tempo – come la vede Golinelli – «in quella che nel Medioevo era la specificità femminile: il diventare madre» (p. 225).

Una rassegna puntuale Ecco allora, la seconda parte: Un mito per tutte le stagioni. Si parte nuovamente da Canossa vistata da poeti viaggiatori come August von Platen e Heinrich Heine, per entrare nell’evoluzione della presenza di Matilde nella storia, nella religione, nell’arte e nelle letterature. In successione, la rassegna di Golinelli si snoda dall’esame del mosaico pavimentale di San Benedetto Po all’individuazione dell’origine del mito stesso nella volontà della Chiesa di Roma di appropriarsi dei «Beni matildini». Vengono poi toccati i «mostri sacri» della letteratura italiana del Trecento – Petrarca, Boccaccio e soprattutto Dante –, con l’annosa controversia dell’identificazione della figura di Matelda nel Purgatorio della Commedia, risolta facendo ricorso ai commentatori trecenteschi dell’opera. Si passa poi alle opere genealogico/encomiastiche di età rinascimentale, nelle quali viene pretesa l’origine matildina di grandi famiglie come Pico, Malaspina, Gonzaga, Estensi, Canossa di Verona. Anche la cronachistica bassomedievale, non è dimenticata: in modo particolare Giovanni Villani, per la versione «boccaccesca» del secondo matrimonio della Contessa con Guelfo V di Baviera, ma anche Salimbene de Adam, Riccobaldo da Ferrara. Si attinge per la prima volta al Dittamondo di Fazio degli Uberti, con la notazione di una probabile visita dell’autore al sepolcro di Matilde nell’abbazia polironiana. Esemplare è il ricorso alla corrispondenza e alla biografia di Michelangelo per fare emergere

la vera intenzione del grande artista nel modellare la figura a sinistra del Mosè nel sepolcro di Giulio II, in Matelda: ufficialmente Lia, simbolo della vita attiva; «nel ricordo di Michelangelo, Matelda» (p. 278), una vera scoperta! Mentre montava la polemica protestante, il mito della Contessa si cristallizzava in Vaticano soprattutto col trasferimento del suo corpo in S. Pietro a opera di Urbano VIII. Nel Risorgimento italiano Matilde divenne «simbolo del neoguelfismo» (p. 317), mentre tra Otto e Novecento si ebbe una riscoperta della sua figura a livello europeo, con una particolare angolazione al femminile. Tra i pregi di questa seconda parte vorrei sottolinearne uno: la ricerca condotta direttamente che ha permesso di modificare letture precedenti di opere artistiche, come i disegni preparatori di Giulio Romano che avevano come soggetto l’Incontro di Canossa, non la Donazione di Costantino poi realizzata (pp. 275-277); o di indicare in Matilde l’unica figura femminile nel tondo della serie degli otto governanti che beneficiarono la Chiesa dipinta dal Perugino (p. 263), nei Palazzi Vaticani. Lo stile narrativo chiaro e scorrevole dell’intero libro, unito alle lodevoli traduzioni di passi di testi in latino (inserite nelle note, assieme a vasti e aggiornati riferimenti bibliografici) consentono a quest’opera di rivolgersi sia al pubblico degli appassionati di storia, sia a quello degli studiosi. Completano il volume la Bibliografia e un prezioso Indice dei nomi, accompagnato dall’Indice delle illustrazioni. Da segnalare, infine, come ognuno dei quarantaquattro capitoli si apra con la riproduzione di immagini (miniature, sigilli, quadri, sculture, paesaggi), spesso a colori, attraverso le quali il lettore è indotto a focalizzare l’argomento che verrà trattato. Corrado Corradini settembre

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Quando i santi prendevano le armi

Sigismondo e la spada di Paolo Pinti

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el copioso repertorio dei santi divenuti tali dopo aver condotto esistenze non irreprensibili, pentendosi poi improvvisamente, Sigismondo merita un posto in prima fila, in quanto, su istigazione della seconda moglie, fece uccidere Sigerico, il figlio avuto dalla prima moglie, Ariagne, figlia di Teodorico re degli Ostrogoti. Nel 516, succedendo al padre Gundobado, Sigismondo divenne re dei Burgundi, una popolazione germanica affine ai Vandali, forse emigrata dalla Scandinavia verso l’isola danese di Bornholm – che in norvegese antico era detta Burgundarholmr (l’isola dei Burgundi) – per poi giungere nell’Europa continentale. Già da principe, governava una parte del territorio nazionale che aveva Ginevra come capitale e in quel periodo si convertí al cattolicesimo (fu il primo re barbaro della Gallia a farlo, per opera di sant’Avito). Si dimostrò fervente cattolico, schierandosi contro gli ariani, ma tanto fervore non lo trattenne – dando ascolto alla seconda moglie, Fredegaria, che gli diceva che il figlio Sigerico stava tramando contro di lui – dal far strangolare il giovane in sua presenza, salvo poi pentirsi immediatamente del gesto, abbracciando il cadavere del figlio e ritirandosi nel monastero di Agaune in Svizzera per espiare la colpa con una vita di penitenza. L’eremitaggio non fu però di lunga durata, giacché si trovò presto a prendere le armi per difendere il regno dai Franchi. Il delitto compiuto ebbe gravi conseguenze per Sigismondo,

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perché il nonno del giovane Sigerico, Teodorico il Grande, sconcertato e offeso dall’accaduto, si rifiutò di fornire al re burgundo aiuti con i quali contrastare le mire espansionistiche dei Franchi, che volevano conquistare l’ultimo regno germanico ancora indipendente nella Gallia.

Polittico di Recanati (o di San Domenico; particolare), olio su tavola di Lorenzo Lotto. 1508. Recanati, Museo Civico di Villa Colloredo Mels. L’artista ha realizzato un magnifico ritratto di Sigismondo, con una raffigurazione accuratissima di una spada di ambito veneto-austriaco, pienamente contemporanea all’esecuzione dell’opera.

Alla mercé di Clodomiro Scoppiò una guerra e Sigismondo fu fatto prigioniero insieme alla moglie e ai figli, dal re franco Clodomiro, che li riportò a Orleans per poi gettarli in un pozzo vicino al villaggio che fu in seguito settembre

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San Sigismondo offre il modello della chiesa di Augaunia a san Maurizio, affresco di Bernardino Luini. 1520 circa. Milano, chiesa di S. Maurizio al Monastero Maggiore. In alto – quale rappresentazione di un fatto successivo – c’è la decapitazione di Sigismondo.

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CALEIDO SCOPIO Agostino ai piedi della Croce con i santi Sigismondo e Antonio, olio su tela di Giuseppe Alberti. 1707. Panchià (Trento), chiesa di S. Valentino, sagrestia. Con l’impugnatura quasi interamente coperta dalla corona (sporge solo il pomo) in terra vediamo una spada, che, cosí posizionata, vicino alla corona, dovrebbe alludere alla sua qualifica di re, ma che potrebbe anche simboleggiare l’arma con la quale fu decapitato.

ribattezzato Saint-Sigismond (nell’odierno dipartimento del Loiret). Secondo il vescovo Gregorio di Tours (536-597), Sigismondo venne decapitato, prima di essere gettato e tale circostanza spiega il simbolo della spada non solo come segno del suo rango, ma anche come strumento del martirio.

La traslazione dei resti Il resti di Sigismondo furono poi traslati nel monastero di S. Maurizio ad Agaunum (oggi Saint-Maurice, nel Canton Vallese, in Svizzera), mentre il cranio è oggi conservato, in uno splendido reliquiario, nel Duomo di Forlí, dove giunse in circostanze non chiare. Per la scelta di una vita ascetica, ma

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soprattutto per la morte violenta subíta, fu ritenuto santo e martire, il cui culto non fu particolarmente diffuso in Italia (ma Piero della Francesca lo ritrae nell’affresco del Tempio Malatestiano di Rimini, commissionato da Sigismondo Pandolfo Malatesta; vedi foto alla pagina accanto). Va ricordato che il nome Sigismondo – che deriva dall’antico tedesco Sigismuht e significa«che protegge con la vittoria» – fu portato da tre re polacchi e da un imperatore tedesco. Lorenzo Lotto lo raffigura nel famoso Polittico di Recanati (o Polittico di san Domenico), opera su tavola eseguita nel 1508, oggi conservata nel museo Colloredo Mels della città, firmata e datata «Laurent(ius)

Lotus MDVIII» (vedi foto a p. 108). La bellezza di questo guerriero-santo è insuperabile e la spada tenuta con la mano sinistra, visibile solo nel fornimento, è estremamente ben fatta, di modello esattamente in uso dalla fine del XV agli inizi del XVI secolo in area veneto-austriaca. Come riscontri di datazione certa abbiamo, tra gli altri, la spada da caccia appartenuta all’imperatore Massimiliano I d’Austria, del 1496, conservata nella Waffensammlung del Kunsthistorisches Museum di Vienna e la Giuditta di Vincenzo Catena (1480 circa-1531), risalente al 1520-1530, oggi alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Anche in una tela del 1707 di Giuseppe Alberti (1640-1716), conservata nella sagrestia della chiesa di S Valentino a Panchià, Agostino ai piedi della Croce con i santi Sigismondo e Antonio, compare una spada appoggiata in terra vicino alla corona (vedi foto qui accanto): entrambi chiari simboli di un potere e di un modus vivendi ripudiati, ma l’arma è anche simbolo del martirio del santo. La spada, peraltro piuttosto corta, è nel suo fodero, del quale si vede il puntale – che è il «rinforzo generalmente metallico della estremità inferiore di foderi e guaine» – sulla destra di chi guarda.

Una scelta singolare Può non essere facile comprendere le ragioni della santificazione di un monarca caduto a difesa del suo regno e non per quella della sua fede. Senza peraltro considerare il non trascurabile particolare dell’uccisione del figlio, in apparenza incompatibile con la salita agli altari. Per completezza, va aggiunto un altro episodio della sua vita: un suo amico, nobile di corte, aveva contratto un matrimonio definito incestuoso, che gli costò la scomunica; il re intervenne in difesa dell’amico, scagliandosi contro i vescovi che lo avevano condannato ed esiliandoli dal regno. Poi, con un settembre

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Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo, affresco di Piero della Francesca. 1451. Rimini, chiesa di S. Francesco, piú nota come Tempio Malatestiano per le sue monumentali dimensioni classicheggianti.

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altro pentimento degno di lui, capí di aver sbagliato e fece rientrare i prelati. Episodi non da poco, ma qui si entra in un ambito molto delicato, in cui la logica laica si trova a mal partito se non riesce ad accettare concetti come espiazione, pentimento, ecc. Di certo, c’è la valenza politica della cattolicità del suo regno a giustificare questa scelta, ed ecco, quindi, san Sigismondo. Nell’arte, riconoscere san Sigismondo dai suoi simboli non è

sempre possibile, giacché in buona sostanza è raffigurato come un sovrano, spesso in armatura, con lo scettro e, non sempre, la spada, senza ulteriori indicazioni. I simboli possibili sono, appunto, lo scettro, la spada, il globo, la palma del martirio, la croce, il pozzo, ma è l’arma che c’interessa e, in particolare, quella sul Polittico di San Domenico, cosí ben caratterizzata, bellissima come le fattezze di un antico re barbaro, uccisore pentito di suo figlio.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Cristiano Cerioni Tra Esino e San Vicino Architettura religiosa nelle Marche centrali (secoli XI-XIII) Archaeopress, Oxford, 212 pp., ill. col. e b/n

38,00 GBP ISBN 978-1-80327-132-3 e-book in open access sul sito della casa editrice

978-1-80327-133-0 www.archaeopress.com

Le chiese medievali possiedono un fascino innegabile, reso ancor piú intrigante dal mistero che spesso le contraddistingue. A parte qualche preziosa epigrafe che

si può osservare nel vivo delle strutture, la documentazione storica diretta è pressoché inesistente nella maggior parte dei casi. Conosciamo semmai alcune coordinate sull’istituzione religiosa che ha promosso e gestito un determinato edificio, ma di quest’ultimo magari non sappiamo nulla di specifico. Non sappiamo chi

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sia l’architetto o il capomastro che l’abbia progettato o che comunque ne abbia diretto i lavori di costruzione. Non conosciamo la provenienza delle maestranze impegnate, né le date di inizio e di conclusione dei lavori, e neppure siamo ben informati sulle trasformazioni sopravvenute nel tempo. Ma una nuova disciplina ci consente di rischiarare tanta oscurità. Si tratta dell’archeologia dell’architettura. Essa, in sostanza, tratta le strutture in elevato come se fossero riscoperte nel corso di uno scavo. Il muro viene cosí scomposto e analizzato individuando le diverse unità che lo compongono. Stabilita la successione delle fasi, incrociando i

Analisi stratigrafica della parete est dell’abbazia di S. Elena all’Esino (Serra San Quirico, Ancona), con le fasi costruttive.

dati con le indicazioni tipologiche e documentarie disponibili, si ricompone la sequenza cronologica dell’edificio, ed è poi possibile comparare le conclusioni con quelle che scaturiscono da altri edifici di un determinato territorio. A quel punto si ricostruisce nel suo complesso un paesaggio storico e culturale di ampio respiro, identificando i gruppi di maestranze che vi hanno operato. Nella duplice veste di storico dell’arte e di archeologo, Cristiano Cerioni si è impegnato a comporre questo spaccato su un ambito che non

aveva mai conosciuto iniziative sistematiche del genere. Si tratta della Valle di San Clemente, sul versante appenninico delle Marche centrali, tra le province di Ancona e di Macerata. Un territorio ricco di abbazie, eremi e pievi, apparentemente semplici nella loro spoglia e rigorosa essenzialità, ma dotati a ben vedere di un’ampia gamma di caratteri inconfondibili di alto profilo, sia sul piano storico che su quello architettonico. Furio Cappelli

attivi nel millennio medievale possono in qualche modo essere considerati gli eredi e i continuatori di una prassi plurimillenaria. Una prassi che, nell’età di Mezzo, si carica di nuove ideologie, ma, soprattutto, riflette il richiamo costante alla religione. In un mondo nel quale l’alfabetizzazione non era un fenomeno di massa, inoltre, le immagini diventavano veicoli di grande efficacia

Gérard de Champeaux, Sébastien Sterckx Dizionario. Simboli del Medioevo Editoriale Jaca Book, Milano, 320 pp., ill. b/n

50,00 euro ISBN 978-88-16-41475-8 www.jacabook.com

Le comunità umane hanno acquisito consapevolezza del potere delle immagini fin da epoche remote: basti pensare alle raffigurazioni dipinte o incise sulla pietra già nel corso della preistoria, molte delle quali avevano un valore che va ben oltre i limiti della semplice rappresentazione e dell’estetica. E dunque, anche gli artisti e gli artigiani

e immediatezza per ricordare dogmi o narrare i fatti salienti che avevano portato alla nascita e alla affermazione delle varie dottrine. E per orientarsi in questo caleidoscopico universo può ancora oggi essere di grande aiuto questo Dizionario, pubblicato per la prima volta nel 1972 e ora riproposto nella sua traduzione italiana. Stefano Mammini settembre

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