Medioevo n. 305, Giugno 2022

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MEDIOEVO n. 305 GIUGNO 2022

IL DI ME DU DIO G EVO

EDIO VO M E www.medioevo.it RE PER IL M ED MO A

O EV IO

UN

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

ENIGMI

OERA LINDA

Mens. Anno 26 numero 305 Giugno 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

FIRENZE LA GUERRA DEGLI OTTO SANTI ANGHIARI IL CASTELLO DI MONTAUTO DECAMERON BOCCACCIO NEL MONDO DEGLI AFFARI

SPECIALE CLUNY

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€ 6,50

OERA LINDA OTTO SANTI ANGHIARI MEDIEVALE/2 I MERCANTI NEL DECAMERON PIAGGE DOSSIER MUSEO DI CLUNY

IL MANOSCRITTO CHE ISPIRÒ L’IDEOLOGO DI PUTIN

IN EDICOLA IL 3 GIUGNO 2022



SOMMARIO

Giugno 2022 ANTEPRIMA AMORI MEDIEVALI Sempre insieme, anche in battaglia di Federico Canaccini

RESTAURI Ercole, duca mercante

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di Alberto Palladini

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APPUNTAMENTI Medioevo Oggi L’Agenda del Mese

10 14

di Aart Heering

COSTUME E SOCIETÀ VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/6 Schiavi del dio denaro

STORIE ENIGMI Oera Linda «Al di là dei tigli»

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di Corrado Occhipinti Confalonieri 24

24

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LUOGHI

LIBRI Lo Scaffale

114

Dossier

MEDIOEVO NASCOSTO Marche

I misteri di un bel horrore di Furio Cappelli

92

GUERRA DEGLI OTTO SANTI Di «santi» e monete parlanti di Francesco Borghero e Alessio Montagano

34

ANGHIARI MEDIEVALE/2 San Francesco aveva un saio... di Alberica Barbolani di Montauto

92 CALEIDOSCOPIO

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52

STORIE, UOMINI E SAPORI Un frate dal talento... maccheronico di Sergio G. Grasso 104 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Il mistero della scimitarra mancante di Paolo Pinti 110

CLUNY. LA «CASA» DEL MEDIOEVO 73 a cura di Stefano Mammini


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MEDIOEVO n. 305 GIUGNO 2022

IL DI ME DU DIO GI EVO

MEDIOEVO www.medioevo.it RE PER IL M ED MO A

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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OERA LINDA

Mens. Anno 26 numero 305 Giugno 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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OERA LINDA OTTO SANTI ANGHIARI MEDIEVALE/2 I MERCANTI NEL DECAMERON PIAGGE DOSSIER MUSEO DI CLUNY

IL MANOSCRITTO CHE ISPIRÒ L’IDEOLOGO DI PUTIN

Hanno collaborato a questo numero: Alberica Barbolani di Montauto lavora presso la segreteria della direzione della Galleria degli Uffizi. Francesco Borghero è dottorando di ricerca in studi storici all’Università di Firenze. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Aart Heering è giornalista. Alessio Montagano è membro dell’Accademia Italiana di Numismatica. Maria Giuseppina Muzzarelli ha insegnato storia medievale all’Università di Bologna. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Alberto Palladini è funzionario archivista presso l’Archivio di Stato di Modena. Paolo Pinti è studioso di oplologia.

IN EDICOLA IL 3 GIUGNO 2022

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20/05/22 13:42

MEDIOEVO Anno XXVI, n. 305 - giugno 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Cortesia Musée de ClunyMusée national du Moyen Âge, Parigi: RMN-Grand Palais/Thierry Ollivier: copertina (e p. 81); Alexis Paoli, OPPIC: pp. 73, 76/77, 86/87; RMN-Grand Palais/JeanGilles Berizzi/Gérard Blot: p. 77; RMN-Grand Palais/ Gérard Blot: p. 80 (alto); RMN-Grand Palais/Michel Urtado: pp. 80 (basso), 83, 84/85, 86, 87, 91 (basso); M. Denancé: p. 82 (alto); Elisa Haberer: p. 82 (basso); RMN-Grand Palais/Jean-Gilles Berizzi: pp. 84, 90; RMN-Grand Palais/Franck Raux: p. 85; Scorpion Dagger/ Oficina: p. 91 (alto) – Doc. red.: pp. 5, 24-27, 30, 31 (basso), 37, 39, 64-71, 78, 107 – Cortesia Archivio di Stato di Modena: pp. 6-8, 9 (sinistra) – Ufficio Media Marco Ferri: p. 9 (destra) – Cortesia degli autori: pp. 10, 11 (alto), 34/35, 40, 44-48, 100, 111, 113 – Mondadori Portfolio: cortesia Everett Collection: p. 29; AKG Images: p. 31 (alto); Index/Heritage Images: pp. 62/63; Album/ Collection/Kharbine Tapabor: p. 108 – Shutterstock: pp. 32-33, 36, 38, 74/75, 110 – Archivio di Stato di Firenze: pp. 41, 42 – Filippo Gennaioli: pp. 52, 55, 56-59 – Museo della Battaglia e di Anghiari: pp. 52/53, 54 (basso) – Cortesia Santuario francescano della Verna: p. 60 – Cortesia Pro Loco Piagge (Terre Roveresche, Pesaro e Urbino): pp. 92/93, 94/95, 96-99, 102-103 – National Gallery of Art, Washington: pp. 104/105 – Alamy Stock Photo: p. 106 – Bridgeman Images: p. 112 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 28, 54, 74, 79 e 95.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito: https://arretrati.pressdi.it In copertina avorio scolpito raffigurante Arianna, dalla valle del Reno. Produzione bizantina, VI sec. Parigi, Museo di Cluny-Museo nazionale del Medioevo.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente speciale

Il tesoro degli Anglosassoni

medioevo nascosto

Sulla montagna del Purgatorio

dossier

Alviano Una dinastia tra impero e papato


amori medievali di Federico Canaccini

Sempre insieme, anche in battaglia

P

rima di essere investito del titolo di duca di Puglia e Calabria, Roberto d’Altavilla era un nobile dedito all’antica prassi normanna del saccheggio. Nel 1047, trentenne, incontra Gerardo di Buonalbergo, nobile normanno anch’egli, che gli offre la mano di sua zia Alberada, portandogli in dote 200 cavalieri per la conquista della Calabria: sembra che in questa occasione gli sia stato dato il soprannome che lo ha fatto passare alla storia come il Guiscardo, cioè l’Astuto. Le due famiglie erano legate da vincoli parentali e quando, nel 1058, il papa rese piú stringenti le leggi canoniche, i due si separarono. Ad accompagnarlo nella sua vita spericolata fu quindi Sichelgaita, sorella dell’ultimo principe longobardo di Salerno, Gisulfo II. Questi, intimorito dalle scorrerie di Guglielmo d’Altavilla, accettò di farla sposare con il Guiscardo, ottenendo in cambio protezione: si trattò di una vera alleanza interfamiliare, dal momento che l’altra sorella, Gaitelgrima, aveva sposato il fratellastro del Guiscardo, Drogone d’Altavilla. Al momento delle nozze, intorno al 1058, Roberto aveva quasi 45 anni, «di statura notevole, tale da superare anche i piú alti, di carnagione accesa, tendente al rosso, capelli di un biondo chiaro, spalle larghe, occhi chiari, sprizzanti fuoco, cosí dotato dalla fortuna, dal fisico e dal carattere, era alieno dall’assoggettarsi a chiunque», scrisse di lui la principessa e storica bizantina Anna Comnena. Sua moglie era una giovane ventiquattrenne, di grande cultura e di caratterre deciso, certamente una donna dalle doti non comuni, che riuscí, se non a domare il marito, almeno a non rimanere completamente in disparte. Nel 1059 organizzò il Concilio di Melfi, riservando al papa un’accoglienza trionfale e ottenendo il perdono per il marito scomunicato. Sichelgaita fu sempre accanto al suo battagliero consorte nei suoi viaggi e nelle sue spedizioni: nel 1072 lo affiancò nella presa di Palermo, ancora in mano agli Arabi; cinque anni piú tardi svolse il delicato ruolo di mediatrice tra il marito e il fratello, quando il Guiscardo pose l’assedio a Salerno, su cui aveva probabilmente puntato sin dall’inizio. Ma il matrimonio tra una principessa longobarda e un normanno non poteva non prevedere almeno una battaglia da combattere assieme: pur avendo forse scoraggiato

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giugno

il marito dal tentare un attacco contro Bisanzio, Sichelgaita gli fu accanto nel 1081 e, durante la battaglia di Durazzo, combattè armata di tutto punto, guidando le truppe del marito: «Quando era vestita con un’armatura completa, la donna era uno spettacolo temibile». Anna Comnena la descrive come «un’altra Pallade, se non addirittura una seconda Atena». Due anni piú tardi era accanto al marito per difendere Gregorio VII dagli uomini di Enrico IV. Roberto riprese la campagna contro Bisanzio e, nel 1085, sempre con la moglie al fianco, stava per sferrare l’attacco contro Cefalonia: in questa occasione, però, Roberto contrasse una febbre violenta, che lo portò rapidamente alla morte, il 17 luglio del 1085. Il cronista Guglielmo Appulo ritrae la moglie al capezzale del marito, con accanto il figlio Ruggero, in lacrime e disperata per la morte improvvisa del marito, del quale fece trasportare le spoglie a Brindisi e poi a Venosa, nella chiesa in cui trovano riposo altri membri della sua casata. Sichelgaita, invece, visse ancora a lungo e morí nel 1090 a Montecassino, dove fu sepolta nella chiesa dedicata a san Pietro. Miniatura raffigurante una coppia imperiale, simbolo del potere temporale, da un Exultet prodotto nelll’Italia meridionale. Seconda meta dell’XI sec. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

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ANTE PRIMA

Ercole, duca mercante RESTAURI • L’Archivio

di Stato di Modena conserva un privilegio di navigazione concesso dall’imperatore Carlo V al signore di Ferrara. Il suo restauro ha permesso di ripercorrere la vicenda della San Giacomo di Galizia, un mercantile a cui fu fatale uscire dalle acque del Mediterraneo...

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iglio di Alfonso I e di Lucrezia Borgia, Ercole II d’Este, fu un duca assai intraprendente. Deciso a trasformare Ferrara, capitale del ducato estense, in una nuova Anversa, aprí il suo Stato ai grandi mercanti del tempo, primi fra tutti gli Ebrei di origine spagnola e portoghese in fuga dalle persecuzioni. Il duca investí parte dei suoi capitali in compagnie commerciali attive nell’importazione di zucchero dalle isole di Madera e da Sao Tomè, nella produzione ed esportazione di panni di lana, sete e altri filati preziosi destinati all’Oriente. Un ulteriore ambito di investimento per il duca Ercole era costituito dalle navi per il trasporto mercantile. Diverse imbarcazioni estensi solcarono le acque del Mediterraneo (e non solo) tra la fine degli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta del Cinquecento. Nel maggio 1541 giunse a Ragusa (attuale Dubrovnik in Dalmazia) un inviato del duca accompagnato dall’armatore Polo di Natale Mattulino, nativo della città dalmata. Quest’ultimo divenne comproprietario – insieme al duca – della nave San Giacomo di Galizia, che In alto il privilegio di navigazione concesso da Carlo V munito di sigillo pendente. 1542. Modena, Archivio di Stato. A sinistra copertina del registro di carico della San Giacomo di Galizia tenuto dallo scrivano di bordo. Modena, Archivio di Stato.

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MEDIOEVO


porec genova

Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

maiorca

la spezia korcela molfetta napoli taranto

bari gallipoli

algeri

da alcuni mesi veniva preparata in un porto dell’isola di Curzola (attuale Korcula) e dotata anche di archibugi e diverse artiglierie. La storia dell’imbarcazione è tornata alla luce grazie al restauro di un privilegio di navigazione conservato presso l’Archivio Segreto Estense. Eccone dunque i capitoli salienti.

I nomi dei marinai L’equipaggio della nave si aggirò tra le 56 unità del settembre 1541 alle 70 dell’aprile 1542 per poi scendere nuovamente a 60 nell’agosto dello stesso anno. Conosciamo i nomi di vari marinai, cosí come alcune delle funzioni che questi svolgevano a bordo: vi erano uno scalco, un barbiere, un bottaro e almeno tre bombardieri (per tale ruolo risultano Pietro de San Malo, Lorenzo di Bruges, Stefano de Marco). Piú di un marinaio era di origine slava, come Francesco Stuliza, Giovanni Cecinovich, Marino di Cattaro. Vi era infine lo scrivano Antonio di Scalzi, contabile della Camera ducale ed è proprio grazie ai registri da lui tenuti che abbiamo ricostruito questa vicenda. La nave si apprestò a lasciare la Dalmazia alla fine di giugno del 1541, diretta verso la Puglia. Nel frattempo, il duca Ercole aveva già ottenuto ben due privilegi di navigazione: uno concesso da papa Paolo III Farnese il

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giugno

La rotta seguita dalla San Giacomo di Galizia nell’anno 1541. 13 maggio 1541 e l’altro, nel giugno dello stesso anno, rilasciato dal re di Francia Francesco I. Grazie a questi privilegi la nave ducale era esentata dal pagamento di dazi, gabelle e imposizioni di ogni sorta nel passare per i porti pontifici e francesi. Volendo poi facilitare il commercio con i regni di Carlo V d’Asburgo, il 10 ottobre 1541 il duca Ercole richiese al suo ambasciatore in Spagna, Girolamo Feruffini, di ottenere dall’imperatore analoghe patenti di navigazione per due navi ducali: «L’una se chiama Santo Jacopo de Gallicia parronizata per Polo di Nadale Raguseo, l’altra si chiama Santa Maria da Loreto». Questa seconda nave fu costruita a Ragusa tra il 1541 e il 1542, per metà proprietà del duca di Ferrara e per metà di Vincenzo Fabri di Ragusa, comandante della nave stessa, nonché genero del già citato Polo di Natale Mattulino. Per le due navi menzionate, l’imperatore Carlo V concesse due distinti privilegi di navigazione, siglati entrambi il 14 luglio 1542 nel castello di Monzòn, in Aragona. La nave giunse a Taranto dove caricò 1800 cantari di biscotto «neto de tara de sachi», cioè tra i 900 e i 1500 quintali di porzioni di pane cotto a uso dei militari. A predisporre la fornitura fu il sovrintendente al porto

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ANTE PRIMA

genova marsiglia

la spezia livorno civitavecchia

barletta napoli

valencia salerno alicante messina

Marco Alagnano per ordine di Scipione de Summa «Vicerè delle Terre d’Otranto e Bari». Furono caricati anche 640 barili di salnitro. Da Taranto la San Giacomo di Galizia fece vela per Napoli dove, il 30 settembre, fu noleggiata dall’«armata de Argiero» per i successivi due mesi, dietro corresponsione di 535 scudi e carlini tre e mezzo al mese. L’ammiraglio Andrea Doria pagò a nome di Carlo V un ulteriore mese di «nolo».

Una spedizione fallimentare La nave seguí poi il convoglio delle navi militari durante tutta l’impresa algerina: Carlo V d’Asburgo, infatti, nel tentativo di replicare il grande successo della conquista di Tunisi nel 1535, aveva deciso di organizzare una grande spedizione navale contro Algeri, uno dei centri della pirateria barbaresca. Questa spedizione, alla quale partecipò anche la San Giacomo di Galizia, si concluse in un disastro clamoroso e l’imperatore stesso rischiò di finire prigioniero. La nostra nave riuscí a salvarsi e, il 16 novembre, raggiunse Maiorca, dove effettivamente una parte dei sopravvissuti dell’armata cesarea fece ritorno dopo il terribile smacco. Da Maiorca la San Giacomo di Galizia giunse prima a La Spezia e poi a Genova. Dopo

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In alto la rotta seguita dalla San Giacomo di Galizia nel 1542. Nella pagina accanto, a sinistra privilegio di navigazione concesso da Francesco I di Francia a favore della nave ducale San Giacomo di Galizia. 1541. Modena, Archivio di Stato. Nella pagina accanto, a destra Salvator Mundi, affresco (trasportato su tela) di Melozzo da Forlí. 1475-1485. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. la partecipazione all’infausta impresa militare la nave si dedicò attivamente al trasporto di grandi quantità di prodotti da un capo all’altro del Mediterraneo. Sempre grazie al suo libro di carico conosciamo i nomi dei mercanti che si servirono del naviglio e le quantità e tipologia delle loro merci. Nel 1542 la San Giacomo compí complessivamente tre grandi spedizioni: la prima da Civitavecchia a Valencia, carica di 1200 salme di frumento. Dalla Spagna, piú precisamente dal porto della Mata (vicino ad Alicante), imbarcò subito dopo un carico di sale «ed altre robe» e fece poi rotta verso Napoli e Salerno, passando per Marsiglia e Livorno. Giunta a Napoli in agosto, avrebbe proseguito verso Barletta e Manfredonia «a carighe de formenti» destinati ancora una volta alla Spagna. Alla giugno

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consegna di ogni carico, la metà del guadagno veniva divisa in parti uguali tra la ciurma, al netto delle spese per il vitto e dei costi sostenuti dalla nave. Per esempio, nel gennaio 1543, il battello giunse a Valencia con un ricco carico di grano proveniente da Barletta. La spedizione fruttò 1673 scudi, dai quali furono scalati 111 scudi di spese di arboraggio. La metà spettante alla ciurma fu calcolata per ciascuno dei 53 marinai a bordo in quel momento in 14 scudi e 8 carlini. Tolte le spese di vitto e il salario per il barbiere, a ciascun marinaio rimanevano in tasca soltanto 8 scudi, 3 carlini e 7 grani.

Il letto di Madonna Isabella Tra le molte cose che la nave si trovò a trasportare non vi furono solamente olio, lana, frumento, vino e formaggio. Troviamo annotato nel libro di carico il pagamento di 14 scudi d’oro per un semplice passaggio concesso a un «Cavagliero» con quattro servitori da Messina ad Alicante. Madonna Isabella del Papa fece

invece trasportare il proprio letto insieme a sei bauli da Messina a Napoli per il prezzo di 8 scudi. Ripartita verso Genova carica di vino e lana, nell’aprile del 1543 la San Giacomo di Galizia fu nuovamente noleggiata da Andrea Doria «per andare a levare Sua Cezaria Maistà in Roze e tornare fino in Genoa». Evidentemente una parte del numeroso seguito di Carlo V (circa 500 persone) nel suo viaggio verso l’Italia si serví del legno estense. Il principe Doria pagò per il servizio piú di 800 scudi d’oro. Alla fine di novembre del 1543, la San Giacomo di Galizia fu nuovamente presa a nolo da alcuni mercanti per Londra con un carico di vino e di olio. Dopo la data del 29 novembre 1543 le annotazioni sui registri si fanno assai piú rade. Certamente accadde qualcosa di inaspettato e catastrofico, il 12 marzo 1544, in un punto imprecisato lungo la rotta verso l’Inghilterra. Si trattò con ogni probabilità di una tempesta che dovette ridurre la nave a mal partito. Informato, il duca decise di metterla in vendita. Nel dicembre di quell’anno, a bordo della San Giacomo di Galizia, ormai in attesa di essere venduta a Londra, vi erano ancora 53 persone. Alberto Palladini

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giugno

Uomini illustri a confronto N

el sesto centenario della nascita di Federico da Montefeltro, la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino presenta, a partire dal prossimo 23 giugno, la grande mostra «Federico da Montefeltro e Francesco di Giorgio: Urbino crocevia delle arti (1475-1490)», che riunisce 80 opere – tra pitture, sculture, disegni, medaglie, affreschi staccati e codici –, un terzo delle quali provenienti dall’estero. L’esposizione propone un viaggio attraverso un periodo cruciale sia per Urbino e la sua corte, sia per la storia dell’arte italiana, che a quegli anni deve molto. Il percorso espositvo si articola in sette sezioni, che spaziano dall’epoca in cui Francesco di Giorgio viene incaricato del ruolo di «architettore» del duca, assumendosi le funzioni anche di soprintendere ai lavori strutturali e decorativi per la fabbrica del palazzo ducale, nel nome del quale si snodano anche gli approfondimenti conclusivi. Nel mezzo, come ha dichiarato Luigi Gallo, Direttore della Galleria Nazionale delle Marche, c’è spazio per documentare come il duca Federico avesse saputo «trasformare Urbino in una capitale del Rinascimento: alla sua corte si incontrarono artisti e letterati di estrazione e provenienza diversa, le cui reciproche influenze generano un clima culturale che si ripercuoterà nei decenni a venire. Quell’ambiente, che vide incontrarsi pittori come Piero della Francesca, Giusto di Gand, Pedro Beruguete e Luca Signorelli, gli architetti Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini e Donato Bramante, fu l’humus dal quale fiorì la genialità di Raffaello e sul quale, Baldasar Castiglione, plasmò il Cortegiano». (red.) DOVE E QUANDO

«Federico da Montefeltro e Francesco di Giorgio: Urbino crocevia delle arti (1475-1490)» Urbino, Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino al 9 ottobre (dal 23 giugno) Info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

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ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

C «C

ON-SENSO» è il tema della XXIV edizione del Festival del Mondo Antico. Antico/ Presente di Rimini dal 6 al 31 luglio. In programma lezioni magistrali, presentazioni di libri, conferenze e tavole rotonde, spettacoli, esposizioni, visite guidate, ricostruzioni storiche, giochi e laboratori dedicati ai piú giovani. L’inaugurazione con Giovanni Brizzi e Gino Bandelli, sui simboli del consenso tra antico e moderno, sarà dedicata a Marcello Di Bella ideatore del festival, recentemente scomparso. Tra i protagonisti: Maurizio Bettini, Ivano Dionigi, David Ekserdjian, Francesco Filippi, Maria Giuseppina Muzzarelli, Paolo Rumiz, Giovanni Sassu, Giovanni C.F. Villa. Il festival è organizzato dal Comune di Rimini – Assessorato alla Cultura

DOVE E QUANDO

«CON-SENSO» XXIV Festival del Mondo Antico. Antico/Presente Rimini dal 6 al 31 luglio. » Info tel. 0541 793851; https://antico.comune.rimini.it/

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- Musei Comunali con la Regione Emilia-Romagna e la Società editrice «Il Mulino», in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Ravenna, Forlí-Cesena e Rimini.

Il controllo delle apparenze Anticipiamo parte dell’intervento «Il consenso nel Medioevo» di Maria Giuseppina Muzzarelli, in programma il 15 luglio. «Governare in tutti i tempi è faccenda tutt’altro che semplice, implica concedere e insieme limitare, coinvolgere o escludere e marginalizzare. Anche le apparenze possono essere utili nell’assicurare e conservare il consenso, favorendo le categorie sul cui appoggio si conta. In una società come quella medievale e moderna, la regolamentazione di abiti e accessori era strumento di governo. Tutte le aree d’Italia, e non solo, hanno emanato leggi suntuarie ininterrottamente dalla seconda metà del XIII secolo fino all’età moderna avanzata: le grandi città, ma anche i centri minori. A seconda del reggimento politico e dell’evoluzione della società e delle produzioni, sono cambiate le concessioni o le limitazioni e sono cambiati i gruppi sociali ai quali si ponevano limiti o si facevano concessioni nel modo di vestire. L’oro, per esempio, pur essendo di norma vietato, veniva accordato in forme e dosi limitate (nei tessuti, bottoni, ricami o gioielli) ai cavalieri e alle loro dame, ma le concessioni potevano riguardare anche gruppi piú estesi (le donne degli appartenenti alle arti maggiori o mediane) per assicurarsi il loro consenso. Anche la lunghezza dello strascico o la larghezza giugno

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A destra figura femminile, particolare degli affreschi di Castel Roncolo (Bolzano). XIV sec. Nella pagina accanto il Ponte di Tiberio a Rimini utilizzato come supporto di un videomapping in occasione di una delle passate edizioni del Festival del Mondo Antico.

delle maniche era oggetto di disciplinamento. Questo insieme di regole serviva a riconoscere l’appartenenza alle diverse categorie sociali e a mantenere ciascuno nel posto stabilito dai governanti: una costruzione gerarchica che abiti e accessori contribuivano a rendere visibile e a conservare. In caso di mancato rispetto, la multa applicata serviva anch’essa a governare. I legislatori colpivano le apparenze femminili piú di quelle maschili, limitando esibizioni che interessavano l’intera famiglia e il gruppo di appartenenza delle donne, ma lasciavano piú liberi gli uomini di mandare messaggi sul loro privilegio sociale e ricchezza. Ma chi aveva investito un autentico capitale in una veste di broccato foderata di pelli di vaio e ornata di fili d’oro e bottoni d’argento dorato (del valore di un appezzamento di terreno) vi avrebbe rinunciato? Per evitare resistenze, venne ideato il sistema della denuncia degli abiti: pagata una tassa e apposto un bollo, potevano essere indossati. E gli elenchi delle vesti denunciate sono giunti fino a noi. È il caso di Rimini nel 1573: la donna per portare le tre vesti che la normativa consentiva, in seta, oro, perle o ornamenti preziosi, “doveva darne polizze o liste per mano delli mariti per le mogli, delli padri per le figliuole”. Fra le funzioni delle vesti dobbiamo dunque considerare anche quella di assicurare e mantenere il consenso dosando seta e oro, misurando o meglio commisurando allo status la lunghezza dello strascico o l’altezza del bordo di pelliccia e utilizzando abiti e accessori come parole di un vocabolario del privilegio e della distanza sociale». (red.)

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giugno

Come al tempo del valoroso Braccio T

orna, dal 9 al 12 giugno, «Perugia 1416», rievocazione storica che per tre giorni riporta il centro storico del capoluogo umbro al tempo del Medioevo e del Rinascimento. L’evento ripercorre, in particolare, gli avvenimenti del 1416, quando il valoroso condottiero Braccio Fortebracci, vittorioso nella battaglia di Sant’Egidio, il 12 luglio rientrò nella sua città dopo lungo esilio, accolto dalla Reggenza che gli consegnò le chiavi della Città e tributò copiosi festeggiamenti. Braccio prese il governo di Perugia, iniziando cosí la sua Signoria de facto, che portò pace e buongoverno in una Perugia protagonista del suo sogno, breve e incompiuto, di un regno italico di cui sarebbe dovuta essere capitale… L’evento coinvolge i cinque Rioni cittadini – Porta Sant’Angelo, Porta San Pietro, Porta Santa Susanna, Porta Eburnea, Porta Sole – ciascuno con il proprio colore e la propria effigie. Protagonisti i Rionali di ogni età, bambini e ragazzi affascinati da dimostrazioni di vita medievale, storie e cantastorie, trampolieri e mangiafuoco, artigiani di antichi mestieri che battono l’antica moneta perugina, forgiano armi, tessono e dimostrano, sfide a duello di scherma medievale, danze e canti, musici, sbandieratori, tamburini e arcieri. Info: www.perugia1416.com (red.)

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ANTE PRIMA

Valorizzare il patrimonio sotterraneo L

a BMTA, in occasione della XXIV edizione dal 27 al 30 ottobre 2022 a Paestum, presenterà nel ricco programma un progetto di valorizzazione del patrimonio archeologico sotterraneo, facendo leva sugli stakeholder delle destinazioni di interesse, in quanto attori primari per individuare contenuti e strumenti di una offerta contrassegnata da bellezza, unicità, percorsi emozionali, sostenibilità, dove città e territori sono protagonisti. In questo contesto la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, per il tramite delle Regioni protagoniste, l’Ufficio Nazionale per i Beni culturali ecclesiastici della CEI Conferenza Episcopale Italiana e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra saranno invitate proprio a farsi promotori del progetto di valenza interregionale. A sostegno di quanto sopra, non solo alcune Regioni dal 2000 in poi hanno sottoscritto protocolli con le rispettive Conferenze Episcopali in materia di valorizzazione, conoscenza, tutela, godimento e fruizione di beni culturali ecclesiastici o di interesse religioso presenti

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Una galleria della catacomba di Priscilla, a Roma.

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nei loro territori, ma nel 2017 è stato condiviso a livello nazionale un protocollo di intesa tra la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome e la CEI per «massimizzare le sinergie e la collaborazione a livello sia nazionale che regionale, attraverso la definizione di politiche e iniziative concertate, finalizzate alla conoscenza e valorizzazione del patrimonio ecclesiastico e allo sviluppo del turismo religioso, nel pieno rispetto della tutela del patrimonio e delle esigenze proprie dei luoghi oggetto di culto e dei riti sacri ivi compiuti, delle feste e delle tradizioni religiose». L’eventuale partecipazione al progetto anche del Ministero della Cultura (la collaborazione in tema di salvaguardia e di valorizzazione è sancita dall’intesa del 2005 tra il Ministero dei Beni e Attività Culturali e la Conferenza Episcopale Italiana) e del Ministero del Turismo in collaborazione con l’ENIT sarà un valore aggiunto per una condivisione ampia e protesa allo sviluppo di nuove destinazioni, dove esperienza e narrazione saranno i principali contenuti di politiche di marketing locali volte a indirizzare nuove strategie turistiche. Invece, il Touring Club Italiano, che ha dedicato a 200 luoghi sorprendenti e in gran parte sconosciuti la guida «Meraviglie sotterranee», al fine di favorire un percorso di miglioramento dei territori potrebbe realizzare un programma di certificazione degli itinerari, alla stregua di quanto fatto per i «Cammini e Percorsi», oltre che dare un apporto mediatico notevole per il bacino di utenza e di rete territoriale che rappresenta. Il valore culturale dell’iniziativa trova fondamento nelle significative parole del Cardinale Ravasi, artefice del progetto «Catacombe d’Italia» a cura della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra: «In quegli spazi il visitatore, anche non credente o di altre fedi, diventa simile a un pellegrino, che scopre meraviglie architettoniche e artistiche, incontra storie di famiglie dei primi secoli cristiani. Per questo le catacombe non sono tristi bassi fondi oscuri, ma sono un mondo segreto che si apre al pellegrino e al turista con tutta la bellezza, la fede e la memoria di tante persone che hanno creduto in Cristo e nella sua parola di speranza. E l’hanno testimoniato attraverso queste vere e proprie meraviglie che ci parlano e vivono ancor oggi sotto il frastuono della nostra esistenza quotidiana». Agli operatori turistici il compito di esserne ambasciatori e di promuoverne la narrazione, offrendo un nuovo modo di viaggiare in totale coerenza con gli attuali trend della domanda, valorizzando le buone pratiche già in atto che vedono le Diocesi protagoniste, come a Perugia e Siracusa, in un percorso in comune con agenzie di viaggio e tour operator. giugno

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

e rinnovamenti che hanno segnato la sua esistenza. info https://palazzoducale. visitmuve.it; facebook visitmuve ducalevenezia; twitter visitmuve_ it, visitmuve_en, ducalevenezia;

PISTOIA MEDIOEVO A PISTOIA. CROCEVIA DI ARTISTI FRA ROMANICO E GOTICO Antico Palazzo dei Vescovi e Museo Civico fino all’8 maggio

In occasione dell’anno Iacobeo, l’esposizione illustra, per la prima volta, lo straordinario panorama delle arti a Pistoia dal XII agli inizi del XV secolo e documenta il ruolo di primo piano assunto dalla città nel campo delle arti figurative. Pistoia godeva della presenza di committenti illuminati, in grado di attrarre figure quali Guglielmo (uno dei piú famosi scultori attivi nel duomo di Pisa) e Guido da Como, e poi Nicola e Giovanni Pisano, che lasciarono capolavori fondanti della storia dell’arte italiana. Fa da specchio a questi importanti episodi di scultura la piú imponente delle opere di oreficeria, ideale sigillo della mostra: l’altare di san Jacopo, che attesta Pistoia come snodo di ricezione per le arti suntuarie. Anche la miniatura visse un periodo di grande vivacità, testimoniata alla fine del Duecento dall’attività della bottega del Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, la piú importante in Toscana, e nel Quattrocento dalle eleganze lineari e dalla preziosità decorativa delle illustrazioni eseguite dal Maestro della Cappella Bracciolini nella Divina Commedia conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel Trecento Pistoia offre in campo pittorico un panorama variegato di personalità e tendenze culturali, e la presenza di artisti del calibro di Lippo di Benivieni, Taddeo Gaddi e Niccolò di Tommaso la colloca in una posizione di primo piano,

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instagram visitmuve ducalevenezia

MILANO TIZIANO E L’IMMAGINE DELLA DONNA NEL CINQUECENTO VENEZIANO Palazzo Reale fino al 5 giugno

A Venezia nel Cinquecento l’immagine femminile acquista un’importanza forse mai vista prima nella storia della pittura. Questo è dovuto a vari fattori, quali la presenza di Tiziano e di altri ribadita dalla Maestà e angeli di Pietro Lorenzetti proveniente dagli Uffizi, uno dei prestiti piú prestigiosi della mostra, sottoposto a restauro per l’occasione. info tel. 0573 974267; e-mail: info@pistoiamusei.it; www.fondazionepistoiamusei.it VENEZIA VENETIA 1600. NASCITE E RINASCITE Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 5 giugno

«L’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedí Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fú dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...»: il mito di Venezia sta anche nella leggenda della sua fondazione, raccontata cosí nel Chronicon Altinate (XI-XII secolo) e coincidente con la posa della prima pietra della chiesa di S. Giacometo a Rivoalto il giorno dell’Annunciazione alla Madonna. Una leggenda che,

tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise insieme racconti che si erano intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del valore di Venezia: città eletta da Dio. Che ora celebra i suoi 1600 anni anche con una mostra messa in scena nel luogo simbolo del potere e della gloria della Serenissima: il Palazzo dei Dogi in piazza San Marco. L’esposizione racconta – attraverso oltre 250 opere d’arte, manufatti antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno segnato la storia di Venezia, scegliendo un punto di vista inedito, cioè quello degli innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle altrettante rigenerazioni

artisti operanti sia a Venezia che in terraferma, particolarmente interessati alla raffigurazione della bellezza muliebre, ma anche, parallelamente, al particolare status che le donne avevano nella società veneziana. La struttura portante dell’esposizione affronta

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dunque un argomento eternamente valido ma anche completamente nuovo, presentando l’immagine femminile attraverso tutto l’ampio spettro delle tematiche possibili e nel contempo mettendo a confronto gli approcci artistici individuali tra Tiziano e gli altri pittori del tempo. Partendo dal tema del ritratto realistico di donne appartenenti a diverse classi sociali, passando a quello fortemente idealizzato delle cosí dette «belle veneziane» si incontrano via via celebri eroine e sante, fino ad arrivare alle divinità del mito e alle allegorie. Sono circa un centinaio le opere esposte, di cui 46 dipinti, 15 di Tiziano – per lo piú prestati dal Kunsthistorisches Museum di Vienna –, a cui si aggiungono sculture, oggetti di arte applicata come gioielli, una creazione omaggio di Roberto Capucci a Isabella d’Este (1994), libri e grafica. info www.palazzorealemilano.it MANTOVA MICHELANGELO: I BRONZI DELLA PASSIONE Palazzo Ducale fino al 15 giugno

Filo conduttore della mostra sono tre sculture in bronzo raffiguranti Cristo crocifisso e i due ladroni: eseguite da un ignoto scultore lombardo, le opere derivano senza dubbio da disegni e modelli del «divino» artista toscano e il breve ma accurato percorso espositivo ne illustra l’articolata vicenda, misurando l’influenza di Michelangelo nell’ambiente mantovano. Alcuni disegni antichi, realizzati a Mantova nel 1582, attestano infatti il passaggio di modelli di Michelangelo nella città dei

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espositivo proposto dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlí è dedicato a un grande mito femminile della nostra storia, una figura misteriosa e travisata: Maria Maddalena. A lei l’arte, la letteratura, il cinema hanno dedicato centinaia di opere e di eventi. L’arte soprattutto, ponendola al centro della propria produzione e dando

Gonzaga. Le figure magistralmente modellate nella materia rappresentano, come detto, Cristo e i due ladroni crocefissi sul Golgota: questo tema iconografico viene definito «Calvario», dal nome latino della collina appena fuori dalle mura di Gerusalemme su cui, secondo la narrazione dei Vangeli, salí Gesú per esservi crocifisso. L’opera, appartenuta all’inizio dell’Ottocento all’artista neoclassico Giuseppe Bossi, è conservata nelle Raccolte di Arte Applicata del Castello Sforzesco a Milano. Ora, grazie al prestito, si può ammirarla (fino al 15 giugno) all’interno dell’allestimento progettato nell’Appartamento Ducale, lungo il percorso di Corte Vecchia. info www.mantovaducale. beniculturali.it FORLÍ MADDALENA. IL MISTERO E L’IMMAGINE Musei San Domenico fino al 10 luglio

Il nuovo appuntamento

LORETO (ANCONA) SULLE ORME DI SAN MICHELE ARCANGELO PELLEGRINI E DEVOTI NELL’ARTE DA CRIVELLI A CARAVAGGIO Bastione Sangallo fino al 13 luglio

Ha preso il via a Loreto un progetto espositivo itinerante – le cui tappe successive saranno Ascoli Piceno e Senigallia – per approfondire il tema del pellegrinaggio attraverso opere che spaziano dal Medioevo al Seicento, seguendo un percorso all’insegna dei luoghi di culto di san Michele Arcangelo. I pellegrini e i devoti che in grande numero percorrevano gli itinerari di fede europei sono stati piú volte rappresentati dagli artisti che ne hanno messo in evidenza le particolarità

vita a capolavori che segnano, lungo la trama del tempo, la storia dell’arte stessa e i suoi sviluppi. Ma chi era davvero la Maddalena? E perché si è generata e sviluppata quella confusa, affascinante sequenza di rappresentazioni che hanno portato alla costruzione della sua sfaccettata identità? Attraverso alcune delle piú preziose e affascinanti opere d’arte a lei dedicate, l’esposizione indaga il mistero irrisolto di una donna di nome Maria che ancora inquieta e affascina. Le sale del San Domenico ospitano 200 opere tra le piú significative, dal III secolo d.C. al Novecento, suddivise in 11 sezioni, in un percorso espositivo che ricomprende pittura, scultura, miniature, arazzi, argenti e opere grafiche e che si snoda attraverso i piú grandi nomi di ogni epoca. info tel. 0543 1912 030-031033; e-mail: mostre@ fondazionecariforli.it

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AGENDA DEL MESE dell’abbigliamento, con i segni caratteristici dell’avvenuto pellegrinaggio che consentiva di riconoscerli. I santi invocati durante il percorso, come san Rocco e san Giacomo Maggiore, venivano dunque effigiati dagli artisti con le vesti tipiche dei pellegrini al pari dei santi che nel Medioevo avevano portato la parola di Cristo in luoghi lontani e pericolosi, come san Giacomo della Marca raffigurato sempre con il bordone. A Loreto, dove non a caso inizia questo percorso espositivo, il santuario mariano venne riconosciuto nel 1520 come centro di pellegrinaggio universale al pari di Gerusalemme, Roma e Santiago di Compostela, richiamando cosí fedeli da tutto il mondo. La mostra vuole rendere omaggio a questo particolare legame e attingendo a un ricco patrimonio iconografico si è selezionato un nucleo di opere, in un percorso tematico che mette in risalto alcuni elementi particolari, come l’abito

caratteristico dei pellegrini e le insegne esibite per certificare di aver intrapreso il viaggio verso i remoti luoghi santi. Si tratta per la maggior parte di opere provenienti dalle collezioni civiche marchigiane, dove non mancano capolavori di autori come Antonio da Fabriano, Carlo Crivelli, Pietro Alamanno, Guercino, Francesco Guerrieri, Pietro Liberi e Ferdinand Voet che tra il XV e il XVII secolo hanno testimoniato questo fenomeno di culto, dedicando le rappresentazioni soprattutto a san Giacomo Maggiore e san Rocco, patroni dei pellegrini, e illustrando l’abbigliamento tipico dei devoti sia prima che dopo il periodo della Controriforma. info tel. 071 977748 e 071 7505638; www.comune.loreto.an.it PARMA I FARNESE. ARCHITETTURA, ARTE, POTERE Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31 luglio

A venticinque anni dall’ultima esposizione sul tema, il Complesso Monumentale della Pilotta ospita una grande rassegna dedicata alla committenza della famiglia Farnese, con l’obiettivo d’indagare la straordinaria affermazione della casata nella compagine politica e culturale europea dal Cinque al Settecento, attraverso l’utilizzo delle arti come strumento di legittimazione. Tra i prestiti, un nucleo di circa 200 disegni di architettura presenta, insieme a modelli, elaborazioni grafiche e filmati, il quadro complessivo dell’architettura farnesiana dal

punto di vista storico, urbano e territoriale, mettendo in rilievo la relazione tra questa disciplina e l’affermazione dinastica in termini di prestigio, espansione e visionarietà della committenza. E poi capolavori della pittura – tra i quali spiccano opere di Raffaello, Tiziano Vecellio, Francesco Mazzola «il Parmigianino», El Greco e Annibale Carracci – e una selezione di oggetti provenienti dal Gabinetto delle Cose Rare del Museo e Real Bosco di Capodimonte, tra cui la Cassetta Farnese, insieme alla Tazza Farnese dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, alle monete e medaglie del Complesso Monumentale della Pilotta e ai pezzi della Collezione Gonzaga di Guastalla confluiti nella collezione Farnese, permetteranno di ricostruire una camera delle meraviglie rinascimentale. info tel. 0521 220400; www.complessopilotta.it FIRENZE DONATELLO, IL RINASCIMENTO Palazzo Strozzi

MOSTRE • Nel segno di Raffaello. Disegni del Torino – Musei Reali, Biblioteca Reale

fino al 17 luglio info https://museireali.beniculturali.it

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sito di un progetto avviato in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, la mostra ripercorre circa settant’anni di storia del disegno italiano, a partire da Perugino, il maestro da cui il giovane Sanzio riceve il battesimo artistico, passando per la bottega romana, nella quale l’Urbinate, all’apice del suo successo, diventa un polo di attrazione e un modello di stile per un’intera generazione di artisti – Giulio Romano, Parmigianino, Peruzzi, Polidoro da Caravaggio, Baccio Bandinelli, Girolamo da Carpi – che da Roma prenderanno strade diverse, diffondendo in tutta l’Italia la lezione del maestro urbinate. I disegni sono forme d’arte di particolare fascino, perché danno accesso alla dimensione piú intima di un artista, testimoniano il processo creativo e formativo di un autore, diversamente da altre, si basano sull’utilizzo di poche tecniche, spesso un unico medium su una piccola porzione di carta bianca. Questa essenzialità conferisce loro una particolare forza

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formidabili invenzioni plastiche e scultoree. Conclude il percorso una sezione speciale dedicata all’influenza di Donatello sugli artisti a lui successivi, tra cui Raffaello, Michelangelo e Bronzino, testimoniando cosí l’importanza capitale della sua opera per le vicende dell’arte italiana. info www.palazzostrozzi.org; www.bargellomusei.beniculturali.it

e Museo Nazionale del Bargello fino al 31 luglio

Il progetto espositivo nasce come celebrazione del grande maestro, puntando ad allargare la riflessione su questo artista rivoluzionario nei materiali, nelle tecniche e nei generi. Scultore supremo del Quattrocento – tra i secoli d’oro dell’arte italiana – e prediletto della famiglia Medici, insieme a Brunelleschi e Masaccio, Donatello diede il via alla straordinaria stagione del Rinascimento, proponendo nuove idee e soluzioni figurative che hanno segnato per sempre la storia dell’arte occidentale. Attraverso le sue opere Donatello rigenera l’idea stessa di scultura, con una potenza di visione unica in cui unisce le scoperte sulla prospettiva e un concetto totalmente moderno di umanità. La dimensione umana dell’arte di Donatello abbraccia in tutta la loro profondità le piú diverse forme delle emozioni, dalla dolcezza alla crudeltà, dalla gioia al dolore piú straziante. Distribuita su due sedi, Palazzo Strozzi e

CASTELSEPRIO (VA) Parco Archeologico e Antiquarium

GONATE OLONA (VA) Monastero di Torba TRAME LONGOBARDE. TRA

Museo Nazionale del Bargello, la mostra riunisce circa 130 opere tra sculture, dipinti e disegni con prestiti unici, alcuni dei quali mai concessi prima, e propone un viaggio attraverso la vita e la fortuna di Donatello articolato in quattordici sezioni. Si inizia dagli esordi e dal dialogo con Brunelleschi, proponendo il confronto tra i due celebri Crocifissi lignei provenienti dalla Basilica

di Santa Croce e da quella di S. Maria Novella. Si procede poi attraverso i luoghi per cui Donatello ha lavorato (Siena, Prato e Padova, oltre a Firenze), trovando moltissimi seguaci, entrando in dialogo con altri celebri artisti molto piú giovani quali Mantegna e Bellini, e sperimentando nei materiali piú diversi le sue

Rinascimento italiano dalle collezioni della Biblioteca Reale

espressiva, i disegni rivelano l’essenza della mano e della mente che li ha prodotti, ma la lettura del messaggio può risultare meno immediata rispetto ad altre opere d’arte. Per questo la mostra presenta un ricco apparato didascalico, con grandi pannelli contenenti anche immagini di confronto con opere possedute da altri musei, per accompagnare il visitatore alla scoperta dell’articolato mondo della tradizione disegnativa rinascimentale fatta di citazioni, di copie e di studi per altre opere.

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AGENDA DEL MESE ARCHITETTURA E TESSUTI fino al 31 luglio

Partendo da un lavoro che ha intrecciato insieme dati scientifici e ricostruzioni plausibili, la mostra-dossier propone un’accurata lettura delle tecniche antiche di tessitura attraverso la ricostruzione di tessuti, abiti e telai verosimilmente in uso tra VI e VIII secolo d.C. La ricostruzione dei tessuti e degli abiti, in particolare, rappresentano il filo conduttore che ci porta a conoscere piú da vicino il popolo longobardo partendo da quelli che erano gli oggetti e i manufatti che sono parte integrante della vita quotidiana. Tutti gli abiti sono stati realizzati per una metà con tessuti fatti rigorosamente a mano su telai orizzontali a licci riproducendo il numero dei fili di ordito e trama presenti al centimetro, nonché lo spessore degli stessi fili e le torsioni. Considerando che verosimilmente tali tessuti venivano realizzati da donne in ambito domestico, sono state ipotizzate delle altezze del tessuto abbastanza ridotte e compatibili con telai verticali, a pesi o a doppio subbio, utilizzati nel periodo di riferimento. L’altra metà degli abiti è stata realizzata impiegando una tela di cotone industriale proprio per sottolineare che il modello dell’abito riproposto è il frutto di contaminazioni scientifiche e di elaborazioni dei curatori. info www.antiquarium. castelseprio.beniculturali.it; www.fondoambiente.it LONDRA RAFFAELLO The National Gallery fino al 31 luglio

Programmata per il 2020, nel cinquecentenario della morte dell’artista, ma rinviata a

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SANGUE COSTA Museo dell’Opera del Duomo, sala della Tribuna di Michelangelo fino al 1° agosto

causa delle restrizioni imposte dalla pandemia innescata dal Covid-19, apre finalmente i battenti la grande mostra su Raffaello voluta dalla National Gallery. Si tratta di una delle piú ricche rassegne mai dedicate al maestro urbinate, del quale viene documentato lo straordinario eclettismo, che gli permise di eccellere come pittore, ma anche come disegnatore, architetto e «archeologo». Nella sua breve carriera – l’artista, morto a soli 37 anni, fu attivo per poco piú di un ventennio – Raffaello fu capace di segnare una svolta decisiva nella storia dell’arte universale, ma non solo, poiché la sua opera contribuí a rimodellare il volto dell’intera cultura occidentale. Ed è proprio questo l’aspetto che la mostra, attraverso una selezione di poco meno di 100 opere, intende evidenziare, proponendo un percorso espositivo di tipo cronologico, che dalle prime esperienze compiute a Urbino e nelle Marche si snoda tra Firenze e Roma, città che decretarono la consacrazione del pittore. info www.nationalgallery. org.uk FIRENZE LE TRE PIETÀ DI MICHELANGELO. NON VI SI PENSA QUANTO

Vengono per la prima volta messe a confronto l’originale della Pietà Bandini, di cui è da poco terminato il restauro, e i calchi della Pietà Vaticana e della Pietà Rondanini provenienti dai Musei Vaticani. Collocate una vicina all’altra, le tre Pietà offrono l’opportunità di vedere l’evoluzione dell’arte di Michelangelo, nonché la sua maturazione spirituale, dalla prima giovinezza – quando a Roma scolpí per la Cappella dei Re di Francia nell’antica S. Pietro l’opera ora nella navata laterale nord della basilica – alla sua ultima stagione, quando, ormai vecchio, mise mano alla Pietà oggi a Firenze e poi alla Pietà Rondanini conservata a Milano. Si tratta di un percorso lungo piú di cinquant’anni, che conduce dall’ambizione del giovane che scolpí il proprio nome sul petto della Madonna della versione vaticana all’immedesimazione personale dell’anziano artista, che, in quella del Museo dell’Opera, raffigura se stesso

nelle sembianze di Nicodemo. Vicino alla propria morte, Michelangelo meditava profondamente sulla Passione di Cristo, come egli stesso fece capire in un coevo disegno della Pietà, donato alla marchesa di Pescara Vittoria Colonna, dove scrisse la frase dantesca: «Non vi si pensa quanto sangue costa» (Paradiso XXIX, 91). Risultato sublime di questa meditazione spirituale fu l’esecuzione della Pietà Rondanini, la cui estrema bellezza rifulge nel tramonto della figura. info https://duomo.firenze.it MARSIGLIA LA GIOCONDA. ESPOSIZIONE IMMERSIVA Palais de la Bourse fino al 21 agosto

Qual è il motivo (o il segreto) della popolarità di cui gode la Gioconda, il dipinto senza dubbio piú conosciuto al mondo? Da questo interrogativo, all’apparenza semplice, è nato il progetto espositivo che si è ora tradotto nella mostra immersiva presentata a Marsiglia, il cui obiettivo è quello di far comprendere le ragioni del mito e, soprattutto, di far conoscere il dipinto per quel che è effettivamente, al di là dei presunti misteri e dei luoghi comuni. Una riscoperta del capolavoro leonardesco che si avvale di storie narrate ed esperienze sensoriali organizzate su differenti livelli. Vengono per esempio illustrati i luoghi nei quali il maestro ambientò il celebre ritratto e altre opere celebri – come la Vergine delle rocce – e il contesto storico e culturale in cui maturò la realizzazione del quadro. E c’è spazio anche per ripercorrere la fortuna moderna della Gioconda, nonché le traversie di cui fu involontaria giugno

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Negli ultimi anni, la storia che ha legato Verona a uno dei suoi pittori piú affascinanti e rappresentativi si è arricchita di nuove testimonianze e significati, il primo dei quali ci viene dal gesto generoso di cittadini veronesi a favore dell’artista e del Museo di Castelvecchio. Nel 2019, infatti, è giunta alla Pinacoteca del Museo, in dono dalla famiglia Arvedi, la splendida Veritas filia Temporis (La Verità è figlia del Tempo), una grande tela ottagonale che decorava in origine la volta dello studiolo privato del gentiluomo

protagonista, prima fra tutte il furto di cui fu vittima nel 1911. Si tratta dunque di una mostra ricca di contenuti, che ha il suo punto di forza nell’altrettanto ricco apparato di supporti multimediali. info www.grandpalais.fr MILANO MEDIOEVO. STORIA, STORIE E MITO A FUMETTI Museo del Fumetto, dell’Illustrazione e dell’Immagine animata fino al 18 settembre

Il termine Medioevo, inteso come età di Mezzo, viene inventato nel Rinascimento e agli occhi dei sapienti di quel tempo, si era trattato di un lungo periodo di decadenza, tra le meraviglie dell’antichità e le nuove che sarebbero sicuramente arrivate. Ma non fu cosí! In un periodo di 1000 anni, accadde davvero di tutto e molti di quegli eventi hanno ispirato fumettisti, artisti, ma anche registi e scrittori, imponendosi come un tassello fondamentale del nostro immaginario e della nostra storia. Fumetto, illustrazione e cinema d’animazione hanno avuto un ruolo fondamentale, parlando ai giovani lettori, talvolta ingannandoli, talvolta istruendoli, ma sempre con grandi immagini magnifiche di castelli, dame, armi, qualche mago e strega di troppo, e cavalieri a catturare l’attenzione. La mostra racconta attraverso tavole originali a fumetti, riproduzioni di armi e armature, manifesti, e molto altro un periodo storico fondamentale, sia attraverso i punti fondamentali che permettono di comprendere meglio un

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progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato»

millennio di storia, sia attraverso i miti e le leggende ancora amatissime ai giorni nostri, dal Sacro Graal a re Artú fino a Robin Hood passando, ovviamente, per il falso mito della terra piatta. info tel. 02 49524744; www.museowow.it VERONA CAROTO E LE ARTI TRA MANTEGNA E VERONESE fino al 2 ottobre

Gli spazi monumentali del Palazzo della Gran Guardia accolgono la prima mostra dedicata interamente a Giovan Francesco Caroto (1480 circa1555), con oltre 100 opere provenienti da alcune delle piú prestigiose collezioni italiane e internazionali, che documentano l’evoluzione del grande pittore, seguendolo dagli esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista. Attraverso una serie di restauri sostenuti per l’occasione e un’estesa campagna di analisi diagnostiche, l’esposizione diventa anche l’occasione per approfondire la conoscenza dell’operatività tecnica del pittore e degli interventi che nel corso del tempo hanno interessato le sue creazioni.

e intellettuale veronese Giulio Della Torre, e che ora costituisce uno dei punti focali del percorso. Da segnalare anche la presenza della Madonna della farfalla, un’opera fra le piú belle e famose del pittore. Si tratta di un lavoro giovanile, un dipinto eseguito a olio su tavola, risalente agli anni 1510-1515 e al clima stilistico dell’esperienza a fianco di Mantegna e a contatto con la cultura mantovana e leonardesca. info www.mostracaroto.it TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile 2023

La mostra si inserisce nel

introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al

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AGENDA DEL MESE centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio 2023

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione

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romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it

Appuntamenti NEPI (VT) PALIO DEI BORGIA fino al 19 giugno

Il Palio dei Borgia di Nepi riconduce il borgo all’epoca del Rinascimento, con protagoniste indiscusse la controversa figura di Lucrezia Borgia e l’antica rivalità, mai

sopita, fra le quattro Contrade di San Biagio, de La Rocca, di Santa Maria e di Santa Croce. Nella Sala Consiliare del Palazzo del Comune è allestita la mostra «I tesori del Palio», per le vie del paese sfilerà il corteo storico, in piazza del Comune la «Sfida degli Arcieri» e nel parco comunale la Giostra dei Cavalieri, entrambe valide per l’assegnazione del Palio 2022. Da non perdere la visita guidata spettacolarizzata alla Rocca: «Nepetis Mirabilia. Le audaci imprese», in cui prenderanno vita le storie di Cesare, Lucrezia Borgia e Alessandro

VI, la rappresentazione «Lucrezia al di là del tempo», le visite guidate e la conclusione straordinaria dell’evento, domenica 19 giugno, con la cerimonia di chiusura, il corteo storico e l’assegnazione del drappo 2022. info www.paliodeiborgianepi.it, Facebook: @paliodeiborgia MANTOVA NATURALIA E MIRABILIA Palazzo Ducale fino all’8 luglio

All’indomani dell’apertura al pubblico della Galleria delle Metamorfosi di Palazzo Ducale, con il nuovo allestimento dedicato alla rievocazione della «camera delle meraviglie» gonzaghesca, è stato organizzato un ciclo di conferenze volte ad approfondire il tema delle scienze a corte e del

collezionismo eclettico. Ecco i prossimi appuntamenti. 10 giugno (ore 17,30), Palazzo Ducale (Atrio Arcieri): Daniela Sogliani, Le Meraviglie del mondo. Animali, fiori e altre curiosità esotiche nella corrispondenza Gonzaga. 24 giugno (ore 17,30), Palazzo Ducale (Atrio Arcieri): Stefano L’Occaso, presentazione del volume

Naturalia e mirabilia. Scienza alla corte dei Gonzaga. 8 luglio (ore 18,00), Palazzo Te (Spazio Te): Francesco Morena, Mantova, i Gonzaga e il collezionismo di esotica. info www.mantovaducale. beniculturali.it CACCAMO (PALERMO) LE GIORNATE MEDIEVALI: UN SALTO NEL PASSATO Castello fino all’11 dicembre

Curata dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali-Sezione Regione Siciliana (SIPBC Sicilia), con la collaborazione del Comune di Caccamo e il patrocinio gratuito della Federazione Storica Siciliana, l’iniziativa propone rievocazioni storiche che si ripetono ogni mese. Fino a dicembre, presso il Castello medievale, si può assistere a una rievocazione intervallata da momenti di narrazione e spiegazione degli ambienti della fortezza. Il programma inizia alle 10,00 nella Sala Prades del Castello, per poi concludersi al baglio centrale. I visitatori saranno accompagnati alla visione commentata delle sale del piano nobile del maniero da figuranti in abito d’epoca. Questo il calendario delle prossime giornate: domenica 26 giugno; domenica 17 luglio. info tel. 091 8149744, cell. 339 3721811 o 320 0486901; e-Mail: sipbc.regionesiciliana@gmail.com, sicilia@sipbc.it

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, art. 1, c.1, LO/MI. 3 conv. L. 46/2004 in A.P. - D.L. 353/200

ANTE PRIMA

La storia, i monumenti, l’arte Veduta della città di Orvieto, nel cui centro storico si staglia, inconfondibile, la mole del magnifico Duomo.

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GLI ARGOMENTI

• L’età etrusca e romana • Il restauro dei mosaici del Duomo • La leggenda del Corpus Domini • I dipinti di S. Giovenale • Un Dante Alighieri inedito • Orvieto, città multietnica


C

ittà di antica e nobile fondazione, Orvieto visse nei secoli dell’età di Mezzo una stagione di grande fioritura e questa considerazione ha ispirato la realizzazione del nuovo Dossier di «Medioevo». In realtà, la storia della «regina della rupe» è ben piú lunga e fin dall’età preromana il centro umbro ebbe un ruolo di notevole rilevanza, come conferma, del resto, la presenza, ai piedi dell’abitato, del grande santuario confederale etrusco del Fanum Voltumnae, a cui è dedicato uno dei capitoli iniziali dell’opera. A partire da quegli esordi, Giuseppe M. Della Fina, autore del Dossier, ripercorre quindi tutti i capitoli salienti di una vicenda plurisecolare, testimoniata da opere straordinarie,

come il magnifico Duomo e gli altri insigni monumenti tuttora racchiusi nella cerchia delle mura cittadine. E c’è spazio anche per importanti interventi di restauro – come quello condotto sui mosaici della facciata della chiesa cattedrale – o per la scoperta di un inedito Dante Alighieri con barba e baffi. Né mancano riflessioni sulla società orvietana nel millennio medievale, di cui gli studi piú recenti hanno accertato la predisposizione all’accoglienza, in virtú della quale la città si popolò di una folta comunità di forestieri. Un ritratto, dunque, vivace ed esauriente, che, forte di un ricco corredo iconografico, vuol essere un invito alla conoscenza o alla riscoperta di una delle gemme della Penisola.

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enigmi oera linda

«Al di là dei tigli» di Aart Heering

LA BURLA FRISONA CHE ISPIRÒ L’IDEOLOGO DI PUTIN


Da quando si scrive di storia non si contano i tentativi di alterarla, abbellirla o inventarla. I motivi di questa prassi sono diversi: economici, ideologici, di potere o di prestigio. La storiografia seria spesso smaschera queste manipolazioni, ma non sempre riesce a convincere i non addetti ai lavori. Prendiamo, per esempio, i famigerati Protocolli dei Savi di Sion, la cui falsità è stata provata almeno un secolo fa, ma che ancora girano indisturbati, ritenuti veritieri, nel web. In Italia, poi, vengono ancora, ogni tanto, pubblicati spezzoni dei Diari di Mussolini, nonostante le loro vere «autrici», una madre e una figlia di Vercelli, siano state condannate per truffa già nel 1958. Un caso di «falso» meno conosciuto, ma non per questo meno affascinante, è rappresentato dall’Oera Linda Boek, tradotto in italiano come Libro – o Cronaca – di Oera Linda. Si tratta di una (finta) saga medievale che, passando per l’Atlantide e attraversando quattromila anni di civiltà europee, narra il glorioso passato del popolo frisone. L’autenticità dell’opera venne contestata da subito e in maniera assai convincente eppure, nel corso di un secolo e mezzo, il documento torna periodicamente in auge proponendosi come fonte d’ispirazione per – in ordine cronologico – nazionalisti, nazisti, seguaci della New Age e ideologi eurasiatici. Nella pagina accanto, in alto un foglio della prima edizione manoscritta dell’Oera Linda Boek. 1867. Sulle due pagine Freia alla ricerca del marito, olio su tela di Nils Blommér. 1852. Stoccolma, Museo Nazionale. Alla dea scandinava della pace e del piacere si rifà la figura della leggendaria Frya, la divinità che, secondo l’Oera Linda Boek, sarebbe la madre del popolo frisone.

L

a storia rocambolesca dell’Oera Linda inizia nel 1867, quando Cornelis over de Linden (il cognome può essere tradotto, letteralmente, con «al di là dei tigli»), mastro falegname di origine frisone, presenta a un giornalista di Harlingen, cittadina della Frisia (Paesi Bassi settentrionali), i primi fogli di un’antica cronaca familiare che gli sarebbe stata regalata da una zia. I documenti sono scritti in lingua frisone medievale e vergati in uno strano alfabeto simil– runico, basato sull’antico simbolo della «ruota solare». La lettura del documento, tuttavia, risulta abbastanza facile, dal momento che lo stesso autore del testo si era premunito di inserirvi la chiave per la decifrazione. Nel giro di due anni, Over de Linden presenta un insieme di 200 pagine che verrà conosciuto come il Libro di Oera Linda, rifacendosi alla presunta versione antica del cognome «over de Linden». Il testo, si afferma, sarebbe stato composto nel 1256, come trascrizione di carte ancora piú antiche che un antenato, tale Hiddo over de Linden, avrebbe salvato da un’alluvione. Nel prologo del Libro, Hiddo ordina a suo figlio Okke di «custodire per sempre questi fogli che raccontano la storia della nostra stirpe e del nostro popolo». Segue una lettera vergata da un suo antenato, Liko over de Linden, che nell’anno 803 mette in guardia la sua famiglia da certi corrotti, accusati di tramare contro «la libertà, il diritto e i doveri del sovrano» dei Frisoni. La Cronaca di Oera Linda consiste in una raccolta di episodi che spaziano dal III millennio a.C. fino al VII secolo d.C. e nella quale eventi e personaggi realmente esistiti si mescolano a episodi di pura invenzione. Cosí, il libro racconta di una antica civiltà frisona proveniente da Aldland (letteralmente «antica terra») o Atland (Atlantide!), una terra sommersa da un alluvione nel 2193 a.C. Nel primo capitolo, articolato come una sorta di genesi del popolo frisone, veniamo a sapere che

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enigmi oera linda tutti gli uomini discendono da tre «madri originarie»: la nera Lyda, la gialla Finda e la bianca Frya. La prima è sensuale, povera e istintiva, la seconda è seduttiva, falsa, egoista, ma sottomessa alla legge imposta. La terza, invece – bella, pura, illuminata e saggia – segue la propria coscienza: è lei, ovviamente, l’antenata dei Frisoni. Nel seguito della trattazione la figura di Lyda non appare quasi piú, mentre il racconto elenca un numero infinito di scontri tra i discendenti di Finda – i Finni aggressivi, dittatoriali e superstiziosi – e quelli di Frya, ovvero il popolo dei Frisoni, liberi, uguali e guidati da valorose cape femminili, note come Burchfam (letteralmente «signore del borgo»). Per suggerire che tutte le principali civiltà occidentali discendano da quella frisone e che tale fosse anche l’universale lingua delle origini, nel manoscritto molti nomi noti della storia europea appaiono «frisizzati». Cosí, per esempio, il fondatore della civiltà minoica sarebbe stato il marinaio frisone Minno, che «avrebbe dato le leggi ai Cretesi». E il frisone Jon avrebbe educato i pastori delle isole ioniche. Un cugino del leader frisone Wodin (ovvero Wodan), di nome Inka (!), avrebbe attraversato l’oceano, mentre nel Mediterraneo Neef Theunis (letteralmente «cugino Tonino») sarebbe stato conosciuto anche come Neptunus (Nettuno). Anche Ulysus fa la sua comparsa: dopo un lungo girovagare, il nostro eroe si sarebbe fermato a Wahallagara, ossia la penisola di Walcheren, nell’attuale Sud-Est dell’Olanda. La Burgfam Kalta avrebbe guidato i Celti e, nel 1551 a.C., la frisona Geert si sarebbe recata con i suoi Geertmannen (letteralmente «uomini di Geert», i Germanici!) ad Athenja (Atene), e da lí avrebbe proseguito per fondare una colonia di Frisoni nella regione indiana del… Punjab. Qui, nel 327 a.C., il loro capo Friso avrebbe incontrato nientemeno che Alessandro Magno. Nel 303 a.C., Friso sarebbe tornato nella ridente cittadina di Stavoren (uno degli 11 centri medievali dell’odierno Nord-Est dei Paesi Bassi, n.d.r.) dove avrebbe dato il suo nome alla Frisia e fondato, con sua moglie Swethirte (come l’inglese Sweetheart, letteralmente «dolce cuore»), una dinastia di re frisoni.

Una saga per la Frisia

Oggi questo incredibile potpourri fantastorico ci fa sorridere, ma quando il manoscritto fu presentato, erano in molti a credere alla sua autenticità. Anche perché volevano crederci: in un certo senso, l’Oera Linda si presentava come la risposta largamente attesa a una domanda di storia e al bisogno di un passato glorioso. Tra i nazionalismi europei dell’Ottocento figurava, infatti, anche quello frisone, rivolto con nostalgia all’antico regno della Frisia e alla mitica, e medievale, «libertà frisone» (caratterizzata dall’assenza di strutture feudali). Che fortuna, dunque, poter ricorrere

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a una propria saga epica frisona, simile all’Iliade dei Greci, l’Edda dei popoli nordici e al famosissimo (ma altrettanto falso) Ossian degli Scozzesi (vedi box a p. 30)! Nonostante lo scetticismo dichiarato da piú di un esperto, la scoperta dell’Oera Linda fu accolta con grande entusiasmo dai nazionalisti frisoni, in particolare dal dottor Jan Gerhardus Ottema, ex docente di greco e latino del liceo classico di Leeuwarden, la capitale della Frisia, e consigliere del Friesch Genootschap, la Società Frisona di Storia e Cultura. Ottema si convinse subito e nel 1872 pubblicò il manoscritto con il titolo Thet Oera Linda Bok (Il Libro di Oera Linda), accompagnato da una traduzione in olandese. Fu l’inizio di un dibattito che prosegue ancora. Accertamenti tecnici dimostrarono quasi immediatamente che il documento non poteva risalire al XIII secolo, essendo scritto su una carta prodotta nell’Ottocento, scurita e bruciacchiata per renderla «antica», e usando un inchiostro rivelatosi «fresco». Un noto filologo puntò su varie incongruenze grammaticali nel testo, segnalando come il presunto frisone medievale era pieno di parole ed espressioni del frisone moderno, dell’olandese e, addirittura, dell’inglese. Infine, secondo un critico dell’epoca, il testo evidenziava numerose espressioni e circostanze decisamente «infantili». Non ci volle molto a smontare il mito dell’Oera Linda e, infatti, lo fecero in tanti. Nel 1879, il povero Ottema, dopo aver speso invano i suoi ultimi anni in difesa dell’autenticità del suo figlio intellettuale, si impiccò.

Chi è stato?

Per Goffe Jensma, ordinario di lingua e letteratura frisona all’Università di Groningen (Paesi Bassi) e oggi massimo esperto dell’Oera Linda, il manoscritto era stato confezionato in maniera talmente goffa da non poter neanche essere considerato un falso, quanto, piuttosto, una parodia. Secondo lui, le assurdità nel testo e il linguaggio pseudo-medievale (simile, per intenderci, a quello usato nel celebre film di Mario Monicelli, del 1966, l’Armata Brancaleone) erano stati creati apposta per essere scoperti. Restava da chiarire perché e da chi, visto che l’autore del manoscritto era rimasto anonimo. Dopo una lunga ricerca, basata su dichiarazioni dell’epoca, fondi archivistici e analisi stilistica, Jensma ha individuato un trio di probabili autori: Cornelis over de Linden, l’uomo che aveva «scoperto» la Cronaca; Eelco Verwijs, bibliotecario della provincia di Friesland e gran conoscitore di manoscritti medievali; e, infine, il giovane pastore protestante Francois Haverschmidt, meglio noto come poeta sotto lo pseudonimo Piet Paaltjens. La sua raccolta Snikken en grimlachjes (Singhiozzi e sogghigni), scritta in un’inimitabile stile cinico-romantico, è un classico della letteratura olandese dell’Ottocento. giugno

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A sinistra il poeta e pastore protestante François Haverschmidt, meglio noto con lo pseudonimo di Piet Paaltjens, nel ritratto che corredava il frontespizio della prima edizione della raccolta Snikken en grimlachjes (Singhiozzi e sogghigni). 1867. Haverschmidt è considerato uno dei possibili artefici dell’Oera Linda Boek.

A destra un altro degli indiziati per la fabbricazione dell’Oera Linda: Eelco Verwijs, bibliotecario della provincia di Friesland, sospettatto di aver preso parte all’operazione in quanto grande conoscitore di manoscritti medievali. In basso il terzo «falsario»: il falegname Cornelis over de Linden che annunciò la «scoperta» dei primi fogli dell’Oera Linda Boek nel 1867.

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enigmi oera linda i frisoni La Frisia agli inizi dell'VIII secolo

A destra cartina che mostra l’estensione massima raggiunta dalla Grande Frisia nell’VIII sec. In basso le aree linguistiche del frisone.

OCEANO FRESONICO

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Attualmente, i Frisoni formano una minoranza linguistica nel Nord-Est dei Paesi Bassi, nell’attuale provincia di Friesland (Frisia). Il frisone, riconosciuto come seconda lingua del Regno dei Paesi Bassi, è parlato come madrelingua da circa 450 000 persone e può contare su una solida tradizione letteraria. Nella Frisia è ancora viva la memoria del regno della Grande Frisia dei secoli VII-VIII e della leggendaria «libertà frisone» del tardo Medioevo (vedi «Medioevo» n. 238, novembre 2016; anche on line su issuu.com).

MA GN

Il popolo della «libertà»

SAXONES

Colonia

Tornacum Aquisgrana

FRISIA SETTENTRIONALE

MARE DEL NORD

Leeuwarden

Heligoland

Groningen

FRISIA Amburgo ORIENTALE Oldenburg

FRISIA OCCIDENTALE Amsterdam

Brema

Saterland

Aree Ar A ree linguistiche linguistich i i i del frisone del fri frison

Rotterdam

Bruges

parlato in passato Anversa

parlato attualmente

Sempre secondo Jensma, il principale redattore del testo era Paaltjens, mentre Verwijs aveva curato la traduzione – volutamente zoppicante – in frisone medievale e Over de Linden la presentazione. Ma perché i tre si sarebbero cimentati in quell’impresa? Da un lato, non è da sottovalutare l’aspetto ludico: il manoscitto voleva essere un practical joke per ingannare e ridicolizzare gli ipernazionalisti frisoni. Possiamo immaginarceli, i tre buontemponi al lavoro, sghignazzando per l’ennesima, improbabile, trovata! Non si trattava, però, solo di una burla provinciale finita male (con la morte del povero Ottema), scrive Jensma. La creazione dell’Oera Linda va valutata tenendo conto del conte-

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sto politico dei Paesi Bassi negli anni 1860-70, segnati da forti contrasti tra liberal-progressisti e conservatori. Parallelamente, nel campo religioso, all’interno dello stesso protestantesimo olandese era in corso una lotta ideologica tra gli «ortodossi» (per i quali la Bibbia era da prendere assolutamente alla lettera) e i cosiddetti «moderni», aperti alle rivelazioni delle scoperte scientifiche e inclini a considerare le Sacre Scritture piuttosto una fonte d’ispirazione spirituale. Nel linguaggio comune i primi erano noti come i Fijnen (i «Precisi») e i secondi come i Vrijen (i «Liberi» o «Liberali»): insomma, da una parte gli ottusi «Finni», dall’altra gli illuminati «Frya» dell’Oera Linda Boek. Nella cornice di questa contrapposizione il punto di vista dei (presunti) autori era chiaro: tutti e tre stavano dalla parte dei progressisti e Haverschmidt/Paaltjes passerà alla storia come uno dei primi pastori «moderni» in Frisia. Infatti, il testo dell’Oera Linda pullula di riferimenti ai «falsi sacerdoti» che hanno ridotto in schiavitú il popolo di Finda, sostenendo che soltanto la povertà e la sofferenza avrebbero aperto loro la porta verso il regno di «Wralda» (Dio). I figli di Frya invece, sono consapevoli dei doni ricevuti da Wralda: i sensi, il cervello e la memoria come strumenti per conoscere e migliorare la realtà terrestre. Questo fa dell’Oera Linda anche un’allegoria della lotta al fondamentalismo cristiano, combattuta però all’interno di un contesto politico-religioso molto circoscritto e, pertanto, completamente sconosciuto ai molti esegeti e seguaci successivi del nostro documento. giugno

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

L’Oera Linda come Bibbia nazista

Anche se dopo la tragica morte del professor Ottema il dibattito intorno al manoscritto poteva considerarsi concluso, la storia dell’Oera Linda non finí lí. Nel corso del Novecento sempre nuovi protagonisti si ersero a difesa della sua autenticità: ancora oggi, su Amazon l’opera viene presentata come un «manoscritto del XIII secolo». Nel frattempo, però, la scena si sposta dalla Frisia all’Europa e oltre: con la conseguenza che gli «adepti» dell’Oera Linda ignorano le verifiche storiche eseguite sul documento nei Paesi Bassi, per giunta basandosi non sul testo originale, ma su traduzioni nelle quali erano andate naturalmente perse le sue, fondamentali, assurdità linguistiche. Cosí, l’Oera Linda finí per essere usato in chiave ideologica. Una prima traduzione inglese, eseguita da William Sandbach nel 1876, ottenne ancora scarsa attenzione. Non fu cosí invece, per la traduzione tedesca di 57 anni piú tardi, e grazie, soprattutto, alla personalità del suo traduttore, il germanista olandese Herman Wirth (1885-1981). Personaggio carismatico, Wirth era un convinto nazista e antisemita, collezionista di

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La lettura della Bibbia, olio su tela di Eduard Karl Gustav Lebrecht Pistorius. 1831. Amsterdam, Rjiksmuseum.

iscrizioni runiche e di simboli precristiani nonché autore di teorie storiche «alternative». Secondo Wirth, i primi ariani – bianchi, puri e buoni – sarebbero originari di un continente a nord-ovest dell’Europa, Atlantide o Thule, sprofondato nel mare diecimila anni fa. Gli abitanti si sarebbero, dunque, spostati verso il continente europeo, diventando gli antenati delle tribú germaniche, e quindi anche dei Frisoni. Quando, visitando la Frisia nel 1922, Wirth sentí parlare dell’Oera Linda, credette di aver trovato la conferma alle sue teorie, ignorando la confutazione del testo avvenuta mezzo secolo prima. Nell’edizione tedesca da lui curata, la saga viene presentata come la Bibbia primordiale dei Germani, la Frisia antica come il modello di una società moderna e razzialmente pulita. Die Ura-Linda Chronik (La Cronaca di Ura-Linda) uscí nel 1933, anno della presa di potere di Hitler. Inoltre, Wirth poteva contare su amicizie importanti, prima fra tutte quella di Heinrich Himm-

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enigmi oera linda falsi celebri

Fra concessioni imperiali e isole misteriose... Un enigmatico e ingannevole filo rosso percorre la storia. Credenze, leggende, pregiudizi e interessi politici hanno prodotto, nei secoli, narrazioni infondate e falsi documentali, a lungo interpretati come autentici. Tra i casi piú celebri, seguendo un ordine cronologico, spicca la Donazione di Costantino (315), scritto apocrifo contenente una concessione di privilegi da parte dell’imperatore romano al pontefice Silvestro I. L’editto, smascherato come falso nel 1440 dall’umanista Lorenzo Valla, costituí nel Medioevo una delle basi giuridiche su cui si fondava il potere temporale della Chiesa. Di epoca rinascimentale, invece, è il voluminoso Antiquitatum variarum volumina XVII (1498), raccolta di cronache di autori antichi, ritenuta in seguito una contraffazione del religioso ed erudito Annio da Viterbo, al quale si ascrive anche del misterioso Decretum Desiderii regis Italiae, sulle origini «mitiche» della città della Tuscia. Come prezioso reperto quattrocentesco venne spacciata, poi, Copertina, dorso e frontespizio della Die Ura-Linda Chronik, pubblicata nel 1933 da Herman Wirth.

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la cosiddetta Mappa di Vinland, che raffigura la geografia mondiale con l’indicazione della Vinilanda Insula, a ovest della Groenlandia, quindi una possibile antica testimonianza delle terre del Nuovo Mondo. La messa in discussione della sua veridicità è molto recente: in base a una serie di rilievi, il documento sembra essere stato redatto nel Novecento. Ispirarono temi tipici dell’età romantica i rinomati Canti di Ossian (1760), poemi in lingua gaelica attribuiti a un antico bardo, ma in verità elaborati da un letterato scozzese del Settecento, James Macpherson. Un altro tentativo di manipolazione del passato si riscontra nelle Carte di Arborea, documenti pergamenacei di presunta origine medievale: nel 1870, la prestigiosa Accademia delle Scienze di Berlino accertò che la loro datazione non era degna di fede. Clamorosa, infine, fu la querelle sul libello I Protocolli dei Savi di Sion, falso confezionato dalla polizia segreta zarista all’inizio del XX secolo, che denunciava la presenza di

un complotto ebraico e massonico per dominare il mondo. Il testo, valutato poco attendibile da alcuni studiosi già all’indomani della sua comparsa, trovò diffusione soprattutto in ambienti antisemiti e conobbe in seguito fortuna nel mondo arabo, in particolare nella sfera dell’Islam radicale. Altri libri sospetti – un caso noto è il quattrocentesco Manoscritto Voynich (vedi «Medioevo n. 168, gennaio 2011; anche on line su issuu.com) – sono risultati sostanzialmente attendibili nella datazione, ma permangono enigmi sul loro idioma e i contenuti. Chi li concepí? Per quali scopi? Il viaggio attraverso le contraffazioni approda anche alle soglie della contemporaneità. In un’epoca di fake news e di «informazioni di propaganda», il rigore scientifico nell’indagare testi e documenti viene spesso declassato a esercizio di mera pedanteria. In spregio all’insegnamento della storia e delle sue grandi frodi smascherate… Francesco Colotta

ler, capo delle SS, che lo nominò direttore della società per la propaganda razziale, la Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe (Associazione di ricerca per l’eredità ancestrale tedesca). È comprensibile che, date le circostanze, la versione curata da Wirth diventasse un best seller. Meno comprensibile, però, è il fatto, piuttosto inquietante, che la traduzione di Wirth, in seguito e a sua volta ritradotta in varie lingue, circoli ancora negli ambienti della destra estrema di tutto il mondo. Anche in Italia, dove uno dei promotori del Wirthpensiero è stato l’ideologo reazionario Julius Evola. Dal 1989, l’Oera Linda nella versione Wirth ha conosciuto piú di una edizione italiana. Il manoscritto godette di una nuova popolarità, soprattutto nel mondo anglosassone, negli anni Settanta del secolo scorso, sulla scia di quell’insieme giugno

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di teorie esoteriche e di spiritualità alternativa conosciuto come movimento New Age. La traduzione inglese di Sandbach fu ristampata e l’Oera Linda riscoperto come fonte di nuove, azzardate interpretazioni storiche. In seguito a una profusione di pubblicazioni e speculazioni su continenti perduti, nel 1977 apparve in Inghilterra The other Atlantis (L’altra Atlantide) di un certo Robert Scrutton. Secondo l’autore, il testo dell’Oera Linda sarebbe assolutamente veritiero, in quanto «testamento di una storia ininterrotta di un popolo lungo tremilacinquecento anni – un documento senza paragoni nella storia umana». Il fatto che il testo fosse stato piú volte dichiarato falso non sarebbe altro che la prova stessa della generale assenza di attenzione riservata «alle tradizioni occulte

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In alto la Frisia in una tavola dell’Atlante di Gerhard Kremer, detto il Mercatore. 1595. A sinistra il filosofo e politologo russo Aleksander Dugin.

che costituiscono la vera chiave verso la storia». Questo modo di ragionare è tuttora diffuso in rete. Ai primi anni del nostro secolo, poi, risale la fondazione di una setta australiana dal nome di «Figlie di Frya»… L’Oera Linda ottenne infine un’attenzione speciale nella Russia postsovietica grazie a Aleksandr Dugin, filosofo tradizionalista noto come «l’ideologo del Cremlino» e uno dei principali sostenitori dell’«operazione militare speciale» in Ucraina. Negli anni Novanta Dugin si è occupato piú volte del manoscritto, seguendo le orme di Herman Wirth. Il filosofo del Cremlino, va

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enigmi oera linda

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A sinistra veduta del complesso di Leeuwarden in cui è compreso il Tresoar, il Tesoro (della Frisia), evidenziato dalla cornice di colore rosso. Sulle due pagine una veduta di Leeuwarden, capoluogo della Frisia.

Dove trovare l’Oera Linda

Il «manoscritto» a portata di clic Le duecento cartelle originali dell’Oera Linda Boek sono depositate presso la Biblioteca Provinciale della Frisia, nella capitale Leeuwarden. Nel 1938 sono state donate da un discendente di Cornelis over de Linden, l’uomo che avrebbe ricevuto il manoscritto da sua zia (al momento della «scoperta» la signora era già morta e altri parenti di Over de Linden hanno rilasciato testimonianze discordanti, ma nessuno di loro si ricordava di aver visto personalmente le carte originali). Il testo integrale si può trovare sul web sotto OeraLindaBoek (tresoar.nl). L’Oera Linda è stato inserito nel Canon van Friesland (Canone della Frisia), un elenco ufficiale di 41 fatti e persone essenziali per la storia della Frisia. Non come documento storico, ma come esempio della «Frisia mistificata» dell’Ottocento. Inoltre, si tratta dello scritto in lingua frisone (anche se «maccheronica»!) piú tradotto in assoluto. Oltre a cinque traduzioni olandesi, tra cui la prima è quella di Ottema, del 1872, e la piú esauriente è quella di Jensma, del 2006, il testo è stato tradotto in inglese, tedesco, svedese, afrikaans, francese, italiano, polacco, russo e spagnolo. Una traduzione italiana del 2004, dalla versione inglese del 1876, si trova on line su Oera Linda (misteromania.it). Il cognome Over de Linden, «frisizzato» in Oera Linda (alcune traduzioni riportano la versione Ura Linda, dal momento che il dittongo olandese/frisone oe viene pronunciato come la u italiana), significa, come già ricordato, «Oltre i Tigli». Il manoscritto, infatti, fa riferimento a un fantomatico borgo in Frisia, circondato da una siepe di tigli, come luogo di provenienza degli «Oera Linda».

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detto, non si è espresso direttamente circa la validità storica del testo, ma se ne è servito per sostenere la sua ideologia «eurasiatica», secondo la quale un nuovo impero russo, antiliberale, antidemocratico e profondamente religioso sarebbe chiamato a controllare non solo tutte le terre dell’ex Unione Sovietica, ma anche gran parte del resto d’Europa.

Un popolo senza democrazia

In un articolo del 1996, intitolato Gli archetipi razziali dell’Eurasia nella Cronaca di Oera Linda, Dugin parte dalla divisione fra Frya e Finni per sostenere che il concetto di «democrazia» è «completamente alieno alla tipologia razziale della popolazione russa». Per l’autore, anche altri popoli europei sarebbero da considerarsi discendenti dei «figli di Finda», appartenenti a quel «tipo finnico», portatori naturali di valori essenziali quali il senso della gerarchia, l’ordine e la disciplina, e altrettanto naturalmente contrari

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a un regime democratico, fonte di anarchia, disgrazie e degrado. Secondo Dugin, i cui insegnamenti sono materia obbligata per i collaboratori di Putin e per la classe militare russa, il mito dell’Oera Linda può essere utile alla lotta politica, se preparato «meticolosamente e con cautela». Un lavoro che nel 2007 ha portato alla pubblicazione di una traduzione russa del manoscritto, curata da un allievo dello stesso Dugin. È probabile che la storia dell’Oera Linda non finisca qui. Grazie, soprattutto, ai social, dove «uno vale uno» e dove regna la diffidenza verso la «scienza ufficiale» e i media main stream. Possiamo, dunque, aspettarci nuove – e clamorose – esegesi intorno a questo fortunato documento, nato come uno scherzo appena un secolo e mezzo fa. L’ironia della storia ha voluto che un finto documento «duecentesco», creato per prendere in giro conservatori e bigotti, oggi faccia parte del bagaglio culturale di reazionari, razzisti e guerrafondai di mezzo mondo. E questo, però, non fa ridere.

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storie guerra degli otto santi

Di «santi» e monete parlanti di Francesco Borghero e Alessio Montagano

Città tradizionalmente guelfa e dunque filopapale, Firenze, nella seconda metà del Trecento, imprime una svolta inattesa alla sua politica: temendo la crescente ingerenza della Chiesa e, soprattutto, provocata dall’interdetto lanciato contro la città da Gregorio XI nel 1376, scatena un vero e proprio conflitto, destinato a passare alla storia come «Guerra degli Otto Santi». Del quale offre un’eco importante e significativa la monetazione...

N N

ei circa settant’anni di permanenza della curia pontificia ad Avignone (13091377), i territori dell’Italia centrale soggetti alla Chiesa erano stati amministrati da legati e vicari papali. Dopo l’efficace azione di stabilizzazione e consolidamento politico portata avanti dal cardinale Egidio de Albornoz (1353-1367), l’amministrazione inefficiente e predatoria di alcuni rettori pontifici aveva però sollevato malcontenti in sede locale, nonché, in tutta la Penisola, critiche e sarcasmo contro «i preti»: basti ricordare gli strali di Petrarca contro la corruzione della curia avignonese e i mordaci commenti di Boccaccio sull’avarizia del clero. Dai primi anni Settanta il pontefice Gregorio XI (1370-1378), al secolo Pierre Roger de Beaufort,

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Lo stemma dei Canigiani, famiglia patrizia fiorentina, tratto da un libro manoscritto toscano con alcuni fiorini d’oro coniati durante il loro incarico alla zecca di Firenze. XIII-XVI secc. Collezione privata.

stabilmente residente ad Avignone, dovette fronteggiare in Italia la rivolta di Perugia (1369-1370) e le minacce di Bernabò Visconti, signore di Milano. I punti di forza della presenza papale nei territori della Romagna e delle Marche erano Bologna e Ascoli, mentre la città umbra era la chiave di controllo del lago Trasimeno. Nel 1371 Pierre d’Estaing, cardinale di Bourges, riuscí a riportare Perugia sotto l’autorità della Chiesa. maggio

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Le iniziative dei legati pontifici innescarono però tensioni e sospetti a Firenze, che dagli anni seguenti alla Peste Nera (1348) ambiva a porsi come potenza egemone in Toscana. La guerra contro Pisa aveva portato al deterioramento dei rapporti tra la città gigliata, di lunga tradizione guelfa e filopapale, e la sede apostolica, mentre la seconda discesa in Italia dell’imperatore Carlo IV di Lussemburgo (1369-1370) rinfocolò nei Fioren-

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tini il sospetto che tra papato e impero vi fosse un’intesa volta a sottrarre alla città sull’Arno una parte dei suoi territori. A ciò si aggiunse, nel 1374, il rifiuto del legato pontificio di Bologna a una richiesta di grano e vettovaglie da parte di Firenze per fronteggiare una carestia. Penuria che, d’altro canto, aveva fortemente colpito le stesse città soggette alla Chiesa. A queste tensioni esterne si aggiunsero sospetti e polemiche

antipapali in città, esacerbati dalle lotte di fazione. La parte guelfa fiorentina, organismo politico che per decenni aveva applicato una forma di esclusione dagli uffici pubblici tramite l’«ammonizione» di coloro che venivano strumentalmente accusati di ghibellinismo, si manteneva – assieme alla fazione legata agli Albizzi – favorevole alla Chiesa. La polemica antipapale era viceversa alimentata dalla fazione dei Ricci – in contrasto con gli Albizzi – e da-

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storie guerra degli otto santi gli esclusi dalle cariche pubbliche, con spirito di rivalsa contro la parte guelfa. Nelle strade e nelle piazze, sino ai consigli e alle sedute del governo, prendeva dunque piede e si ingigantiva una teoria del «complotto antifiorentino» da parte della Chiesa: il «tradimento dei preti».

Il casus belli

Il 4 giugno 1375 fu stipulata a Bologna una tregua nel conflitto tra il pontefice e i Visconti. Al contempo, fece irruzione in Toscana la compagnia degli Inglesi, soldati di ventura capitanati dal condottiero John Hawkwood (detto Giovanni Acuto), sino ad allora al soldo della Chiesa. Il governo fiorentino considerò quest’azione alla stregua di un casus belli, prova delle mire papali su Firenze, verso la quale sarebbero state stornate le truppe mercenarie. A nulla valse la considerazione che il pontefice fosse stato costretto alla tregua coi Visconti a causa della difficoltà a reperire finanziamenti, invano richiesti proprio ai Fiorentini, che si era tentato anche di coinvolgere nella stessa gestione della tregua.

Oltre a rafforzare militarmente i passi della montagna pistoiese, due ambasciatori furono inviati d’urgenza presso l’Acuto, al quale, il 21 giugno, fu accordato un pagamento di ben 130 000 fiorini d’oro, a patto che per cinque anni non muovesse guerra a Firenze. Tornato per un periodo al soldo della Chiesa, negli anni successivi il condottiero inglese divenne uno dei piú amati e rispettati capitani al soldo del Comune di Firenze. Anche le altre città della Toscana pagarono rilevanti somme all’Acuto perché, reduce dal conflitto contro i Visconti, si astenesse dal saccheggiare i loro contadi. Nella convinzione generale – alimentata dalla stessa propaganda fiorentina – che l’Acuto fosse stato indirizzato in Toscana dal pontefice, le somme furono reperite facendole gravare pesantemente anche sugli enti ecclesiastici. Un precedente che, nel prosieguo del conflitto, avrebbe avuto a Firenze ben altra profondità ed estensione. Sebbene non ci fosse mai stata un’esplicita dichiarazione di guerra, la città gigliata si prodigò subito

per stringere alleanze. Il 24 luglio 1375 fu stipulato un trattato con Bernabò Visconti: la lega fiorentino-viscontea, alla quale aderirono, fra l’estate e l’autunno, anche Arezzo e Siena, oltre alle città e ai centri toscani sotto l’egemonia di Firenze. Il 14 agosto 1375 fu creata un’apposita magistratura per la direzione del conflitto: gli «Otto della Guerra», ai quali, per l’ottima prova nella gestione degli affari bellici, sarebbe stato confermato il mandato (balía) e, secondo la tradizione, attribuito l’appellativo elogiativo di «Otto Santi».

La lega antipapale

Dare il titolo di «santi» a eroi popolari non clericali – come Tommasello da Fuligno a Perugia – era, del resto, un usuale gioco satirico. Il 12 marzo 1376, infine, fu sottoscritto presso il Palazzo del Popolo di Firenze il testo della lega antipapale, alla quale aderirono, pur con regime differente, anche Pisa e Lucca. Anche i guelfi fiorentini piú intransigenti, come il celebre giurista Lapo da Castiglionchio, non ebbero la forza di contrastare l’entrata in

A sinistra il Palazzo del Bargello, a Firenze. Nella pagina accanto Monumento equestre a Giovanni Acuto, affresco di Paolo Uccello, dedicato al condottiero inglese John Hawkwood che si distinse come capitano di ventura al servizio della Repubblica di Firenze. 1436. Firenze, S. Maria del Fiore.

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storie guerra degli otto santi guerra, temendo di essere tacciati di tradimento dai cittadini. Parallelamente, nel biennio 1375-1376 si accentuò la sorveglianza delle autorità fiorentine sulle istituzioni ecclesiastiche di area toscana. Sul malgoverno dei rettori papali fece leva, invece, la propaganda di Firenze, che promosse la ribellione di numerose città pontificie: Città di Castello, Perugia, Gubbio, Todi, Urbino, Forlí, nonché Bologna e Ascoli. La situazione era complessa e gli esiti potenzialmente imprevedibili. Lo stesso conflitto era singolare e in certa misura dissimulato, proferendosi il pontefice e il governo di Firenze costantemente disponibili alla pace. In forza delle spese militari, dall’autunno del 1375 la città sull’Arno aggravò la pressione fiscale, nominando una seconda commissione di otto membri per portare avanti provvedimenti coercitivi contro i morosi, sino alla vendita coatta dei loro beni.

Processo ai Fiorentini

Il pontefice Gregorio XI prese d’altro canto provvedimenti di forte impatto sul piano religioso e militare. Tra il febbraio e il marzo del 1376 fu montato un processo contro i Fiorentini, accusati di ledere i diritti della Chiesa e degli ecclesiastici. Scaduto il termine di citazione in giudizio ad Avignone, alcuni ufficiali del Comune furono dichiarati contumaci e scomunicati: il 31 marzo 1376 sulla città fu fulminato l’interdetto ecclesiastico, con forti ripercussioni anche sul commercio e sulle attività economiche. L’imperatore Carlo IV minacciò il suo intervento, mentre la regina Giovanna d’Angiò manifestò aperto appoggio alla causa pontificia, facendo traballare la tradizionale alleanza tra Firenze e il regno di Napoli. Tra le voci che invece si levarono a sostegno della città gigliata figuravano quelle del frate ago-

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stiniano e umanista Luigi Marsili e dell’eremita e scrittore ascetico Giovanni delle Celle, monaco vallombrosano e figura chiave dell’ambiente riformatore fiorentino della seconda metà del Trecento. Firenze violò apertamente l’interdetto pontificio, imponendo l’apertura dei luoghi di culto e la celebrazione degli uffici religiosi. L’ostilità del pontefice venne inoltre esacerbata dal sequestro, censimento e alienazione forzosa dei beni di tutti gli enti religiosi della città e del contado, sino al raggiungimento della somma di 300 000 fiorini d’oro al fine di sovvenzionare le operazioni belliche: la piú ampia liquidazione di un patrimonio

In alto monumento funebre di Bernabò Visconti, opera di Bonino da Campione e aiuti. Post 1360ante 1385. Milano, Castello Sforzesco. A destra Santa Caterina davanti al papa ad Avignone, tempera e oro su tavola di Giovanni di Paolo. 1460-1463. Madrid, Museo ThyssenBornemisza. giugno

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storie guerra degli otto santi ecclesiastico tentata in tutta Europa prima della Riforma luterana. Il provvedimento ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica, mentre la magistratura deputata alla vendita dei beni messi all’incanto assunse la denominazione di «Otto dei Preti». Mentre andavano avanti le azioni militari e l’ingaggio di condottieri e compagnie di ventura,

Gregorio XI, mosso anche dalle argomentazioni di Caterina da Siena, intraprese finalmente un programma di fondamentale interesse già prima dello scoppio del conflitto: il ritorno della curia pontificia a Roma, ove il papa giunse il 17 febbraio 1377. Parallelamente, iniziarono le trattative di pace con gli ambasciatori fiorentini, in un primo tempo raffreddate dalla richiesta di corresponsione alla Camera apostolica di ben 1 100 000 fiorini d’oro per danni di guerra. Al contempo, l’orrenda strage dei cittadini di Cesena perpetrata il precedente 3 febbraio dalle compagnie dei Bretoni e degli Inglesi, al soldo della Chiesa, ridiede fiato alla propaganda antipapale.

Miniatura che ritrae ser Coluccio Salutati, tratta da un codice quattrocentesco. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

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Gregorio XI tentò di sbloccare la situazione di stallo verificatasi tra la fine del 1377 e l’inizio del 1378 cercando di distogliere Bernabò Visconti dalla lega con Firenze. Il pontefice morí il 27 marzo 1378, mentre nella città sull’Arno i conflitti civili, i rovesci militari e il sempre maggiore risentimento popolare contribuirono alla definitiva apertura delle trattative di pace. Da una parte, Firenze era lacerata dalle lotte di fazione e dalle difficoltà economiche; dall’altra, il nuovo papa Urbano VI (13781389), al secolo Bartolomeo Prignano, era indebolito dalla fronda dei cardinali francesi, che lo avevano scomunicato, eleggendogli contro un antipapa nella figura di Clemente VII (1378-1394) e dando avvio al quarantennale Scisma d’Occidente (1378-1418).

Una pace complicata

Il 28 luglio 1378 fu sottoscritta la pace di Tivoli, con la quale Firenze si impegnava a versare 250 000 fiorini d’oro alla Camera apostolica per danni di guerra; a riconsegnare terre e città alla Chiesa; a restituire agli enti religiosi i beni alienati, operazione quest’ultima che avrebbe innescato complicatissime operazioni di ricerca e retrocessione dei patrimoni, protrattesi sino al pieno Quattrocento. L’assoluzione dalle scomuniche e dall’interdetto giunse invece nell’autunno del 1378. L’enormità delle spese di una guerra implicitamente perduta, la conseguente pressione fiscale, indebitamento e speculazione sui titoli del debito pubblico portarono all’esplosione delle tensioni sociali: di lí a breve si aprí a Firenze la drammatica fase del Tumulto dei Ciompi. D’altro canto, la città gigliata nel corso del conflitto si era posta alla testa delle altre città toscane, concretizzando di fatto le sue ambizioni di egemonia e precorrendo quella che sarebbe stata giugno

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La pergamena con l’assoluzione dalla scomunica di ser Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica di Firenze (Firenze, Convento degli Eremitani, 26 ottobre 1378). Firenze, Archivio di Stato, Diplomatico, Acquisto Fontani. Il documento venne redatto e sottoscritto da ser Stefano di Neri di Simoncino da Suvereto, notaio del vescovo di Volterra, Simone de’ Pagani da Reggio, e da frate Francesco da Orvieto dell’Ordine di S. Agostino, maestro in teologia, incaricati da papa Urbano VI dell’assoluzione dalla scomunica nella quale erano incorsi alcuni ufficiali del Comune di Firenze.

la costruzione di uno Stato regionale nel corso del Quattrocento. Come si è visto, il conflitto, oltre che con le armi e col denaro, fu combattuto ricorrendo agli artifici di quella che si potrebbe definire «propaganda di guerra». All’interno della fortissima pressione diplomatica esercitata dalla sede apostolica sulla Toscana si iscrivono i viaggi, le infiammate missive e l’impegno diplomatico di Caterina da Siena (1347-1380), volti a biasimare gli atti eversivi nei confronti dell’autorità pontificia da parte dei sostenitori di Firenze, apostrofata come città nemica del vicario di Cristo. Come evidenziano gli studi piú recenti, la santa senese, oltre che figura eminente della mistica trecentesca, era infatti un’attrice di primo piano nello scacchiere politico italiano. Agli slanci mistici di Caterina fece da contraltare lo stile classicheggiante del cancelliere della Comune di Firenze, ser Coluccio Salutati (1331-1406), il maggior

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rappresentante della prima generazione dell’Umanesimo civile fiorentino, entrato nell’incarico di dettatore delle lettere nell’aprile del 1375, due mesi prima dello scoppio del conflitto. Una guerra di epistole e oratori: tra gli argomenti piú frequenti nella propaganda fiorentina, oltre al «tradimento dei preti», figuravano la loro avidità, la loro lussuria nonché, soprattutto, il loro disprezzo della «libertà».

Bandiere rosse

Argomento centrale delle epistole di Salutati per sollecitare la ribellione delle città pontificie era proprio la rivendicazione della libertà contro il dispotismo papale. Le truppe della lega antipapale entravano nelle città liberate al grido di «Viva Firenze e la libertà», mentre vessilli rossi «come quelli di Roma», recanti il motto Libertas, venivano distribuiti ai nuovi confederati. A Firenze la piazza di fronte alla chiesa di Santa Croce fu teatro di un torneo dedi-

cato a Madonna Libertà, mentre la stessa elezione degli «Otto della Guerra», poi detti «Otto Santi», nonché l’imposizione di nuovi prelievi fiscali nell’estate del 1375 furono deliberate affinché si conservasse la «libertà» del Comune. Un discorso, quello sulla «Florentina Libertas», nato nell’ambito del confronto politico interno alla città gigliata già alla metà del Trecento. Nella sua rielaborazione retorica in chiave repubblicana e antitirannica da parte dei cancellieri umanisti, esso veniva proiettato all’esterno, mentre la città sull’Arno veniva assunta a erede dell’antica Roma, a consolidare il suo ruolo guida in Italia centrale. Gli anni della guerra contro il papato videro dunque il trionfo di questa concezione «imperialista» ed «esportatrice» della Libertas. Un’azione propagandistica destinata ad avere un risvolto anche in un ambito forse piú inaspettato: la zecca e la monetazione. Francesco Borghero

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Un fiorino che grida «libertà!» U Alessio Montagano

n recente contributo relativo alla vendita in asta di un raro fiorino d’oro del periodo storico in cui si svolsero i fatti narrati in queste pagine, coniato nel secondo semestre del 1376 sotto la sorveglianza del direttore della Zecca di Firenze, Benedetto di Nerozzo degli Alberti, ha evidenziato per la prima volta nella letteratura numismatica l’importante – e potente – ruolo che la prestigiosa moneta aurea fiorentina può assumere quale strumento di propaganda politica. Se, infatti, erano già da tempo note le sue indiscutibili connotazioni commerciali nella sua accezione di strumento di pagamento universalmente accettato in tutto l’Occidente medievale, almeno sin dall’ultimo quarto del XIII secolo, tanto che papi, re, Stati, mercanti e banchieri esigevano i pagamenti dei contratti esclusivamente in questa valuta e ne fissavano il cambio giornaliero con le monete d’argento locali – diverse tra loro per intrinseco e nominale –, non erano tuttavia mai state prese in considerazione le sue potenzialità comunicative. Immobile nel suo aspetto sin dal novembre del 1252, momento della sua apparizione, che rappresentava il giglio sbocciato di Montemorello (fiore dell’iris o giaggiolo bianco) da una parte, vero e proprio simbolo «parlante» di Florentia, e il santo patrono cittadino dall’altra, Giovanni Battista beneNella pagina accanto un foglio della raccolta Ufficiali della Moneta poi Maestri di Zecca. Firenze, Archivio di Stato.

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dicente, ispirato verosimilmente ai mosaici duecenteschi del venerato Battistero, il fiorino mantenne inalterate anche le sue specifiche intrinseche e ponderali (pari a 3,53 grammi di oro dal purissimo titolo di 24 carati) che ne determinarono l’incondizionata accettazione per la sua stabilità, come già detto, tanto da essere successivamente imitato nel corso del XIV secolo da molte zecche dell’Europa continentale e, come accadeva spesso per le monete di piú largo corso, anche falsificato dalle officine clandestine.

Un segno inedito

Il fiorino attribuito al secondo semestre del 1376, la cui classificazione è resa certa grazie alla corrispondenza del simbolo di zecca impresso sulla moneta con quello trascritto nel «Libro della Zecca» di Firenze, detto Fiorinaio – istituito per volere di Giovanni Villani dal 1317 e da quel momento compilato dagli ufficiali in carica per ogni semestre –, ha suscitato grande interesse proprio per la particolarità di quel segno, apparso piuttosto singolare già a un primo sguardo. Questo è infatti rappresentato da un piccolo cartiglio con all’interno la scritta «LIB», nella consueta posizione a lato del capo del santo protettore cittadino Giovanni Battista. Il Libro della Zecca, in prossimità di quel semestre, riporta per l’appunto la coniazione di fiorini d’oro con la consueta rappresentazione iconografica e specifica anche la descrizione del relativo simbolo di zecca: «novo signo unius compassi et in eo tribus licteris relevan-

tibus: Libertà, hoc modo videlicet [simbolo dello zecchiere]». Ma quale significato doveva avere quel particolare cartiglio impresso sulla famosa moneta aurea fiorentina che inneggiava alla «libertà» e qual è l’origine di questa specifica concezione della libertas? Nella nota citata in apertura, era stata avanzata l’ipotesi che la sua scelta fosse individuabile proprio nel preciso intento comunicativo di quel messaggio, cioè la Libertà, veicolato attraverso la diffusione a livello extraterritoriale della famosa moneta aurea fiorentina. Tuttavia, se fino a quel momento la proposta veniva redatta sotto forma di ipotesi, l’analisi della letteratura esistente sulla florentina libertas getta ora nuova luce nell’interpretazione di quel messaggio «impresso» nel conio della moneta fiorentina piú importante e longeva della storia medievale e rinascimentale che tutti conoscono. È una libertas che si caratterizza, in particolare, per la sua connotazione accesamente repubblicana ed è nota nell’elaborazione che ne proposero tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento i «cancellieri umanisti», Coluccio Salutati e soprattutto Leonardo Bruni. Nelle riflessioni di questi intellettuali, il termine è inteso nel duplice aspetto dell’uguaglianza di diritto di tutti i cittadini di avere accesso alle cariche pubbliche, purché meritevoli e virtuosi, e della libertà di dedicarsi ai propri affari e al proprio lavoro in un clima di pacifica operosità, al riparo delle violenze e dalle prevaricazioni dei potenti e dei tiranni.

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storie guerra degli otto santi benedetto di nerozzo degli alberti

Un vero «boiardo di Stato» Figlio di Nerozzo di Alberto, Benedetto era il rampollo di una delle piú ricche famiglie mercantili della Firenze trecentesca. In gioventú fu attivo fuori città per la compagnia di famiglia, operante nel commercio e nella finanza, soprattutto in Inghilterra, Fiandra e Brabante. Grande mercante e imprenditore, dopo aver ricoperto svariati incarichi pubblici, durante la Guerra degli Otto Santi (1375-1378) è attestato come signore della zecca di Firenze nel secondo semestre del 1376. In questo periodo sarebbero stati coniati fiorini d’oro aventi come simbolo di zecca le prime lettere della parola Libertas (LIB) entro un ornato. Nel febbraio del 1377 fu ambasciatore a Bologna, mentre nel giugno dello stesso anno fece parte dell’imponente ambasceria che si sarebbe dovuta recare presso il pontefice Gregorio XI, da poco rientrato in Italia da Avignone, per trattare la pace. Nel febbraio del 1378 fece parte di una nuova ambasciata diretta a Sarzana per nuove trattative col pontefice. Legatosi agli esponenti della fazione «popolare» di Firenze – tra i quali il ricco imprenditore Tommaso di Marco degli Strozzi, membro degli «Otto Santi» –, ne divenne presto uno dei leader piú carismatici assieme a Salvestro de’ Medici. Il 20 luglio 1378, a seguito del Tumulto dei Ciompi, fu armato cavaliere di popolo. Considerando il progressivo mutamento degli equilibri politici, nel 1382 si riavvicinò Fiorino d’oro con il cartiglio al cui interno si legge, in caratteri gotici, LIB, emesso durante la direzione della zecca di Benedetto di Nerozzo Alberti nel secondo semestre 1376.

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Fiorino d’oro con il segno delle tre lune, detto «strozza», emesso durante la direzione della zecca di Marco di Rosso Strozzi nel primo semestre 1351.

agli esponenti della precedente classe dirigente, contribuendo all’instaurazione di un nuovo regime «oligarchico». Nel 1385 ricoprí nuovamente l’ufficio di signore della zecca. La forte rivalità con gli Albizzi, legata a ragioni sia affaristiche che politiche, determinò nondimeno la sua interdizione agli uffici pubblici e il successivo allontanamento da Firenze nel 1387. Recatosi a Genova e partito per un pellegrinaggio in Terra Santa, morí di peste a Rodi nel 1388. La salma, portata a Firenze, fu sepolta presso la basilica di Santa Croce. Tramite codicillo testamentario, finanziò l’edificazione della monumentale sagrestia di S. Miniato al Monte, decorata con gli affreschi di Spinello Aretino. Per tutti gli anni di predominio della fazione degli Albizzi a Firenze, gli Alberti furono colpiti da provvedimenti di esilio e confisca dei beni (anni 1393, 1400 e 1412) e poterono rientrare in città solo dopo il 1428. giugno

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La sua origine va ricercata nel contesto politico cittadino e viene elaborata da una specifica coalizione socio-politica di tipo «popolare», che cercava di promuovere la propria influenza nel dibattito pubblico, che si identificava sin dalle origini negli ordinamenti di giustizia promulgati tra il 1293 e il 1295 dal governo popolare radicale guidato da Giano della Bella, divenuti in seguito il pilastro ideologico dello status popularis fiorentino. Il discorso sulla libertas raggiunse la sua forma piú matura negli anni Settanta del Trecento, proprio nel periodo di coniazione del nostro fiorino, quando i populares et artefices, o mercatores et artefices, riuscirono a porre in minoranza la componente magnatizia e oligarchica della città guidata da famiglie quali Albizzi e Strozzi e organizzata intorno alla parte guelfa.

Parole vibranti...

Fondamentale è il discorso di uno dei populares, Filippo Bastari, tenuto in un consiglio di cittadini (scelti in rappresentanza delle diverse classi sociali) convocato dai Priori nel 1371 in San Pier Scheraggio, cioè proprio nella zona dove era ubicata la zecca cittadina sin dal 1345, «Cuiusdam palatii seu domus, in quibus seu quo fit moneta, positi Florentie in populo Sancti Pieri Scheradii», che potrebbe aver influenzato Benedetto di Nerozzo degli Alberti nella scelta del simbolo da imprimere ai fiorini da coniarsi durante il suo operato in quell’officina. Secondo quanto riporta il cronista Marchionne di Coppo Stefani, il discorso del Bastari raggiunse l’apice con queste parole, in un momento in cui serpeggiava in città un forte malcontento nei confronti dei «magnati» che cercavano di condizionare la vita politica attraverso pressioni e minacce a coloro che prendevano parte ai consigli e alle assemblee consultive: «Signori, egli è vero che circa cinquanta cittadini

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Grosso in argento, detto «guelfo», coniato sotto la direzione di Francesco Sassetti il primo semestre 1482 con il segno della fionda e il sassolino accantonati dalla lettera F.

si ragunarono in San Piero Scherraggio, de’ quali io fui uno, a intenzione di fare quello che facemmo, di venire alla vostra Signoria e narrare la libertà, sotto che questa Terra è stata, e stare dee, e starà per vostra virtú, e non sarà tanta di forza in certi malevoli, che si sono fatti capi di setta, a vendere gli altri come schiavi; (…) Noi ci siamo ragunati per essere liberi; e, o Signori, dateci libertà». Questi concetti ebbero poi una forte proiezione esterna, volti a conservare lo status liberus, polularis, et guelfus di altre città, il cui epilogo va individuato tra il 1375 e il 1378, negli anni cioè della guerra di Firenze contro il papato, detta «degli Otto Santi», che videro il trionfo di questa concezione «imperialista» della libertas e degli sforzi dei Fiorentini per esportare lo Stato popolare e libero, anche grazie alla diffusione del conio di questo specifico fiorino d’oro con il simbolo che grida «libertà»!

...e simboli «parlanti»

La scelta del simbolo da apporre sulla moneta, volta a identificare la coniazione di uno specifico zecchiere e distinguerla da quella di un altro, ricadeva dunque sul signore della zecca, il direttore preposto alla soprintendenza della coniazione e all’amministrazione di quell’officina nel semestre di conduzione. Questi signori, uno

Fiorino «guelfo» del Sassetti, nel quale, al posto della fionda, è rappresentato lo scudo araldico bandato della famiglia. Primo semestre del 1482.

per l’oro e uno per l’argento, venivano eletti semestralmente sorte et fortuna, cioè attraverso l’estrazione dalle borse a ciò deputate, rispettivamente, delle Arti di Calimala e del Cambio. I primi segni che compaiono sulle monete del XIII secolo sono

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In alto e in basso cassone nuziale con arme della famiglia Strozzi, attribuibile a una manifattura fiorentina. Ultimo quarto del XV sec. Collezione privata. Sul fianco compare il motivo delle tre lune congiunte, a formare la cosiddetta «strozza».

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sintetici: punti, doppi punti, cerchietti, rosette, stelle, gigli, ecc. Verso la fine di quel secolo e l’inizio del XIV i segni sono piú accurati e vengono dettati da precisi stilemi comunicativi, pur nel limitato spazio della moneta a lo-

ro destinato: pertanto ritroviamo quelli che si ispirano agli emblemi cittadini, come quello del popolo (scudo crociato o vessillo crociato del carroccio) e della parte guelfa (giglio che sormonta un drago accovacciato, croce partita da giglio,

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A destra fiorino con il segno della rondine e lettera P del direttore della zecca Paolo di Michele Rondinelli in carica nel secondo semestre del 1375.

giglio angioino) o quelli che rappresentano gli strumenti delle arti o degli specifici mestieri (balla dei Mercatanti, pettine per la cardatura o forbici da pecora dei Lanaiuoli, chiave dei Chiavai, spada, pugnale, elmo e mazze dei Merciai, Ferraiuoli e Armaiuoli, bicchiere, coppa, botte dei Vinattieri), oppure ancora quelli tratti dall’uso liturgico (mitra, croci semplici o elaborate, altari crociati) o dal simbolismo cristiano (agnus dei, colomba pasquale), ecc.

Di padre in figlio

Verso la seconda metà del XIV secolo e gli inizi del XV, le famiglie piú dedite alle attività artigianali, ma soprattutto mercantili e bancarie, membri ed esponenti del popolo grasso, come quelle dei Ricci,

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Alberti, Strozzi, Peruzzi e Medici, acquisirono quote sempre piú consistenti nella realtà cittadina, tanto che alcune di queste divennero di loro esclusiva ingerenza. Dal 1372, soltanto figli e discendenti dei monetieri ebbero il diritto di ammissione alla zecca, con la sola formale approvazione dei signori: il monetiere divenne cosí un mestiere ereditario. In virtú di questo ordinamento, i signori della zecca poterono cosí godere della libertà di apporre sulle proprie emissioni lo stemma araldico di appartenenza o simboli che spesso lo identificano, talvolta accompagnati anche dalle proprie iniziali di battesimo per meglio distinguerli da quello di un altro componente della stessa casata. Lampante è quello scelto da Marco di Rosso Strozzi, signore della zecca per l’oro nel primo semestre 1351, rappresentato dalle tre «lune» disposte a triangolo e unite alla base, chiamate in araldica strozza, che ritroviamo anche nelle numerose decorazioni architettoniche del palazzo omonimo a Firenze e dipinte su un cassone nuziale del Quattrocento in collezione privata. Altrettanto «parlante» è la rappresentazione del frutto della pera dei Peruzzi che, originaria in linea dinastica dalla famiglia Del Pera o Della Pera, come testimonia Dante nel XVI Canto del Paradiso riferendosi allo stemma campito su una delle antiche porte «del picciol cerchio», viene impressa singolarmente nel fiorino d’oro, nonostante lo stemma araldico ne rappresenti ben sei. Note sono anche le raffigurazioni degli stemmi

delle famiglie Rondinelli, Ricci e Capponi, esemplate nella moneta attraverso gli animali omonimi accompagnati dall’iniziale di riconoscimento del monetiere in carica in quel periodo. Un caso su cui vale la pena di soffermarsi è quello riferibile a Francesco Sassetti, direttore generale del Banco Medici e signore della zecca per l’argento nel primo semestre del 1482. Nella storia della sua famiglia, le Notizie dell’origine e della nobiltà della famiglia Sassetti, scritte da un suo pronipote nel Seicento, si racconta come Francesco fosse l’uomo di fiducia di Piero e del Magnifico, con il quale «Francesco ebbe tanta familiarità, che li confidò tutto lo stato suo interamente, di maniera che, quanto a negozi, non si

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storie guerra degli otto santi Ex libris di Francesco Sassetti. Firenze, Biblioteca Laurenziana. Il marchio presenta una composizione araldica articolata, nella quale sono compresi un medaglione con il nome Francisci Sassetti, un cartiglio col motto «a mon povoir» e la fionda con i sassi, emblema della famiglia, sorretta da due centauri.

faceva se non quando disponeva e voleva Francesco». Questo avventuroso uomo d’affari utilizzò come impresa di famiglia, insieme allo scudo araldico bandato, la fionda in atto a scagliare il «sassolino» accantonata dall’iniziale del suo nome, come consuetudine di riconoscimento della propria emissione. Anche in questo caso il simbolo è «parlante», nel senso che il nome della figura (sasso) si identifica col nome della famiglia (Sassetti). È questa l’impresa piú antica dei Sassetti che, nell’araldica, viene solitamente accompagnata dal motto francese «a mon pouvoir» («a mio potere mi adopero io; e Dio farà il resto») e dalla figura del centauro. L’impresa pagana del centauro trova il suo corrispettivo ideologico e filosofico nella figura biblica di David: la morte di Golia ribadiva la necessità dell’aiuto divino per il successo delle imprese, proponendo all’uomo del Rinascimento il concetto di «nuovo eroe cristiano».

Da leggere Alessandro Gherardi, La guerra dei Fiorentini con papa Gregorio XI detta la guerra degli Otto Santi, Cellini, Firenze 1868 Giampaolo Tognetti, L’appello del Comune di Firenze contro la condanna papale del 31 marzo 1376, Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano, LXXXVII, 1978, pp. 88-120 Franek Sznura, La guerra tra Firenze e papa Gregorio XI, in Roberto

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Cardini e Paolo Viti (a cura di), Coluccio Salutati e Firenze. Ideologia e formazione dello Stato, Pagliai, Firenze 2008; pp. 89-101 Alma Poloni, Oltre Coluccio Salutati. La florentina libertas nel contesto del conflitto politico interno nella Firenze del XIV secolo, Edad Media. Revista de Historia, XXI, 2020; pp. 31-55 Mario Bernocchi, Le monete della Repubblica fiorentina, vol. II (Corpus Nummorum Florentinorum), Leo Olschki, Firenze 1975

Alessio Montagano, Monete Italiane Regionali (Firenze), Varesi, Pavia 2011 Paola Benigni, Benedetto di Nerozzo Alberti tra mito e realtà, in Lucia Bertolini, Donatella Coppini (a cura di), Gli antichi e i moderni. Studi in onore di Roberto Cardini, vol. I, Edizioni Polistampa, Firenze 2010; pp. 63-72 Alessio Montagano: https://blog. pandolfini.it/2021/12/23/un-fiorinoche-gridaliberta/ giugno

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anghiari medievale/2

San Francesco aveva un saio... di Alberica Barbolani di Montauto

Silenziosa testimonianza delle stimmate, la veste del santo di Assisi, custodita per trecento anni nell’antica contea dei Montauto, evoca la secolare vicenda dei Barbolani, signori del castello sorto sul piú alto dei Monti Rognosi, non lontano da Anghiari Uno scorcio di Anghiari, nel cui territorio ricade il castello di Montauto, teatro degli avvenimenti narrati nell’articolo. A sinistra particolare del reliquiario in cui è conservato un frammento del saio donato da san Francesco d’Assisi ad Alberto di Guglielmino, conte di Montauto, nel 1224 (vedi foto dell’intero manufatto a p. 58).

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«Qui orava il Santo e vedi l’orme ove i ginocchi posa. Altro non c’è; ma se brami cotanto veder de le sue cose, a Monte Aguto vedrai la cappa sua”. E tacque a tanto. E io: “La cappa e ’l cappuccio ho veduto, che spense giá, girandola in sul foco ch’ardea il castel, senza alcun altro aiuto. E vidi lá, che non mi parve gioco, di notte accesi infiniti doppieri,

senza uomo alcun cercar tutto quel loco. Questo mise i signori in gran pensieri di quel castel, ché, per uso, la morte sempre un ne vuol, quando appaion que’ ceri”. E ’l frate a me: “Di cosí grave sorte in alcun luogo giá parlare udio; ma il creder m’era dubitoso e forte». Fazio degli Uberti (Il Dittamondo, III, IX, 97-105).


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l Monte Aguto di cui parla Fazio degli Uberti nei versi riportati in apertura è un castello ancora esistente in posizione appartata nel territorio di Anghiari, sulla cima piú alta dei Monti Rognosi, quei rilievi brulli e pietrosi collocati a nord-ovest del paese, tra l’Alpe di Catenaia e la catena appenninica, che si distinguono per il paesaggio ancora oggi aspro e quasi selvaggio e per la difficoltà di accesso. In questa zona si era insediata la famiglia oggi conosciuta come Barbolani di Montauto, di ascendenza probabilmente longobarda, anche se un’altra tradizione fa risalire l’origine dei conti di Galbino e di Montauto al matrimonio di Quinziana, figlia di Nemio, ultimo conte di Anghiari con il francese Gallo Galbino, allora vicario dell’imperatore Tiberio in Toscana. Un loro discendente, Ranieri di Galbino, sarebbe stato nominato conte di Anghiari già nell’801 da Carlo Magno. In seguito la famiglia è citata piú volte in vari documenti, nei quali viene sempre ricordata per le sue origini longobarde.

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Di particolare importanza per la storia di Anghiari è il testamento di Bernardino di Sidonia Barbolani, il quale, nel 1104, nominò i Camaldolesi eredi di tutti i suoi beni, che comprendevano, in particolare, la Terra di Anghiari, da lui acquistata nel 1082 dal fratello Alberico, «con tutte le sue ragioni, orti, chiese, uomini e vassalli», oltre a numerosi feudi e diritti sparsi nel territorio.

Le volontà del conte

Dalle disposizioni di Bernardino, che concedeva la libertà ai servi e un terzo dei diritti sul castello di Anghiari agli uomini di masnada, ebbe origine la costituzione del Comune, pur all’interno di un rapporto dialettico con la signoria feudale del priore di S. Bartolomeo, punto di riferimento della badia costruita dai Camaldolesi, per ottemperare, almeno parzialmente, alle condizioni per la donazione. La concessione prevedeva infatti l’edificazione di un monastero nella chiesa di Papiano o in un altro dei possessi del conte, che proprio lí voleva essere seppellito.

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Mentre il giovane Comune, sotto la protezione dei Camaldolesi, cresceva diventando il piú importante centro dell’Alta Valtiberina, gli altri rami della famiglia Barbolani vivevano nei loro numerosi possedimenti. Il castello di Galbino, da cui si potevano controllare i collegamenti tra il Valdarno aretino e l’alto corso del Tevere, rimaneva la sede principale della loro signoria. Alla fine del XII secolo, però, la crescente influenza di Arezzo nei territori della Valtiberina e le azioni intraprese dagli Are-

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A destra San Francesco dona il saio al conte Alberto, dipinto murale. 1567. Montauto, Refettorio del Cenacolo (già Convento dei Cappuccini). Nella pagina accanto, in basso il castello di Montauto, che svetta sulla cima piú alta dei Monti Rognosi.

tini contro tutte le potenze feudali portarono a svariati attacchi contro i castelli di Anghiari, Montorio e Galbino. Tanto che quest’ultimo fu incendiato e distrutto nel 1178. Fu allora che la famiglia decise di edificare un nuovo castello, in posizione piú elevata e difficile da raggiungere, che dalla conformazione del monte roccioso e scosceso della vetta in cui fu costruito prese il nome di Monte Acuto o Montauto: in origine ebbe tre cerchie di mura difensive e un cassero potente appoggiato sulla parete della montagna, tanto da risultare praticamente imprendibile. Documentato dalle fonti storiche già nel 1190 e sei anni piú tardi con due diplomi di Enrico VI, il castello di Montauto, insieme al suo distretto, fu riconosciuto come feudo imperiale con il potere di «mero

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e misto imperio». La giurisdizione era esercitata ancora secondo il diritto longobardo, cioè in modo collettivo da tutti i membri della famiglia Barbolani, da allora chiamati di Montauto, che delegavano la potestà di governo a un solo signore.

Un’amicizia leggendaria

Nel terzo decennio del XIII secolo conte di Montauto era Alberto di Guglielmino, nato nel 1201. Era ancora molto giovane quando aveva avuto modo di conoscere Francesco d’Assisi, forse ad Arezzo, o in Casentino, o forse presso la rocca di San Leo, e ne era rimasto affascinato, tanto da divenirne amico e farsi in seguito terziario francescano «dalle sue sancte mani», probabilmente nel 1221. Situato su una delle vie che da Assisi giungono alla Verna, il castello di Montauto era

la tappa naturale di un viaggio che Francesco compí numerose volte. E l’amicizia col santo di Assisi, e le sue conseguenze, costituisce una delle vicende piú importanti dell’antica storia della famiglia, tramandata in forma sia orale, sia scritta di generazione in generazione, tanto da assumere talvolta i contorni di una leggenda, supportata però da scoperte e documenti d’archivio. Il 30 settembre del 1224 Francesco d’Assisi lasciò per sempre il Sacro Monte della Verna, sul quale da pochi giorni aveva vissuto l’esperienza spirituale suprema: l’incontro col Crocifisso tra le ali del Serafino e l’impressione delle stimmate, che fecero di lui il riflesso vivente di Cristo. Sofferente, consapevole dell’imminenza della morte, egli partí dunque di prima mattina per tornare a S. Maria degli Angeli, a

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anghiari medievale/2 Una cappella del Cenacolo di Montauto, sorto intorno al 1565 per volere di Federigo Barbolani.

«cappa e il cappuccio» furono conservati al castello come preziosa reliquia per 278 anni, involti in un drappo di seta e oro. Vennero posti in un altare appositamente costruito nella piccola cappella duecentesca in cui Francesco tante volte si era fermato in preghiera e che è tuttora visibile. Da allora le reliquie furono meta di pellegrinaggi, tanto che, nel 1444, il vescovo di Arezzo concesse quaranta giorni di indulgenza «nella principal Chiesa di Montauto in quel medesimo giorno che quivi si mostrava la Veste del Serafico Padre San Francesco con la quale, nel Santo Monte della Vernia ricevé dal Signore le Sacratissime Stimate».

Le profezie del santo

dorso d’asino e in compagnia di frate Leone. Le prime fonti francescane non offrono molti approfondimenti su questa vicenda, anche per il riserbo che circondò all’inizio la sconvolgente e inaudita esperienza delle stimmate. In serata Francesco giunse dunque a Montauto: una tappa consueta per lui, come abbiamo visto. Venne accolto con affetto e gioia da tutti gli abitanti. La felicità per l’incontro fu però offuscata dall’annuncio che quella sarebbe stata l’ultima visita: «Per la qual cosa Alberto, sommamente afflitto per tale annunzio, domandò il Santo di una sua memoria, la quale fosse come ricordo e pegno d’affetto». Francesco però

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non possedeva nulla, se non l’abito che portava indosso e del quale non poteva certo disfarsi senza riceverne un altro: fu cosí che durante la notte, secondo la tradizione di famiglia, le donne del castello tesserono una veste nuova mentre il frate riposava. Le fonti scritte ci informano invece che Alberto di Guglielmino mandò un servo a Sansepolcro a comprare la stoffa simile a quella usata da Francesco e prelevare un sarto. Comunque sia, il giorno dopo, a Francesco venne presentato il nuovo abito, e i Montauto ricevettero in cambio quello vecchio, assai piú prezioso proprio perché silenziosa testimonianza delle stimmate. La

Ma ai Barbolani il santo lasciò anche altri doni, immateriali: al conte Alberto Francesco predisse che avrebbe avuto una lunghissima discendenza, ma che i suoi posteri non sarebbero mai stati ricchi (e la mia famiglia è qui a dimostrarlo: anche Madonna Povertà, salvo qualche eccezione, ci ha accompagnato nel corso dei secoli). Inoltre, nelle notti precedenti la morte di un membro della famiglia, alcune luci sarebbero comparse sulla sommità del castello, in modo che tutti potessero ricevere i sacramenti e farsi trovare in pace con la Chiesa: la predizione del santo compare invece nei citati versi del Dittamondo, come fatto accertato e conosciuto già alla metà del XIV secolo, insieme al ricordo del dono della cappa, mai apparso fino ad allora neanche nelle fonti francescane, e quindi, probabilmente, tramandato solo come racconto orale, di generazione in generazione. Nel XVII secolo venne intentato un vero e proprio processo alla predizione dell’apparizione dei giugno

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lumi e furono registrate diverse testimonianze circa l’effettivo ripetersi di questo evento, per decine di volte. Alcune testimonianze sono riportate nel libro di padre Lodovico da Livorno, San Francesco e la contea di Montauto, scritto nel 1884 su commissione del vescovo Donato Velluti Zati di San Clemente, nipote dell’ultima discendente diretta del conte Alberto II, Carlotta Barbolani di Montauto. Significativo è il fatto che tutti i testimoni citino «i soliti lumi», capaci di indurre tutti i membri della famiglia a prepararsi spiritualmente alla morte. Nel 1639 «i lumi» vennero avvistati per due notti consecutive sopra Montauto, ma allora nessuno morí; soltanto venti giorni dopo arrivò invece la notizia del decesso del conte Girolamo, impegnato nell’esercito imperiale durante la Guerra dei Trent’Anni. Nel 1698 il conte Giovan Francesco morí all’improvviso, colpito da un fulmine, «senza che prima fossero vedute le solite fiammelle, che poscia si seppe essere comparse in tempo opportuno, e vedute da alcuni i quali non ne parlarono che dopo il funesto evento (…) questo fatto recò molto sgomento in

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quella virtuosa famiglia, non tanto per la repentina morte, quanto per l’essere passato senza il sussidio dei sacramenti, che erano in costume ricevere tutti, anche i sani, dietro gli avvisi delle fiammelle, come per prepararsi alla morte». Il fatto indusse i Montauto a promulgare leggi che punivano chi vedeva i lumi e ometteva di avvisare la famiglia. I signori avevano infatti potere di legiferare, proprio perché Montauto rimase una contea indipendente, pur trovandosi da un punto di vista geografico, almeno fino al Congresso di Vienna (1815), all’interno del Granducato di Toscana. Fatto sta che i lumi, quando la contea passò ai granduchi di Toscana, cessarono del tutto di apparire. E infatti nessuno di noi li ha mai visti.

Per la cura degli occhi

Nell’allontanarsi per sempre da Montauto, san Francesco lasciò altri segni del suo passaggio in terra d’Anghiari: scendendo dai Monti Rognosi, poco sotto il castello, fece sgorgare una piccola sorgente, la cui acqua è conosciuta come curativa per gli occhi. Sopra la sorgente fu eretta in seguito una modesta cappella – detta Maestà di San

La lapide che ricorda la costruzione del Convento dei Cappuccini (oggi Cenacolo) da parte di Federigo Barbolani.

Francesco o Cappella del Perdono –, quasi nascosta nel bosco, restaurata una prima volta nel XVIII secolo da Carlotta Barbolani e di nuovo qualche anno fa. Ogni anno è meta di un breve pellegrinaggio degli Anghiaresi in occasione della Festa del Perdono del 2 agosto. Arrivato ad Anghiari, l’Assisiate si fermò per piantare una croce in cima al fosso che correva dritto in direzione di Sansepolcro, e sul quale nel secolo successivo il vescovo Guido Tarlati fece costruire lo stradone che collega le due città: idealmente la via congiunge la chiesa della Croce di Anghiari, sorta dove Francesco si era fermato, con il convento di Montecasale, al quale santo arrivò quella stessa sera. Alla Croce è riservata ad Anghiari, secondo l’insegnamento di Francesco, non solo la chiesa sorta in cima alla salita, dove le direttrici stradali formano sorprendentemente un Tau – segno devozionale del riconoscimento e dell’appartenenza alla grande famiglia francescana –, ma

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anghiari medievale/2 anche la ricorrenza patronale, celebrata ogni anno il 3 di maggio. A seguito dell’assoggettamento di Arezzo alla Repubblica di Firenze, nel 1385, il conte Lazzaro di Montauto stipulò un trattato di accomandigia con la città di Firenze, alla quale riconosceva la sovranità, mantenendo però per sé e per i suoi successori la piena autonomia giurisdizionale e amministrativa su tutto il territorio. In tal modo acquisí la cittadinanza fiorentina e il permesso di innalzare sul suo castello il vessillo della Repubblica. Nel 1502, però, Arezzo, con l’aiuto delle truppe pontificie guidate da Cesare Borgia, si ribellò al dominio di Firenze, tornata repubblica nel 1494, dopo la caccia-

ta dei Medici. La storia ricorda che Franceschetto di Montauto, capitano al soldo dei Fiorentini, aderí alla ribellione per solidarietà con Arezzo e con i Medici, divenendo di fatto imputabile di tradimento. Pochi mesi dopo, soffocata la rivolta, la magistratura fiorentina dei Dieci di Balía decise di punire i signori di Montauto, incaricando il commissario e generale fiorentino di Arezzo, Antonio Giacomini, di conquistare e distruggere il castello, fare prigioniero «il signor Francesco» e soprattutto «insignorirsi della cappa di San Francesco la quale è in decto luogo». Conscio della difficoltà di conquistare il maniero dei Barbolani con le armi, Giacomini decise di ri-

In alto la Maestà di San Francesco o Cappella del Perdono, costruita nel luogo in cui l’Assisiate fece sgorgare una piccola sorgente, nel bosco tra Montauto e la Barbolana. A destra il reliquiario contenente un pezzetto del saio di san Francesco, custodito nel Cenacolo di Montauto.

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correre all’inganno: in una fredda domenica di fine gennaio del 1503 si presentò al castello con una trentina di fanti e dodici cavalli, fingendo di voler andare a caccia. Chiese però di poter assistere alla messa e venerare la cappa di Francesco. Una volta entrato, fece prendere le porte dai propri uomini e rivelò la propria identità: si impadroní immediatamente della reliquia e la fece vegliare giorno e notte. La vicenda è stata ricostruita con grande attenzione, e con ricca appendice documentaria da Nicoletta Baldini nel volume Il saio delle stimmate di San Francesco d’Assisi, scritto in occasione della definitiva collocazione del saio alla Verna. In particolare, la studiosa ripercorre la storia del furto della reliquia e della sua traslazione a Firenze attraverso numerose fonti, tra le

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quali appaiono fondamentali le due cronache, rispettivamente del 1503 e del 1522 di Fra Mariano da Firenze, che fu testimone oculare degli avvenimenti.

La reliquia sotto scorta

Il religioso narra come nei giorni seguenti arrivassero quattro frati minori da Firenze con il compito di scortare la cappa da Montauto fino in città, controllando che non venisse sostituita: la miracolosa reliquia fu posta in una cassa, coperta da un mantello di seta e sistemata su un cavallo, e il suo passaggio fu accolto per tutto il percorso da un grande entusiasmo popolare. A Firenze, l’arrivo della cappa appartenuta a san Francesco fu celebrato con una solenne processione: la reliquia fu infine collocata in S. Salvatore al Monte. Nel 1571, per mo-

Un’altra immagine della Maestà di San Francesco. Ogni anno, in occasione della festa del Perdono (2 agosto) la cappella è meta di pellegrinaggio.

tivi di sicurezza, venne trasferita a S. Salvatore in Ognissanti, dove è rimasta fino al 2000. Nella cronaca scritta fra il 1578 e il 1581 da un altro frate francescano fiorentino, viene ricordato anche come i Montauto fossero persone molto devote e degne di aver ricevuto il prezioso dono del santo assisiate. Tuttavia, nel suo scritto, il religioso sottolineò che forse l’allontanamento della reliquia dal castello non sarebbe stato gradito a Dio e a san Francesco: infatti, quando il saio era a casa dei conti aveva operato molti miracoli, mentre a Firenze non se ne era visto nemmeno uno!

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anghiari medievale/2 Il saio lasciato da san Francesco nel castello di Montauto e oggi conservato nel santuario della Verna.

ra, la veste di lana grigia indossata dall’Assisiate è conservata nella Cappella delle Reliquie del santuario francescano della Verna. Termina cosí la storia dell’amicizia tra Francesco d’Assisi e il rappresentante di una potente famiglia di uomini d’arme, ma non la forte spiritualità che pervade questi luoghi, percorsi e amati dal santo ottocento anni fa e dove, ancora oggi, sembra di avvertire la sua presenza. (2 – continua) Molto di quanto riportato in questo articolo si basa su tradizioni orali e su confronti con i frati della Verna (in particolare il padre Guardiano Francesco Brasa, e gli archivisti fra Michele e fra David), ma trova sostegno nella documentazione. Di questa fanno parte i manoscritti di appunti sparsi di mano di mio padre, Fabrizio Barbolani di Montauto, che aveva setacciato le carte di archivio relative alla famiglia e aveva pubblicato alcuni brevi articoli.

Da leggere Quasi del tutto distrutto dai Fiorentini nel 1503, il castello di Montauto venne ricostruito pochi decenni piú tardi, con l’aggiunta di una chiesa piú grande, dedicata ai santi Pietro e Francesco: poco piú a valle, lungo la strada che scende verso Anghiari, fu edificata anche la villa fortificata della Barbolana. Poco sopra alla nuova costruzione nacque un convento, costruito da Federigo Barbolani di Montauto dopo che san Francesco e sant’Antonio erano apparsi in sogno a suo padre, indicandogli il luogo preciso nel quale volevano che venisse eretto l’edificio che la famiglia aveva promesso di dedicare a san Francesco tre secoli prima. E proprio qui, dove riposano

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alcuni dei numerosi discendenti del beato Alberto, si trova ancora oggi un piccolo pezzo del saio di san Francesco: esso fu richiesto, e ottenuto, dal canonico Donato Velluti Zati nel 1882, in una delle rare occasioni in cui la reliquia, quasi dimenticata, era stata prelevata dalla teca e mostrata a poche persone, tra le quali si trovava anche il religioso, lí presente nel ruolo di discendente diretto del conte. Nel marzo 2001, dopo l’allontanamento dei Francescani dalla chiesa fiorentina di Ognissanti, fu infine deciso di riportare il saio nel luogo stesso da cui san Francesco era partito dopo aver ricevuto le stimmate fra il 14 e 15 settembre 1224. Oggi, restaurata e posta in una teca sicu-

Nicoletta Baldini e Susanna Conti (a cura di), Il saio delle stimmate di San Francesco d’Assisi. Storia e conservazione, Centro Di, Firenze 2010 Padre lettore Lodovico da Livorno, San Francesco d’Assisi e la contea di Montauto, Giachetti, Prato 1884 Fabio Bertini, Feudalità e servizio del principe nella Toscana del ‘500: Federigo Barbolani da Montauto governatore di Siena, Cantagalli, Siena 1996 Gabriella Orefice, Anghiari e il suo territorio, in Studio storico relativo alla ricostruzione delle fasi di sviluppo urbano della città di Anghiari e del suo territorio dal periodo antico all’attuale, 2005 giugno

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vivere al tempo del decameron/6

Schiavi del dio denaro di Corrado Occhipinti Confalonieri

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Nella varia umanità che anima le novelle del Decameron non potevano mancare i mercanti, esponenti di un’imprenditoria ben nota a Giovanni Boccaccio. Il quale, com’è nel suo stile, dispensa lodi e reprimende, con una propensione, tuttavia, per le seconde. Soprattutto a causa dei comportamenti, spesso disdicevoli, innescati dalla sete di profitto

Miniatura raffigurante una scena di mercato, da un’edizione del Codex Iustiniani. XIII-XIV sec.

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vivere al tempo del decameron/6

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iovanni Boccaccio (1313-1375) conosce il mondo mercantile grazie a una sua precoce esperienza personale: ad appena quindici anni il padre lo manda a far pratica commerciale e bancaria nella succursale napoletana della banca dei Bardi. Come i suoi giovani colleghi, lo scrittore sta al banco, riceve i clienti, pesa le monete, smista la posta, tiene i registri delle vendite e degli acquisti. Il suo ufficio si trova nel vivace quartiere di Portanova e il rapporto quotidiano con i commercianti sviluppa in lui quel penetrante spirito d’osservazione della classe sociale emergente descritta anni dopo nel Decameron. Boccaccio presenta un mercante perbene nella terza novella della quarta giornata: a Marsiglia, «antica e nobilissima città, e già fu di ricchi uomini e di gran mercatanti piú copiosa che oggi non si vede; tra’ quali ne fu un chiamato N’Arnald [alla provenzale: don Arnaldo] Civada, uomo di nazione [di origine] infima ma di chiara fede e leal mercatante, senza misura di possessioni e di danari ricco». Un altro retto uomo d’affari si trova a Parigi (I, 2): «un gran mercante e buono [valente] uomo il quale fu chiamato Giannotto de Civigní, lealissimo e diritto e di gran traffico d’opera di drapperia: e avea singolare amistà [grandissima amicizia] con uno ricchissimo uomo giudeo chiamato Abraam, il quale similmente mercatante era e diritto e leale uomo assai». Qui notiamo come

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la differenza di religione non influisse sulla stima e sull’amicizia reciproca tra mercanti, anche se Giannotto «grossamente [rozzamente], come il piú [come per lo piú] i mercanti sanno fare» cerca di spiegare all’amico «per quali ragioni la nostra [religione] era migliore che la giudaica». In un’altra novella (II, 9) Bernabò Lomellin dichiara: «Io son mercatante e non filosofo e come mercatante risponderò». Boccaccio evidenzia cosí un limite dei commercianti: non possiedono la necessaria base culturale per sostenere una discussione teologica e un ragionamento filosofico.

I rischi dei viaggi d’affari

Quando sono lontani per mercati e fiere, spesso le loro mogli mandano avanti gli affari, come quella di Bernabò: madonna Zinevra sapeva «leggere e scrivere e fare una ragione [far conti] che se un mercante fosse». Durante i viaggi, l’uomo d’affari, oltre al pericolo di essere vittima di ladroni e di briganti «veggendol mercatante e istimando lui dovere portar denari» (II, 2), rischia di essere adescato da affascinanti truffatrici. Il giovane e inesperto Andreuccio da Perugia (II, 5) si reca a Napoli per acquistare cavalli purosangue, ma, incautamente, gira per la fiera con una borsa gonfia di cinquecento fiorini d’oro. Andreuccio incontra per caso un’anziana conoscente che, anni prima, aveva

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Miniatura raffigurante il mercato di piazza Ravegnana a Bologna, dalla Matricola della Società dei drappieri. XV sec. Bologna, Museo Civico Medievale. Nella pagina accanto la seconda novella della prima giornata nell’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. A sinistra, Giannotto convince l’ebreo Abraam a convertirsi al cristianesimo: la fede dei due uomini è indicata rispettivamente dall’immagine di Cristo e di Mosè; a destra, all’interno di un battistero, Abraam riceve il sacramento del battesimo.

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vivere al tempo del decameron/6 Pagina di un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Le vignette illustrano la quinta novella della seconda giornata. A sinistra, Andreuccio da Perugia cade nudo nelle latrine, osservato da alcuni personaggi affacciati alle finestre; a destra, due ladri rinchiudono Andreuccio nella tomba del vescovo. Nella pagina accanto il medesimo episodio nell’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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frequentato il padre a Palermo e a Perugia e «le fece gran festa». Poco distante, Fiordaliso «giovane ciciliana [siciliana] bellissima, ma disposta per piccol pregio [prezzo] a compiacere a qualunque uomo», nota la scena; anche lei conosce e frequenta l’anziana donna e pensa a come impossessarsi del denaro di Andreuccio.

Invito con raggiro

Quando il giovane mercante si allontana, Fiordaliso si fa raccontare dalla «vecchia» la storia familiare di Andreuccio e dove ha preso alloggio. La sera stessa, la prostituta manda una sua «fanticella» a cercarlo. Il ragazzo si trova da solo all’ingresso dell’albergo, l’adescatrice avuta la conferma che si tratta proprio di lui, gli dice: «“Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri”». Andreuccio, convinto di aver fatto colpo, si dimostra subito disponibile all’incontro e senza avvisare né l’oste, né gli amici, la segue. Arrivato a casa di Fiordaliso, la trova «ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente [con decoro e onestà]; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese [gli discese incontro tre gradini] con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lacrimando gli basciò la fronte e con voce alquanto rotta disse: “O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto!”». Il giovane è meravigliato di «cosí tenere carezze», forse pensava a un appassionato rendez-vous. Fiordaliso «per la man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna altra cosa parlare, con lui nella sua camera se

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n’entrò, la quale di rose, di fiori d’arancio e da altri odori tutta oliva [olezzava], là dove egli un bellissimo letto incortinato [chiuso da cortine] e molte robe su per le stanghe (…) e altri assai belli e ricchi arnesi [suppellettili] vide; per le quali cose, sí come nuovo [inesperto], fermamente credette lei dover essere non meno che gran donna». La giovane accompagna Andreuccio in camera da letto, perché nel Medioevo questa era la stanza piú importante della casa: qui si mangiava, si ricevevano le persone, si chiacchierava. Le cortine di tessuto indicavano un letto di lusso, ma avevano anche la funzione di riparare dagli spifferi; le stanghe su cui si appoggiavano i vestiti servivano a proteggerli dai roditori e liberavano i possessori dai parassiti, perché si dormiva nudi. I due si siedono su una cassa alla base del letto e l’ingannatrice gli rivela: «“Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sí come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non m’udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale piú ti farà forse maravigliare, sí come è che io sia tua sorella”». Fiordaliso gli fa credere che «“Pietro mio padre e tuo”» quando visse a Palermo, aveva intessuto una relazione con sua madre, «“gentile donna fu e allora era vedova”», che la diede in sposa a un importate cavaliere di Agrigento. Per motivi politici, i due sposi furono costretti a fuggire dalla Sicilia e a rifugiarsi a Napoli sotto la protezione di Carlo II (d’Angiò, detto lo Zoppo, re dal 1285 al 1309) che «“trovammo sí grato che, ristoratrici [risarcitici] in parte li danni li quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà continuamente al mio

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Miniatura raffigurante Andreuccio da Perugia che esce dal pozzo, terrorizzando le guardie che lasciano cadere le proprie armi, da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

marito, e tuo cognato che è, buona provisione [buono stipendio], sí come tu potrai ancor vedere”».

Una «sorella» scaltra e intraprendente

Andreuccio crede alle fandonie raccontate dalla finta sorella, le chiede come facesse a conoscere la sua identità; lei gli spiega che «“questa mattina mel fé sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene [si intrattiene con me molto e quindi frequenta molto la mia casa], per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in Palermo e in Perugia stette; e se non fosse che piú onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua che io a te nell’altrui, egli ha gran pezza [lungo tempo] che io a te venuta sarei”». La scaltra prostituta comincia a chiedergli dei loro parenti nominandoli a uno a uno, per questo Andreuccio crede ancora di piú a «quello che meno di creder bisognava».

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Dopo aver bevuto e mangiato, Fiordaliso lo convince a trascorrere lí la notte, va a dormire e lo affida a un giovane cameriere, ma: «Era il caldo grande: per la qualcosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subitamente si spogliò in farsetto [capo d’abbigliamento per il busto: corto, stretto, imbottito che si indossava sopra la camicia] e trassesi i panni di gamba [si toglie oltre le brache, le mutande di lino e le calze] e al capo del letto gli si pose [se li pose]» e lascia anche la borsa con i fiorini. Da questa descrizione, riconosciamo l’abbigliamento maschile del Trecento: le calze erano solate, cioè con le suole attaccate. Andreuccio «richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò [a] quel fanciullo, il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò un uscio». Senza sospettare di nulla, Andreuccio entra nella latrina, ma qui le tavole del pavimento sono state sconnesse apposta dalla finta sorella e lui cade nel «chiassetto» – lo stretto cortile fra i due palazzi confinanti delimitato da un muricciolo – in cui finivano le deiezioni; non si fa male «ma tutto della bruttura della quale il luogo era pieno si imbrattò». Il giovane servitore avvisa la sua padrona che Andreuccio è caduto nella trappola, al che Fiordaliso si precipita nella camera e ruba la borsa con i cinquecenL’ottava novella della settima giornata in un’altra miniatura dal Decameron illustrato dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. A sinistra, Arriguccio insegue Ruberto fuori la camera da letto dove dorme la moglie; a destra, la moglie di Arriguccio accusa il marito davanti ai suoi fratelli.

to fiorini d’oro del malcapitato poi «piú di lui non curandosi prestamente andò a chiuder l’uscio del qual era uscito quando cadde». Andreuccio chiede aiuto al fanciullo ma non riceve alcuna risposta: «Per che egli, già sospettando e tardi dell’inganno cominciandosi a accorgere, salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se ne andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò [scosse] e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire: “Oimè lasso [misero], in come piccolo tempo io ho perduto cinquecento fiorini e una sorella!”». Andreuccio non si dà per vinto e comincia a battere forte il portone della casa di Fiordaliso, i vicini si svegliano per il chiasso: «Una delle servigiali [serve] della donna, in vista tutta sonnocchiosa [all’apparenza sonnolenta], fattasi alla finestra proverbiosamente [rimproverandolo ] disse: “Chi picchia là giú?”». Andreuccio le dice di essere il fratello di Fiordaliso, ma lei gli risponde: «“Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi [va a dormire] e tornerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance [frottole] son quelle che tu di’; va in buona ora [di grazia] e lasciaci dormir, se ti piace”». Andreuccio insiste, vuole che almeno gli venga restituita la sua roba ma non c’è nulla da fare: «“Buono uomo, e’ mi pare che tu sogni”» la complice torna dentro e lesta serra la finestra. Andreuccio «già certissimo de’ suoi danni, quasi per doglia fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria [con la violenza] propose di rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggiori colpi che prima fieramente cominciò a percuotere la porta».

Le minacce del ruffiano

Ormai tutti svegli, i vicini protestano, gli intimano di smetterla di importunare la donna e di tornare la mattina seguente. Il ruffiano di Fiordaliso si affaccia alla finestra, ha una gran barba nera e «con una boce [voce] grossa, orribile e fiera» lo minaccia: «“Io non so a che io mi tegno [non so a che fine io mi trattengo] che io non vegno là giú, e deati tante bastonate quanto io ti vegga muovere [a darti tante bastonate fino a che non ti muoverai piú], asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona”». I vicini lo scongiurano di andarsene se non vuole essere ucciso, cosí Andreuccio «doloroso [dolente] quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato [senza alcuna speranza di riaverli], verso quella parte onde il dí aveva la fanticella seguita, senza saper dove s’andasse, prese la via per tornarsi all’albergo». Prima di rientrare però vuole lavarsi in mare, ma sbaglia strada e mentre «l’alto della città andando» nota due uomini con una lanterna che vengono verso di lui. Temendo siano guardie oppure malintenzionati, il giovane si nasconde in una

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vivere al tempo del decameron/6 L’ottava novella della prima giornata nell’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. A sinistra, Ermino de’ Grimaldi chiede consiglio a Guglielmo Borsiere; a destra, Guglielmo mostra ad Ermino un’immagine raffigurante la Cortesia.

casa disabitata «ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se ne entrarono, e quivi l’un di loro scaricati certi ferramenti [utensili in ferro] che in collo avea». Insospettiti dal fetore, i due scoprono Andreuccio che, terrorizzato, racconta loro tutta la sua storia e si sente rispondere che ha rischiato grosso: il minaccioso uomo con la barba si chiama Buttafuoco ed è un ladrone: «“Come che [benché] tu abbi perduti i tuoi denari tu hai molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che se caduto non fossi, vivi sicuro [stai certo]che, come prima [appena che] addormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co’ denari avresti la persona [la vita] perduta”».

Il sepolcro profanato

Non tutti i mali vengono per nuocere, i due propongono ad Andreuccio un affare: quel giorno è deceduto l’arcivescovo di Napoli «seppellito con ricchissimi ornamenti e con un rubino in dito il quale valeva oltre a cinquecento fiorin d’oro» e loro lo «volevano andare a spogliare». Andreuccio accetta, ma, prima di andare in Duomo dove è sepolto il vescovo, vuole darsi una ripulita. Nei pressi della chiesa maggiore c’è un pozzo, i due complici lo calano all’interno con una fune. Mentre il ragazzo si sta lavando, arrivano alcuni gendarmi «li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno e avendo sete, a quel pozzo venieno a bere». Un dettaglio che mostra come le grandi città di notte fossero pericolose, spesso teatro di inseguimenti. I compagni di Andreuccio scappano, le guardie tirano la fune «credendo a quella il secchion pien d’acqua essere appicato», ma quando dal bordo del pozzo vedono spuntare le mani del giovane, scappano terrorizzati. I due complici tornano a prenderlo e vanno in Duomo: «assai leggiermente [facilmente] entrarono e furono all’arca [del vescovo] la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il coperchio, ch’era gravissimo [pesantissimo] sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare e puntellaronlo». Nessuno si offre volontario allora i due minacciano Andreuccio: «“in fé di Dio, se tu non v’entri, noi ti darem tante d’uno di questi pali [ti daremo tante percosse con uno di questi pali] di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto”». Il giovane entra nell’arca e comincia a ragionare: «“come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò [mi sforzerò] a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna”». Decide di infilarsi al dito l’anello con il

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rubino del vescovo e ai complici passa solo la mitra, il pastorale, i guanti e la camicia. Andreuccio dice loro di non trovare l’anello, ma i due compari che «eran sí come lui maliziosi, dicendo pur [continuando a dire] che ben cercasse, preso tempo [colto il momento opportuno] tiraron via il puntello che il coperchio dell’arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall’arca lasciaron racchiuso». Preso dal terrore di morire dentro l’arca, il giovane piange e si dispera, cerca inutilmente di spostare il coperchio; ma ecco che «sentí per la chiesa andar genti e parlar molte persone le quali sí come egli avvisava [sentiva] quello andavano a fare che esso co’ suoi compagni avevano già fatto di che la paura gli crebbe forte». Anche questi profanatori di tombe puntellano l’arca e discutono si chi debba entrarci: «pure dopo lunga tencione [disputa] un prete disse: “Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi [mangi]? Li morti non mangian gli uomini: io v’entrerò dentro io”». Il sacerdote infila dunque le gambe nell’arca e Andreuccio lo strattona: «La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si gittò fuori; della qualcosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non altramente a fuggire cominciarono che se da centomilia diavoli fosser perseguitati». giugno

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Andreuccio torna in albergo, racconta la sua avventura all’oste e ai suoi amici, preoccupati della sua lunga assenza: convengono che «dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo [denaro] investito in uno anello [del valore di cinquecento e piú fiorini, quello che aveva portato] dove per comperare cavalli era andato». Dopo la frode, l’inesperto Andreuccio aguzza l’ingegno e sollecitato dalla necessità fa emergere il suo spirito d’iniziativa. Non c’è alcuna condanna morale per la profanazione della tomba del vescovo, se perfino un prete è disposto a entrarci e a rubare. Boccaccio mostra simpatia per l’intraprendenza mercantile di Andreuccio e fa intendere che il rubino gli porterà fortuna perché nella cultura medievale quella pietra è simbolo di felicità.

Nel mirino del poeta

Non sempre però lo scrittore certaldese è cosí benevolo verso chi pratica il commercio. Qualcuno cerca di migliorare il proprio status sociale attraverso il matrimonio con una moglie nobile, possibilmente di una nobiltà non piú solida. Cosí si comporta il «ricchissimo mercatante» Arriguccio Berlinghieri (VII, 8) «il quale

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scioccamente, sí come ancora oggi fanno tutto ’l dí i mercatanti, pensò di volere ingentilire per moglie [nobilitarsi sposando una donna dell’aristocrazia]; e prese una giovane gentil donna male a lui convenientesi». Ma il male peggiore dei mercanti è la cupidigia, che colpisce anche i nobili. Un gentiluomo genovese, Erminio Grimaldi (I, 8), «di grandissime possessioni e di denari di gran lunga trapassava la ricchezza d’ogni altro ricchissimo cittadino che allora si sapesse in Italia», supera però anche tutti i commercianti per miseria e avarizia: tiene chiusa la borsa, non spende, «contra il general costume de’ genovesi che usi sono» nel vestire bene nel mangiare e nel bere. Un giorno arriva in città Guglielmo Borsiere «uomo di corte e costumato e ben parlante» che, venuto a sapere dei vizi del nobile, decide di incontrarlo. Dopo essere entrati in «molti e varii ragionamenti», Erminio Grimaldi mostra la sua nuova casa all’ospite «insieme a altri genovesi che con lui erano» e gli chiede: «“Messere Guiglielmo, voi che avete e vedute e udite molte cose, saprestemi voi insegnare cosa alcuna che mai piú non fosse stata veduta, la quale io potessi fare dipignere nella sala di questa mia casa?”». Guglielmo ha seguito fino a quel momento i boriosi discorsi dell’avaro genovese, che ostenta le sue possibilità finanziarie e gli suggerisce: «“Fateci dipignere la Cortesia”», intesa come il vivere lieti e con magnanimità, tipici valori cavallereschi rispetto alla grettezza mercantile. A queste parole Grimaldi «prese una vergogna tale, che ella ebbe forza di fargli mutare animo quasi tutto in contrario a quello che infino a quella ora aveva avuto» e con umiltà gli risponde: “Messer Guiglielmo, io la ci farò dipignere in maniera che mai né voi né altri con ragione mi potrà piú dire che io non l’abbia veduta e conosciuta”». Da quel giorno Grimaldi diventa «il piú liberale e ’l piú grazioso [affabile] gentile uomo e quello che piú e’ [i] forestieri e i cittadini onorò che altro che in Genova fosse a’ tempi suoi». Con questa novella Boccaccio mostra come i nobili, seppure influenzati dai peccati dei mercanti, riescono a redimersi. Dei commercianti il Decameron sottolinea i pregi, che hanno contribuito al benessere materiale della società con la loro intraprendenza, ma anche i difetti, perché, con il loro agire, ne hanno causato la decadenza morale. E lo scrittore suggerisce anche la soluzione: dopo la punizione divina per i vizi dell’umanità corrotta, tradottasi nella peste del 1348, i valori cavallereschi consentono un ritorno all’ordine sociale. Tuttavia, la proposta di Boccaccio appare irrealizzabile: dimenticata la paura dell’epidemia, nell’autunno del Medioevo continuano infatti a prevalere i disvalori del mondo mercantile.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Il mondo rurale

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a cura di Stefano Mammini

L’hôtel de Cluny, la residenza parigina degli abati cluniacensi divenuta sede, nel 1843, del Museo nazionale del Medioevo.

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La «casa» del Medioevo Il Museo nazionale del Medioevo di Parigi ha riaperto i battenti, con un allestimento totalmente rinnovato. Tornano dunque a farsi ammirare i capolavori di una collezione straordinariamente ricca e prestigiosa


Dossier

P

arigi, la Francia e il mondo intero ritrovano una delle piú illustri «case» del Medioevo: nello scorso mese di maggio ha infatti riaperto i battenti il Museo di Cluny, l’unico museo nazionale transalpino dedicato all’età di Mezzo, al termine di un vasto intervento di ristrutturazione e ammodernamento. Ai visitatori viene dunque data la possibilità di

conoscere quello che i responsabili della prestigiosa istituzione hanno voluto definire un «Medioevo di nuova generazione», documentato da una raccolta che, a quasi duecento anni dalla sua fondazione, si proietta nel XXI secolo in una veste totalmente rinnovata e dotata – come ha sottolineato anche la direttrice dell’istituto nell’intervista rilasciata a «Medioevo» (vedi a p.

82) – di tutti i servizi necessari per accogliere ogni tipo di pubblico. Situato nel cuore del Quartiere Latino, il museo è allestito all’interno di un palazzo quattrocentesco, sorto a ridosso dei resti di un impianto termale d’epoca gallo-romana e che ora può contare sugli spazi del nuovo padiglione, realizzato su progetto dell’architetto Bernard Desmoulin. Si

Veduta e pianta del Quartiere Latino di Parigi con, in evidenza, il Museo di Cluny-Museo nazionale del Medioevo, allestito nell’edificio in origine utilizzato dagli abati di Cluny.

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tratta, dunque, di un complesso davvero singolare, al cui interno è custodita una collezione di grande pregio, grazie alla quale si può cogliere la straordinaria diversità delle produzioni artistiche medievali. Il nuovo allestimento, che segue il succedersi nel tempo degli eventi, intende rendere leggibile l’evoluzione delle forme, i momenti di rottura, le innovazioni e

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le differenze estetiche osservabili fra le creazioni realizzate dal Nord al Sud del continente europeo. Come accennato, il Museo di Cluny è il risultato di una somma di elementi architettonici unica nel suo genere. Alle terme, risalenti al I-II secolo d.C., fu addossata, alla fine del XV secolo, la residenza degli abati di Cluny, una delle piú antiche dimore private di Parigi

(vedi box a p. 78). Alla fine dell’Ottocento, all’edificio – trasformato in museo – è stato aggiunto un nuovo corpo, realizzato su progetto dell’architetto Paul Bœswillwald, che evoca e imita le architetture romane. Oggi questi diversi livelli sono stati riuniti e possono essere fruiti in maniera fluida, a partire dai nuovi spazi per l’accoglienza del pubblico, distribuiti nel nuovo

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Dossier padiglione, di cui appare evidente l’impronta contemporanea. Le terme di Cluny sono una vivida testimonianza della Gallia romana. Nel 52 a.C. Giulio Cesare conquistò la città dei Parisi, popolo appartenente alla piú vasta etnia celtica, che venne ribattezzata Lutezia. I nuovi padroni diffusero il proprio modus vivendi e, in particolare, introdussero l’uso dei bagni nelle terme pubbliche. In questa innovazione si inserí, nell’area nord di Lutezia, la costruzione di un impianto che si estendeva su 6000 mq, articolato in tre livelli.

Ambienti grandiosi

I suoi resti si sono parzialmente conservati e sono oggi ben visibili all’esterno del museo, caratterizzati da una tecnica edilizia composta da blocchi di pietra calcarea alternati a corsi di mattoni in laterizio. Il frigidarium (piscina per bagni in acqua fredda) è la parte piú spettacolare del monumento, per le sue proporzioni e per la volta, che raggiunge i 14 m d’altezza. Nulla si conserva delle decorazioni originarie, in marmo e stucchi, ma ben leggibile è la tecnica costruttiva. Tracce di colore azzurro sulla volta, un mosaico frammentario e due mensole scolpite a rilievo al di sopra della piscina lasciano intuire la raffinatezza dell’apparato ornamentale. Il frigidarium è inserito nel percorso di visita del museo, sia come prima sala dell’esposizione permanente, sia come ambiente adibito a mostre temporanee. Realizzato alla fine del XV secolo per volere di Jacques d’Amboise, potente abate dell’Ordine cluniacense, l’hôtel de Cluny mette in mostra i suoi elementi tipicamente medievali e le aggiunte ottocentesche: un muro merlato nel quale si aprono una finestrella e una porta, torrette, doccioni e finestre. Cluny è una residenza di prestigio, un luogo di vita, appartato, provvisto (segue a p. 81)

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A sinistra uno degli ambienti delle terme gallo-romane inglobate nel complesso di Cluny, che accoglie materiali lapidei databili fra la tarda antichità e il primo Medioevo. Di questo nucleo fanno parte le opere in origine appartenenti alla Municipalità di Parigi, la cui cessione, unitamente a quelle delle terme stesse, pose le basi per la nascita del Museo di Cluny, fondato nel 1843. In basso la raffigurazione di Giove (Iupiter) su uno dei blocchi che componevano il Pilastro dei Nauti, un monumento votivo fatto realizzare dalla corporazione dei battellieri di Lutezia al tempo dell’imperatore Tiberio (I sec. d.C.). Il manufatto fu scoperto nel 1711, in occasione di lavori condotti all’interno della cattedrale di Notre-Dame. La presenza di divinità romane e celtiche costituisce la testimonianza di un raro caso di sincretismo religioso nella Gallia romana della prima età imperiale.

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Dossier Ma perché si chiama Museo «di Cluny»? La denominazione dell’edificio nel quale venne fondato il primo nucleo del Museo nazionale del Medioevo tradisce il legame con l’Ordine cluniacense. Quest’ultimo, in realtà, almeno agli esordi, non fu un Ordine vero e proprio, ma una congregazione di Benedettini riformati che facevano capo all’abbazia di Cluny, fondata in Borgogna nel 903 da Guglielmo il Pio, duca d’Aquitania. Nacque cosí quella che è stata definita «un’entità fino a quel momento sconosciuta, una sorta di Stato ecclesiastico centralizzato, direttamente soggetto alla Santa Sede» (Francesco Gandolfo). A guidare la congregazione era l’abate di Cluny, a cui spettava la nomina dei priori incaricati di dirigere i monasteri che ne facevano parte. Ben presto, i Cluniacensi stabilirono proprie sedi nell’intera Europa occidentale (vedi cartina alla pagina successiva) e si dotarono di tre collegi, strategicamente insediati presso i centri del potere, a Parigi, Avignone, nonché a Dôle, nella Franca Contea (oggi nel Giura, Francia orientale). Questi istituti erano destinati ai novizi dell’Ordine, che lí potevano studiare e formarsi. Il collegio parigino sorse nel XIII secolo, a sud dell’odierna piazza della Sorbona, ma l’abate della casa madre, quando soggiornava in città, poteva disporre di un appartamento piú consono al suo status, situato in prossimità dell’istituto. Nulla si è conservato del nucleo originario della struttura, di cui oggi rimangono

soltanto le citazioni contenute in documenti d’archivio. La residenza che tuttora si può visitare venne costruita a partire dal 1485 per iniziativa di Jacques d’Amboise, abate di Cluny, appartenente a una delle piú importanti famiglie del XV secolo. Acquisita la guida dei Cluniacensi, il giovane prelato volle far realizzare un edificio destinato a celebrarne il suo ruolo: dispose quindi l’utilizzo di materiali di pregio, l’elaborazione di un progetto architettonico assai articolato e la messa in opera di un ricco apparato ornamentale. Luogo di residenza e di rappresentanza, l’hôtel de Cluny voluto dagli abati è stato addossato alle terme gallo-romane che occupavano il settore occidentale dell’area e si fonde con l’antico impianto. Una scelta, quest’ultima, dettata anche da motivi di ordine pratico ed economico: l’eventuale demolizione delle terme avrebbe infatti avuto costi ben piú elevati di quelli derivanti dal riuso. Eretta in forme gotiche, la residenza degli abati di Cluny, fu uno dei primi esempi di dimora privata di lusso – che in Francia viene definita hôtel particulier –, inaugurando una formula destinata ad avere grande successo, soprattutto nel periodo del cosiddetto Ancien Régime (letteralmente Antico Regime, l’espressione fu coniata al tempo della Rivoluzione francese per indicare tutto ciò che quel moto aveva abolito, e in particolare il sistema monarchico, ma, in seguito, è stata estesa all’intero contesto europeo fra Cinque e Seicento). Miniatura raffigurante Urbano II che, nel 1095, consacra l’altare del monastero di Cluny, in cui fu priore prima di diventare papa, dalla Cronaca dell’abbazia di Cluny. XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto la diffusione dei Cuniacensi. L’Ordine si organizzò in priorati e abbazie e raggiunse il suo massimo sviluppo intorno alla metà del XIII sec.

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Per come lo si vede oggi, l’hôtel de Cluny è vicino e al tempo stesso lontano da quello che doveva essere il suo aspetto nel Medioevo. Nel XIX secolo le facciate e i tetti furono, infatti, oggetto di un intervento di restauro filologico condotto da Albert Lenoir. Per contro, il riassetto urbanistico della zona, voluto dal barone Haussmann, ha sensibilmente modificato il rapporto fra l’edificio e il suo circondario, alterando la percezione di quella che lo scrittore Prosper Mérimée ribattezzò una «pepita urbana», insigne gioiello dell’architettura civile medievale.

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L’ORDINE CLUNIACENSE L’ORDINE CLUNIACENSE «Quinque filiae», i cinque monasteri «Quinque filiae», i cinque monasteri direttamente dipendenti da Cluny dipendenti Cluny Idirettamente tre monasteri che hannodaadottato I tre monasteri chemodificandola hanno adottato la regola di Cluny la regola di Cluny modificandola Altri monasteri importanti Altri monasteri importanti Zone di grande densità monastica Zone di grande densità monastica cluniacense e cistercense cluniacense e cistercense Nel 1109 l’Ordine cluniacense comprende 1184 conventi Nel 1109 l’Ordine cluniacense comprende 1184 conventi

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto corone votive da Guarrazar, presso Toledo. Produzione visigota, VII sec. Capolavori dell’oreficeria dei primi regni dell’Occidente medievale, erano probabilmente offerte destinate alla cattedrale di Toledo.

Le opere del Museo di Cluny spaziano dalla tarda antichità alle soglie del Rinascimento A sinistra il paramento frontale (antependium) in oro dell’altare maggiore della cattedrale di Basilea. L’opera fu commissionata dall’imperatore Enrico II, che volle donarla alla chiesa svizzera in occasione della sua inaugurazione, nel 1019. Nella pagina accanto avorio scolpito raffigurante Arianna, dalla valle del Reno. Produzione bizantina, VI sec.

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di un bel giardino, sale di ricevimento e spazi privati, fra cui una magnifica cappella in stile gotico fiammeggiante. Nel 2018 il Museo di Cluny si è dotato di una estensione, realizzata su progetto dell’architetto Bernard Desmoulin. Grazie al suo profilo, che evoca quello del frigidarium delle terme, e ai motivi a traforo ispirati alla cappella gotica, il nuovo padiglione dialoga con le costruzioni che l’hanno preceduto e che oggi compongono il museo. Pensata al fine di garantire la totale accessibilità – in particolare grazie all’installazione degli ascensori –, l’estensione comprende anche spazi di lavoro per lo staff del museo e aree per l’accoglienza del pubblico.

Il primo nucleo

La collezione permanente del museo nasce da due nuclei principali: la raccolta riunita nel XIX secolo da Alexandre du Sommerard nell’hôtel de Cluny e i materiali lapidei di proprietà della municipalità di Parigi, collocati negli spazi delle terme romane nel 1837. Dai due insiemi, nel 1843, nacque il Museo di Cluny, che ha in seguito considerevolmente arricchito la sua dotazione, dapprima ampliandola e poi restringendo il campo al periodo medievale. Consigliere presso la Corte dei Conti, Alexandre Du Sommerard (1779-1842) nutriva una grande passione per l’arte e, nel 1833, prese in affitto una parte del primo piano dell’hôtel de Cluny per abitarvi e per sistemare i suoi oggetti in un contesto che considerava ideale a tale scopo. Quando morí, la sua raccolta comprendeva circa 1500 pezzi e la sua scomparsa accelerò la creazione del museo. L’idea, in realtà, era nell’aria, perché già nel 1833 l’architetto Albert Lenoir aveva formulato un progetto del genere. (segue a p. 84)

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Dossier Nel segno dell’accoglienza e dell’accessibilità INCONTRO CON SÉVERINE LEPAPE Il nuovo padiglione del Museo di Cluny, realizzato su progetto dell’architetto Bernard Desmoulin e adibito ai servizi per l’accoglienza dei visitatori. Nella pagina accanto Madonna con Bambino, dipinto su tavola di Jean Hey. XV sec. In basso Séverine Lepape, direttrice del Museo di Cluny.

Archivista e paleografa, specializzata nel campo delle miniature e delle stampe, Séverine Lepape, già conservatrice al Museo del Louvre, ha assunto la direzione del Museo di Cluny nel 2019. L’abbiamo intervistata in occasione della riapertura della collezione. irettrice, la riapertura del Museo di Cluny è il D coronamento di un ampio e ambizioso progetto: qual è, a suo avviso, l’aspetto piú significativo dell’impresa che è stata appena portata a termine? «La realizzazione per me piú importante è, di gran lunga, l’essere riusciti a rendere totalmente accessibile l’intero sito. Per farlo, abbiamo dovuto confrontarci con una realtà nella quale esistono piú di venti livelli diversi, che siamo riusciti ad armonizzare, cosí da rendere il percorso espositivo fruibile da chiunque, sia che si trovi in una condizione di mobilità ridotta oppure no. Pietra angolare del nuovo museo è anche il nuovo spazio destinato all’accoglienza dei visitatori: una grande sala, con guardaroba e tutti i servizi indispensabili per il pubblico. Infine, siamo davvero felici di poter proporre un nuovo percorso di visita: ordinato cronologicamente, offre una chiave di lettura delle nostre collezioni e del Medioevo imperniata sulla distribuzione dei materiali nelle varie sale, in ciascuna delle quali sono riuniti capolavori e opere di grande pregio». i dice sempre che la storia è «maestra di vita»: oggi, S in particolare, quale importanza può avere lo studio del Medioevo e della sua cultura, documentata dalle collezioni del Museo di Cluny? «Lo studio del Medioevo è oggi piú che mai necessario, in un’epoca nella quale si tende ad accontentarsi acriticamente di concetti già definiti e di una analisi della realtà storica piuttosto superficiale. Ci auguriamo che mostrare come il millennio medievale sia stata una stagione ricca, luminosa

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e culturalmente variegata possa servire ad accantonare i pregiudizi su un periodo storico di lunga durata e ancora misconosciuto. Un obiettivo al quale possono concorrere le nostre collezioni, ma anche le risorse documentarie che il visitatore può ritrovare sul nostro sito web, concepito come un vero e proprio portale nel quale sono disponibili numerosi testi, in alcuni casi firmati da autori esterni. Infine, per quanti siano particolarmente interessati ad approfondire la conoscenza del Medioevo mettiamo a disposizione la nostra documentazione (biblioteca e schede di catalogo delle opere), consultabile su appuntamento». I l Museo di Cluny vanta opere celeberrime (penso, per esempio, al ciclo di arazzi della Dama e l’Unicorno), che tornano a farsi ammirare. Ma quali sono le novità piú importanti che i visitatori troveranno nel nuovo percorso espositivo? «Spicca senza dubbio una Madonna con Bambino di Jean Hey, acquisita nel 2017, che era il solo dipinto su tavola di questo artista ancora conservato in collezione privata in Francia. L’opera è stata dichiarata bene di interesse patrimoniale primario ed è stata collocata nella sala dedicata all’arte della seconda metà del XIV secolo, dove è affiancata da opere francesi dell’ultimo terzo del XV secolo, ovvero del periodo in cui, alla fine del Medioevo, emerge la figura di Hey. All’estremo opposto della sequenza cronologica, abbiamo potuto acquistare, nel 2014, una valva di dittico in avorio, prodotta a Costantinopoli, che costituisce una rara testimonianza dell’arte di quell’area geografica e ha una provenienza illustre, dal momento che apparteneva alla collezione di Jean Joseph Marquet de Vasselot (archeologo e storico dell’arte francese che, dopo essere stato conservatore al Museo del Louvre, fu direttore del Museo di Cluny dal 1926 al 1933, n.d.r.). Le nuove opere acquisite dal 2018 in poi verranno progressivamente inserite nell’esposizione permanente, salvo un ristretto numero che abbiamo intenzione di presentare in una mostra programmata per il prossimo autunno, nella quale proporremo un bilancio dell’arricchimento della collezione ottenuto nel corso degli ultimi cinque anni». giugno

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Dossier

LE DATE DA RICORDARE Fine I sec. d.C. Costruzione delle terme dell’area nord di Lutezia 1485 Inizio della costruzione del palazzo di Cluny per iniziativa dell’abate Jacques d’Amboise 1833, aprile Il collezionista Alexandre Du Sommerard affitta una parte dell’hôtel de Cluny 1843, 24 luglio Emanazione della legge che dà vita al «Museo delle terme e dell’hôtel de Cluny». Lo Stato acquista l’edificio e la collezione; la città di Parigi cede le terme e i materiali lapidei conservati al loro interno 1844, 17 marzo Apertura al pubblico. Il museo viene posto sotto la tutela della commissione dei Monumenti storici 1846 L’hôtel de Cluny viene classificato come Monumento storico 1862 Il «Palazzo delle terme» viene classificato come Monumento storico 1870-1880 Costruzione dell’edificio Paul Bœswillwald 1949 Riorganizzazione delle collezioni, che vengono suddivise secondo mestieri e professioni 1975 Il sito viene iscritto nell’elenco dei Monumenti storici 1977 5000 oggetti vengono trasferiti nel nuovo museo di Écouen dedicato al Rinascimento 1977 Il museo acquisisce una serie di sculture appartenenti alla decorazione originaria della cattedrale di Notre-Dame, a Parigi, fra cui 21 teste dei re di Giuda, riportate alla luce fortuitamente 1992 L’istituto assume la denominazione ufficiale di Museo di Cluny-Museo nazionale del Medioevo

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Lenoir lavorava nell’istituto dei Monumenti storici, un ente fondato poco prima, nel 1830, con il fine di catalogare, tenere sotto controllo costante e restaurare gli edifici a rischio, in un’epoca in cui per il Medioevo era scoppiata una vera e propria mania, come prova, per esempio, la pubblicazione del romanzo storico Notre-Dame de Paris (1831) di Victor Hugo. Intervenne allora lo Stato, che, appoggiando l’idea di un nuovo museo, decise di stanziare i fondi necessari per l’acquisto, nel giugno del 1843, dell’hôtel de Cluny e della collezione di Alexandre Du Sommerard. A sua volta, la città di Parigi, che, come detto, aveva adibito le terme romane a deposito di materiali architettonici e sculture, cedette quel sito e il suo lapidario, fino ad allora mal documentato, ma del quale facevano parte opere di notevole rilevanza, quali, per esempio, i capitelli dell’abbazia di Saint-Germain-des-Prés. Primo direttore del neonato museo fu Edmond Du Sommerard (1843-1885), figlio di Alexandre, che distribuí la raccolta in tutti gli spazi dell’antica residenza degli abati e, nel successivo quarantennio, contribuí in maniera decisiva al suo arricchimento, con acqui-

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In alto vetrata policroma raffigurante Sansone e il leone, dalla Sainte-Chapelle di Parigi. 1250 circa. A sinistra cofanetto decorato con scene ispirate ai dettami dell’amore cortese e a episodi dei romanzi cavallereschi. 1300-1310 circa. Nella pagina accanto cofanetto in smalto lavorato a champlevé che custodiva una delle numerose reliquie di san Tommaso Becket. Limoges, inizi del XIII sec.

sizioni in molti casi eccezionali, fra le quali spiccano il paramento frontale dell’altare della cattedrale di Basilea (vedi foto a p. 80, in basso) e il ciclo di arazzi della Dama e l’Unicorno (vedi box e foto alle pp. 88-89). Alla sua morte, nel 1885, la collezione del Museo di Cluny contava 11 000 pezzi. Questa crescita ebbe tuttavia l’effetto di far smarrire, almeno in parte, il filo conduttore del progetto originario e cosí, all’indomani della seconda guerra mondiale, fu promossa una ristrutturazione del museo e il percorso espositivo fu ripensato, organizzandolo secondo criteri tematici e tecnologici, ispirati alle descrizioni contenute

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Dossier del Livre des métiers parisiens (Libro dei mestieri parigini) di Étienne Boileau, un testo del XIII secolo. Logica conseguenza fu l’alienazione di parte delle collezioni: nel 1977 i materiali del XVI secolo furono ceduti al Museo del Rinascimento di Écouen; nel 1995 gli strumenti musicali entrarono a far parte del nuovo Museo della Musica; infine, nel 1998, la quasi totalità degli oggetti riferibili al mondo ebraico sono stati scelti per formare il nucleo centrale del Museo dell’Arte e della Storia del giudaismo di Parigi. La partenza di queste opere ha quindi permesso di recuperare molti spazi, che hanno accolto nuovi reperti, fra i quali spiccano le sculture della cattedrale parigina di Notre-Dame.

Nuove acquisizioni

Oggi, quindi, le collezioni di Cluny contano 24 000 opere o insiemi di opere, ereditate dal fondo Du Sommerard e dal lapidario della Municipalità di Parigi, e alle quali si sono aggiunte le donazioni e nuove acquisizioni. Queste ultime sono frutto di un’attività costante, come testimonia il fatto che, nel solo 2021, sono entrate a far parte della raccolta dieci nuovi pezzi. Il progetto di rinnovamento avviato nel 2011 dal Ministero francese della Cultura ha dunque inteso offrire a questo patrimonio un assetto capace di valorizzarne al meglio le peculiarità. Per farlo,

PRIMO PIANO

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è stata scelta la strada di una vera e propria rifondazione, imposta dalla necessità di migliorare la leggibilità del percorso, fermo all’allestimento realizzato negli anni Cinquanta del Novecento e dunque ormai superato dai progressi fatti registrare, nel frattempo, dagli studi sulla cultura e l’arte del Medioevo. Il nuovo percorso propone una selezione di materiali che garantisce la documentazione dei periodi per i quali sono piú scarse le testimonianze – come, per esempio, l’arte dell’epoca carolingia – e mette ovviamente in risalto gli ambiti nei quali Cluny eccelle, quali l’arte francese e le produzioni del XV secolo. L’opera di rifondazione non ha in ogni caso cancellato le pietre miliari del vecchio allestimento, prima fra tutte la sala dedicata alle sculture della cattedrale di Notre-Dame o quella che riunisce gli arazzi della Dama e l’Unicorno (già riallestita nel 2013). Altre opere, inoltre, in ragione delle loro di(segue a p. 90)

PIANTERRENO


IL NUOVO PERCORSO ESPOSITIVO

Pianterreno 1. Collezioni galliche e romane negli spazi delle terme 2. Arte del primo Medioevo in Occidente e in Oriente 3. Dall’arte tardo-romana al primo gotico 4. Portale della Vergine da Saint-Germain-des-Prés 5. Sculture dalla cattedrale di Notre-Dame (1163-1260) 6. Manifatture di Limoges (XII-XIII sec.) 7. Opere dalla Francia settentrionale, dalle valli della Mosa e del Reno (1200 circa) 8. Sainte-Chapelle di Parigi (1241-1248) 9. Arte della Francia settentrionale nel XIII sec. 10. L’arte francese ai tempi di Filippo il Bello e dei suoi figli (1285-1328). Primo piano 11. Arte italiana del XIII e XIV sec. 12. Arte dell’Europa del Nord nel XIV sec. 13. L’arte francese agli inizi del XV sec.: un’arte «internazionale» 14. Arte francese del XV sec. 15. L’arte intorno al 1500: fra Medioevo e Rinascimento 16. Cappella 17. Economia e produzione artistica alla fine del Medioevo 18. Le arti della guerra 19. La vita quotidiana: piaceri, accessori e cura del corpo 20. Ciclo di arazzi della Dama e l’Unicorno 21. Arredi religiosi a nord delle Alpi alla fine del Medioevo 22. Sala per mostre temporanee.

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Dossier QUELL’UNICO DESIDERIO... Composto da sei arazzi tessuti intorno al 1500, il ciclo della Dama e l’Unicorno fu acquistato dal Museo di Cluny nel 1882. Il prezioso corpus fu pensato come evocazione dei cinque sensi, ai quali ne venne aggiunto un ipotetico sesto, accompagnato dal motto «Mon seul désir», la cui interpretazione ha dato origine a un vivace dibattito. Una delle proposte piú plausibili, pur non escludendo un legame con i principi dell’amore cortese, vuole che la composizione evochi il libero arbitrio: la dama dall’acconciatura elaborata e dalle ricche vesti rinuncerebbe ai piaceri temporali. Importante è la connotazione «magica» dell’unicorno, creatura misteriosa e affascinante, al cui corno si attribuiva la capacità di scoprire la presenza di eventuali sostanze velenose e di purificare acqua o altre bevande che con esse erano state mescolate.


L’arazzo del ciclo raffigurante un ipotetico sesto senso, accompagnato dal motto «Mon seul désir» («Il mio solo desiderio»), leggibile sul sontuoso baldacchino della dama. Le iniziali A e I prima e dopo il motto hanno suggerito l’ipotesi che la signora possa essere Jacqueline, moglie di Antoine Le Viste, magistrato, ambasciatore e funzionario vissuto a cavallo fra XV e XVI sec. Nella pagina accanto la rappresentazione del gusto. I sei arazzi condividono il medesimo schema compositivo: ricorrono, in particolare, lo sfondo rosso e l’ovale blu su cui posa la scena. A destra l’arazzo dedicato alla raffigurazione del tatto.

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Dossier Pannello in vetro policromo raffigurante una coppia di signori intenta al gioco degli scacchi. L’opera è stata attribuita a un artista attivo a Lione tra il 1425 e il 1460. Fino al 1840 faceva parte della decorazione di una probabile finestra in forma di croce dell’hôtel de La Bessée, a Villefranche-sur-Saône. Si tratta di uno dei rari esempi di vetrata a soggetto civile dedicata all’amore cortese.

mensioni, non sono state spostate dalla loro collocazione precedente, come nel caso degli elementi architettonici gallo-romani esposti nel frigifarium delle terme (vedi foto a p. 76), o del portale della Cappella della Vergine di Saint-Germaindes-Prés, che – con i suoi 6 m di altezza per altrettanti di larghezza – fa da ingresso monumentale della sala di Notre-Dame. Peraltro, proprio la sala romana è una delle tappe cruciali del percorso: qui infatti, si possono ammirare le sculture romaniche e del primo gotico provenienti dall’Île-de-France (la regione di cui Parigi è il capoluogo), poste a confronto con opere ascrivibili ai territori del Mezzogiorno francese. Per la prima volta, inoltre, sono stati riuniti i materiali provenienti dalla Sainte-Chapelle,

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che includono i supporti realizzati per la tribuna delle reliquie, identificati grazie a recenti studi.

La vita quotidiana

Piú di una sala documenta la cultura materiale e la vita quotidiana nel XV secolo: aspetti testimoniati da oggetti e accessori riferibili alla cura del corpo, da giocattoli, cosí come da armi ed equipaggiamenti legati alla pratica guerresca e alla cavalleria. Mentre il restauro e la ricomposizione degli stalli provenienti dall’abbazia di Saint-Lucien a Beauvais (città situata un’ottantina di chilometri a nord di Parigi) hanno permesso di evocare, al termine del percorso, il coro di una chiesa. Qui sono esposte anche alcune opere di grandi dimensioni, fra cui varie pale d’altare e un araz-

zo lungo ben 40 m che raffigura, in ventitré scene, la Vita di Santo Stefano, e che viene esposto per la prima volta nella sua interezza. Fra i principi guida del nuovo allestimento vi è, naturalmente, la contestualizzazione degli oggetti. Monili e gioielli, per esempio, un tempo riuniti nella sala detta «del Tesoro» sono adesso distribuiti secondo un criterio cronologico. Di questo patrimonio fanno parte oreficerie per lo piú legate all’ambito religioso, fra le quali possiamo ricordare gli smalti di produzione limosina o la pala d’altare in rame dorato della Pentecoste, da Stavelot, centro della regione della Mosa non lontano da Liegi. Per quanto riguarda l’arte tessile, la delicatezza di questi oggetti ne impone la rotazione: sete, velluti e ricami vengono dunque esposti per quattro mesi, per poi essere riposti nei depositi, in assenza di luce, per tre anni. Il Museo di Cluny possiede una collezione significativa di queste produzioni, che comprende pezzi di origine occidentale e orientale, d’uso religioso e civile. Si tratta soprattutto di frammenti, ma non mancano manufatti interi, come mitre e casule. Questi e i molti altri tesori del museo si offrono dunque all’ammirazione del pubblico, distribuiti in un percorso che abbraccia un orizzonte cronologico che, come già ricordato, spazia dall’età galloromana agli albori del Rinascimento. La visita può avere inizio dal nuovo spazio per l’accoglienza, dal quale accedere agli ambienti delle giugno

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la rete europea dei musei medievali

Insieme per l’età di Mezzo Il Museo di Cluny è membro fondatore della rete europea dei musei d’arte medievale, per lo piú istituiti fra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Della rete fanno oggi parte otto musei, che condividono l’impegno a rinnovare la conoscenza del Medioevo, a far crescere il numero dei visitatori e a generare un nuovo interesse per un’arte che ha contribuito a plasmare l’identità europea. Oltre a Cluny, gli altri partecipanti al progetto sono: il Museo Nazionale del Bargello (Firenze), il Museum Schnütgen (Colonia, Germania), il Museu Episcopal di Vic (Spagna), il Museum Catharijneconvent (Utrecht, Olanda), il Museum Mayer van den Bergh (Anversa, Belgio), Palazzo Madama (Torino) e il Musée de l’Œuvre Notre-Dame-Arts du Moyen Âge et de la Renaissance di Strasburgo. Pavese raffigurante il duello tra Davide e Golia. Produzione boema, 1480 circa.

Dove e quando Museo di Cluny-Museo nazionale del Medioevo Parigi, 28 rue Du Sommerard Orario ma-do, 9,30-18,15; chiuso il lunedí, il 25 dicembre, il 1° gennaio e il 1° maggio Info tel. +33 01 53737800; www.musee-moyenage.fr; Facebook @museecluny; Instagram museecluny; Twitter @museecluny

antiche terme (vedi planimetrie alle pp. 86-87) per poi passare alle sale del pianterreno, nelle quali sono riunite opere e oggetti che documentano i secoli compresi tra l’Alto Medioevo e il XIV secolo. Al primo piano, il racconto si chiude quindi con le produzioni databili fra il XIV e il XVI secolo. Il rinnovato Museo di Cluny è dunque un osservatorio privilegiato per rileggere le vicende di un’Europa che va prendendo forma e nella quale vengono elaborate iconografie, architetture, produzioni artigianali e artistiche che, di volta in volta, costituiscono prove dell’affermazione del potere, celebrano la fede religiosa e sono specchio fedele della società dell’età di Mezzo.

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Salvo diversa indicazione, tutte le foto che corredano l’articolo si riferiscono all’Ipogeo di Piagge (Pesaro e Urbino). Una veduta d’insieme della complessa struttura sotterranea.

I misteri di un

bel horrore

di Furio Cappelli

Nelle viscere del borgo marchigiano di Piagge si snoda una struttura sotterranea da tempo balzata agli onori delle cronache e trasformata nella principale attrazione locale. Ma chi aveva scelto quella grotta per celebrare riti e cerimonie di probabile ispirazione religiosa? E perché? Gli indizi decisivi sembrano essere le decorazioni incise nella roccia...


S

iamo nelle Marche settentrionali, in provincia di Pesaro e Urbino, tra le valli del Metauro e del Cesano. Nel piacevole paesaggio collinare che si articola tra i due fiumi, si situa Piagge, un piccolo centro di antica fondazione protetto da una cinta fortificata. Si trova su un ampio crinale pianeggiante, il che ha ispirato il suo toponimo (da plagia, «pianura»). Era sede di un proprio municipio, confluito nel 2017 nel comune «sparso» di Terre Roveresche, che accorpa quattro enti locali. Il nome adottato dall’istituzione riporta in auge la casata Della Rovere, da cui scaturí l’ultima dinastia dei duchi di Urbino. Piagge, in particolare, era nell’orbita di una circoscrizione (vicariato) facente capo a Mondavio, dove tuttora spicca la rocca rinascimentale progettata dall’architetto senese Francesco di Giorgio Martini. L’opera fu disposta dal vicario Giovanni Della Rovere (1457 circa-1501), nipote di papa Sisto IV e genero del duca Federico da Montefeltro. Ma l’importanza del territorio si percepisce su un piú lungo periodo grazie al fatto che poco piú a nord del Metauro, sulla riviera adriatica, si trova la città di Fano (l’antica Fanum Fortunae, cosí chiamata per la presenza di un santuario dedicato alla dea Fortuna), con l’Arco di Augusto sull’asse della via consolare Flaminia, la prima strada che Roma promosse per valicare l’Appennino (220 a.C.). Ed è ben viva la memoria della battaglia che si disputò proprio sul Metauro nell’ambito della seconda guerra punica (207 a.C.).

Il castello abbandonato

Tra le memorie dell’antichità e i fasti del Rinascimento si colloca in modo apparentemente silenzioso la nascita di Piagge, un castello che sembra condividere la vicenda di tanti altri insediamenti del genere. Si formò in epoca piuttosto avanzata, nel XIII secolo, ereditando forse il ruolo di Lubacaria, un castrum abbandonato. All’epoca della sua nascita, Piagge si trovava sotto la giurisdizione dei monaci benedettini dell’abbazia di S. Paterniano a Fano. E di quella fase storica – per quel che concerne la struttura insediativa – permane la sola memoria di due chiese. Una di queste, S. Stefano, era quasi sicuramente all’interno della cerchia muraria (era cioè la chiesa del castello), ma di essa non resta alcunché. Osservando la realtà attuale dell’abitato, non spicca d’altronde alcuna evidenza riferibile al Medioevo. La cinta muraria è ancora ben leggibile, ma si deve a un rifacimento eseguito in piena età moderna, tra il XVI e il XVII secolo. Il basamento a sperone (bastionato) è tipico delle cinte predisposte in caso di attacco con armi da sparo. Appena fuori dalle mura, lungo la strada diretta

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medioevo nascosto marche al mare, si notano poi due chiese che non consentono neanch’esse di risalire oltre la china del Cinquecento. La parrocchiale di S. Lucia, databile appunto al XVI secolo, è stata peraltro ricostruita in altra sede nel XIX secolo. Permane nella sua struttura originaria, invece, l’ex oratorio del SS. Sacramento, attestato per la prima volta nel 1660. E proprio nei pressi di questo oratorio, in corrispondenza dell’unico ingresso originario al castello, una scoperta decisamente singolare ha d’incanto arricchito e proiettato indietro nel tempo la nostra percezione del luogo. La casa del macellaio Calcagnini era collegata a una struttura ipogea ben piú antica, utilizzata dal proprietario come ripostiglio. Situata 7 m sotto al livello stradale e scavata nell’arenaria, si distingueva da qualsiasi altra cantina per una enigmatica ricercatezza nella sua articolazione e nella sua decorazione. Lo studioso locale Gabriele Polverari ebbe modo di analizzarla nel 1996, e si convinse subito di aver trovato un ambiente sacro di remote origini. Notò infatti che la pianta descriveva in diversi punti una croce, e che l’apparato decorativo era studiato proprio per esaltare gli incroci tra gli assi. Si posero cosí le basi per un’opera di studio, di salvaguardia e di valorizzazione che ha portato il Comune ad acquisire il locale, per poi restaurarlo e renderlo fruibile al pubblico nel 2016.

Un ristretto gruppo di adepti

L’Ipogeo di Piagge – cosí la struttura è oggi denominata – è stato analizzato dall’archeologo Michele Minardi, che, nell’unico saggio sinora disponibile sull’argomento, ha ipotizzato che fosse un luogo di culto medievale. Potrebbe cioè trattarsi di una cripta, magari in relazione a una sepoltura illustre, fermo restando che la sua fruizione doveva essere riservata a un ristretto gruppo di adepti. L’apparato decorativo viene datato alla fine del XIII secolo, e Minardi suppone cosí che gli ideatori dell’Ipogeo fossero i monaci benedettini di Fano, proprio perché a quell’epoca essi detenevano la giurisdizione del castello e della sua chiesa. I Benedettini, però, non risiedevano in zona, e non avevano quindi ragione di intraprendere un sacello del tutto avulso da un loro cenobio. D’altro canto l’aura «misterica» della struttura ha piuttosto suggerito ad altri osservatori il coinvolgimento dei Templari, e la loro chiamata in causa, in una situazione del genere, rappresenta agli occhi di tanti appassionati un vero e proprio «atto dovuto». In effetti, un vasto pubblico si convince spesso che già la presenza di un solo simbolo scolpito o dipinto di ampia valenza segnica – aperto cioè a molteplici letture interpretative –, denota un inter-

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vento templare o comunque un amarcord dei monaci guerrieri, nella loro presunta veste di custodi di sapienza esoterica (vedi box alle pp. 96-97). La profusione di simboli «misteriosi» nel caso di Piagge, per giunta in un luogo occulto, apre cosí la strada a scene di iniziazione a lume di candela, con i nuovi adepti che si sottopongono a una «liturgia» facile da immaginare, con prove impegnative, formule enigmatiche e giuramenti solenni. Tuttavia, al di là dell’onnipresente mito templare, rimane comunque la realtà storica di quella esperienza, e la ricerca ha fatto molti passi avanti negli ultimi anni per individuare e analizzare i segni effettivi che i monaci del Tempio hanno lasciato, non molti e spesso frammentari o controversi. Ed è cosí, forse, che proprio i Templari possono fornire davvero una valida chiave interpretativa nello strano caso di Piagge. La piú antica testimonianza databile dell’Ipogeo era costituita da una data incisa sulla parete d’ingresso, di fianco alla scalinata (vedi foto a p. 106). Vi si leggeva chiaramente 1691. Sotto la data era presente lo stemma di Mondavio – capoluogo del vicariato di


San Marino

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In alto cartina delle Marche settentrionali, con l’ubicazione di Piagge, tra le valli del Metauro e del Cesano. Sulle due pagine l’attuale scala di accesso all’Ipogeo, databile al XVII sec.

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medioevo nascosto marche la struttura e le sue interpretazioni Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

pertinenza – con un monte all’italiana dalle tre cime. L’epigrafe riproduceva cosí – semplificandoli – i modi delle iscrizioni di apparato, tipiche di facciate o parti illustri di edifici pubblici o nobiliari, e fu incisa senz’altro a memoria del lavoro di scavo della nuova galleria d’ingresso. Altre date (1737 e 1741), tuttora evidenti, testimoniano un ampliamento su un altro settore. Quando fu realizzata la scalinata, il pavimento fu abbassato alla quota attuale. Ciò permise di sfruttare meglio gli spazi e di percorrere il corridoio principale senza impacci. Nelle camere laterali, la roccia risparmiata nel corso dell’abbassamento, formando dei banchi, permise di mettere in opera le travi (calastre) per il sostegno di botti o cassoni lignei. Tre ampie cavità grosso modo circolari sul pavimento, datate dai reperti ceramici al XIX secolo, potevano servire allo stivaggio delle granaglie o alla stagionatura del formaggio, se

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L’irresistibile fascino dell’occulto L’Ipogeo di Piagge ha suscitato, sulla stampa locale e in rete, le interpretazioni piú disparate, favorite dalle associazioni di idee che immancabilmente scattano ogniqualvolta si parli di luoghi antichi sotterranei. Un ambiente nascosto nella profondità del terreno, quando rimonta a diversi secoli fa, evoca infatti la cripta di una chiesa o una chiesa rupestre, come pure un ninfeo, un mitreo o un sepolcro. Si chiama per esempio in causa l’opera di monaci italo-greci (detti basiliani in quanto seguaci della Regola di san Basilio), proprio perché inclini a ricavare celle e luoghi di culto nelle grotte. Nell’Alto Medioevo, magari nel VII secolo – quando risultano attestati nella sola Sicilia –, essi avrebbero cosí realizzato l’Ipogeo come «basilica» a servizio di un loro cenobio. Sono poi sorte ipotesi su una prima fase della struttura come tomba romana o come necropoli e luogo di rifugio dei cristiani all’epoca delle persecuzioni, prima che si promulgasse l’editto di Milano (313). Si riadatta cosí la leggenda dell’uso «extrafunerario» delle catacombe a Roma. In tutti i casi, comunque, si cerca di risalire a un passato illustre e remoto, che faccia da giusta cornice a un sito cosí intrigante. Non c’è quindi da meravigliarsi se simili asserzioni siano confluite nei materiali redatti per illustrare al pubblico il significato della struttura, ben presto annoverata tra le mete d’obbligo negli itinerari del mistero delle Marche. L’Ipogeo si trova persino in copertina su un volume intitolato Marche segrete (editore Ciabochi, Fabriano 2019). Cosí facendo, si creano senz’altro connessioni gustose con cave, sottopassaggi e cisterne di varia epoca, in quelle «città non addirittura alle riserve di ghiaccio. L’aspetto interessante, comunque, è che quando la struttura assunse l’assetto e la funzione di cantina, alla fine del XVII secolo, non era pertinente a una casa, ma a uno spazio pubblico. Un portico corrispondeva all’Ipogeo a livello della strada, ed era integrato al percorso in salita (rivellino) che conduceva alla porta del castello. Inoltre, l’Ipogeo era conosciuto e apprezzato dagli abitanti del luogo, tanto da divenire un modello anche dal punto di vista estetico per altri sotterranei al servizio di edifici privati. In alcuni casi è accertato il loro utilizzo come rifugi antiaerei durante la seconda guerra mondiale.

L’articolazione interna

La struttura originale dell’Ipogeo è costituita da un corridoio («navata») che incrocia due bracci trasversali («transetti»), formando una croce a doppia tragiugno

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sotterranee» dove talvolta – sin dal XVIII secolo – si è trovato lo spunto per gallerie o sale deputate a fascinazioni esoteriche di matrice massonica o neotemplare, persino con apparati scultorei a tema, come in taluni casi nella città di Osimo. Procedendo in questo modo, tuttavia, il sito di Piagge rimane nel vago, liquidato in poche righe e disperso nel mare magnum dei labirinti ipogei. Ma con il giusto grado di attenzione è possibile andare oltre.

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Planimetria dell’Ipogeo di Piagge con la distribuzione degli apparati decorativi: 1. ingresso con scalinata; 2. nicchie con gigli e rosette; 3. volta con grande rosetta, gigli e fioroni; 4. nicchie con rosette; 5. volta con rosetta iscritta in una croce; 6. ambiente terminale; 7. camere aggiunte nel XVIII sec. In basso nicchie con giglio centrale e rosette. Nella pagina accanto l’incisione con lo stemma e la data 1691, oggi non piú leggibile.

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medioevo nascosto marche La volta con grande rosetta centrale e figurazioni d’angolo (vedi anche le foto in basso, nel box); all’imposta della volta si nota una nicchia sormontata da una rosetta piú piccola.

Simbologia

Stelle e rosette Basta il compasso per tracciare una rosetta: è sufficiente intersecare sei circonferenze di eguale diametro, con i centri disposti a intervalli di 60° lungo una circonferenza di pari apertura, che inquadra infine il disegno risultante. Si tratta di un simbolo cosmico di fortuna plurimillenaria, che rientra nella «famiglia» del rosone e della ruota della fortuna. Può essere definita «stella a sei punte» (per via del numero consueto dei petali), in analogia alla stella di Davide, come pure «fiore della vita», sulla scorta delle visioni esoteriche ricondotte agli antichi Egizi e alle speculazioni della scuola pitagorica. In genere rappresenta il sole e si associa comunque ai concetti della luce divina e della perfezione celeste. Si trova in contesti di ogni genere nel Medioevo, ma anche in piena età moderna. Si può infatti incontrarla nelle chiese, ma anche negli ambiti della sacralità domestica (porte, finestre, camini, cassapanche per corredi nuziali), e in ogni angolo d’Europa, dalla Spagna alla Romania, dove «resiste» persino nelle case rurali in legno del XIX secolo. Il giglio (o fiordaliso), reso proverbiale dall’araldica (anche civica, come nel caso di Firenze), è un simbolo di purezza, tanto da essere accolto come attributo della Vergine. La sua origine è controversa e la forma non ha nulla a che fare con il fiore omonimo. La sagoma a lobi simmetrici si ricollega semmai al fiore di loto della tradizione indiana, che trae forza dal suo nascere sull’acqua, fonte di vita. Il monte su cui talvolta il giglio si imposta (come a Piagge), allude al Calvario, il monte della crocifissione e del sepolcro di Cristo.


versa (ricrociata). Il percorso longitudinale è scandito da una serie di nicchie, mentre sui punti di incrocio il soffitto disegna campi circolari (clipei), che alludono alla calotta di una cupola (immagine del cielo). Tutti questi elementi sono poi esaltati da una decorazione eseguita a incisione, che si limita a pochi simboli aniconici (privi di ogni carattere figurativo): il giglio, la rosetta, un fiorone. A questi si aggiunge la croce che caratterizza, sul soffitto, l’incrocio tra il corridoio e il secondo braccio trasversale. Al centro di questa croce si colloca una rosetta, il che evidenzia – sia pure a livello criptico – l’aspetto sacrale dell’ambiente e le implicazioni cristologiche dei suoi simboli. In particolare, la combinazione tra la rosa e la croce – già attestata nelle decorazioni delle suppellettili presbiteriali delle chiese tra VIII e IX secolo –, richiama il concetto della croce fiorita e dell’albero della vita, giunto infine a ispirare la setta esoterica dei Rosacroce, sorta in Germania nel XVII secolo. A completare il quadro, occorre sottolineare la presenza di cornici e di profilature cilindriche che danno un tono di eleganza e di coesione a tutto l’apparato. In sostanza, chi aveva allestito l’Ipogeo – e dovette farlo con fatica e perizia –, padroneggiava un linguaggio architettonico essenziale e «classico» al tempo stesso. A modo suo, e in base ai caratteri dell’ambiente, l’artefice ripropose cosí gli effetti di un edificio di spicco. A sua volta, la decorazione «minimalista» recupera un vocabolario segnico diffuso soprattutto nell’arte cristiana dell’Alto Medioevo. Ebbene, un tale linguaggio architettonico e ornamentale rimanda all’estetica dei Cistercensi, cioè ai monaci che crearono un’edilizia all’insegna della linearità e del rigore, con il rifiuto pressoché categorico di ogni figurazione, come voleva san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153). Ed è questa estetica che venne fatta propria dai Templari, in perfetta armonia con l’immagine del monaco che militava in difesa della fede, senza concedersi inutili dispendi di risorse per la gloria ridondante degli ornamenti. Basta citare il caso illustre della cappella templare di Montsaunès (Occitania, seconda metà del XIII secolo) per vedere una significativa rispondenza (anche se ben piú elaborata) del linguaggio profuso nell’Ipogeo di Piagge. Il vocabolario simbolico, basato su rosette e gigli variamente combinati lungo le pitture

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templari in etruria

Un po’ cavalieri del Tempio e un po’ archeologi... I graffiti analizzati nella Tomba Bartoccini di Tarquinia (un monumento funerario etrusco del VI secolo a.C.) sono sorprendenti. Quei testi incisi sulle pareti, registrano con stile «notarile» una consuetudine non altrimenti sospettabile. Chi entrava in quel bel horrore si cimentava in attività sessuali con donne, come è fin troppo evidente dal ripetersi del verbo si foteo (volgarizzazione di futui nel significato di «fottei»). Scopriamo persino i nomi di qualche partner, come per esempio Gaffreduzza di Giacoma. Una Maria del Balivo, che godeva della protezione di Barnabo – forse un eminente personaggio dell’Ordine –, a dispetto di costui finí tra le braccia di fra’ Meliosus. Un singolo graffito attesta inoltre il giuramento prestato da un tale Vincenzo. Lo scenario che si ricava, con rapporti sessuali consumati da una o piú coppie in presenza di astanti, a lume di candela, nel buio di un tumulo etrusco, supera di molte spanne le piú fervide fantasie di chi alimenta l’immagine dei Templari come una setta in odore di eresia, dedita a sapienze occulte e a pratiche peccaminose. A questo riguardo, viene istintivo invocare il fumus insistente sui comportamenti trasgressivi assunti dai monaci nella cerimonia di ammissione all’Ordine. Un rito orgiastico, con il coinvolgimento di donne, è per esempio attestato in Linguadoca (Francia meridionale). Simili dicerie – comprovate da confessioni estorte in modo brutale –, alimentarono l’esile impianto accusatorio che portò alla violenta cessazione del fenomeno templare, e sono difficilmente assumibili come testimonianze veritiere. Ma non per questo si possono escludere fenomeni di «devianza», piú o meno ricorrenti. Resta da chiarire che cosa inducesse a svolgere determinati atti in una situazione del genere. La proibizione di quegli stessi atti – severamente asserita dalla Regola dell’Ordine – è di sicuro l’aspetto centrale. Il mancato rispetto del divieto, in presenza di testimoni, è quindi parte essenziale del rito. La cornice paraliturgica assicura, d’altro canto, un senso di sacralità e di inviolabilità, trasformando i rapporti sessuali in imprese memorabili, senz’altro utili a creare vincoli e complicità tra le persone coinvolte.

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La parete di fondo della Tomba Bartoccini, nella necropoli etrusca dei Monterozzi, a Tarquinia (Viterbo). VI sec. a.C. Appaiono evidenti i simboli e le scritte graffiti sui dipinti murali originali, di recente attribuiti alla frequentazione del sepolcro da parte dei Templari.

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del soffitto, è il medesimo, e ricorre anche l’abbinamento tra la rosetta e la croce di Cristo. Due analoghi casi italici, d’altra parte, sono costituiti dalle decorazioni scultoree del S. Jacopo al Tempio a San Gimignano (prima metà del XIII secolo) e dalle pitture di S. Bevignate a Perugia (1256-62). Anche le nicchie che sfilano lungo le pareti del sotterraneo rientrano nello stesso linguaggio di riferimento. Non sappiamo se esse avessero una funzione specifica, ma di sicuro si ricollegano ai modi dell’architettura cistercense. In molti casi, infatti, nei santuari delle chiese di quell’Ordine si notano nicchie dello stesso tipo, ripetute in ogni cappella. Servivano per riporre libri sacri, oggetti liturgici e paramenti. Talvolta servivano da lavabi con tanto di sistema di scarico, e nella stessa forma e con decori analoghi agli esemplari di Piagge esiste pure un’acquasantiera a parete (1250 circa) riconducibile a una presunta sede templare, nella chiesa di S. Francesco (già dei Ss. Pietro e Tommaso) a Costacciaro (Perugia), sull’asse di quella via Flaminia che corre poi lungo il Metauro. Anche i dettagli, quindi, suggeriscono di vedere nell’Ipogeo un ambiente sacrale preposto ad atti liturgici o paraliturgici, con aspetti che alludono a una chiesa o a una cappella, senza però rispondere funzionalmente ad alcuna tipologia del genere. Si tratta, infatti, di una struttura a sé stante, in cui potevano entrare poche persone alla volta, con un sistema di ingresso che in origine poteva essere per giunta estremamente disagevole. Le superfici calpestabili non sono molto estese (dopo gli ampliamenti si arriva a 50 mq), e occorre per giunta immaginare un soffitto con una quota piú bassa dell’attuale, che nel punto massimo raggiunge comunque solo 2,20 m. D’altro canto, non esistono indizi di altari o di sepolture. Tutto ciò, insomma, configura una situazione che non si concilia con i caratteri e con le esigenze delle consuete funzioni del culto cristiano. L’idea del luogo di culto tipico va scartata anche per via di un semplice ragionamento. Che senso aveva realizzare un ambiente del genere, a 7 m di profondità, per svolgere gli stessi riti che potevano essere comodamente celebrati in una qualsiasi chiesa? Verosimilmente, quindi, le riunioni che si tenevano nell’Ipogeo erano organizzate senz’altro da un ristretto gruppo di adepti, come ipotizza Minardi, ma non potevano essere semplici messe o comunque cerimonie religiose di prammatica. Dovevano essere atti rituali di altro genere, da svolgere necessariamente in luoghi occulti. Nonostante la conformità degli adepti al credo cristiano, quel che si svolgeva nell’Ipogeo doveva perciò rimanere precluso a tutti coloro che non rientravano nel gruppo dei celebranti. L’apparato decorativo poteva svolgere in tal senso anche la funzio-

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ne di un attestato di proprietà, in caso di intrusione o di ingerenza da parte di estranei.

Giovanni, maestro precettore

Ma chi potevano essere quegli adepti, e che cosa facevano nell’Ipogeo? L’eccezionalità di questa struttura, in assenza di qualsiasi testimonianza di supporto, non ci aiuta a rispondere, ma le connessioni plausibili con il mondo templare permettono almeno di formulare una ipotesi. A questo fine è molto importante un parallelo con una recente acquisizione. Ci riferiamo agli studi condotti e coordinati dal paleografo Carlo Tedeschi sulla etrusca Tomba Bartoccini (VI secolo a.C.), presso la medievale Corneto, ossia l’odierna città di Tarquinia, nella Tuscia viterbese (vedi box alla pagina precedente). In questo antico sepolcro, si è rivelato un caso unico di reimpiego medievale nel contesto della necropoli. La tomba, infatti, fu adattata a luogo di riunione a servizio di un presumibile gruppo di Templari negli anni 1220-30. Se si segue l’interpretazione di Tedeschi, un graffito nomina proprio un frate maestro dell’Ordine, Giovanni, che può essere identificato con un precettore della Milizia del Tempio in Italia, già in carica nel 1218. I punti di contatto con il caso di Piagge sono molteplici. La tomba etrusca in questione era naturalmente posizionata fuori dall’abitato e non era connessa ad alcuna costruzione. L’ingresso avveniva in origine tramite un assai disagevole cunicolo, nel quale si doveva procedere a carponi. La planimetria dell’antica struttura, grazie agli ambienti irraggiati intorno alla camera centrale, poteva alludere alla croce, e la croce stessa è assai presente nei graffiti praticati sulle pareti dai frequentatori medievali. Dalle iscrizioni parimenti graffite, emergono infine taluni concetti che possono aiutarci a capire come potesse essere percepito un tale ambiente, e a quali funzioni fosse adibito. Viene nominato come grota («grotta»), critta («cripta», e quindi oratorio o sacello sotterraneo), come pure bel horrore, ossia un luogo appartato e nascosto (horror, in latino) che vanta per giunta una gradevole estetica grazie alle antiche pitture parietali. Come sacello sotterraneo o bel luogo nascosto può essere anche definito l’Ipogeo di Piagge, il cui ingegnoso apparato segnico-decorativo, appositamente realizzato, qualifica e contraddistingue l’ambiente, cosí come fanno – con ben altro effetto – gli affreschi e i graffiti stessi di Tarquinia. Quanto alle funzioni, le iscrizioni e i simboli graffiti implicano nel caso «etrusco» l’agire di un limitato gruppo di monaci cavalieri, intenti a svolgere in un ambiente occulto atti illeciti e giuramenti, inquadrabili in un rituale paraliturgico o parodistico. A giudicare dall’impegno profuso, il caso di Piagge potrebbe implicare un

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto una veduta del castello di Piagge. Sulle due pagine la struttura dell’Ipogeo a piè della scalinata di accesso, con una sola nicchia come motivo ornamentale.

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Dove e quando Ipogeo di Piagge Terre Roveresche, Municipio di Piagge, via Monte Grappa 11 Orario mag-ott: sabato e domenica, 17,00-20,00; nov-apr: sabato, 16,00-19,00; domenica, 16,00-18,00 Info tel. 328 8711938 oppure 320 4159700; https://comune.terreroveresche.pu.it/ accento piú marcato del carattere cerimoniale. D’altronde, i rispettivi gruppi di adepti, proprio perché si ponevano al di fuori di regole codificate, non dovevano necessariamente agire allo stesso modo.

Lontano da occhi indiscreti

Da leggere Gaetano Curzi, La pittura dei Templari, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2002 Michele Minardi, L’Ipogeo di Piagge. Una ricerca preliminare, in Gabriele Polverari-Gianni Volpe (a cura di), Piagge, Grapho 5, Fano 2009; pp. 92-101 Carlo Tedeschi (a cura di), Graffiti templari. Scritture e simboli medievali in una tomba etrusca di Tarquinia, Viella, Roma 2012 Furio Cappelli, L’Ipogeo di Piagge. Storia, funzioni e simbologia di un luogo misterioso tra le valli del Metauro e del Cesano, in Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Marche, 115, 2020 (in corso di stampa)

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Manca a questo punto una comunità da chiamare in causa, ma proprio l’ipotizzato caso di Tarquinia ci mostra che i luoghi occulti evitavano un legame diretto con specifiche sedi dell’Ordine. Fra’ Gaimale, di origine franca, «maestro del Tempio di Gerusalemme e di tutte le obbedienze d’Italia», è comunque coinvolto per un atto di compravendita che vede protagonista l’Ordine a Fano nel 1185, come evidenzia lo storico Carlo Castignani. Già negli ultimi decenni del XII secolo, i Templari erano dunque attivi sulla fascia costiera della Marca di Ancona, e dovevano aver già intrapreso il loro irraggiamento nell’entroterra. Il fatto stesso che l’Ipogeo di Piagge si trovasse in un luogo di campagna, nei pressi di un piccolo castrum, garantiva una certa discrezione. Il sito, anzi, aveva il duplice vantaggio di essere ridossato rispetto alla via Flaminia, ma al tempo stesso facilmente raggiungibile. Il fenomeno degli Ordini cavallereschi attivi oltremare, per l’importanza del porto di Ancona in primis, doveva essere d’altronde di una certa intensità lungo l’asse umbro-marchigiano, anche perché questa direttrice congiungeva il caposaldo di Perugia (sede di una importante precettoria templare) alla riviera adriatica. Come ulteriore ipotesi, non si può escludere che l’Ipogeo di Piagge fosse al principio una cava di arenaria, riadattata agli usi rituali in seconda battuta, presumibilmente negli anni 1225-50. In tal senso, lo scavo poté essere intrapreso proprio in funzione della costruzione del nascente castrum, in corrispondenza della porta urbica. La vicinanza con quest’unica porta del castello, unendo le esigenze sacrali a quelle militari, poteva poi fornire al sotterraneo l’aura di una cappella castrense (un piccolo luogo di culto in un contesto edilizio difensivo), perfettamente in linea con lo stile di vita dei monaci cavalieri.

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Storie, uomini e sapori

Un frate dal talento... maccheronico di Sergio G. Grasso

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antova non ha regalato alla latinità solo Virgilio, il suo piú grande cantore, ma anche Teofilo Folengo, il dissacratore piú scanzonato della lingua dei padri e dei costumi cinquecenteschi. Pronipote dell’umanista Vittorino da Feltre, nacque come Gerolamo nel 1491, settimo dei nove figli di Paola Ghisi e del notaio Federico Folengo, nobile mantovano legato ai Gonzaga. Al pari di sei dei suoi fratelli, il sedicenne Gerolamo prese l’abito monacale e assunse il nome di Teofilo. Erudito, acuto e dotato di una naturale predisposizione alla scrittura e al poetare in latino e in volgare, vagò per numerosi monasteri del Nord Italia (Mantova, Brescia, Padova, Pomposa, Cesena, Ferrara, Parma) sperimentando sia le vessazioni dei superiori che gli orrori della guerra. Il suo ruolo di subcellarius (amministratore) lo portava a frequentare le cucine e le cantine dei monasteri e lo poneva continuamente in contatto con i contadini che lavoravano i fondi dell’Ordine.

Il Paese di Cuccagna, incisione di Niccolò Nelli. 1564. Washington, National Gallery of Art.

Tavola raffigurante Gargamella, madre di Gargantua, che sta per consumare un pasto, da un’edizione ottocentesca dell’opera di Rabelais.

La rinuncia all’abito talare La sincera spiritualità e semplicità evangelica non riuscivano tuttavia a soffocare il suo carattere spigoloso che si manifestava nella non episodica insofferenza all’ambiente clericale corrotto del suo tempo. In questo ebbe buon gioco anche il turbamento creato dalle ideologie eterodosse che la rivolta luterana andava diffondendo in seno alla Chiesa italiana. Feroce oppugnatore di Teofilo (e dei suoi due fratelli, entrambi benedettini, Ludovico e Giambattista), fu l’abate Ignazio Squarcialupi, messo a capo dell’Ordine da papa Clemente VII Medici. Nel 1525, di fronte a un’arbitraria accusa di peculato tramata dall’abate, Folengo decise di lasciare il saio per la vita secolare e di vivere della stima letteraria e dei discreti proventi che

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CALEIDO SCOPIO si era conquistato già nel 1517. In quell’anno aveva dato alle stampe il suo primo e fortunato libro, un poema eroicomico in esametri che faceva il verso ai piú seri componimenti epico-cavallereschi dell’epoca e aveva per titolo Liber macaronices o Baldus.

Sotto pseudonimo, ma non per paura «Maccheronica» era la lingua parodica e grottesca, inventata dal Folengo: un latino ineccepibile per grammatica morfologia, sintassi, metrica e prosodia, ma intriso di vocaboli ed elementi volgari, ruvidi e scurrili. Prese a modello alcuni mediocri componimenti comicorealistici in quel vernacolo che già circolavano nell’Italia settentrionale dalla fine del Quattrocento; su tutti quello di Tifi degli Odassi intitolato Carmen Macaronicum de Patavinis quibusdam Arte Magica delusis. Folengo – a quell’epoca ancora Fra’ Teofilo – firmò l’opera con lo pseudonimo Merlinus Cocaius Poetae Mantuani, non tanto e non solo per non incorrere nelle ire e nelle censure dei superiori, ma perché, come ebbe egli stesso a dire, si sentiva in obbligo di non imbrattare il suo nome (Teofilo= amato da Dio) con un’impresa letteraria tanto leggera e spesso profana. Dieci anni dopo ricorse anche allo pseudonimo Limerno Pitocco da Mantova (Limerno è anagramma di Merlino e Pitocco stava per mendicante) firmando cosí il suo secondo poema, Orlandino, che contiene episodi ispirati a un violento anticlericalismo.

Un seguace illustre All’opera di Folengo va inoltre riconosciuto il merito di aver profondamente influenzato quel grande capolavoro narrativo francese che fu, ed è, il Gargantua e Pantagruel pubblicato pochi anni dopo il Baldus da François Rabelais con lo pseudonimo e anagramma Alcofribas Nasier (vedi «Medioevo» n. 304, maggio 2022; anche on line su issuu.com). Suona perlomeno curioso che Rabelais venga considerato tra i numi

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Nella pagina accanto pagine dell’edizione definitiva e prima edizione figurata dell’Opus macaronicum di Teofilo Folengo, stampata a Venezia da Alessandro Paganini. 1521. In basso ritratto di Teofilo Folengo, olio su tavola. Prima metà del XVI sec. Firenze, Galleria degli Uffizi. Il dipinto è stato variamente attribuito al Romanino (al secolo, Girolamo da Romano) o a un ignoto pittore di scuola veneta. Unanime è invece l’opinione degli studiosi sull’identificazione con Folengo: è stato infatti osservato che la posa leggermente teatrale e lo «sguardo di sufficienza» si confanno alla personalità del letterato. tutelari della letteratura francese, mentre al Folengo le antologie letterarie italiane dedicano una striminzita scranna tra gli autori minori, quasi solo per la sua funambolicità vernacolare. Certo il Baldus trabocca di invettive contro l’immoralità, gli stravizi, gli eccessi morali, la corruzione e l’ipocrisia del clero del suo tempo; tuttavia, il leit motiv di fondo è sempre insistentemente goliardico, da «gula», il meno criticabile tra i peccati capitali. Le sue muse ispiratrici non sono quelle che chiacchierano nel Parnaso, ma quelle «panificae» che «imboccano di maccheroni il poeta, e gli danno cinque o otto catini di polenta». Egli chiama a raccolta «le dee grasse, le ninfe sgocciolanti la cui dimora, regione e territorio son racchiusi in un angolo remoto del mondo, che le caravelle spagnole non hanno ancora scoperto». Ricalcando le orme letterarie di Calandrino e di Morgante, entra a piè pari nel mito di Bengodi e del Paese di Cuccagna dopo aver «varcato Alpi di formaggio, ora tenero, ora ben stagionato, ora di mezza via. Corrono giú in basso fiumi di buon brodo che poi vanno a finire in un lago di zuppa, in un pelago di stracotti. E qui passano e ripassano barche e brigantini, a migliaia, tutti di torta: e sopra ci stanno le mie Muse e gettano reti cucite con budelle di maiale e con trippe di vitello, e pescano gnocchi, frittelle e gialle polpette di frattaglie». Chi voglia azzardare l’ipotesi di plagio dal Decamerone, ricordi che sarebbero plagiari di Cimabue o di Duccio giugno

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di Buoninsegna tutti i pittori che dipinsero piú tardi la stessa Madonna col Bambino. Perché Folengo non fa che riprendere l’eterno e immutabile modello della fame plebea, il sogno alimentare di popolazioni secolarmente denutrite che non potendo sfamarsi a tavola trasferivano e mitizzavano i loro stupori gastronomici negli strambotti, nelle cantilene dei vagabondi, nelle stampe popolari lussureggianti d’alberi che stillano rosolio tra laghi di polpette e ruscelli di burro. Nel Baldus anche gli dèi mangiano e bevono come gli umani e consumano i nostri stessi menu. Ecco, in originale maccheronico, la sua interpretazione della cucina di Giove, il terribile padre dei numi, il cui cenno faceva tremare il vasto Olimpo:

qui despennat aqua mortos buliente capones, qui discompagnat magones de figadellis, qui boccalum implet, si desunt vasa, busecchis, qui cosire parat testam cum pelle vedelli, qui porcellettos inspedat, quique cavecchio ingiovat lardum, quo plus caro grassa fiatur

Sunt ibi sexcentum sguatari sub iure cogorum: pars gestat lignum, pars truncat, parsque ministrat sub centum bronzis, caldaribus atque padellis. Qui scannat vitulum, qui slongat colla polastris, qui cavat e panza trippas, dum scortigat alter,

Meglio il mestolo della cetra

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In quell’Olimpo picaresco non c’è un efebico Ganimede che riempie di nettare le coppe degli dèi, ma un corpulento Mastro Prosciutto, che dispensa ricette ai mortali e che sopraintende a ogni cuoco e sguattero per confezionare un’ambrosia fatta di grassi capponi, pancette di porco, formaggio fresco, zenzero, prezzemolo, menta e garofani piccanti.

Al posto delle Muse descritte da Virgilio come silfidi che danzano evanescenti sul Parnaso ci sono cuoche grasse e rubiconde che lasciano la cetra per il mestolo, che al fuoco sacro della poesia preferiscono quello acceso sotto

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Tavola realizzata da Gustave Doré per un’edizione delle opere di François Rabelais. 1873. Protagonista della scena è Gargantua, che attraversa a cavallo le sue terre. ai calderoni gorgoglianti e che hanno capito finalmente a che cosa serve l’alloro dei poeti. A insaporire i fegatelli: divae illae grassae, nymphaeque colantes, albergum quarum, regio, propiusque terenus clauditur in quodam mundi cantone remosso, quem spagnolorum nondum caravella catavit Illic ad bassum currant cava flumina brodae, quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti Sunt ibi costerae freschi, tenerique botiri in quibus ad nubes fumant caldaria centum, plena casoncellis , macaronibus, atque foiadis. Ipsae habitant nymphae super alti montis aguzzum, formaiumque tridant gratarolibus usque foratis. Sollicitant altrae teneros componere gnoccos, qui per formaium rigolant infrotta tridatum, segue revoltantes de zuffo montis abassum deventant veluti grosso ventramine buttae

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Il tormentone alimentare regna goloso e plebeo nell’opera di Folengo, il quale preferisce prendere le similitudini dal mondo culinario campagnolo, il piú vicino alla mentalità della povera gente, periodicamente flagellata dalle pestilenze e dalle carestie, ed esortata alla rassegnazione da fratacchioni che, a pancia piena, predicavano disinvolti la santità del digiuno. La pirotecnica invenzione stilistica di Teofilo Folengo non ha limiti e arriva addirittura ad annichilire secoli di venerata tradizione classico-eroica, come quando, nel cantare l’innamorata Zanina, il contadino Tonello esclama: «O Zanina, meo plus stralusenta badilo / dulcior est muso nulla recotta tuo» («O Zanina, piú lucente del mio badile / nessuna ricotta è piú dolce del tuo muso»). Non è dunque la Venere di Botticelli il modello della bellezza femminile, bensí il badile, non sono Beatrice o Laura a idealizzare la dolcezza di un volto, ma una morbida e candida ricotta. Potrà sembrare un greve realismo, ma esprime una verità subconscia: non diciamo da sempre alla donna amata: «ti mangerei di baci...»? E che cosa è il bacio, se non un morso attenuato? giugno

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Quando i santi prendevano le armi

Il mistero della scimitarra mancante di Paolo Pinti

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ebbene questo spazio sia destinato ai santi e alle loro armi, un’incursione tra i beati non offenderà nessuno, anche perché la differenza è minima e, soprattutto, perché si tratta di personaggi assai poco noti (tranne che a Tolentino e Padova) e meritevoli del nostro interesse. In verità, le probabilità d’imbattersi in opere d’arte che ritraggano questi martiri sono decisamente scarse e, per di piú, come diremo fra poco, l’identificazione dei soggetti può talvolta essere equivocata. Qui ci occuperemo di religiosi – frati francescani, in questo caso – che, animati dalla fiamma della fede e ansiosi di convertire piú gente possibile, persino attirati dalla prospettiva del martirio, si spinsero nei luoghi piú disparati, soprattutto in Asia e in Africa, per predicare la propria dottrina, senza troppo rispetto per quella seguita sul posto, e finendo per essere uccisi dai sovrani/sacerdoti locali, dopo essersi rifiutati di abiurare. Caratteristica costante è l’efferatezza delle torture alle quali furono Nella pagina accanto Beato Giacomo da Padova, affresco di Girolamo Tessari. 1530. Camposampiero (Padova), Santuario del Noce. Il dipinto mostra due armi molto caratteristiche, che rientrano nella categoria delle storte e dei pugnali o daghe a dischi. Quella sul capo (storta) è, in pratica, una sorta di scimitarra, piuttosto di lusso, con lama larga, corta e massiccia, molto frequente in scene del genere; infissa sullo sterno, vi è invece una daga/pugnale a dischi o a rotelle, tipica del periodo compreso tra la fine del XV e gli inizi del XVI sec. Non sono riproduzioni fedeli degli originali, ma l’artista ha cercato di rendere molti particolari reali: la lama del pugnale a sezione stretta e robusta, con nervatura centrale; l’impugnatura interamente in acciaio lavorato a balaustro (come sugli stiletti lombardi del XVII sec.); i due dischi a definizione dell’impugnatura, con quello superiore decorato con una corolla in rilievo.

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sottoposti prima di essere uccisi, segno della crudezza dei tempi, ma anche della fantasia malata di chi in seguito ne ha narrato le storie. A onor del vero, nel caso di Tommaso da Tolentino – nato nella cittadina marchigiana intorno al 1260 ed entrato giovanissimo nell’Ordine francescano – a rafforzare le pene sofferte contribuí la gerarchia ecclesiastica, che lo fece rinchiudere in prigione in quanto predicava la povertà della Chiesa e perché ritenuto seguace di Angelo Clareno (il Francescano che, per avere aderito alla corrente degli spirituali, fu perseguitato, processato e condannato; infine, si rifugiò in Lucania per sfuggire all’Inquisizione, n.d.r.).

Missione in Asia Alla fine, però, Tommaso venne liberato e gli furono assegnati vari incarichi in missioni in Europa e in Asia. Sul finire del 1320, con i francescani Giacomo da Padova, Pietro da Siena, Demetrio da Tifliz e con il domenicano Giordano da Severac, s’imbarcò a Hormuz, alla volta della Cina. Durante il viaggio, furono costretti a sbarcare nell’isola di Salsetta (Salsette, vicino a Mumbai), dove furono accolti da

Beato Tommaso da Tolentino, affresco di pittore anonimo di area veneta. 1484. Piove di Sacco (Padova), santuario della Madonna delle Grazie. Il beato indossa l’abito francescano, ma manca la palma, segno del martirio. Infissa nel collo è l’arma che l’ha ucciso: è un grosso coltello, riconoscibile in quanto tale – cioè con lama a un solo filo – perché l’impugnatura è asimmetrica, con elsa e pomo sporgenti da un solo lato. Non vi sono segni di ferite sul capo, né sul torace. una famiglia di nestoriani a Tana (Thane). Furono però arrestati e, dopo aver persistito nel sostegno del proprio credo e dei suoi dogmi, furono crudelmente assassinati, il 9 aprile del 1321 (uno di loro, qualche giorno piú tardi). Di certo furono sottoposti alla prova del fuoco e, probabilmente, vennero finiti con scimitarre e pugnali. Curiosamente, alcune cronache parlano di uccisione da parte di «sicari»: una circostanza in realtà incompatibile con una condanna pubblica e un’esecuzione plateale, quale è la prova del fuoco, peraltro costantemente ricordata nelle poche raffigurazioni reperite. E anche la crudeltà dell’esecuzione non viene, nei fatti, ulteriormente specificata, cosicché la fantasia è libera di ipotizzare gli scenari piú disparati.

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CALEIDO SCOPIO Ecco, dunque, perché ricorrono il coltellaccio conficcato nel collo oppure il pugnale nello sterno. Un dipinto ad affresco realizzato da Girolamo Tessari nel Santuario del Noce a Camposampiero (Padova) è, invece, piú complesso, con due «armi del martirio» – una storta

e una daga a dischi – conficcate rispettivamente sul capo e sul petto (vedi foto a p. 108). Ma su questo torneremo a breve.

Torturati e poi decapitati Maggiormente condivisa è l’opinione sul fatto che tutti

questi Francescani (subito o alla fine di varie torture) fossero stati uccisi/decapitati con una spada/ scimitarra. Considerata questa ipotesi, come mai i pittori hanno scelto di raffigurare daghe, pugnali e coltellacci (tutte armi, comunque, non collegate a un’eventuale decapitazione) e mai spade o scimitarre? Come sappiamo, gli artisti sono sciolti dai vincoli della realtà e possono raffigurare ciò che piú preferiscono (nel nostro caso le armi), tuttavia, in un ambito cosí delicato, occorre tenere conto delle esigenze della committenza, che verosimilmente pretendeva una rappresentazione dei fatti coerente con la Beato Tommaso da Tolentino e san Giorgio, scomparto di polittico di Giovanni Boccati. 14581460. Città del Vaticano, Pinacoteca vaticana. Sotto la figura del beato si legge BS (BeatuS) IOAS (Ioannes) DE PRATO, che era inizialmente valsa la sua identificazione con Giovanni de Prado, frate minore martirizzato nel 1631. Federico Zeri (nel 1961) la riteneva molto piú tarda, aggiunta almeno dopo la beatificazione di tale religioso, avvenuta nel 1728. Nel torace del martire vediamo conficcato un robusto pugnale, simile a un baselard, ma con elsa piú sporgente e dotata di bracci allargati alle estremità; l’impugnatura, ricoperta in legno o cuoio nero, è decorata con puntini metallici. Notare che il beato Tommaso non presenta ferite al capo.

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Il martirio dei missionari francescani in una incisione di Alessandro dalla Via. 1684. Demetrio e Tommaso pregano per Giacomo che affronta la prova (tortura) del fuoco. I due carnefici impugnano un forcone curvo a due rebbi, che non è però destinato a essere usato contro i condannati, bensí per smuovere la legna nel fuoco, come si vede in moltissime scene del genere, prima fra tutte quella del martirio di san Lorenzo sulla graticola. tradizione: probabilmente, sulle modalità che caratterizzarono l’uccisione dei cinque sventurati non si formò mai un’idea precisa, giusta o errata che fosse. A parte il fuoco, onnipresente, ciascuno ha perciò dipinto le armi che riteneva piú adatte alla circostanza. Sorprende, tuttavia, che sia stata esclusa proprio la spada (o scimitarra), nonostante fosse lo strumento ricorrente per rappresentare la conclusione definitiva di ogni scena di martirio.

Un martire ben riconoscibile Ma torniamo all’affresco di Tessari, per metterne in rilievo la caratteristica della presenza di due armi, di tipologia e di collocazione identiche a quelle che caratterizzano i dipinti con san Pietro Martire. Quest’ultimo è un santo martire famosissimo e molto venerato ancora oggi, anche se in ambiti non troppo estesi, che troviamo spesso in quadri e affreschi e che risulta facilmente identificabile, perché nel cranio ha infisso un coltellaccio o un mannarino, oppure una storta, e il suo petto è trafitto da un pugnale di vario tipo. Venne ucciso nel 1252, quindi prima dei fatti occorsi ai nostri Francescani, e il successo incontrato dalla sua

iconografia, con le due armi sul capo e sul petto, potrebbe aver ispirato i pittori che si sono occupati di Tommaso e dei suoi compagni. Se le armi sono praticamente le stesse, come distinguere allora l’immagine di Pietro da Verona (poi Pietro Martire) dai beati Tommaso da Tolentino e Giacomo (o Jacopo) da Padova? È semplice: dal saio. Pietro da Verona era un Domenicano e la veste di quell’Ordine era bianca, con mantello e cappuccio neri, mentre i Francescani l’avevano

grigia, uniforme, non raramente raffigurata di colore marrone, in varie sfumature. Un esempio degli equivoci che possono essere ingenerati dalla compresenza di due armi sul capo e sul petto è l’iconografia di sant’Angelo da Gerusalemme (1185-1220), in tutto e per tutto rappresentato come il santo di Verona, ma distinguibile sempre per il saio: essendo Angelo un Carmelitano, la veste era infatti scura, con mantello e cappuccio neri.

Un pugnale a dischi (alcuni autori parlano di daga a dischi), dello stesso tipo di quello presente nel dipinto di Tessari a Camposampiero.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Liana Castelfranchi Vegas Italia e Fiandra nella pittura del ‘400

Editoriale Jaca Book, Milano, 292 pp., ill. col.

50,00 euro ISBN 978-88-16-60645-6 www.jacabook.it

Insigne storica dell’arte medievale, Liana Castelfranchi Vegas (1924-2013) pubblicò nel 1983 la prima edizione del volume ora riproposto da Jaca Book. I molti anni trascorsi nel frattempo non hanno

sembrò non toccare l’Italia e che invece, come argomenta Castelfranchi, coinvolse certamente anche la Penisola, dove peraltro le opere prodotte in Fiandra riusultarono assai apprezzate, tanto da innescare un gran numero di importanti committenze. A ciò si affiancarono le sperimentazioni di maestri quali Antonello da Messina o Giovanni Bellini, che piú di altri si mostrarono sensibili alle innovazioni della pittura fiamminga. Riccardo Nencini Condannato a morte Il viaggio di Dante tra Toscana e Romagna

Edizioni Polistampa, Firenze, 64 pp., ill. col.

10,00 euro ISBN 978-88-596-2237-6 www.polistampa.com

privato l’opera del suo interesse e la trattazione conserva inalterati molti spunti originali. L’analisi della studiosa si concentra su un periodo circostanziato, la seconda metà del Quattrocento, nel corso del quale la pittura fiamminga conobbe grande successo e influenzò sensibilmente la produzione artistica europea. Un fenomeno che

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Nel Dossier di «Medioevo» dedicato a Dante Alighieri (n. 46, settembre/ottobre 2021; anche on line su issuu.com), Chiara Mercuri, che lo ha firmato, sottolinea piú volte come l’autore della Commedia sia stato innanzi tutto un politico. In sintonia con simili considerazioni si muove Riccardo Nencini, che, adottando una chiave narrativa oscillante fra romanzo e cronaca storica, rievoca l’esilio

del poeta. Costretto ad abbandonare Firenze, Dante comincia un lungo peregrinare e Nencini prova a immaginare quali foschi pensieri possano aver attraversato la sua mente e con quali occhi possa aver guardato a un futuro all’apparenza privo di speranze. Un esperimento letterario di sicuro interesse, la cui trama s’intreccia con le puntuali descrizioni dei luoghi che fecero da sfondo all’intera vicenda. Roberto Rossi Precerutti San Giacomo di Stura Un monastero medievale alle porte di Torino. Secoli XII-XIII Neos Edizioni, Torino, 104 pp., ill. b/n

14,00 euro ISBN 978-88-66083-29-0 www.neosedizioni.it

Abbazia di fondazione vallombrosana, S. Giacomo di Stura si trova alle porte di Torino e questo agile volume, arricchito dalle tavole di Emilia Mirisola, ne offre

una descrizione puntuale, ma non si limita a proporsi solo come eventuale guida turistica (anche perché, al momento, il complesso non è visitabile). L’autore auspica infatti che l’operazione editoriale possa contribuire a una maggiore attenzione nei confronti del monumento, che è sí oggetto di un intervento di restauro, ma che meriterebbe una piú incisiva azione di tutela e valorizzazione. A sostegno di questa

sorta di appello, Rossi Precerutti si sofferma quindi sul ruolo svolto dal complesso monastico, che, sorto nel 1146, ebbe un ruolo decisivo nella gestione del territorio e nelle attività di assistenza a poveri, pellegrini e viandanti in un’area attraversata da una diramazione della via Francigena. Una vocazione di

servizio «incoraggiata tanto dalle élite cittadine (…) quanto dai lignaggi signorili del contado». Costantino D’Orazio Il Chiostro del Bramante e le Sibille di Raffaello Skira editore, Milano, 80 pp., ill. col.

12,00 euro ISBN 978-88-572-4542-3 www.skira.net

Un libro piccolo, ma prezioso quanto i capolavori a cui è dedicato: il Chiostro del Bramante e l’affresco delle Sibille dipinto da Raffaello nell’adiacente S. Maria della Pace. Siamo a Roma, a ridosso di piazza Navona, e le due realizzazioni prendono forma in una stagione in cui la città dei papi si fa epicentro di un fermento creativo destinato a restare insuperato. Una temperie che D’Orazio evoca sapientemente, pur nella concisione dello scritto. (a cura di Stefano Mammini)




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