Medioevo n. 304, Maggio 2022

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MEDIOEVO n. 304 MAGGIO 2022

EDIO VO M E www.medioevo.it

DECAMERON TUTTI I VIZI DELLA NOBILTÀ BOLOGNA LA HAGGADAH DI SARAJEVO

Mens. Anno 26 numero 304 Maggio 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ROMA L’AVENTINO DEGLI OTTONI OLTRE LO SGUARDO GIOTTO E L’INGANNO DI GIACOBBE

DOSSIER

LA RIVOLUZIONE DI DONATELLO

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www.medioevo.it

€ 6,50

AVENTINO ANGHIARI MEDIEVALE/1 I NOBILI NEL DECAMERON ESAÚ E GIACOBBE DOSSIER DONATELLO

ANGHIARI NEL BORGO DELLA BATTAGLIA

RE PER IL M ED MO A

O EV IO

UN

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IN EDICOLA IL 3 MAGGIO 2022



SOMMARIO

Maggio 2022 ANTEPRIMA AMORI MEDIEVALI Il duca e la diavolessa di Federico Canaccini

MOSTRE Il racconto ritrovato a Sarajevo di Enza Maugeri

ICONOGRAFIA Da beata a gran dama di Luca Salvatelli

In ricordo di Chiara

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di Furio Cappelli

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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di Valentina Nicolucci

ANGHIARI MEDIEVALE/1 Nel borgo della battaglia di Gabriele Mazzi

COSTUME E SOCIETÀ VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/5 Novelle di sangue blu di Corrado Occhipinti Confalonieri

STORIE ROMA Quando Ottone si fermò sull’Aventino

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OLTRE LO SGUARDO/14 Esaú e Giacobbe 30

Il grande inganno di Furio Cappelli

LIBRI Lo Scaffale

Dossier

LA RIVOLUZIONE DI DONATELLO 83 di Mila Lavorini

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70 CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Le iperboli narrative di Rabelais di Sergio G. Grasso 102 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Il sacro scetticismo di Tommaso di Paolo Pinti 108

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DO SPE NA CIA TE LE LL O

MEDIOEVO n. 304 MAGGIO 2022

MEDIOEVO www.medioevo.it

DECAMERON TUTTI I VIZI DELLA NOBILTÀ BOLOGNA LA HAGGADAH DI SARAJEVO

Mens. Anno 26 numero 304 Maggio 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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AVENTINO ANGHIARI MEDIEVALE/1 I NOBILI NEL DECAMERON ESAÚ E GIACOBBE DOSSIER DONATELLO

ANGHIARI NEL BORGO DELLA BATTAGLIA

RE PER IL M ED MO A

O EV IO

UN

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Vincenza Maugeri è direttore del Museo Ebraico di Bologna. Gabriele Mazzi è direttore del Museo della Battaglia e di Anghiari. Valentina Nicolucci è curatrice per l’archeologia della Fondazione Sorgente Group. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Luca Salvatelli è docente di storia dell’arte. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

IN EDICOLA IL 3 MAGGIO 2022

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20/04/22 10:46

MEDIOEVO Anno XXVI, n. 304 - maggio 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: AKG Images: copertina (e p. 51, basso) e pp. 32 (alto), 37, 70/71, 72, 77, 102, 105; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 58/59, 110; Erich Lessing/Album: pp. 67, 103 (alto), 111; Album/Oronoz: p. 73; Electa: p. 75; Electa/Antonio Quattrone: p. 80; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Gianni Cigolini: p. 103 (basso); Album: p. 108 – Doc. red.: pp. 5, 12 (destra), 14-15, 34/35, 36, 54 (destra), 55, 60-66, 74, 76, 78/79, 88, 100, 104, 106/107 – Cortesia Museo Ebraico di Bologna: pp. 6-10 – Cortesia degli autori: pp. 12 (sinistra), 13, 40-41, 44, 50, 54 (sinistra), 56, 109 – Marco Farmalli: p. 16 – Shutterstock: pp. 30/31, 33, 38/39, 42-43, 48/49, 52-53 – Alamy Stock Photo: pp. 36/37 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 38, 112 – National Gallery of Art, Washington: p. 68 – Cortesia Ufficio Stampa mostra «Donatello, il Rinascimento»: pp. 83, 84-87, 89, 90-99 – Cippigraphix: cartina a p. 32 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 50/51, 51. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito: https://arretrati.pressdi.it In copertina La lotta per lo stendardo, particolare della Battaglia di Anghiari, disegno di Peter Paul Rubens dal cartone di Leonardo da Vinci per il perduto affresco del fatto d’armi. 1600-1608 circa. Parigi, Museo del Louvre.

Prossimamente vivere al tempo del decameron

medioevo nascosto

I mercanti secondo Boccaccio

Mistero marchigiano

dossier

Dee del destino e fate madrine

Errata corrige con riferimento all’articolo Quelle storie narrate «donnescamente» (vedi «Medioevo» n. 302, marzo 2022), desideriamo segnalare che alla foto alle pp. 48/49 è stata erroneamente associata la didascalia della foto alle pp. 50/51 e viceversa. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.


amori medievali di Federico Canaccini

Il duca e la diavolessa

L’

amore e la passione hanno travolto uomini e donne d’ogni epoca e di tutti gli strati sociali. Ce ne danno l’ennesima conferma i protagonisti della vicenda che affrontiamo in questo mese: si tratta, infatti, del figlio del re d’Inghilterra Edoardo III, Giovanni di Gand, e della governante delle sue figlie, la bella Caterina di Hainaut. Quest’ultima era figlia di un araldo di origini fiamminghe, Payne de Roet, proveniente da Hainaut, e, dopo aver ricevuto una prima educazione in convento, a quindici anni raggiunse la sorella che lavorava nel seguito della regina Filippa, alla corte di Enrico III. Lí conobbe e contrasse matrimonio con un cavaliere inglese, Hugh Swynford, forse grazie alla sua avvenenza, giacché non aveva alcuna dote in denaro, né possedeva altri beni. In quegli anni Caterina inizia dunque a servire a corte, accudendo la moglie di Giovanni di Gand, Bianca, e le figlie, sorelle del futuro re Enrico IV. Alla morte di Bianca (1369), se non prima, Caterina divenne l’amante del duca, il quale la onorò subito, donandole un proprio stemma araldico. Nel 1371 morí in Francia anche il marito di Caterina ed ella partorí il primo di quattro figli illegittimi avuti dal duca, che però, nello stesso anno, sposò in seconde nozze Costanza, figlia di Pietro di Castiglia. Ciononostante, il legame adulterino non si spezzò e anzi, nel 1373, fu addirittura ufficializzato. Tra il 1375 e il 1379 nacquero poi gli altri figli: Enrico, Tommaso e Giovanna. La relazione proseguiva in modo palese e l’opinione pubblica non dovette accettare di buon grado la scelta del duca di Lancaster: cronisti del tempo etichettarono Caterina come «strega e puttana», oppure come «diavolessa e incantratrice», accusandola di aver affatturato Giovanni di Gand e di averne approfittato. Forse a causa della pressione esercitata dalla corte, il rapporto si interruppe, apparentemente, verso il 1381: nel frattempo, il duca era ormai l’uomo piú potente d’Inghilterra, essendo divenuto il tutore di Riccardo II, eletto re ad appena 10 anni. Ma l’amore riserva spesso sorprese: quando infatti nel 1394 Costanza di Castiglia morí, il duca decise finalmente di sposare la sua amante: le nozze furono celebrate nel 1396, a Lincoln, e i quattro figli, nati illegittimi, furono fi-

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nalmente legittimati. La coppia visse per tre anni nel vincolo del matrimonio, finché il duca non morí, nel 1399: in quello stesso anno Enrico IV, suo figlio, rovesciava Riccardo II e diventava re d’Inghilterra, dando inizio alla casata reale dei Lancaster. L’umile Caterina, ora duchessa, sopravvisse al marito altri quattro anni e tutelò i figli ormai legittimi. Benché Enrico IV avesse introdotto una clausola che li escludeva dal trono, ciò non impedí a Enrico VII Tudor, discendente di Giovanni e Caterina, di diventare re d’Inghilterra un secolo piú tardi (1485-1509).

Giovanni di Gand e Caterina in un particolare de La prima traduzione in inglese della Bibbia, olio su tela di Ford Madox Brown. 1847-1848, 1859-1861. Bradford, Bradford Art Galleries and Museums.

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ANTE PRIMA

Il racconto ritrovato a Sarajevo

MOSTRE • Il Museo

Ebraico di Bologna espone, fino al 12 giugno, 47 riproduzioni originali di un prezioso codice pergamenaceo di età medievale

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L

a redazione manoscritta e preziosamente istoriata che va sotto il nome di Haggadah di Sarajevo è un codice di straordinario valore prodotto in Spagna intorno alla metà del Trecento. Dopo la cacciata degli Ebrei del 1492, passando da Salonicco e dall’Italia, giunge a Sarajevo, dove, dal 1894, è conservato al Museo Nazionale. Durante la seconda guerra mondiale sfugge alla razzia dei nazisti perché Derviš Korkut, il bibliotecario musulmano, lo nasconde in una moschea, in mezzo

Sulle due pagine riproduzioni di miniature della Haggadah di Sarajevo, il cui originale è databile alla metà del XIV sec. In alto, la distribuzione del pane azzimo; nella pagina accanto, il seder di Pesach. a una serie di volumi del Corano. Miracolosamente illesa e di nuovo al Museo Nazionale, durante il conflitto degli anni 1992-95, si salva ancora una volta per opera di Enver Imanovic, il Direttore del Museo, il quale, insieme ad alcuni coraggiosi poliziotti e membri della Guardia territoriale, porta via l’Haggadah maggio

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Sopravvivere a Sarajevo Il percorso espositivo della mostra «L’Haggadah di Sarajevo» è affiancato dalla serie fotografica di Edward Serotta «Sopravvivere a Sarajevo», che documenta la drammatica quotidianità dell’assedio di Sarajevo durante la guerra dei Balcani (1992-1995) e il formidabile contributo di solidarietà prestato dall’associazione «La Benevolencija». Grazie all’attività dell’associazione e, in particolare, del suo presidente Jacok Finci furono organizzati convogli umanitari di civili serbi e croati, musulmani e cristiani, che volevano lasciare la città assediata. Superando i posti di blocco controllati dai Serbi, furono salvate circa 3 mila persone. L’immagine di Sarajevo «spartita» nel tessuto del suo centro storico dal percorso del fiume Miljacka e bloccata sullo sfondo dalle sagome ingombranti dei grattacieli sorti in età contemporanea, torna ad assumere la forma accettabile di un agglomerato metropolitano. Finalmente libera dai fumi degli incendi e dall’orrore degli spari che per anni hanno contrassegnato la sua vita civile e la sua stessa possibilità di sopravvivenza. Eppure fin dalla piú credibile interpretazione etimologica del suo stesso nome (Sarajevo, sia pure con una desinenza slavizzata, significa in lingua turca «la corte del governatore»), questa città rappresenta, per la collocazione strategica e per il patrimonio storico-culturale prodotto, uno dei centri piú autentici e rappresentativi della civiltà europea. Essa ha ospitato e ospita le sedi delle grandi religioni monoteiste – e per quella cristiana anche nelle due confessioni ortodossa e cattolica – e ne ha preservato la sacralità e il valore anche nelle stagioni piú tragiche. Garantendo nel corso dei secoli, pur tra profonde differenze di trattamento praticate nei confronti degli individui da parte del potere, la legittimità di tutte le appartenenze etniche nella dimensione sociale e civica. Come ha scritto Ivo Andric (1892-1975, premio Nobel per la letteratura nel 1961) «Sarajevo è stata una città, un luogo di libertà».

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ANTE PRIMA

DOVE E QUANDO

«La Haggadah di Sarajevo» Bologna, Museo Ebraico fino al 12 giugno Orario da domenica a giovedí, 10,00-18,00; venerdí, 10,00-16,00; sabato e festività ebraiche chiuso Info tel 051 2911280 oppure 6569003; e-mail: info@museoebraicobo.it; www.museoebraicobo.it dal Museo che si trovava sulla linea del fronte e la trasferisce nel caveau della Banca Nazionale.

Un salvataggio fortunoso Curiosamente, in tutti i suoi travagliati spostamenti, questo meraviglioso manoscritto deve la sua sopravvivenza alla protezione, alle cure e al coraggio di due uomini musulmani consapevoli del valore storico-artistico del volume e che esso sia parte di un patrimonio comune. La Haggadah di Sarajevo è stata

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Dall’alto, in senso orario un folio che descrive in due scene la liberazione dall’ Egitto; la sinagoga; una pagina miniata che si riferisce alla descrizione del seder di Pesach.


mostrata al pubblico una sola volta, nel 1989 a Zagabria, in occasione di un incontro sulla cultura ebraica. La mostra al Museo Ebraico di Bologna, quindi, rappresenta una preziosa occasione di esplorare, attraverso fedelissime riproduzioni con interventi eseguiti a mano, la ricchezza delle rappresentazioni di luoghi, paesaggi, figure umane e animali, creature fantastiche e compiacimenti grafici eseguiti in oro e colori ancora perfettamente conservati nella loro brillantezza, che ci restituiscono l’immagine di un Medioevo luminoso, in cui confluiscono gli apporti di culture diverse. Caratteristica propria dell’Haggadah di Sarajevo, infatti, è la presenza di ben 69 miniature che, al di là della loro funzione di introdurre e corredare il testo, riportano informazioni storiche sugli Ebrei spagnoli del XIV secolo, attraverso, per esempio, gli arredi e gli abiti caratteristici del luogo e del periodo che si vedono nella raffigurazione di una sinagoga a porte aperte (folio 34), o di un seder pasquale (folio 31).

Echi spagnoli e provenzali Oltre alle figure umane le miniature contengono animali: uccelli, cani, pecore, conigli, api, cavalli, mucche, leoni, rane e fiori, gigli, alberi ecc. Tutti questi elementi sono rappresentati pieni di colori, vividi e in armonia fra loro. Lo stile è tipico della scuola spagnola con influenze provenzali e italiche e le rappresentazioni denotano la conoscenza del testo ebraico e il rispetto della tradizione aniconica, comune anche all’Islam, nell’attenzione a evitare qualsiasi rappresentazione del Creatore. La Haggadah di Sarajevo è letteralmente una sorta di enciclopedia pittorica, unica nel suo genere, delle tradizioni dell’ebraismo medievale. Chi l’ha realizzata conosceva le storie della Bibbia nei dettagli e ha tentato

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Che cos’è la Haggadah La Haggadah (letteralmente, «narrazione», «racconto») è il testo che ripercorre la storia della schiavitú degli Ebrei in Egitto e della loro liberazione cosí come viene narrata nel Libro dell’Esodo e accompagna il seder («ordine») di Pesach, la cena rituale e simbolica che si svolge generalmente in famiglia nelle prime due sere della cosiddetta Pasqua ebraica. Pesach, che in ebraico significa «passaggio», è la festa della primavera, ma anche di una nuova consapevolezza degli Ebrei che, stanziati da troppo tempo in Egitto in condizioni di sudditanza, prendono coscienza di essere un popolo e di avere il diritto a una vita libera in una propria terra. La prima fonte dell’obbligo di celebrare il seder di Pesach si ritrova nella Torah (i primi cinque libri della Bibbia): «lo narrerai a tuo figlio» (Esodo 13,8). Lo scopo dichiarato del seder è dunque quello di trasmettere di generazione in generazione la memoria dell’uscita dall’Egitto, in modo che ognuno si senta liberato dall’asservimento al Faraone e salvato dall’azione diretta di Dio. Nella Haggadah si trovano diversi rituali che, compiuti secondo un ordine preciso – di qui il termine seder – scandiscono la cerimonia, assieme a differenti interpretazioni del racconto biblico, brani liturgici e composizioni popolari. La redazione di questo testo copre un arco di tempo molto vasto che, nelle sue parte essenziali, abbraccia un orizzonte cronologico compreso tra l’epoca biblica e i primi secoli dell’era volgare. La parte rituale disposta nella Haggadah si impernia su una serie di atti simbolici che assumono il valore di memoria: in particolare la consumazione di pane non lievitato – Matzah – a ricordo della liberazione straordinaria e quasi improvvisa; la benedizione su quattro calici di vino, simbolo dell’adempimento delle promesse di libertà da parte del Signore; la presentazione di un osso o porzione di carne, in memoria del sangue dell’agnello che, asperso sulle case degli Ebrei come segno di fede in Dio li salvò dalla morte dei figli primogeniti; le erbe amare, testimonianza delle sofferenze e delle umiliazioni. Il ricordo della schiavitú in Egitto si ricollega, nel corso del seder, alla catena di sofferenze che, fino alla Shoah, ha segnato la storia del popolo ebraico; lo stesso ricordo è pero anche principio e stimolo di solidarietà e comprensione per ogni umano patimento. Nel corso dei secoli l’Haggadah è stato uno dei libri piú amati e diffusi in tutte le case ebraiche. Secondo Josef Yerushalmi (Haggadah and History, 1976) si possono catalogare tremilacinquecento edizioni della Haggadah di Pesach date alle stampe nell’arco di cinque secoli. E queste sono solo le edizioni che si sono potute reperire: quante altre ne saranno ancora esistite sconosciute o andate perdute in un cosí lungo periodo di tempo? E come spiegare questo fenomeno editoriale non riscontrabile in altri libri della tradizione ebraica? Forse perché è un libro che si legge in «una notte diversa da tutte le altre»; una notte nella quale i bambini rivolgono ai piú anziani delle domande e tutti sono consapevoli dell’unicità della notte di Pesach, o forse anche perché l’Haggadah è un libro destinato soprattutto ai bambini, e questo ne fa spesso oggetto di dono e anche di allegra usura, tra scarabocchi, macchie e piccole distruzioni, come si vedrà anche in mostra, sia nelle piú modeste edizioni contemporanee, sia nella stessa preziosissima Haggadah di Sarajevo.

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ANTE PRIMA Alcune delle foto di Edward Serotta facenti parte della serie «Sopravvivere a Sarajevo» ed esposte nella mostra allestita al Museo Ebraico di Bologna.

Obiettivo sui Balcani Edward Serotta è uno scrittore, fotografo e corrispondente televisivo specializzato in questioni ebraiche contemporanee in Europa centrale. Nato a Savannah, Georgia, si è laureato in pubblicità all’Università del Tennessee e ha lavorato in vari campi a Los Angeles e Atlanta dal 1972 al 1984, quando ha iniziato a fotografare e a scrivere sull’Europa centrale. Si è trasferito a Budapest nel 1988 e risiede a Berlino dal 1991, dove è il direttore del Central Europe Center for Research and Documentation, una fondazione specializzata nella cronaca delle questioni ebraiche contemporanee in Europa centrale e nei Balcani. di completarle con particolari talvolta raffinati altre volte piú semplici e conosceva il testo nella sua lingua originale. La mostra «L’Haggadah di Sarajevo», curata da Alberto Rizzerio e Danièle Sulewic, è nata dalla collaborazione del MEB con il Centro Culturale Primo Levi e la Comunità Ebraica di Genova. Vincenza Maugeri

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ANTE PRIMA

Da beata a gran dama ICONOGRAFIA • Santa Rosa, patrona

di Viterbo, compare in numerosi dipinti a soggetto religioso realizzati dopo la sua epoca. E che rileggono in maniera singolare l’immagine della giovane terziaria francescana

In alto la cupola della basilica di S. Rosa a Viterbo. A sinistra Santa Rosa, particolare del Polittico di Santa Rosa, opera di Francesco d’Antonio Zacchi. 1450-1462. Viterbo, basilica di S. Rosa.

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ercorrendo la massiccia cinta muraria medievale di Viterbo si scorge e staglia nello skyline cittadino una cupola poderosa e brillante: è quella della basilica dedicata a santa Rosa, santuario già di S. Damino, ove, su disposizione dello stesso Alessandro IV (12541261), il corpo incorrotto della santa venne traslato e deposto nel 1258, con solenne processione dalla chiesa di S. Maria in Poggio. La travagliata esistenza terrena e l’apostolato della fanciulla si svolsero in un fugace lasso temporale di appena 18 anni, tra il 1233 e il 1251, intrecciandosi indissolubilmente con le vicende di una realtà urbana fortemente dinamica e politicamente piuttosto aggressiva, in cerca di tutela dalle eccessive intromissioni imperiali e papali, di protezione dalle mire espansionistiche del comune romano. Circostanze nelle quali Rosa prese un’ardente posizione in difesa del pontefice, in particolare predicando aspramente contro San Donnino e Santa Rosa, affresco di Aimone Duce. Primo quarto del XIV sec. Ivrea, S. Maria Assunta.

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i catari, sostenuti dal partito imperiale e filoghibellino della città, tanto da essere esiliata su ordine dell’autorità podestarile. L’esilio durò fino alla morte dell’imperatore, nel 1250, anno in cui poté tornare nella città natale e, cinto l’abito di penitente in dominus propris – abito che diverrà successivamente quello delle Terziarie francescane, a seguito della bolla Supra montem catholicae ecclesiae (1289) –, dedicarsi totalmente alla missione di predicazione fino alla sua precoce morte nel 1251.

Una tradizione figurativa alternativa Nell’ambito della suggestiva vicenda biografica e del complesso quadro storico agiografico sorto intorno alla patrona della città, meritano una distintiva e puntuale riflessione alcune iconografie trecentesche e primo-quattrocentesche della beata fanciulla. Tali figurazioni formano, infatti, una tradizione figurativa altra, differente da quella comunemente tramandata e conosciuta, una tradizione ormai quasi del tutto perduta, se non per alcuni sporadici testimoni.

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ANTE PRIMA La Vergine e il Bambino attorniati da due angeli e dalle sante Rosa e Caterina, olio su legno attribuito al Perugino. Ultimo quarto del XV sec. Parigi, Museo del Louvre. In basso il corpo mummificato di santa Rosa, traslato nel 1258 nella basilica viterbese a lei intitolata. Iconografie laiche, che si allontanano in maniera assai peculiare da quella tradizione che successivamente andrà sviluppandosi in particolare proprio dalla metà del XV secolo, per irrigidirsi e normalizzarsi tra la seconda metà del XVI e primi decenni del XVII secolo, quando in piena fase controriformata, si canonizzerà quella tipologica figurazione variamente declinata in abito da Terziaria francescana, o di Clarissa, giunta fino ai giorni nostri. Tale antica tradizione sembra trovare una sua prima attestazione già nel maldestro schizzo inserito proprio in chiusura del frammento della Vita I (Viterbo, Archivio del Monastero S. Rosa, Fondo Antico, Diplomatico, s.n.), infatti, pur nella limitatezza del tratto, si riflette, in maniera del tutto evidente, il sapore del

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tutto profano, che traspare dall’abbozzo atto a suggellare la giovane penitente in domibus propriis. Proprio tale sapore verrà amplificato e reso in maniera ancor piú profonda nell’identico soggetto agiografico raffigurato nella giottesca Cappella della Maddalena (13071308) della Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. Qui, infatti, la beata fanciulla risulta accostata alla nobile, giovane martire sant’Agnese, e appare ritratta nelle sembianze di una ieratica nobildonna, tanto da apparire identificabile solo attraverso il titulus e dal minuto fiore che stringe e a cui deve il suo nome. A distanza di un secolo, la medesima matrice iconografica, indice della sua fortuna e persistenza, traspare in un ricercato affresco frammentario, attribuibile al pavese Aimone Duce († 1444), recentemente scoperto e restaurato nel deambulatorio della cattedrale di S. Maria Assunta a Ivrea e databile entro il primo ventennio del XV secolo (vedi foto a p. 13). Seppure assai distante per cronologia, sintassi e retroterra culturale dalle predette testimonianze, il sopracitato frammento, raffigurante

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Comunione di Santa Rosa di Viterbo, olio su tela di Juan Antonio de Frías y Escalante. 1667 circa. Madrid, Museo del Prado. rispettivamente i due eletti Donnino e Rosa – come esplicitano le scritture esposte sovrastanti i due santi –, magnifica ed enfatizza proprio quella primordiale matrice profana, accentuando, valorizzando ed elevando lo status sociale di provenienza della vergine. Infatti, una Rosa dalla bionda capigliatura appare in un principesco abito verde ricamato con leggiadro motivo floreale e avvolta di un mantello cremisi foderato di vaio, con in mano un minuto codice da mano e un mazzolino di rose selvatiche, ove in uno squisito, genuino lessico cortese sono rievocati e riassunti i suoi attributi principali identitari. Rosa appare quindi trasfigurata in una dama contemporanea, esemplata in maniera assai affine a quelle eroine antiche del ciclo della Sala baronale del Castello della Manta, divenendo essa stessa un’eroina, in tal caso paladina della Chiesa, fervente divulgatrice della parola di Cristo, ove il libro diviene, insieme al crocefisso, arma fondamentale del suo apostolato, rivestendo ancora una volta il primigenio nativo ufficio di propagandatrice della fede in contrasto alle eresie, in particolare predicatrice contro le eterodossie comunitarie (valdesi, catari).

La magnificenza delle vesti In un medesimo lasso temporale e iconografico, ma in un contesto culturale e geografico altro, coincidente con quello nativo della vergine viterbese, si pone un’ulteriore figurazione laica di Rosa, quella afferente all’omonimo Polittico (Viterbo, Monastero di S. Rosa; vedi foto a p. 12) di mano del conterraneo Francesco d’Antonio Zacchi († ante 1476). Qui la centralità della santa non solo è sottolineata dalla sua preminente posizione gerarchica all’interno della complessa e articolata composizione, ma anche dalla magnificenza delle sue vesti, ancora una volta trapuntate di arabeschi floreali, dettaglio che sembra rammentare, sebbene attraverso una sintassi imperniata di un cristallino, atemporale sapore tardogotico sia l’aulico e solenne precedente giottesco, sia il fiabesco sembiante del pittore d’Acaja. Tali figurazioni sembrano, inoltre, perpetuare per immagine il ricordo di quell’abito di velluto cremisi, ricamato di fiorami dorati, circonfuso di perle e gemme, che sembra ornasse anticamente le spoglie della Beata vergine, abito del quale si ha un’ininterrotta testimonianza dal XIV secolo fino al 18 settembre 1615, quando per volere del vescovo di Viterbo e Tuscania Tiberio Muti (1574-1636), nell’acceso clima devozionale postridentino, per la prima volta, come già ricordava Giovanni Selli nella Vita e miracoli di santa Rosa vergine viterbese. Compendio

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storico-sacro (Viterbo 1828): «[il corpo di santa Rosa] fu rivestito con candidi panni di lino e con tonica d’armesino color bigio, con cordone, soggolo ed ogni altra cosa che sogliono portare le monache dell’ordine di S. Chiara». Una sí profonda trasformazione, modificazione dei canoni figurativi rosiani è da registrarsi, come testé menzionato, sia in concomitanza con l’articolato progetto della Chiesa volto alla rivalorizzazione delle reliquie e delle sepolture dei martiri in senso strettamente apologetico, sia, soprattutto, in relazione all’attenzione per l’antica spiritualità cristiana e i valori della santità medievale scaturita dai dettami tridentini. In tale quadro, volto all’esaltazione dei primi martiri, degli autentici e indiscussi protagonisti, campioni della fede cristiana, Rosa da Viterbo diviene oggetto di un’ampia azione di rivitalizzazione, proprio in virtú del suo potente messaggio apostolico, codificabile e indirizzabile anche in funzione antiluterana e contro-riformata. Azione questa che si accompagna con la definitiva diffusione dell’austera iconografia con l’abito delle seguaci di Chiara di Assisi, in particolare nell’ambiente monastico in cui l’immagine di Rosa diverrà inequivocabilmente modello ed exemplum e con il completo abbandono di quella laica tardo-gotica antiquariale. Luca Salvatelli

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In ricordo di Chiara N

on spetta certo a me ricordare l’importanza di Chiara Frugoni come studiosa e scrittrice. Posso solo dire di aver perso la mia amica piú cara. Eravamo distanti su tanti fronti. Le nostre case erano lontane, diverse erano le nostre rispettive età, e prive di qualsiasi plausibile confronto le nostre esperienze di vita e di cultura. Eppure l’incanto della sua persona – con una inconfondibile, raffinata semplicità – annullava ogni barriera e ci accomunava magicamente, complice l’interesse vivo e insaziabile per il Medioevo. Si trattava di un campo di studi che lei padroneggiava con una vasta esperienza, puntigliosa e ingegnosa, senza tuttavia fermarsi al livello della indagine. Con la stessa immediatezza che la contraddistingueva come persona, trasmetteva il suo sapere a un ampio numero di conoscitori e di appassionati, a prescindere dalle loro competenze. Era un’accademica di livello internazionale, ma riusciva ad appassionare l’uditorio piú vario con la sua infaticabile e generosa comunicativa. Non era un’impresa difficile coinvolgerla in un incontro pubblico, anche se era organizzato da una piccola associazione. Anzi, proprio la possibilità di incontrare un uditorio «semplice», fuori dalle logiche della rappresentanza e dell’eco mediatica, rinfocolava il suo gusto battagliero per una cultura democratica, equanime e condivisa, e sempre – doverosamente – di altissima levatura. In perfetta coerenza, il suo era uno stile di vita rigoroso, appartato, silenzioso. La sua casa era defilata e affacciata sui campi. La sua cucina era sapiente e gustosa, con una padronanza impareggiabile in tutto ciò che è semplice e genuino. La sua perdita è irrimediabile. Aveva ancora tanto da dare, come persona e come studiosa, e ora ci sentiamo tutti orfani, come ha detto giustamente un nostro comune amico di Barcellona. Resta la scia brillante delle sue opere e dei suoi ricordi. Resta l’esempio di una persona che univa in un solo tratto impegno etico, sapienza e passione. Solo lei riusciva a trasmettere con la stessa intensità un senso di padronanza della materia e una gioia impetuosa, in una ricerca infaticabile che era guidata

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Chiara Frugoni (1940-2022). anche e soprattutto da una curiosità fanciullesca, limpida e soave. Troppo spesso chi lavora in simili campi sente il bisogno di esibire la propria erudizione e il proprio frasario altisonante, senza magari preoccuparsi di essere abbastanza originale e coinvolgente. Lei per prima aveva bisogno di meravigliarsi, e proprio per questo rendeva viva e suadente una tematica che poteva apparire ostica e inestricabile. Questa profonda e inarrivabile leggerezza è uno dei suoi doni piú preziosi. Furio Cappelli

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ANTE PRIMA

Una Borsa tira l’altra INCONTRI • Alla BIT di Milano la Regione Campania e la

Città di Capaccio Paestum hanno presentato la XXIV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, a Paestum dal 27 al 30 ottobre

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

lla BIT (Borsa Internazionale del Turismo) di Milano, in occasione della conferenza stampa della Regione Campania con Felice Casucci Assessore alla Semplificazione Amministrativa e al Turismo e Rosanna Romano Direttore Generale per le Politiche Culturali e il Turismo, è stata presentata dall’Assessore del Comune di Capaccio Paestum Ettore Bellelli, in rappresentanza del Sindaco Franco Alfieri, e dal Fondatore e Direttore della BMTA Ugo Picarelli la XXIV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, a Paestum presso il Tabacchificio Cafasso da giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2022. Ugo Picarelli ha sottolineato la grande attenzione che sta suscitando la prossima edizione, dopo il successo del novembre scorso, a seguito degli incontri avuti in BIT con gli Assessori Regionali al Turismo di Calabria, Lazio, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia e con i Direttori delle Agenzie Regionali del Turismo di Basilicata, Friuli e Toscana, che hanno assicurato la loro partecipazione nel Salone Espositivo. Inoltre, dai colloqui con il Ministro del Turismo Massimo Garavaglia (intervenuto con un saluto alla conferenza stampa presso lo Stand Campania) e con il Direttore Regione Europa dell’UNWTO, l’ONU del turismo con sede a Madrid, Alessandra Priante è emerso il loro

impegno a essere presenti alla BMTA 2022, mentre l’ENIT grazie al Presidente Giorgio Palmucci, all’Amministratore Delegato Roberta Garibaldi e al Consigliere di Amministrazione Sandro Pappalardo sta già lavorando con le proprie delegazioni estere per assicurare i 40 buyer europei che svolgeranno il Workshop con gli operatori turistici dell’offerta sabato 29 ottobre. Presenti in occasione della conferenza: Vincenzo Napoli Sindaco di Salerno, Alessandro Ferrara Assessore al Turismo del Comune di Salerno, Alfonso Andria Consigliere di Amministrazione Parco Archeologico di Paestum e Velia. Il Fondatore e Direttore Ugo Picarelli ha colto l’occasione per augurare al neodirettore del Parco Archeologico di Paestum e Velia Tiziana D’Angelo, insediatasi ufficialmente lo stesso giorno, un percorso professionale gratificante e straordinario, certo che le sue prestigiose competenze ed esperienze internazionali saranno un importante valore aggiunto per le prossime edizioni della BMTA. La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico è promossa da Regione Campania, Città di Capaccio Paestum e Parco Archeologico di Paestum e Velia e si svolge con il sostegno di: Ministero della Cultura, Ministero del Turismo, UNESCO e UNWTO. Ugo Picarelli (a destra, in piedi) con Rosanna Romano e Felice Casucci durante la presentazione della XXIV edizione della BMTA di Paestum alla BIT di Milano.

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre VICENZA LA FABBRICA DEL RINASCIMENTO. PROCESSI CREATIVI, MERCATO E PRODUZIONE A VICENZA. PALLADIO, VERONESE, BASSANO, VITTORIA Basilica Palladiana fino all’8 maggio (prorogata)

Alla metà del Cinquecento Vicenza, fra le aree piú dinamiche in Europa per la produzione e il commercio della seta, conosce una sorprendente trasformazione, diventando una capitale della cultura grazie al progetto della cosmopolita nobiltà cittadina, che investe e scommette sulla visione di un gruppo di giovani artisti. Sono il genio dell’architettura Andrea Palladio, i pittori Paolo Veronese e Jacopo Bassano e il grande scultore Alessandro Vittoria. A legarli è la passione per l’arte nuova nutrita dall’antico, nata nella Roma di Michelangelo e Raffaello, quella che Giorgio Vasari definirà la «maniera moderna», la cui forza permetterà loro di scardinare i modelli tradizionali dominanti a Venezia, insieme alle suggestioni offerte da artisti quali Giulio Romano e Parmigianino. La rassegna ricostruisce questo straordinario periodo,

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cinquant’anni di vita artistica nella terraferma veneta, dal 1550 alla fine del secolo. E attraverso piú di 80 opere, il percorso indaga i meccanismi di produzione e i processi creativi che si celano dietro i capolavori, raccontandone la realizzazione, individuando coordinate materiali e storiche entro cui sono stati concepiti. info www.mostreinbasilica.it; Facebook: @mostreinbasilicapalladiana; Instagram: @mostreinbasilica #lafabbricadelrinascimento; #rinascimentoavicenza; #mostreinbasilica PISTOIA MEDIOEVO A PISTOIA. CROCEVIA DI ARTISTI FRA ROMANICO E GOTICO Antico Palazzo dei Vescovi e Museo Civico fino all’8 maggio

In occasione dell’anno Iacobeo,

l’esposizione illustra, per la prima volta, lo straordinario panorama delle arti a Pistoia dal XII agli inizi del XV secolo e documenta il ruolo di primo piano assunto dalla città nel campo delle arti figurative. Pistoia godeva della presenza di committenti illuminati, in grado di attrarre figure quali Guglielmo (uno dei piú famosi scultori attivi nel duomo di Pisa) e Guido da Como, e poi Nicola e Giovanni Pisano, che lasciarono capolavori fondanti della storia dell’arte italiana. Fa da specchio a questi importanti episodi di scultura la piú imponente delle opere di oreficeria, ideale sigillo della mostra: l’altare di san Jacopo, che attesta Pistoia come snodo di ricezione per le arti suntuarie. Anche la miniatura visse un periodo di grande vivacità, testimoniata alla fine del Duecento dall’attività della bottega del Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, la piú importante in Toscana, e nel Quattrocento dalle eleganze lineari e dalla preziosità decorativa delle illustrazioni eseguite dal Maestro della Cappella Bracciolini nella Divina Commedia conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel Trecento Pistoia offre in campo pittorico un panorama variegato di personalità e tendenze culturali, e la presenza di artisti del

calibro di Lippo di Benivieni, Taddeo Gaddi e Niccolò di Tommaso la colloca in una posizione di primo piano, ribadita dalla Maestà e angeli di Pietro Lorenzetti proveniente dagli Uffizi, uno dei prestiti piú prestigiosi della mostra, sottoposto a restauro per l’occasione. info tel. 0573 974267; e-mail: info@pistoiamusei.it; www.fondazionepistoiamusei.it BRESCIA TOCCAR CON MANO I LONGOBARDI Museo di Santa Giulia fino al 29 maggio

Realizzata in collaborazione con il Museo Tattile Statale Omero di Ancona, la mostra offre la possibilità di ammirare contemporaneamente i sette monumenti del sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)», con l’obiettivo di far conoscere la straordinarietà e la complessità del sito Patrimonio UNESCO, maggio

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attraverso un percorso tattile e una gamma differenziata di opzioni di fruizione che ne facilitano la comprensione, assicurando a tutti un’esperienza multisensoriale ottimale. Nelle sale sono esposti sette modellini tridimensionali in scala dei monumenti architettonici che rappresentano maggiormente il sito seriale longobardo e sette modellini relativi alle aree in cui sono situati i monumenti, per permettere l’esplorazione tattile dei loro contesti di provenienza. A rendere il percorso ancor piú accessibile sono le audio descrizioni (in italiano e inglese), registrate dagli attori della Compagnia #SIneNOmine della Casa di Reclusione di Maiano a Spoleto, da ascoltare tramite NFC e QR code, nonché un catalogo in Braille e uno in large print in libera consultazione. Infine, per consentire una fruizione dei modelli inclusiva, sono stati realizzati video con la tecnica del compositing nella LISLingua dei Segni Italiana, insieme a immagini e animazioni, sottotitoli e audio. info www.bresciamusei.com FIRENZE DALL’INFERNO ALL’EMPIREO IL MONDO DI DANTE TRA SCIENZA E POESIA Palazzo Pitti fino al 29 maggio

Scienza e poesia si fondono nella Divina Commedia di Dante Alighieri. Per la prima volta a «Dante scienziato» viene dedicata una mostra che fa leva sulla dimensione visuale evocata dai suoi versi. Prendendo spunto dalle lezioni accademiche di Galileo sulla misura e sul

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luogo dell’Inferno dantesco – dove lo scienziato definiva il poeta «corografo e architetto» – la mostra inquadra le competenze scientifiche di Dante nella cultura del suo tempo, tracciando il profilo dell’Alighieri come medico, abbachista, geometra, «geologo» e cosmografo. I passi della Commedia, del Convivio e della Questio de aqua et terra sono illustrati attraverso l’esposizione di opere artistiche, manoscritti, modelli tridimensionali e prodotti multimediali che illustrano il sistema cosmologico, la geografia fisica e la geografia spirituale delle opere dantesche. Le sezioni dell’esposizione replicano idealmente la tripartizione della Commedia. Il percorso espositivo è scandito da tre sale che rappresentano le tre cantiche. Nella prima, Inferno, il visitatore si trova immerso nelle viscere della Terra; alzando lo sguardo verso la copertura a cupola vede le terre emerse dall’interno, vale a dire dal punto di vista di Lucifero, il cui immenso corpo sta sospeso al vertice della grande voragine conica che ospita le anime dei dannati. Nel Purgatorio, la sala è coperta dal cielo stellato dell’emisfero australe, là dove

Dante immagina di trovarsi una volta uscito «a riveder le stelle». Nell’ultima, Paradiso, si è sospesi tra il mondo materiale, riprodotto sul pavimento secondo il sistema tolemaico, e il mondo spirituale, rappresentato sulla cupola dalle schiere angeliche che ruotano vorticosamente intorno al punto luminosissimo da cui tutto ha origine e verso cui tutto è proteso. Oltre a preziose opere originali – manoscritti, stampe, disegni, incisioni, mappe del mondo e strumenti scientifici – sono in mostra

giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedí Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fú dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...»: il mito di Venezia sta anche nella leggenda della sua fondazione, raccontata cosí nel Chronicon Altinate (XI-XII secolo) e coincidente con la posa della prima pietra della chiesa di S. Giacometo a Rivoalto il giorno dell’Annunciazione alla Madonna. Una leggenda che, tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise insieme racconti che si erano

riproduzioni in alta risoluzione di opere non trasportabili, grandi modelli tridimensionali che rappresentano la Terra e la struttura cosmologica dell’Universo come erano conosciute da Dante, e filmati realizzati dal Laboratorio Multimediale del Museo Galileo. info https://mostre. museogalileo.it/dante/

intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del valore di Venezia: città eletta da Dio. Che ora celebra i suoi 1600 anni anche con una mostra messa in scena nel luogo simbolo del potere e della gloria della Serenissima: il Palazzo dei Dogi in piazza San Marco. L’esposizione racconta – attraverso oltre 250 opere d’arte, manufatti antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno segnato la storia di Venezia, scegliendo un punto di vista inedito, cioè quello degli innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle

VENEZIA VENETIA 1600. NASCITE E RINASCITE Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 5 giugno

«L’anno sopradetto 421 il

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AGENDA DEL MESE altrettante rigenerazioni e rinnovamenti che hanno segnato la sua esistenza. info https://palazzoducale. visitmuve.it; facebook visitmuve ducalevenezia; twitter visitmuve_ it, visitmuve_en, ducalevenezia; instagram visitmuve ducalevenezia

MILANO TIZIANO E L’IMMAGINE DELLA DONNA NEL CINQUECENTO VENEZIANO Palazzo Reale fino al 5 giugno

A Venezia nel Cinquecento l’immagine femminile acquista un’importanza forse mai vista prima nella storia della pittura. Questo è dovuto a vari fattori, quali la

contempo mettendo a confronto gli approcci artistici individuali tra Tiziano e gli altri pittori del tempo. Partendo dal tema del ritratto realistico di donne appartenenti a diverse classi sociali, passando a quello fortemente idealizzato delle cosí dette «belle veneziane» si incontrano via via celebri eroine e sante, fino ad arrivare alle divinità del mito e alle allegorie. Sono circa un centinaio le opere esposte, di cui 46 dipinti, 15 di Tiziano – per lo piú prestati dal Kunsthistorisches Museum di Vienna –, a cui si aggiungono sculture, oggetti di arte applicata come gioielli, una creazione omaggio di Roberto Capucci a Isabella d’Este (1994), libri e grafica. info www.palazzorealemilano.it MANTOVA MICHELANGELO: I BRONZI DELLA PASSIONE Palazzo Ducale fino al 15 giugno

presenza di Tiziano e di altri artisti operanti sia a Venezia che in terraferma, particolarmente interessati alla raffigurazione della bellezza muliebre, ma anche, parallelamente, al particolare status che le donne avevano nella società veneziana. La struttura portante dell’esposizione affronta dunque un argomento eternamente valido ma anche completamente nuovo, presentando l’immagine femminile attraverso tutto l’ampio spettro delle tematiche possibili e nel

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Filo conduttore della mostra sono tre sculture in bronzo raffiguranti Cristo crocifisso e i due ladroni: eseguite da un ignoto scultore lombardo, le opere derivano senza dubbio da disegni e modelli del «divino» artista toscano e il breve ma accurato percorso espositivo ne illustra l’articolata vicenda, misurando l’influenza di Michelangelo nell’ambiente mantovano. Alcuni disegni antichi, realizzati a Mantova nel 1582, attestano infatti il passaggio di modelli di Michelangelo nella città dei Gonzaga. Le figure magistralmente modellate

nella materia rappresentano, come detto, Cristo e i due ladroni crocefissi sul Golgota: questo tema iconografico viene definito «Calvario», dal nome latino della collina appena fuori dalle mura di Gerusalemme su cui, secondo la narrazione dei vangeli, salí Gesú per esservi crocifisso. L’opera, appartenuta all’inizio dell’Ottocento all’artista neoclassico Giuseppe Bossi, è conservata nelle Raccolte di Arte Applicata del Castello Sforzesco a Milano. Ora, grazie al prestito, si può ammirarla (fino al 15 giugno) all’interno dell’allestimento progettato nell’Appartamento Ducale, lungo il percorso di Corte Vecchia. info www.mantovaducale. beniculturali.it

generata e sviluppata quella confusa, affascinante sequenza di rappresentazioni che hanno portato alla costruzione della sua sfaccettata identità? Attraverso alcune delle piú preziose e affascinanti opere d’arte a lei

FORLÍ MADDALENA. IL MISTERO E L’IMMAGINE Musei San Domenico fino al 10 luglio

Il nuovo appuntamento espositivo proposto dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlí è dedicato a un grande mito femminile della nostra storia, una figura misteriosa e travisata: Maria Maddalena. A lei l’arte, la letteratura, il cinema hanno dedicato centinaia di opere e di eventi. L’arte soprattutto, ponendola al centro della propria produzione e dando vita a capolavori che segnano, lungo la trama del tempo, la storia dell’arte stessa e i suoi sviluppi. Ma chi era davvero la Maddalena? E perché si è

dedicate, l’esposizione indaga il mistero irrisolto di una donna di nome Maria che ancora inquieta e affascina. Le sale del San Domenico ospitano 200 opere tra le piú significative, dal III secolo d.C. al Novecento, suddivise in 11 sezioni, in un percorso espositivo che ricomprende pittura, scultura, miniature, arazzi, argenti e opere grafiche e che si snoda attraverso i piú grandi nomi di ogni epoca. info tel. 0543 1912 030-031033; e-mail: mostre@ fondazionecariforli.it maggio

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LORETO (ANCONA)

della pittura – tra i quali spiccano opere di Raffaello, Tiziano Vecellio, Francesco Mazzola «il Parmigianino», El Greco e Annibale Carracci – e una selezione di oggetti provenienti dal Gabinetto delle Cose Rare del Museo e Real Bosco di Capodimonte, tra cui la Cassetta Farnese, insieme alla Tazza Farnese dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, alle monete e medaglie del Complesso Monumentale della Pilotta e ai pezzi della Collezione Gonzaga di Guastalla confluiti nella collezione Farnese, permetteranno di ricostruire una camera delle meraviglie rinascimentale. info tel. 0521 220400; www.complessopilotta.it

SULLE ORME DI SAN MICHELE ARCANGELO PELLEGRINI E DEVOTI NELL’ARTE DA CRIVELLI A CARAVAGGIO Bastione Sangallo fino al 13 luglio

Ha preso il via a Loreto un progetto espositivo itinerante – le cui tappe successive saranno Ascoli Piceno e Senigallia – per approfondire il tema del pellegrinaggio attraverso opere che spaziano dal Medioevo al Seicento, seguendo un percorso all’insegna dei luoghi di culto di san Michele Arcangelo. I pellegrini e i devoti che in grande numero percorrevano gli itinerari di fede europei sono stati piú volte rappresentati dagli artisti che ne hanno messo in evidenza le particolarità dell’abbigliamento, con i segni caratteristici dell’avvenuto pellegrinaggio che consentiva di riconoscerli. I santi invocati durante il percorso, come san Rocco e san Giacomo Maggiore, venivano dunque effigiati dagli artisti con le vesti tipiche dei pellegrini al pari dei santi che nel Medioevo avevano portato la parola di Cristo in luoghi lontani e pericolosi, come san Giacomo della Marca raffigurato sempre con il bordone. A Loreto, dove non a caso inizia questo percorso espositivo, il santuario mariano venne riconosciuto nel 1520 come centro di pellegrinaggio universale al pari di Gerusalemme, Roma e Santiago di Compostela, richiamando cosí fedeli da tutto il mondo. La mostra vuole rendere omaggio a questo particolare legame e attingendo a un ricco patrimonio iconografico si è selezionato un nucleo di opere, in un percorso tematico che

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mette in risalto alcuni elementi particolari, come l’abito caratteristico dei pellegrini e le insegne esibite per certificare di aver intrapreso il viaggio verso i remoti luoghi santi. Si tratta per la maggior parte di opere provenienti dalle collezioni civiche marchigiane, dove non mancano capolavori di autori come Antonio da Fabriano, Carlo Crivelli, Pietro Alamanno, Guercino, Francesco Guerrieri, Pietro Liberi e Ferdinand Voet che tra il XV e il XVII secolo hanno testimoniato questo fenomeno di culto, dedicando le rappresentazioni soprattutto a san Giacomo Maggiore e san Rocco, patroni dei pellegrini, e illustrando l’abbigliamento tipico dei devoti sia prima che dopo il periodo della Controriforma. info tel. 071 977748 e 071 7505638; www.comune.loreto.an.it PARMA I FARNESE. ARCHITETTURA, ARTE, POTERE Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31 luglio

A venticinque anni dall’ultima esposizione sul tema, il Complesso Monumentale della Pilotta ospita una grande rassegna dedicata alla committenza della famiglia Farnese, con l’obiettivo

FIRENZE DONATELLO, IL RINASCIMENTO Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello fino al 31 luglio

d’indagare la straordinaria affermazione della casata nella compagine politica e culturale europea dal Cinque al Settecento, attraverso l’utilizzo delle arti come strumento di legittimazione. Tra i prestiti, un nucleo di circa 200 disegni di architettura presenta, insieme a modelli, elaborazioni grafiche e filmati, il quadro complessivo dell’architettura farnesiana dal punto di vista storico, urbano e territoriale, mettendo in rilievo la relazione tra questa disciplina e l’affermazione dinastica in termini di prestigio, espansione e visionarietà della committenza. E poi capolavori

Il progetto espositivo nasce come celebrazione del grande maestro, puntando ad allargare la riflessione su questo artista rivoluzionario nei materiali, nelle tecniche e nei generi. Scultore supremo del Quattrocento – tra i secoli d’oro dell’arte italiana – e prediletto della famiglia Medici, insieme a Brunelleschi e Masaccio, Donatello diede il via alla straordinaria stagione del Rinascimento, proponendo nuove idee e soluzioni figurative che hanno segnato per sempre la storia dell’arte occidentale. Attraverso le sue opere Donatello rigenera l’idea stessa di scultura, con una potenza di visione unica in cui unisce le scoperte sulla prospettiva e un concetto totalmente moderno di umanità. La dimensione umana dell’arte di Donatello abbraccia in tutta la loro profondità le piú diverse forme delle emozioni, dalla dolcezza

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AGENDA DEL MESE impiegando una tela di cotone industriale proprio per sottolineare che il modello dell’abito riproposto è il frutto di contaminazioni scientifiche e di elaborazioni dei curatori. info www.antiquarium. castelseprio.beniculturali.it; www.fondoambiente.it LONDRA RAFFAELLO The National Gallery fino al 31 luglio

Programmata per il 2020, nel cinquecentenario della morte alla crudeltà, dalla gioia al dolore piú straziante. Distribuita su due sedi, Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello, la mostra riunisce circa 130 opere tra sculture, dipinti e disegni con prestiti unici, alcuni dei quali mai concessi prima, e propone un viaggio attraverso la vita e la fortuna di Donatello articolato in quattordici sezioni. Si inizia dagli esordi e dal dialogo con Brunelleschi, proponendo il confronto tra i due celebri Crocifissi lignei provenienti dalla Basilica di Santa Croce e da quella di S. Maria Novella. Si procede poi attraverso i luoghi per cui Donatello ha lavorato (Siena, Prato e Padova, oltre a Firenze), trovando moltissimi seguaci, entrando in dialogo con altri celebri artisti molto piú giovani quali Mantegna e Bellini, e sperimentando nei materiali piú diversi le sue formidabili invenzioni plastiche e scultoree. Conclude il percorso una sezione speciale dedicata all’influenza di Donatello sugli artisti a lui successivi, tra cui Raffaello, Michelangelo e Bronzino, testimoniando cosí l’importanza capitale della sua opera per le vicende dell’arte italiana. info www.palazzostrozzi.org; www.bargellomusei.beniculturali.it

CASTELSEPRIO (VA) Parco Archeologico e Antiquarium

GONATE OLONA (VA) Monastero di Torba TRAME LONGOBARDE. TRA ARCHITETTURA E TESSUTI fino al 31 luglio

Partendo da un lavoro che ha intrecciato insieme dati scientifici e ricostruzioni plausibili, la mostra-dossier propone un’accurata lettura delle tecniche antiche di

tessitura attraverso la ricostruzione di tessuti, abiti e telai verosimilmente in uso tra VI e VIII secolo d.C. La ricostruzione dei tessuti e degli abiti, in particolare, rappresentano il filo conduttore che ci porta a conoscere piú da vicino il popolo longobardo partendo da quelli che erano gli oggetti e i manufatti che sono parte integrante della vita quotidiana. Tutti gli abiti sono stati realizzati per una metà con

tessuti fatti rigorosamente a mano su telai orizzontali a licci riproducendo il numero dei fili di ordito e trama presenti al centimetro, nonché lo spessore degli stessi fili e le torsioni. Considerando che verosimilmente tali tessuti venivano realizzati da donne in ambito domestico, sono state ipotizzate delle altezze del tessuto abbastanza ridotte e compatibili con telai verticali, a pesi o a doppio subbio, utilizzati nel periodo di riferimento. L’altra metà degli abiti è stata realizzata

dell’artista, ma rinviata a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia innescata dal Covid-19, apre finalmente i battenti la grande mostra su Raffaello voluta dalla National Gallery. Si tratta di una delle piú ricche rassegne mai dedicate al maestro urbinate, del quale viene documentato lo straordinario eclettismo, che gli permise di eccellere come pittore, ma anche come disegnatore, architetto e «archeologo». Nella sua breve carriera – l’artista, morto a soli 37 anni, fu attivo per poco piú maggio

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di un ventennio – Raffaello fu capace di segnare una svolta decisiva nella storia dell’arte universale, ma non solo, poiché la sua opera contribuí a rimodellare il volto dell’intera cultura occidentale. Ed è proprio questo l’aspetto che la mostra, attraverso una selezione di poco meno di 100 opere, intende evidenziare, proponendo un percorso espositivo di tipo cronologico, che dalle prime esperienze compiute a Urbino e nelle Marche si snoda tra Firenze e Roma, città che decretarono la consacrazione del pittore. info www.nationalgallery.org.uk FIRENZE LE TRE PIETÀ DI MICHELANGELO. NON VI SI PENSA QUANTO SANGUE COSTA Museo dell’Opera del Duomo, sala della Tribuna di Michelangelo fino al 1° agosto

Vengono per la prima volta messe a confronto l’originale della Pietà Bandini, di cui è da poco terminato il restauro, e i calchi della Pietà Vaticana e della Pietà Rondanini provenienti dai Musei Vaticani. Collocate una vicina all’altra, le tre Pietà offrono l’opportunità di vedere l’evoluzione dell’arte di Michelangelo, nonché la sua maturazione spirituale, dalla prima giovinezza – quando a Roma scolpí per la Cappella dei Re di Francia nell’antica S. Pietro l’opera ora nella navata laterale nord della basilica – alla sua ultima stagione, quando, ormai vecchio, mise mano alla Pietà oggi a Firenze e poi alla Pietà Rondanini conservata a Milano. Si tratta di un percorso lungo piú di cinquant’anni, che conduce dall’ambizione del giovane che scolpí il proprio nome sul petto della Madonna della versione vaticana all’immedesimazione personale dell’anziano artista, che, in quella del Museo dell’Opera, raffigura se stesso nelle sembianze di Nicodemo. Vicino alla propria morte, Michelangelo meditava profondamente sulla Passione di Cristo, come egli stesso fece capire in un coevo disegno della Pietà, donato alla marchesa di Pescara Vittoria Colonna, dove scrisse la frase dantesca: «Non vi si pensa quanto sangue costa» (Paradiso XXIX, 91). Risultato sublime di questa meditazione spirituale fu l’esecuzione della Pietà Rondanini, la cui estrema bellezza rifulge nel tramonto della figura. info https://duomo.firenze.it

MARSIGLIA

MILANO

LA GIOCONDA. ESPOSIZIONE IMMERSIVA Palais de la Bourse fino al 21 agosto

MEDIOEVO. STORIA, STORIE E MITO A FUMETTI Museo del Fumetto, dell’Illustrazione e dell’Immagine animata fino al 18 settembre

Qual è il motivo (o il segreto) della popolarità di cui gode la Gioconda, il dipinto senza dubbio piú conosciuto al mondo? Da questo interrogativo, all’apparenza semplice, è nato il progetto espositivo che si è ora tradotto nella mostra immersiva presentata a Marsiglia, il cui obiettivo è quello di far comprendere le ragioni del mito e, soprattutto, di far conoscere il dipinto per quel che è effettivamente, al di là dei presunti misteri e dei luoghi comuni. Una riscoperta del capolavoro leonardesco che si avvale di storie narrate ed esperienze sensoriali organizzate su differenti livelli. Vengono per esempio illustrati i luoghi nei quali il maestro ambientò il celebre ritratto e altre opere celebri – come la Vergine delle rocce – e il contesto storico e culturale in cui maturò la realizzazione del quadro. E c’è spazio anche per ripercorrere la fortuna moderna della Gioconda, nonché le traversie di cui fu involontaria protagonista, prima fra tutte il furto di cui fu vittima nel 1911. Si tratta dunque di una mostra ricca di contenuti, che ha il suo punto di forza nell’altrettanto ricco apparato di supporti multimediali. info www.grandpalais.fr

Il termine Medioevo, inteso come età di Mezzo, viene inventato nel Rinascimento e agli occhi dei sapienti di quel tempo, si era trattato di un lungo periodo di decadenza, tra le meraviglie dell’antichità e le nuove che sarebbero sicuramente arrivate. Ma non fu cosí! In un periodo di 1000 anni, accadde davvero di tutto e molti di quegli eventi hanno ispirato fumettisti, artisti, ma anche registi e scrittori, imponendosi come un tassello fondamentale del nostro immaginario e della nostra storia. Fumetto, illustrazione e cinema d’animazione hanno avuto un ruolo fondamentale, parlando ai giovani lettori, talvolta ingannandoli, talvolta istruendoli, ma sempre con grandi immagini magnifiche di castelli, dame, armi, qualche mago e strega di troppo, e cavalieri a catturare l’attenzione. La mostra racconta attraverso tavole

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AGENDA DEL MESE originali a fumetti, riproduzioni di armi e armature, manifesti, e molto altro un periodo storico fondamentale, sia attraverso i punti fondamentali che permettono di comprendere meglio un millennio di storia, sia attraverso i miti e le leggende ancora amatissime ai giorni nostri, dal Sacro Graal a re Artú fino a Robin Hood passando, ovviamente, per il

1555), con oltre 100 opere provenienti da alcune delle piú prestigiose collezioni italiane e internazionali, che documentano l’evoluzione del grande pittore, seguendolo dagli esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista. Attraverso una serie di restauri sostenuti per l’occasione e un’estesa campagna di analisi diagnostiche, l’esposizione diventa anche l’occasione per

infatti, è giunta alla Pinacoteca del Museo, in dono dalla famiglia Arvedi, la splendida Veritas filia Temporis (La Verità è figlia del Tempo) una grande tela ottagonale che decorava in origine la volta dello studiolo privato del gentiluomo e intellettuale veronese Giulio Della Torre, e che ora costituisce uno dei punti focali del percorso. Da segnalare anche la presenza della Madonna della farfalla, un’opera fra le piú belle e famose del pittore. Si tratta di un lavoro giovanile, un dipinto eseguito a olio su tavola, risalente agli anni 1510-1515 e al clima stilistico dell’esperienza a fianco di Mantegna e a contatto con la cultura mantovana e leonardesca. info www.mostracaroto.it TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile 2023

falso mito della terra piatta. info tel. 02 49524744; www.museowow.it VERONA CAROTO E LE ARTI TRA MANTEGNA E VERONESE Palazzo della Gran Guardia fino al 2 ottobre (dal 13 maggio)

Gli spazi monumentali del Palazzo della Gran Guardia accolgono la prima mostra dedicata interamente a Giovan Francesco Caroto (1480 circa-

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approfondire la conoscenza dell’operatività tecnica del pittore e degli interventi che nel corso del tempo hanno interessato le sue creazioni. Negli ultimi anni, la storia che ha legato Verona a uno dei suoi pittori piú affascinanti e rappresentativi si è arricchita di nuove testimonianze e significati, il primo dei quali ci viene dal gesto generoso di cittadini veronesi a favore dell’artista e del Museo di Castelvecchio. Nel 2019,

La mostra si inserisce nel progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso

imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it maggio

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Appuntamenti PISTOIA NARRARE HUMANUM EST. LA VITA COME INTRECCIO DI STORIE E IMMAGINARI DIALOGHI DI PISTOIA XIII EDIZIONE 27-29 maggio

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio 2023 (dal 14 maggio)

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it

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maggio

Tornano nelle consuete date di fine maggio i Dialoghi di Pistoia, festival di antropologia del contemporaneo. Le nostre narrazioni rappresentano le nostre realtà: i nostri immaginari ci dicono chi siamo. Il potere universale della finzione è probabilmente la nostra caratteristica piú distintiva, il segreto del nostro successo evolutivo, ciò che ha reso l’uomo un animale diverso dagli altri, permettendo a lui solo di vivere molte vite, accumulare esperienze diverse e costruire il proprio mondo con l’incanto dell’invenzione. Dalle pitture rupestri alla fiaba, dai geroglifici al web, dai miti allo storytelling cinematografico e delle serie: quest’anno il festival indaga come nascono le narrazioni del genere umano. info www.dialoghidipistoia.it CACCAMO (PALERMO) LE GIORNATE MEDIEVALI: UN SALTO NEL PASSATO Castello fino all’11 dicembre

Curata dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali-Sezione Regione Siciliana (SIPBC Sicilia), con la collaborazione del Comune di Caccamo e il patrocinio gratuito della Federazione Storica Siciliana, l’iniziativa propone rievocazioni storiche

che si ripetono ogni mese. Fino a dicembre, presso il Castello medievale, si può assistere a una rievocazione intervallata da momenti di narrazione e spiegazione degli ambienti della fortezza. Il programma inizia alle 10,00 nella Sala Prades del Castello, per poi concludersi al baglio centrale. I visitatori saranno accompagnati alla

visione commentata delle sale del piano nobile del maniero da figuranti in abito d’epoca. Questo il calendario delle prossime giornate: domenica 15 maggio; domenica 26 giugno. info tel. 091 8149744, cell. 339 3721811 o 320 0486901; e-Mail: sipbc. regionesiciliana@gmail.com, sicilia@sipbc.it

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. VIII Edizione Roma – Teatro Argentina 8 maggio info www.teatrodiroma.net

S

i chiude l’VIII edizione di «Luce sull’archeologia», rassegna che ha inteso mettere in luce l’idea stessa di città, con i suoi elementi universali e comuni, i modelli urbani di altre civiltà, gli archetipi greci. L’ultimo appuntamento è in programma al Teatro Argentina di Roma, domenica 8 maggio, alle 11,00. Come sempre, l’incontro sarà arricchito dal contributo di storia dell’arte di Claudio Strinati, dall’anteprima del passato curata dal direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, e sarà introdotto e presentato da Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, il programma degli interventi: Luciano Canfora, Platone e la Kallipolis; padre Giuseppe Caruso, Una città in cielo. Agostino e il compimento della storia; Francesca Ghedini, La Roma di Ovidio: vissuta, sognata, rimpianta.

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ANTE PRIMA

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I LONGOBARDI IN ITALIA

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L’alba del Medioevo

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Longobardi IN ITALIA L’ALBA DEL MEDIOEVO di Tommaso Indelli

N°49 Marzo/Aprile 2022

Rivista Bimestrale

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€ 7,90

I LONGOBARDI IN ITALIA

età longobarda ha costituito un capitolo importante nella storia d’Italia e nel nuovo Dossier di «Medioevo» Tommaso Indelli ne ripercorre l’intera parabola, a partire da quando, nel 568, il re Alboino scese nella Penisola alla testa dei suoi guerrieri. Di quelle vicende sono oggi testimonianza numerosi monumenti, ai quali si sono aggiunti i significativi riscontri offerti dall’archeologia, grazie alle scoperte di cui sono state teatro tutte le aree nelle quali i Longobardi scelsero di insediarsi. Dall’avvento di Rotari, consegnato alla storia dalla promulgazione, nel 643, dell’Editto che porta il suo nome, a quello di Liutprando, sotto il cui regno l’Italia longobarda visse una delle sue stagioni piú fiorenti, il Dossier propone una rassegna ampia e puntuale, accompagnata da un ricco corredo iconografico e cartografico. Uno spazio importante è riservato anche al sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)». Riconosciuto dall’UNESCO nel 2011, riunisce le piú importanti testimonianze monumentali longobarde, dal Nord al Sud della Penisola: l’area della Gastaldaga con il Tempietto Longobardo e il Complesso Episcopale a Cividale del Friuli (Udine); l’area monumentale con il complesso monastico di S. Salvatore-S. Giulia a Brescia; il castrum con la Torre di Torba e la chiesa di S. Maria foris portas a Castelseprio Torba (Varese); la basilica di S. Salvatore a Spoleto (Perugia); il Tempietto del Clitunno a Campello sul Clitunno (Perugia); il complesso di S. Sofia a Benevento; il santuario di S. Michele a Monte Sant’Angelo (Foggia).

A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

MEDIOEVO DOSSIER

IN EDICOLA

IN EDICOLA IL 16 MARZO 2022

GLI ARGOMENTI

04/03/22 15:38

• L’arrivo in Italia • I successori di Alboino • Rotari, il re dell’Editto • L’apogeo e la caduta • La lotta alle eresie • Il sito seriale UNESCO «I Longobardi in Italia» • Il Mezzogiorno longobardo • La fine di un’epopea

A destra, sulle due pagine L’assassinio di Alboino, re dei Longobardi, olio su tela di Charles Landseer. 1856. Collezione privata.

Umbone di scudo, forse da parata, con una scena di battaglia, da Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo delle Civiltà, Museo dell’Alto Medioevo «Alessandra Vaccaro».

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Quando Ottone si ritirò sull’ ventino

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Roma. Un tratto del clivo di Rocca Savella, sull’Aventino. Il tracciato riprende un percorso di epoca romana, mentre il suo nome attuale deriva dal fortilizio qui costruito nel Medioevo dai Savelli e oggi non piú esistente.

di Valentina Nicolucci


È possibile che, tra il IX e il X secolo, gli imperatori della dinastia germanica abbiano scelto uno dei sette colli di Roma per impiantarvi la propria residenza? Un’ipotesi tutt’altro che improbabile, affacciatasi in occasione degli interventi su un villino novecentesco, oggi sede della Fondazione Sorgente Group. L’edificio è situato proprio alle pendici della celebre altura, teatro di avvicendamenti plurisecolari e di grandissima rilevanza storico-architettonica


storie aventino

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A sinistra una colonna con capitello appartenente alla domus cristiana sulla quale, al tempo di papa Celestino I (422-432), il sacerdote dalmata Pietro d’Illiria avviò la costruzione della basilica di S. Sabina. Nella pagina accanto la navata centrale di S. Sabina. L’interno è suddiviso in tre navate da colonne di spoglio, provenienti dal tempio di Giunone Regina, che sostengono arcate decorate da un fregio di marmi policromi.

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in dall’antichità, l’Aventino fu un colle di notevole importanza e strategicamente fondamentale per la difesa dell’Urbe e per l’intensa attività commerciale condotta sulle rive del Tevere in prossimità dell’Isola Tiberina. Già nel VI secolo a.C., durante il regno di Anco Marcio, quarto re di Roma, furono qui deportati gli abitanti di alcune città latine conquistate e in seguito, nel 456 a.C., con la lex Icilia de Aventino publicando, venne garantita l’assegnazione per finalità residenziali ai plebei, mentre l’area, e soprattutto le pendici nord-occidentali, rimasero strettamente legate in epoca repubblicana e poi augustea ai commerci che animavano la vita degli scali fluviali, come il porto Tiberino e successivamente l’Emporium a Testaccio. Al tempo del penultimo re di Roma, Servio Tullio, il colle era stato inserito nel circuito delle mura, cosí come è stato documentato dal rinvenimento, sotto la chiesa di S. Sabina, di tre tratti di fortificazione a blocchi. Tuttavia, prima dell’intervento di Augusto – che, nel 7 a.C., divise la città in 14 regioni –, l’Aventino risultava escluso dal pomerio, mantenendo un carattere di extraterritorialità. Significativa è l’edificazione, già in età arcaica, del tempio di Diana, santuario federale delle popolazioni latine, in arce, sul punto piú alto dell’Aventino, come ci racconta Ovidio, in posizione dominante rispetto al Foro Boario. Il colle divenne ben presto densamente abitato e oggi è documentata la costruzione di numerosi templi, testimonianza evidente della presenza di diverse culture e religioni: il tempio di Minerva; il tempio di Cerere Libero e Libera nel V secolo, innalzato nel settore del colle soprastante i futuri carceres del Circo Massimo, che aveva garantito una sede adeguata e sacralmente tutelata per i concilia plebis e per l’attività dei tribuni e degli aediles; il sacello di Iside; il

Porta di San Sebastiano

Mappa che mostra l’ubicazione e l’estensione del quartiere dell’Aventino, con l’indicazione dei luoghi e dei monumenti piú importanti. maggio

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tempio della Bona Dea Subsaxana, costruito nel III secolo a.C. e dedicato alle guarigioni, il cui culto proseguí fino al IV secolo d.C.

Nel nome di Giunone

Da non dimenticare è l’importanza del tempio di Giunone Regina, costruito nella parte superiore del clivus Publicius, come dimostrerebbero due iscrizioni del 207 a.C. e dedicato da Marco Furio Camillo in occasione della conquista di Veio, il cui culto aveva come finalità principale la protezione delle nascite e, soprattutto attraverso il matrimonio e il conubium, favoriva le alleanze tra gruppi sociali di origine diversa e l’integrazione con etnie esterne, cosí come avvenne dopo la lex Canuleia, che dal 445 a.C. consentiva il matrimonio tra patrizi e plebei. Oggi 24 colonne di quel tempio sorreggono le arcate della navata di S. Sabina. Esistevano anche santuari dedicati a divinità asiatiche, come quello di Giove Dolicheno, rinvenuto nei pressi di via S. Domenico, e quello isiaco in un edificio nell’area sottostante la basilica di S. Sabina, addossato alle mura serviane. Quando l’imperatore Claudio inserí il colle nella XIII regio, includendolo cosí nel pomerio, esso iniziò a perdere la sua vocazione popolare, divenendo luogo privilegiato per le residenze delle famiglie patrizie. Anche il progressivo abbandono del porto fluviale dell’Emporium a favore del porto di Ostia in epoca imperiale incentivò la costruzione di ricche domus – come quella di Licinio Sura, i cui resti sono stati individuati negli scavi presso S. Prisca –, terme e balnea: vicino al tempio di Diana vennero costruite intorno al 250 d.C. le Terme Deciane e, nei pressi dell’abside di S. Prisca, sono state rinvenute le stanze di una villa risalente alla fine del I secolo d.C., forse la domus di Traiano, su cui venne edificata la chiesa.

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storie aventino

Il colle conservò a lungo la sua caratteristica di luogo salubre e ricco di edifici termali, come apparato di un contesto abitativo piú elevato. Si conserva ancora oggi l’utilizzo di un antico percorso, il clivus Publicius, il cui tracciato viene identificato non piú completamente con l’attuale clivo dei Publicii, ma con il vicino clivo di Rocca Savella, che collega ancora oggi il Foro Boario – dove doveva trovarsi la porta Trigemina – con la cima del colle sul versante nord-occidentale.

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Grazie agli interventi di sistemazione e valorizzazione, con ripristino dei livelli, soprattutto nella proprietà privata in cui ha sede la Fondazione Sorgente Group, sulle pendici occidentali dell’Aventino è ancora possibile vedere le varie fasi edilizie che si sono susseguite nei secoli, sovrapponendosi e sfruttando il pendio del colle. Compare cosí l’imponente sequenza delle sostruzioni ad arcate, di epoca romana, ancora oggi visibili, costituite da due gruppi sovrapposti – in opus re-

ticulatum, listatum e opera mista – e gli archi di sostegno, forse vani utilizzati in antico come magazzini o strutture forse pertinenti ad abitazioni private, databili tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C.

Lo spopolamento

Dopo l’invasione dei Visigoti di Alarico, tutti gli edifici vennero distrutti e l’Aventino si spopolò, trasformandosi in un luogo idoneo per l’edificazione di chiese e monasteri. Vennero cosí erette S. Prisca, maggio

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una delle piú antiche chiese di Roma, i monasteri dei Ss. Bonifacio e Alessio, S. Sabina, S. Balbina, nei pressi delle Terme di Caracalla, e S. Saba, costruita nel X secolo su una preesistente pianta dell’VIII secolo. Il colle cambiò completamente il suo aspetto insediativo e urbanistico, assumendo una vocazione religiosa monastica. Tra il X e l’XI secolo il colle visse una delle sue fasi storiche piú intense, ancora oggi oggetto di studi e dibattiti e che ebbe come prota-

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gonisti gli Ottoni e la rinascita del Sacro Romano Impero germanico.

Nostalgie imperiali

Uno degli atti piú importanti, che mise in evidenza l’inizio del nuovo progetto politico avviato, fu la scelta di Ottone I, salito al trono come duca di Sassonia e di re di Germania all’età di 24 anni, nel 936, di essere incoronato con il titolo di «Imperatore dei Romani» da papa Giovanni XII nella basilica di S. Pietro il 2 febbraio del 962. Nel suo

Il colle Aventino, evidenziato dalla cornice di colore rosso, in un’edizione seicentesca della pianta di Roma di Antonio Tempesta.

viaggio a Roma, grande dovette essere l’ammirazione per l’Urbe, il suo passato e la sua gloria. Evidente era l’ispirazione a Carlo Magno, ma l’impero di Ottone I di Sassonia (962-973) era «germanico», poiché escludeva i territori dell’attuale Francia, ma occupava quelli piú orientali, soprattutto dopo le vittorie su Ungari e Slavi.

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storie aventino

Ottone I tentò di far valere la superiorità imperiale nei confronti dell’altro grande potere universale, il papato, e insieme di mantenere il controllo della grande nobiltà laica. Cosí, pochi giorni dopo la sua incoronazione, il 13 febbraio, venne promulgato il Privilegium Othonis, in cui l’imperatore si proclamava garante del potere del papa, la cui elezione doveva ricevere l’approvazione imperiale, e alla Chiesa veniva confermato il dominio sui territori del Patrimonio di San Pietro. Alcuni anni prima, nel 951, Ottone I aveva sposato Adelaide di

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Borgogna, vedova del precedente re d’Italia Lotario II, riuscendo cosí a riunire i due regni, quello d’Italia e quello di Germania, garantendone la continuità istituzionale sotto il suo controllo. Ma il desiderio di estendere il proprio dominio all’Italia meridionale, con l’aspirazione a riunificare il Sacro Romano Impero, portò l’imperatore a compiere un’abile scelta diplomatica: quella di combinare il matrimonio tra suo figlio, erede al trono e futuro imperatore Ottone II, e la principessa bizantina, Teofane, nipote di Giovanni I

Zimisce, che fu imperatore romano d’Oriente dal 969 al 976, dopo aver scacciato Niceforo II Foca.

Da Bisanzio a Roma

Il 25 dicembre 967 Ottone II fu incoronato co-imperatore a Roma da papa Giovanni XIII e, in questo modo, si garantí la trasmissione dell’impero e della corona imperiale creata da suo padre. Quindi, il 14 aprile 972, in S. Pietro sposò Teofane, che fu consacrata imperatrice. La principessa portò con sé da Bisanzio una ricca dote, fatta di stoffe preziose, gioielli, oro, opere in argento e avorio, e maggio

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giunse circondata dalla sua corte, suscitando stupore e ammirazione. A differenza della suocera Adelaide, Teofane preferí di gran lunga Roma per i suoi soggiorni, stabilendo la propria dimora sull’Aventino, dove da secoli vi erano i quartieri legati a origini e cultura greco-orientale, anche se spesso seguí il marito, adempiendo agli obblighi diplomatici. La giovane imperatrice diede alla corte una forte spinta verso la tradizione classica, con la diffusione del greco e del latino, ed era affiancata da scienziati e maestri, che istruirono il giovane Ottone III.

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In alto particolare della pianta di Roma disegnata da Matthäus Greuter, con l’Aventino in evidenza. 1618. Nella pagina accanto l’immagine di Ottone III in una pagina dei Vangeli che portano il nome dell’imperatore. Fine del X sec. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. A destra vera di pozzo con l’immagine del Cristo nella chiesa di S. Bartolomeo all’Isola, fatta costruire da Ottone III e in origine intitolata ai santi Adalberto e Paolino.

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storie aventino Il grande interrogativo riguarda proprio la residenza scelta dagli Ottoni: se non di una «sede imperiale»vera e propria, doveva comunque trattarsi di un luogo adatto a far risiedere la corte e a ricevere delegazioni e nobili. Gli studi sono ancora in corso, ma molte circostanze portano a riconoscerlo nell’Aventino e, in particolare, nel suo settore nordoccidentale verso le pendici che guardano verso il Tevere. Probabilmente, già Ottone I voleva una presenza imperiale stabile a Roma, come chiaro e indiscutibile segno della volontà politica di riportare l’impero ai fasti di un tempo. A tal fine, non avrebbe certamente potuto scegliere come residenza della corte il Vaticano, come aveva fatto Carlo Magno, né probabilmente il Palatino, che, sebbene fosse il colle «imperiale» per eccellenza (qui erano sorti i palazzi nei quali avevano abitato gli imperatori romani, n.d.r.), già intorno al VII secolo aveva visto sgretolarsi il suo impianto urbanistico antico, con un aumento degli edifici in

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stato di abbandono e senza alcuna traccia di ripresa insediativa di tipo residenziale.

Antichi luoghi di potere

Le autorità bizantine occupavano probabilmente la Domus Augustana, mentre la Domus Tiberiana era stata concessa a papa Giovanni VII per costruirvi l’episcopio. Inoltre, sul Palatino e nelle sue vicinanze, furono progressivamente erette alcune chiese, come S. Cesario, S. Maria Antiqua, Ss. Pietro e Paolo sulla via Sacra: segnali evidenti della volontà della Chiesa di occupare il colle che era stato il simbolo del potere. Piú accogliente dovette risultare l’Aventino, già per Ottone I, ma la presenza della corte nell’Urbe fu piú duratura proprio a seguito del matrimonio tra Ottone II e Teofane, che sul colle e nel monastero dei Ss. Alessio e Bonifacio trovò un luogo confortevole e vicino alle sue tradizioni. Esso, infatti, si trovava di fronte alla Ripa Greca, dove già dal IV secolo si era stabilita una comunità greca, la Schola Graeca, che crebbe con gli esuli greco-latini sfuggiti alle persecuzioni di Leone

A destra il Giardino degli Aranci, che occupa l’area nella quale sorse, in età medievale, il Castrum Sabelli. In basso le pendici occidentali dell’Aventino in una delle incisioni realizzate da Aegidius Saedler II sulla base di originali di Eteinne Du Pérac e riunite nella raccolta Vestigi della antichità di Roma, Tivoli, Pozzvolo et altri luochi. 1606. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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Isaurico al tempo dell’iconoclastia. Nel suo breve regno, dal 973 al 983, Ottone II si mosse nel solco della politica di restaurazione imperiale intrapresa da Ottone I, tentando la conquista dell’Italia meridionale e continuando a favorire i vescovi-conti. Nel 980 Teofane tornò in Italia con Ottone II, il quale tentò appunto una sortita militare con cui assoggettare le popolazioni cristiane del Meridione, ma dopo la disfatta del proprio esercito in Calabria, risalí la Penisola e, nel 983, riuní una dieta a Verona, nella quale il figlio ed erede al trono Ottone, futuro imperatore Ottone III, venne nominato re d’Italia. Nel corso di una nuova spedizione in Italia Ottone II si ammalò di malaria e morí a Roma il 7 dicembre 983, a soli 29 anni. Il suo

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sarcofago marmoreo venne sepolto nell’atrio a cielo aperto dell’antica basilica di S. Pietro e su di esso fu realizzato un imponente monumento sepolcrale, di circa 4 m di lunghezza; oggi, invece, si trova nel piano inferiore della basilica di S. Pietro. Prima di lui, nessun altro regnante aveva ricevuto un simile onore, tranne Onorio, nel 423.

L’erede al trono

Il ruolo di reggente venne quindi assunto da Teofane, che subito si preoccupò dell’educazione del figlio Ottone, di soli tre anni, affinché fosse pronto al ruolo che lo attendeva. Il teologo e abate Guglielmo d’Aurillac esercitò un’influenza decisiva nella formazione della futura ideologia imperiale, basata sulla convinzione che l’impero romano andasse

ricostruito sia culturalmente che politicamente: un progetto ambizioso, già accarezzato da Ottone I. In una importante fonte, che pone sull’Aventino la residenza degli Ottoni – i Gesta Episcoporum Cameracensium, databili nella prima metà dell’XI secolo –, si legge la frase che piú ha alimentato il dibattito, in quanto ribadisce chiaramente la presenza di un palazzo imperiale sull’Aventino: «Si quidem eodem tempore imperator Romam profectus, in antiquo palacio, quod est in monte Aventino, versabatur» («A quel tempo l’imperatore era tornato a Roma, nell’antico palazzo situato sull’Aventino»). Alcuni studiosi non danno credito a questo testo, scritto da un autore che si trovava lontano da Roma, a Cambrai, e che, se pur co-

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storie aventino

evo, avrebbe erroneamente confuso Aventinus con Palatinus, e ritengono piú affidabili due privilegi firmati da Ottone III nell’anno Mille per una chiesa di Vercelli e redatti in palacio monasterio. Quest’ultimo viene variamente identificato con il monastero di S. Cesareo in Palatio, con S. Maria in Pallara, o anche con S. Sebastiano sul Palatino. Un’altra testimonianza è la Cronica pontificum et imperatorum compilata dal cronista polacco Martino Polono alla fine del XIII secolo, nella quale è scritto che Ottone III avrebbe costruito un «Palacium in urbe palacio Juliani imperatoris», specificando che «Infra Palatium est templum Iuliani», quindi sempre sul Palatino. Ma sarebbe opportuno, come altri studiosi suggeriscono,

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leggere la fonte nella sua interezza, cosí da comprendere che il «Palazzo» sul «Palatino» era in realtà un desiderio che mai poté realizzarsi a causa della morte di Ottone III.

Indizi convergenti

Molti, quindi, sono gli elementi e le testimonianze che ci guidano verso la scelta degli Ottoni di fare dell’Aventino la propria residenza imperiale – a partire da Ottone I, per farsi piú stabile con Ottone II e Ottone III – e che collocherebbero nel monastero dei Ss. Bonifacio e Alessio il monasterium del palatium imperiale. Tra gli indizi tramandati dalle fonti a favore di questa ipotesi abbiamo anche il privilegium del 996 con cui Ottone III conferma i beni del monastero.

Inoltre, proprio sull’Aventino soggiornò Adalberto di Praga, nominato vescovo della città ceca nel 983, che nel 988 si ritirò a Roma, trovando ospitalità proprio presso il monastero dei Ss. Bonifacio e Alessio, importante punto di incontro della spiritualità greca e latina. Il vescovo Adalberto incontrò piú volte l’imperatore Ottone III, con il quale strinse una profonda amicizia, divenendo la sua guida spirituale e ne condivise il progetto di rinnovamento. Nell’autunno del 997, quando Ottone III venne a sapere che il vescovo, partito alla volta della Polonia con l’intento di convertire i pagani, era stato trucidato durante una predica, fece erigere una chiesa ad Aquisgrana per onorarne la memoria e, nel febbramaggio

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A destra la villa del Casino, già Gonzaga, ristrutturata nel 1926 dall’architetto Roberto Marino. L’edificio è oggi sede della Fondazione Sorgente Group. Nella pagina accanto resti di strutture di epoca romana tornati alla luce grazie agli interventi di valorizzazione del giardino della villa del Casino.

io dell’anno successivo, rientrato a Roma, gli dedicò una chiesa presso l’estremità meridionale dell’Isola Tiberina, dove poi l’imperatore stesso, nel 1000, trasferí alcune reliquie del martire. Qui si trovavano anche le reliquie di san Bartolomeo, di cui è nota la venerazione da parte della dinastia ottoniana, che da Benevento furono portate a Roma da Ottone II e Ottone III. Quest’ultimo avrebbe forse voluto portarle in Germania, ma decise infine di lasciarle a Roma nell’unica chiesa da lui fatta costruire, Ss. Adalberto e Paolino all’Isola Tiberina, in seguito ribattezzata S. Bartolomeo all’Isola. E anche questo atto devozionale di Ottone III ci avvicina alle pendici nord-occidentali dell’A-

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ventino, da cui quella chiesa era visibile, vista la sua vicinanza.

Uno snodo cruciale

Come già accennato, l’Aventino, soprattutto nel versante nord, verso il Tevere, costituiva uno snodo fondamentale dal punto di vista strategico, politico e delle vie di comunicazione. Se la parte prossima alle rive del fiume era ancora legata a esigenze commerciali, il pendio e la parte alta si presentavano ricchi di caseggiati, chiese e conventi e proprio tra il IX e il X secolo si assiste a una fase di incastellamento, con l’aumento delle strutture difensive, anche in quelle che erano le residenze private. Per esempio, la residenza in cui il senatore Teofilatto abitava con la moglie Teodora

e la figlia Marozia, fu poi inglobata nel convento di S. Alessio. Nel marzo del 996, Ottone III era sceso in Italia in soccorso di papa Giovanni XV – costretto a rifugiarsi a Sutri per i continui conflitti con la potente famiglia romana dei Crescenzi – e per ottenere da lui l’incoronazione a imperatore. Giunto a Pavia per la Pasqua del 996, Ottone venne proclamato re d’Italia, ma Giovanni XV morí prima che potesse raggiungere Roma, facendo sfumare la progettata consacrazione. Al che, nel maggio dello stesso anno, Ottone riuscí a far eleggere al soglio pontificio il giovane cugino Bruno di Carinzia, che, assunto il nome di Gregorio V, poté cosí incoronarlo imperatore del Sacro Romano Impero il 21 maggio,

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storie aventino in S. Pietro. Quattro giorni piú tardi, il papa e l’imperatore tennero nella basilica vaticana un sinodo in cui furono ascoltati i fautori della ribellione contro Giovanni XV, tra cui il senatore Crescenzio, il quale fu condannato all’esilio ma ebbe la pena condonata grazie all’intercessione di Gregorio V. Tuttavia, le tensioni non si placarono e, nel febbraio del 998, Ottone III, sceso di nuovo a Roma, mise sotto assedio Castel Sant’Angelo, dove Crescenzio e i suoi s’erano rifugiati. Dopo quasi due mesi, la rocca fu espugnata e il senatore venne decapitato. All’indomani di questi eventi, il fortilizio che i Crescenzi avevano fatto costruire sull’Aventino fu quindi quasi interamente inglobato nel Castrum Sabellum, il cui perimetro è rintracciabile nelle mura che

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ancora si conservano e sono visibili percorrendo il clivo di Rocca Savella e che confluiscono in quello che oggi è il Parco Savello, meglio noto come Giardino degli Aranci.

I Savelli al potere

Esso fu residenza della famiglia Savelli, che annoverava tra i suoi membri papa Onorio III (12161227) e qui soggiornò papa Onorio IV Savelli (1285-1287), quando la casata aveva raggiunto il suo massimo potere, come emerge dai possedimenti acquisiti ai Castelli e all’interno dell’Urbe. Con Onorio IV il palazzo assunse l’aspetto di una residenza fortificata a carattere difensivo con alti muraglioni, includendo anche S. Sabina. Il pontefice aveva iniziato i lavori già da quando era cardinale titolare della

vicina S. Maria in Cosmedin e già viveva nel suo castrum, dove morí il 3 marzo 1287. A S. Sabina ebbe quindi luogo il conclave per l’elezione del successore, papa Niccolò IV (12881292), e qui Bonifacio VIII (12951303) incontrò Carlo II d’Angiò. Senza dimenticare che, nel 1312, la Rocca Savella accolse l’imperatore di Sassonia Arrigo VII, quando scese a Roma per essere incoronato in Laterano. Anche se, pressato da piú parti fu costretto ad allontanarsi dalla città e, come racconta il grande storico Ferdinand Gregorovius, nel 1313 il palazzo dei Savelli venne incendiato e distrutto dai soldati dei Colonna. Un’altra veduta del Giardino degli Aranci, con la cupola di S. Pietro sullo sfondo.

maggio

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In virtú di concessioni accordate da Onorio III e Onorio IV, la proprietà fu quindi progressivamente acquisita dai Domenicani. Intanto, sul pendio nord-occidentale dell’Aventino andavano stratificandosi architetture antiche e moderne, spazi aperti, verde strutturato e l’area fu caratterizzata da una divisione del suolo in diverse proprietà private e dalla presenza di magazzini, di cui rimane traccia negli archivi e nelle piante del Catasto. Dalla metà del Cinquecento sulla sommità del colle e lungo le pendici nord-occidentali si avvicendarono le proprietà di eminenti famiglie, esponenti di un’aristocrazia non solo romana: dapprima i Rufini, poi i Capizucchi e successivamente i Ginnasi detennero l’area oggi nota come Giardino degli Aranci, con relativo casino nobile (non piú esistente), sul sito del medievale Castrum Sabellum. Sul pendio ebbero possedimenti i Casali, grandi collezionisti di scultura antica, e i Gonzaga, seguiti dai Ceva Buzi e dai Giustiniani. Accanto a loro, famiglie di imprenditori, quali i Costa, oppure corporazioni religiose, come la chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini, che sfruttarono intensivamente i depositi e i magazzini alla base del pendio. Il 13 marzo 1542 Raffaele Casali acquista una proprietà alle pendici dell’Aventino, in una prestigiosa posizione suburbana, dai Padri Domenicani di S. Sabina, assieme alla chiesetta di S. Anna de Marmorata, ubicata sul limitare di via della Salara, alla confluenza del clivo, poi divenuta sede, intorno al 1650, della confraternita dei Calzettari (i fabbricanti di calze), visibile ancora oggi nella volumetria quadrata della villa all’inizio del clivo di Rocca Savella. I Casali conservarono la proprietà a carattere preminentemente agricolo, investendo invece energie e impegno nella villa, che, dalla fine del Sei-

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cento, divenne il fulcro della propria rappresentazione familiare.

Il nuovo volto del colle

La pianta disegnata da Matthäus Greuter nel 1618 (vedi immagine a p. 37, in alto) mostra l’area delle pendici del colle trasformata e arricchita da volumi edilizi di altezze differenti, utilizzati come magazzini e depositi, oppure come residenza. Mentre i Casali occuparono la porzione esterna delle pendici, nel 1546 Giulio Cesare Gonzaga (15051550), influente ecclesiastico a Roma ed esponente del ramo dei Gonzaga conti di Novellara, acquistò un giardino sulle pendici del colle, fra la proprietà Casali e già citato giardino Rufini, poi Capizzucchi e Ginnasi (oggi occupato dal Giardino degli Aranci). La proprietà Gonzaga si estendeva lungo l’accidentato sprone dell’Aventino, dal clivo di Rocca Savella per quasi tutta la lunghezza del braccio del chiostro di S. Sabina, rivolto verso il fiume. Da Giulio Cesare Gonzaga la proprietà passò al nipote Alfonso Gonzaga (1529-1589) e nel sito si susseguirono vari interventi per la

Fontana addossata a una nicchia del muro di cinta del Giardino degli Aranci. Realizzata nel 1936 su progetto di Antonio Munõz, è composta da due pezzi di reimpiego: una vasca termale romana e il mascherone marmoreo, scolpito per una fontana costruita nel 1593 nel Campo Vaccino su progetto di Giacomo della Porta.

sistemazione delle pendici dell’Aventino, con un impianto a giardino in un continuo processo di trasformazione e abbellimento. Osservando oggi il pendio del colle, si può ancora vedere, in prossimità della balconata del Giardino degli Aranci, una frana che deriva da una fragilità del terreno già presente in antico. Nel 1672, infatti, si verificò uno smottamento del pendio, che causò la marcata alterazione dell’orografia originaria della collina, travolgendo i recinti e gli orti della proprietà Costa e dando inizio al contenzioso fra i monaci di S. Sabina e Giuseppe Costa. Nel frattempo, il Casino Gonzaga era entrato a far parte integrante delle proprietà Casali, che già includevano vari edifici e la chiesa di S. Anna.

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storie aventino L’antica cascata d’acqua, circondata da stalattiti, rimessa in funzione nel giardino della villa del Casino.

Fra il 1765 e il 1770 il Casino Gonzaga, da tempo proprietà Casali, fu demolito per insostenibile fatiscenza e rimpiazzato dal Nuovo Casino, che compare sul Catasto Urbano del 1818 con due speroni di rinforzo agli angoli e adiacente magazzino del sale. Il Nuovo Casino ha una forma piú squadrata e regolare, assumendo l’aspetto di edificio principale della proprietà, che oggi corrisponde alla sede della Fondazione Sorgente Group. Gli ambienti ipogei furono utilizzati come magazzini del sale, affittati nel 1830 alla Reverenda Camera Apostolica e oggi corrispondono allo Spazio museale, ipogeo rispetto al giardino, ma a livello dell’attuale lungotevere. Mentre l’esterno del Casino presentava uno spazio adibito a giardino abbinato a uno produt-

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tivo con vigna e orto, con pozzo al centro tipico delle ville romane.

Dopo l’Unità d’Italia

Nella memoria dei Romani ancora risuona l’utilizzo della Rocca durante la difesa della Repubblica romana nel 1849 per cannoneggiare le truppe francesi schierate a Porta San Pancrazio. L’Unità d’Italia e la nomina di Roma a capitale segnarono un periodo non facile per l’Aventino, dove nel 1873, per effetto della legge n. 1402, tutti i luoghi sacri furono confiscati dal Comune, con la possibilità di continuare a celebrare le funzioni sacre. Il colle e il suo pendio nordoccidentale cominciarono ad assumere il loro assetto definitivo dagli anni Venti del Novecento, quando si procedette alla realizzazione di piattaforme regolari

di terrazzamento del giardino sul pendio, oggi ripristinato grazie al restauro della proprietà in lungotevere Aventino 5, sede della Fondazione Sorgente. Giovanni Curioni, avvocato e deputato del Regno, unificò temporaneamente le due proprietà Casali e poi iniziarono i lavori di ristrutturazione del terreno e delle ville. La villa del Casino, già Gonzaga, oggi sede della Fondazione Sorgente, fu ristrutturata nel 1926 dall’architetto Roberto Marino, collocandola su un terrapieno elevato rispetto alla strada, una sorta di terrazza monumentale che riprende il modello delle ville rinascimentali; il cancello d’ingresso introduce a una corte semi-ipogea, che conserva gli ambienti occupati due secoli prima dai magazzini del sale, oggi spazio museale per mostre ed eventi culturali (vedi foto a p. 41). La valorizzazione del giardino ha riportato alla luce le strutture murarie del pendio nord occidentale con il ripristino dell’antica cascata d’acqua circondata dalle stalattiti, di cui quelle alla sommità, per qualità e consistenza, vanno ritenute di piú antica costituzione. La seconda villa, oggi residenza privata, con l’abbandono definitivo del complesso della chiesa di S. Anna da parte dei Padri Mercedari nel 1939, fu acquistata dai conti Manzolini, ereditata da Marcella Manzolini di Campoleone sposa del marchese Travaglini, e fu restaurata con tutte le sue pertinenze e con la radicale trasformazione in villa nel 194,1 grazie al progetto dell’architetto Lorenzo Corrado Cesanelli, che reinterpretò i volumi presenti fin dalla seconda metà del Settecento, ampliandoli e inglobando la preesistente chiesa di S. Anna, ancora ben visibile sulla facciata principale. maggio

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anghiari medievale/1

Nel borgo della battaglia di Gabriele Mazzi

La struttura urbana di Anghiari, in provincia di Arezzo, racconta l’evoluzione della città, dal Medioevo al XVII secolo. Ecco dunque un invito alla visita, partendo dal quartiere del «Borghetto», culla del Rinascimento locale, per arrivare alla borgata fuori porta e alla «dritta», ovvero la strada in cui si combatté la celebre battaglia del 29 giugno 1440

I

ntorno all’anno Mille, Ranieri di Galbino, nobile di origine longobarda, liberò la sua «masnada» (tutti i suoi servitori) donando ai Camaldolesi il castello di Anglari. Un recente ritrovamento archeologico di età romana sotto Palazzo Pretorio induce a riconsiderare la genesi dell’insediamento: da nucleo urbano nato dall’incastellamento dopo la caduta dell’impero romano, a paese che nasce sopra importanti preesistenze di ben piú profonde origini. Dire che Anghiari – oggi in provincia di Arezzo – sia un paese di origini romane è allo stato attuale degli studi ancora scorretto, ma la scoperta rimane un caposaldo per comprendere la localizzazione degli insediamenti abitati antichi nell’alta Valtiberina. Una delle piú significative espansioni del centro


storico di Anghiari si incontra nell’attuale piazza Mameli. Qui fiorisce il Rinascimento della città. Dal 1385 Anghiari fu sotto l’accomandigia (atto con il quale un comune o una signoria si poneva sotto il protettorato di un altro comune o di un’altra signoria, a tempo o in perpetuo, n.d.r.) di Firenze e in essa trovò un fondamentale supporto per la propria ricchezza. Divenne quindi un vicariato con una certa autonomia di tassazione e amministrazione della giustizia, il cui territorio si spingeva fino al basso Casentino. Agli occhi di Firenze, la sua importanza crebbe considerevolmente negli anni successivi e raggiunse l’apice, anche in termini di notorietà, dopo il fatto d’armi del 1440 passato alla storia come «Battaglia di Anghiari» (combattuta dalle truppe milanesi dei Visconti con l’intento di frenare l’ascesa della potenza dei Medici di Firenze, n.d.r.), ma se il trionfo fece guadagnare ad Anghiari fama politica e storica, la vittoria delle truppe fiorentine sancí il definitivo spostarsi dei confini «toscani» verso la ubertosa valle del Tevere. È dell’anno successivo l’acquisto da parte dei Fiorentini, dal papa, della vicinissima Sansepolcro: per Anghiari è l’inconsapevole inizio di un lungo oblio.

La città cambia volto

L’evento non frena però l’espansione edilizia e nel «Borghetto» sorgono numerosi edifici, anche con funzioni pubbliche: è del 1442 l’edificazione del Battistero (nella attuale via Taglieschi), che porta

per la prima volta il fonte battesimale all’interno del paese, sintomo importante di una crescita economico-sociale nel borgo toscano. Nei palazzi che si affacciano nell’amena piazza Mameli – già «piazza cazzotti», già «Borghetto», prima ancora «carbonaje» – il tempo si ferma. Nate nel XIII secolo come case torri medievali, utili alla guardinga società di quel tempo, le nuove costruzioni si ingentiliscono nel XV secolo grazie all’opera di scalpellini settignanesi, il cui lavoro ha segni di fiorente originalità e risente della cultura della committenza. Palazzo Taglieschi e Palazzo del Marzocco, oggi sedi di due musei, rappresentano questo inequivocabile stato di grazia della comunità anghiarese nella seconda metà del XV secolo. «E fu sciagura di quel tempo che le case vennero mal compartite e non poste in diritta linea», afferma Lorenzo Taglieschi, il cronista seicentesco di Anghiari, parlando della parte entro le mura del paese e riferendosi chiaramente alle architetture medievali che non seguivano modelli geometrici di sviluppo urbano. Per contro, il fatto che le architetture costruite in gran parte a cavallo del XVI secolo non avessero intaccato la disposizione degli edifici preesistenti è oggi un motivo di fascino originale. Gli scorci del centro antico di Anghiari sono infatti unici, oggettivamente particolari, poiché la vita e «la vita che fu» coesistono, Veduta di Anghiari (Arezzo), cittadina che conserva una forte e ben leggibile impronta del suo passato medievale e rinascimentale.


anghiari medievale/1

Anghiari Sulle due pagine pianta a volo d’uccello della cittadina toscana, con i monumenti principali.

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A sinistra Madonna con Bambino (particolare), scultura in legno policromo di Tino di Camaino. 1317 circa. Anghiari, chiesa della Badia.

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convivono in ogni edificio. Si troveranno infatti portali quattrocenteschi a ogni angolo, uniti a tracce di ben piú antiche strutture, abitati da gente di oggi. Nelle loro forme rinascimentali, gli edifici del «Borghetto» sono quindi il simbolo dello stato di fatto in cui si trovava il borgo: da una parte, paese di frontiera, dall’altra, una cittadina nella quale le varie trasferte degli uomini d’armi anghiaresi riversavano esperienze, idee, cultura apprese nei grandi centri dell’Italia centrale, in primis Firenze e Urbino. È infatti straordinaria la notizia riportata dalle fonti storiche della visita ad Anghiari di Federico da Montefeltro, duca di Urbino, e di sua moglie Battista Sforza, episodio che è stato oggetto di una mostra presso il Museo della Battaglia Anghiari nell’ambito del progetto «Terre degli Uffizi». A riprova di come la lontananza maggio

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Una recente scoperta archeologica farebbe risalire all’età romana l’origine del primo nucleo abitato

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Teatro comunale

La lotta per lo stendardo nella Battaglia di Anghiari, disegno di Peter Paul Rubens dal cartone di Leonardo da Vinci per il perduto affresco del fatto d’armi. 1600-1608 circa. Parigi, Museo del Louvre.

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anghiari medievale/1 A sinistra Porta Sant’Angelo: in primo piano, l’apertura con arco a tutto sesto, in secondo piano quella a sesto acuto. Nella pagina accanto uno scorcio del centro storico, con la chiesa e il campanile di S. Agostino sullo sfondo.

dell’ambiente socio-culturale anghiarese rispetto al fervore rinascimentale non fosse cosí accentuata.

Finestre di sicurezza

Passeggiando per le strade, si notano negli edifici tracce ancora vive di passato: devozione; case torri medievali che non hanno perso il loro guerresco carattere; innovazioni funzionali. Nelle facciate di alcuni edifici si vedono piccole aperture circolari sotto le finestre, il cui uso dà adito a molte ipotesi: non sembrano imprecisati sfiatatoi per le deiezioni umane, ma, piú semplicemente, finestre di sicurezza per i bambini dell’epoca e contemporanei. Quante volte abbiamo visto nelle pitture del Medioevo raffigurare i miracoli di santi che salvano dalla morte bambini caduti dalla finestra? Le alte mura che cingono Anghiari hanno protetto e conservato il centro storico. Il primo nucleo fortificato si sarebbe sviluppato nella parte piú alta del paese,

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dove sono attualmente visibili il cassero (l’antico baluardo del nucleo fortificato) e Palazzo Pretorio, al cui interno è la già citata testimonianza di origine romana, e, piú in basso, la chiesa della Badia, il piú antico edificio religioso della cittadina. L’attuale via Francesco Nenci sembra perciò ricalcare l’andamento delle antiche mura medievali, confermando la notizia di una porta «degli auspici» in corrispondenza della detta strada, abbattuta agli inizi del XVII secolo. La decisione, scrive Lorenzo Taglieschi, «fu molto dannabile, ma la porta, la quale era del primo cinto delle mura del castello, minacciava rovina». Nel XII e XIII secolo il borgo si allarga e i Camaldolesi, insediatisi in Anghiari, concedono terrena ad domos aedificandas nella zona detta delle carbonaie (cioè terreni per costruire edifici nella zona del «Borghetto»), interessati soprattutto a non favorire il crearsi di altri centri di potere al di fuori del borgo fortificato. È questo il momento in cui vengono erette le prime case torri in quella zona. L’anno 1181 sancisce l’allargamento delle mura difensive che abbracciano anche le cosiddette carbonaie ed entro queste mura Anghiari saturerà i propri spazi edificabili protetti, trovando a volte soluzioni ardite e originali. Parte di questo fervore è la zona presbiterale della chiesa di S. Agostino nel Borghetto, databile alla seconda metà del XV secolo, che rappresenta un ardito esempio architettonico che aggetta fuori le mura del borgo. Altri esempi con soluzioni cosí innovative non si trovano spesso e vi si possono avvicinare le soluzioni adottate nella Cattedrale dell’Assunta in Pienza oppure nelle torri del Palazzo Ducale di Urbino. La visita alle mura di Anghiari è interessante sia per la loro perfetta conservazione, sia per la loro forma a mo’ di nave. Fra il XV e XVI secolo esse vennero adeguate alle nuove tecniche belliche. In questo periodo le mura diventano generalmente piú basse e tozze, dagli spessori importanti e nascono molti imponenti maggio

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anghiari medievale/1 Fuori le mura di Anghiari

senza troppe precauzioni difensive. Lo sviluppo delle case attorno alla piazza del Mercatale e ai lati dell’attuale corso Matteotti ne sono l’esempio piú vivido. IL BORGO DELLA CROCE Quasi a sottolineare che si tratta di una parte a sé stante, si chiama Borgo della Croce il gruppo di case che sorge ai lati dello stradone rettilineo che corre e prosegue, fin dal XIV secolo, verso Sansepolcro. Qui si trovano i piú bei palazzi della nobiltà e borghesia di Anghiari, tutti affacciati sulla piazza o sullo stradone, costruiti in varie epoche. Si passa da piccole dimore borghesi del XVI secolo, fino a maestosi palazzi settecenteschi che sommano la grazia dell’architettura barocca con bizzarrie e opulenza, specchio di una fastosa classe sociale arricchitasi grazie alle proprietà terriere

Per lo sviluppo urbano di Anghiari è fondamentale il XVI secolo. Con esso si concludono i lavori nella parte entro le mura urbane e prende un piú corposo avvio l’espansione attorno all’attuale piazza Baldaccio Bruni, già del Mercatale. Qui si insedia la borghesia, in luoghi

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piú salubri e con piú aria attorno, spostando definitivamente il centro della comunità da dentro le mura a fuori delle stesse. Il processo vede una grande spinta dopo la guerra di Siena. Con Cosimo I de’ Medici le terre di frontiera, come Anghiari, possono finalmente espandersi senza timori e

e inneggiante alla vita tramite le attività accademiche e teatrali. SAN FRANCESCO E LA STRADA «DRITTA» Era il 1224 quando san Francesco, dopo aver ricevuto le stimmate alla Verna, si fermò maggio

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Nella pagina accanto, a sinistra un momento del Palio della Vittoria, che si corre ogni anno il 29 giugno. A sinistra la magnifica vista sul territorio chiantigiano dal Castello di Montauto. Nella pagina accanto, a destra, in basso il saio che san Francesco lasciò nel Castello di Montauto, oggi conservato nel santuario della Verna.

in vari luoghi, fra cui il castello di Montauto, nelle vicinanze di Anghiari, dove trascorse alcuni giorni e gli venne donato un nuovo saio in sostituzione di quello vecchio, ormai logoro e intrecciato con foglie di ginestra. Francesco quindi ripartí verso Assisi e passò da Anghiari. In seguito, nel luogo dove la tradizione vuole che Francesco sostò, sorse una cappella e poi, nel XVI secolo una chiesa e un convento voluti dal beato Bartolomeo Magi. L’antico saio di san Francesco, da lui lasciato al Castello di Montauto, è attualmente conservato presso il santuario della Verna. Dall’attuale chiesa della Croce inizia lo stradone rettilineo che sembra srotolarsi attraverso la valle del Tevere, con asse ovest-est, e che, con la sua direzione, sembra indicare un altro luogo di devozione francescana: il monastero di Montecasale, situato nelle montagne sopra Sansepolcro. Proprio questa via medievale fu teatro della battaglia di Anghiari del 29 giugno 1440. Nel luogo della vittoria ottenuta dai Fiorentini sui Milanesi sorge dal 1441 una cappella a ricordo del fatto d’armi.

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In basso l’esterno della chiesa della Croce, sorta nel punto in cui, nel 1224, san Francesco piantò appunto una croce, alla congiunzione di tre sentieri.

bastioni utili per il tiro incrociato. Anghiari, forse per la sua posizione e per la sua irregolarità non riceve modifiche stravolgenti, ma tanti piccoli e grandi miglioramenti. Le mura si inspessiscono alla base seguendo i piú moderni dettami, si costruiscono nuovi bastioni nelle parti considerate piú a rischio e si edifica una torre, oggi detta «il Campano». Proprio sotto la torre era presente un fossato (è ancora conservato il toponimo di via del Fosso), sul cui tratto si aprono due porte fiorentine: una superiore, detta di S. Martino e una inferiore, piú recente, detta

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anghiari medievale/1 Un tipico scorcio del centro storico di Anghiari. La cittadina visse una stagione di particolare espansione edilizia e crescita economica all’indomani della battaglia del 29 giugno 1440.

verso piazza, con le pietre del distrutto castello di Valialle, donate dalla repubblica fiorentina, facendovi un ponte levatoio di legno». Detta Portaccia, Porta S. Angelo è l’antico accesso al lato meridionale del castello, un esempio dell’espansione urbana realizzatasi fra il XV e il XVI secolo. Qui sono visibili le due aperture, una interna, piú antica, con arco a sesto acuto e l’altra esterna con arco a tutto sesto. Il quartiere quattrocentesco fuori Porta S. Angelo, con dimore anche di un certo pregio, è l’esempio di come gli agglomerati urbani si siano ingranditi anche fuori dai confini imposti dalle mura. L’ultimo potenziamento delle mura urbane fu l’innalzamento di un bastione, detto «del Vicario», a protezione di Palazzo Pretorio, costruito nel 1575 e recentemente restaurato con il ritrovamento delle originali cannoniere. È da notare che negli stessi anni la vicina Sansepolcro ricevette nuovi bastioni e una fortezza, progettata da Giuliano da Sangallo, che potenziò considerevolmente l’apparato difensivo di quella città.

Il Catorcio conteso

Porta Nuova. Agli angoli di questa parte delle mura sono ben riconoscibili due bastioni angolari. Sopra uno di essi è ancora collocata appunto la torre, piú volte distrutta e ricostruita nel corso dei secoli. L’altra torre che sovrasta Porta S. Martino fa parte invece dell’apparato difensivo dei due ingressi che completano il sistema con il rivellino della porta sottostante. È interessante qui la recente scoperta di una feritoia in un ambiente che faceva parte del sistema di guardianíe delle porte. Un ponte levatoio collegava la porta con la strada mentre all’interno del rivellino vi è la «campana del Mercatale», che serviva per segnalare l’inizio e la fine del mercato. La Porta Nuova o Fiorentina è costituita da una sola volta di massicci blocchi di pietra con stemma mediceo in chiave di volta. Scrive ancora Taglieschi: «Fu edificata nell’anno 1460, a uso di baluardo, avanzandosi

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Ogni cittadina toscana è scossa da sentimenti di campanilismo. Fra Anghiari e Sansepolcro ci fu ardua lotta quando il Rinascimento stava già mutando gli animi e il paesaggio urbano. Erano passati dieci anni dalla Battaglia di Anghiari e come di consueto, il 29 giugno, giorno della vittoria, ad Anghiari vi era mercato e si correva il Palio. Il già piú volte citato Lorenzo Taglieschi racconta cosí l’episodio: «E nel 1450, nel giorno della fiera di San Piero i Borghesi (i Biturgensi) in numero di 400 vennero armati in Anghiari, ed azzuffatisi con gli anghiaresi ne restarono piú morti e feriti, e nel fuggire rubarono i Borghesi un Catorcio della Porticiuola del Ponte il quale impiombarono nella pubblica Piazza del Borgo, mostrandolo per memoria di gran trofeo». Fu un fatto cosí significativo che attorno al 1685 Federigo Nomi, letterato, scrisse un poema dal titolo: Il Catorcio di Anghiari o Catorceide. Il trofeo rimase a Sansepolcro fino a quando le autorità fiorentine, onde dirimere le questioni fra le città vicine, sequestrarono il tanto disputato Catorcio, che ora si trova nelle sale del Museo della Battaglia di Anghiari. (1 – continua) maggio

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vivere al tempo del decameron/5

Novelle di sangue blu

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Uomini e donne delle classi aristocratiche sono presenze ricorrenti nelle storie raccontate da Boccaccio. Ogni volta, però, oltre a confezionare situazioni dal tono piú o meno burlesco, lo scrittore certaldese tratteggia una sorta di atlante dei vizi e delle virtú della nobiltà. Ma sempre con il chiaro intento di proporre narrazioni capaci di offrire al lettore ammonimenti e lezioni di vita Fronte di un cassone nuziale con la storia di Griselda, dipinto su tavola di Apollonio di Giovanni. 1440 circa. Modena, Galleria Estense. Ultima delle cento che compongono il Decameron, la novella è considerata esemplare delle virtú allora richieste alle spose.

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estinato in primis a un pubblico borghese e mercantile, il Decameron dà ampio spazio ai nobili, come se l’autore vedesse in loro lo specchio degli ideali cavallereschi, piú che i rappresentanti di una precisa classe sociale. Non a caso, Boccaccio definisce le sette narratrici «di sangue nobile» e altrettanto lo sono i tre uomini perché accompagnati da un «famiglio» [maggiordomo]. Nel corso della sua esistenza, lo scrittore certaldese vive molto da vicino i diversi modelli di nobili: quelli cittadini, come i narratori delle novelle; i nobili, feudali; i nobili danarosi e quelli caduti in disgrazia. Fra i nobili decaduti, Boccaccio distingue quelli che rinnegano – spesso perché costretti – le regole del proprio ceto e coloro che le mantengono. Come esempio

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di nobiltà feudale, incontriamo, nella giornata IV, novella 9, Guglielmo di Rossiglione e Guglielmo Guardastagno: «l’uno e l’altro era prod’uomo [provenzale]», avevano castelli e vassalli «molto nell’arme, s’armavano [prendevano le armi, vestivano l’armatura] e in costume avean d’andar sempre a ogni torneamento o giostra o altro fatto d’arme insieme e vestiti d’una assisa [di una stessa divisa]».

Un marchese famoso

Inserito in uno splendido contesto di corte è Corrado degli Aleramici, marchese del Monferrato, «uomo d’alto valore, gonfaloniere della Chiesa, oltremare passato in un general passaggio [crociata] de’ cristiani fatto con armata mano [con un esercito]» e «tra’ cavalieri era d’ogni virtú il marchese famoso» [I, 5]. A Napoli,

Riccardo Minutolo «per nobiltà di sangue chiaro e splendido per molte ricchezze» rappresenta un giovane saldo nei suoi privilegi nobiliari, che corteggia una donna armeggiando e giostrando [III, 6]. Questi tornei erano molto apprezzati dalla società, perché simulavano la battaglia in cui i cavalieri mettevano in luce il proprio coraggio. Un altro nobile passatempo apprezzato in quanto anch’esso simulazione della guerra era la caccia: «Currado Gianfigliazzi (...) sempre nella nostra città è stato notabile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli si è dilettato» [VI, 4]. La vita dei nobili comprendeva anche altre abitudini come la visita nel Mezzogiorno d’Italia al santuario di S. Michele sul Gargano, alla cattedrale di S. Matteo

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vivere al tempo del decameron/5 Miniatura raffigurante la moglie di Guglielmo di Rossiglione che si getta dalla finestra dopo che il marito le ha fatto servire il cuore dell’amante Guardastagno (IV, 9), da un’edizione francese del Decameron. 1427. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

di Salerno, al S. Nicola di Bari [II, 6] e il pellegrinaggio in Terra Santa [III, 7], anche se, come vedremo, quest’ultimo poteva riservare spiacevoli imprevisti anche alle nobildonne [I, 9].

Accuse infondate

Un perfetto modello di gentiluomo decaduto è Gualtieri d’Anversa, falsamente accusato e costretto all’esilio, ma che, dopo varie vicissitudini, viene riconosciuto innocente. Il conte era «del corpo bellissimo e d’età forse di quaranta anni, e tanto piacevole e costumato quanto alcuno altro gentile uomo il piú esser potesse; e, oltre a tutto questo, era il piú leggiadro e il piú dilicato cavaliere che a quegli tempi si conoscesse e quegli che piú della persona andava ornato» [II, 8]. Indice di un alto lignaggio non sono soltanto l’aspetto esteriore e i modi, ma anche l’antichità del casato. Una brigata di giovani si interroga su «quali fossero lí piú gentili [nobili] uomini di Firenze e i

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piú antichi». Michele Scalza «il piú piacevole è il piú sollazzevole uomo del mondo» sostiene che sono i Baronci. Gli altri amici lo canzonano: «Tu ci uccelli [beffi] quasi come se noi non cognoscessimo i Baronci come facci tu». Scalza scommette una cena dicendosi certo che sarà in grado di dimostrare quanto afferma: «Voi sapete che, quanto gli uomini sono piú antichi, piú son gentili e cosí si diceva, pur testé tra costoro: e i Baronci son piú antichi che niuno altro uomo, sí che son piú gentili; e come essi sien piú antichi mostrandovi [e col dimostrarvi che], senza dubbio io avrò vinta la quistione. Voi dovete sapere che i Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli aveva cominciato d’apparare [imparare] a dipignere, ma gli altri uomini furono fatti poscia che Domenedio seppe dipignere. E che io dica di questo il vero, ponete mente a’ [e per convincervi che io dico la verità attorno a questa questione, osservate bene i] Baronci e agli altri uomini: dove [mentre] voi tutti

A destra la sesta novella della terza giornata in un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Da sinistra, due coppie di nobili napoletani, tra cui Riccardo Minutolo e Catella, si incontrano sulla riva del mare; Ricciardo e Catella giacciono insieme nei bagni cittadini.

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gli altri vedrete co’ visi ben composti e debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e stretto, e quale averlo oltre ogni convenienza largo, e tal v’è col naso molto lungo e tale l’ha corto, e alcuni col mento in fuori e in sú rivolto e con mascelloni che paion d’asino; e èvvi tale che ha l’uno occhio piú grosso che l’altro, e ancora chi ha l’un piú giú che l’altro, sí come sogliono essere i visi che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare. Per che, come già dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece quando apparava a dipignere, sí che essi son piú antichi che gli altri e cosí [e per questo] piú gentili». Quasi inutile aggiungere che,

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grazie a tale arguta analisi, Scalza vince la scommessa [VI, 6].

Famiglie in rovina

La decadenza dei gentiluomini è di solito causata dall’inclinazione a mandare in fumo le proprie sostanze: Boccaccio ricorda, in particolare, la vicenda di messer Tebaldo dei Lamberti. Il nobile muore lasciando ai tre figli «belli e leggiadri giovani» un ingente patrimonio, che essi dilapidano in breve tempo «tenendo grandissima famiglia» [molta servitú], cavalli, cani uccelli, «donando e armeggiando». Per riconquistare la ricchezza e la dignità sociale, i tre nobili fratelli si abbassano alla pra-

tica dell’usura, ma, appena ritrovato il benessere, tornano alla vita da gentiluomini [II, 3]. Questa varietà di stili di vita, a volte non consoni al rango nobiliare, fa ricordare con nostalgia a Boccaccio: «Ne’ tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n’è rimasa, mercé [per colpa] dell’avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta la quale tutte l’ha discacciate. Tralle quali n’era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano [radunavano] insieme i gentili uomini delle contrade e facevano loro brigate di certo numero, guardando di (segue a p. 64)

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vivere al tempo del decameron/5 Pagina di un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Le vignette illustrano l’ottava novella della seconda giornata: la moglie del re di Francia accusa Gualtieri, conte d’Aversa, di averla violentata, costringendo il conte alla fuga; il nuovo re di Francia restituisce titoli e ricchezze a Gualtieri e ai suoi figli.

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Un’altra pagina dell’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Le illustrazioni si riferiscono alla centesima novella dell’opera: Gualtieri ripudia la moglie Griselda; durante il banchetto per le finte nozze, Griselda viene riaccolta nella casa del marchese e si ricongiunge con i propri figli.

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vivere al tempo del decameron/5 mettervi tali che comportare potessono acconciamente [potessero sopportare comodamente] le spese, e oggi l’uno, doman l’altro, e cosí per ordine tutti mettevan tavola [offrivano convito], e ciascuno il suo dí, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de’ cittadini; e similmente si vestivano insieme [allo stesso modo] almeno una volta l’anno, e insieme i dí piú notabili [i giorni di festa] cavalcavano per la città e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o da altro fosse venuta nella città» [VI, 9]. Il fatto che in determinate ricorrenze i nobili si vestissero alla stessa maniera fa intendere che rappresentavano un corpo unico, come accade agli eserciti, che indossano la divisa.

Insensibile ai doni

Per indirizzare la società a quei valori perduti, il Boccaccio dà molto spazio alle storie in cui i nobili mostrano la loro natura cortese e cavalleresca. Federigo Alberighi «in opera d’arme [esercizi cavallereschi] e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel [giovane nobile] di Toscana» è innamorato di Giovanna, una donna sposata, ritenuta «delle piú belle donne e delle piú leggiadre che in Firenze fossero». Per conquistarla, dilapida il suo patrimonio tra giostre, feste e doni, ma lei «non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva». Federigo è costretto a lasciare la città e a trasferirsi a Campi Bisenzio nel suo «poderetto» con le cui rendite «strettissimamente [poveramente] vivea». Ultimo status del suo passato signorile è il suo falcone, «de’ migliori del mondo». Quando il ricchissimo marito di Giovanna muore, la donna si trasferisce con il figlio in una proprietà poco distante da quella di Filippo. Il «garzoncello» vede Federigo andare a caccia con il falcone e vuole a tutti i costi il

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rapace, ma sa anche quanto il cavaliere ci tenga e non gli confessa il suo desiderio. Per il dispiacere, il ragazzino si ammala e, quando la madre gli chiede se c’è qualcosa che possa farlo risanare, le risponde: «Madre mia, se voi fate che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guarire». Giovanna è molto combattuta, sa che Federigo la ama, ma non ha mai corrisposto a quel sentimento; è anche conscia della povertà del suo corteggiatore e che il falcone «il mantien nel mondo [in vita]». Il giorno dopo per il bene del figlio si reca da Federigo con una dama di compagnia e gli dice: «Io son venuta a ristorarti [risarcirti] de’ danni li quali tu hai già avuti per me amandomi piú che stato non ti sarebbe bisogno; e il ristoro è cotale, che io intendo con questa mia compagna insieme desinar teco dimesticamente [come una persona di famiglia] stamattine». Federigo è felice di poter trascorrere qualche ora con la sua amata, ma, allo stesso tempo, maledice la sua sfortuna, perché non ha degne vivande da offrirle. Decide allora di sacrificare il suo falcone e lo serve in tavola arrostito, senza dire a Giovanna che si tratta del suo adorato rapace. Terminato il pranzo, si alzano da tavola e la donna confessa a Federigo il motivo della sua visita: «Non per l’amore che tu mi porti, al quale tu di niente se’ tenuto [rispetto al quale non sei obbligato in nulla] ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s’è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di… [donarmi il falcone], acciò che io per questo dono possa dire di aver ritenuto in vita il mio figliuolo e per quello averloti sempre obbligato». A queste parole Federigo scoppia a piangere, ma la donna attribuisce il motivo di quella reazione al dispiacere di separarsi dal rapace. Quando però Federigo le spiega: «Vedendo ora che in altra maniera il desideravate, m’è sí gran duolo che

In basso, sulle due pagine la sesta novella della sesta giornata in un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Sulla sinistra, Michele Scalza discute con i suoi amici sulla collina di Montughi; sulla destra, Dio bambino impara a disegnare e Dio adulto mostra un disegno compiuto.

servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare». Per dimostrarle di aver detto la verità, Federigo le mostra le zampe e il becco del falcone. Giovanna rimane stupita e incredula, prima lo biasima di aver dato da mangiare «a una femina… un tal falcone», come non ne fosse degna, poi resta colpita «dalla grandezza dell’animo suo la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare [mortificare]». Il figlio di Giovanna «per malinconia [nel senso di dolore] che il falcone aver non potea o per la ’nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto [che a ogni modo lo avrebbe condotto a quel punto], non trapassar molti

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In alto la nona novella della quinta giornata nell’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Federigo degli Alberighi mostra il suo falcone a monna Giovanna e poi glielo serve come pietanza, facendole vedere le zampe dell’animale.

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giorni che egli con grandissimo dolore della madre di questa vita passò».

Giovanna e i suoi fratelli

Trascorso qualche tempo, i fratelli di Giovanna insistono perché si risposi e lei risponde loro che è disposta a prendere come marito solo Federigo. I fratelli sono contrari, sanno che il cavaliere è povero, ma la donna è ferma sulle sue posizioni: «Fratelli miei, io so bene che cosí è come voi dite, ma io voglio avanti [piuttosto] uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo». I fratelli capiscono cosa prova per Federigo e, dimostrando stima di lui, danno il consenso alle nozze e «cosí fatta donna e cui egli tanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissimo, in letizia con lei miglior massaio [amministratore] fatto, terminò gli anni suoi». [V, 9]. La storia di Federigo degli Albe-

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vivere al tempo del decameron/5 La sesta novella della decima giornata in un’altra miniatura dell’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Re Carlo d’Angiò, ospite di Neri degli Uberti, osserva le figlie del cavaliere uscire per andare a pesca; il re fa sposare le fanciulle con due baroni.

righi è esemplare per il suo caratteristico clima di rituale cortese: lo nota la narratrice Fiammetta, che l’avvolge di nostalgia per il buon tempo andato, quello della Firenze «dentro la cerchia antica». In questo caso, la prodigalità conduce Federigo alla povertà ma la forza delle sue virtú cavalleresche avvicina anche la donna all’amore. Attraverso questa storia, Boccaccio insegna a un mondo avido ed egoista come quello dei mercanti quali siano le virtú da apprezzare. Per Boccaccio i nobili hanno la possibilità di redimersi anche quando sbagliano. Un’anonima gentildonna della Guascogna torna dal pellegrinaggio al Santo Sepolcro ai tempi della prima crociata, quella che portò alla conquista di Gerusalemme (1099). Durante una sosta a Cipro «da alcuni scellerati uomini villanamente fu oltraggiata». La nobildonna è disperata ma decisa, vuole andare dal re per denunciare i suoi stupratori. Molti però la sconsigliano: «la fatica si perderebbe, per ciò che egli [il re] era di sí rimessa vita e da sí poco bene [d’indole cosí pusillani-

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me, remissiva, e cosí poco capace di fare del bene], che, non egli l’altrui onte con giustizia vendicasse, anzi infinite con vituperevoli viltà a lui fattene sosteneva, intanto che chiunque aveva cruccio alcuno, quello col fargli alcuna onta o vergogna, sfogava».

La supplica della vittima

Udito ciò la donna, perduta la speranza di avere giustizia, «a alcuna consolazione della sua noia [per alleviare in qualche modo il suo cruccio]» si propone «di voler mordere la miseria [dappocaggine] del detto re». In lacrime si palesa davanti al sovrano e gli dice: «Signor mio, io non vengo nella tua presenza per vendetta che io attenda della ingiuria che m’è stata fatta; ma in soddisfacimento [in compenso] di quella ti priego che tu mi insegni come tu sofferi [sopporti], quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te apparando [imparando], io possa pazientemente la mia comportare: la quale, sallo Idio, se io far lo potessi, volentieri, te la donerei, poi cosí buono portatore [poiché cosí buon sopportatore] ne se’». A queste parole «il re, infino allora stato tardo e

pigro, quasi dal sonno si risvegliasse, cominciando dalla ingiuria fatta a questa donna, la quale agramente [severamente] vendicò, rigidissimo persecutore divenne di ciascuno che contro allo onore della sua corona alcuna cosa commettesse da indi innanzi» [I, 9]. Anche nobili valorosi possono sbagliare, salvo poi ammettere l’errore e tornare a essere giusti. Neri degli Uberti con la sua famiglia ha comperato una villa a Castellammare di Stabia e nel mezzo del giardino, «avendo acqua in viva copia, fece un bel vivaio e chiaro e quello di molto pesce riempié leggiermente [facilmente]». Re Carlo d’Angiò vuole vedere il magnifico giardino di messer Neri e si reca da lui in compagnia del conte Guido per cenare tutti assieme. Le figlie quindicenni del nobile fiorentino coperte da un «vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve sulle carni» entrano nella vasca e con le reti catturano il pesce da cucinare. Uscite dall’acqua, passano «vergognosamente» davanti agli invitati e rientrano in casa per cambiarsi. L’anziano sovrano nota la belmaggio

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lezza di Ginevra e di Isotta, tornato a palazzo «tenendo (...) la sua affezion [passione] nascosa, né per grande affare che sopra avvenisse potendo dimenticare la bellezza e la piacevolezza di Ginevra la bella, per amor di cui la sorella lei simigliante ancora amava, sí nell’amorose panie s’invescò [s’invischiò nelle reti dell’amore] che quasi a altro pensare non poteva». Il re confessa al conte Guido che vuole prendersi entrambe le fanciulle ma il nobiluomo ha il coraggio di rimproverarlo: «Questo non è atto di re magnanimo anzi d’un pusillanimo giovinetto. E oltre a questo, che è molto peggio, dite che diliberato avete di torre [portare via] le due figliole al povero cavaliere il quale in casa sua oltre al poter suo v’ha onorato, e per piú onorarvi quelle quasi nude v’ha dimostrate, testificando per quello quanta sia la fede che egli ha in voi, e che esso fermamente creda voi essere re e non lupo rapace». Per dissuaderlo dal bieco proposito, Guido ricorda al sovrano che

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si è sempre dimostrato il difensore dei piú deboli. «Queste parole amaramente punsero l’animo del re e tanto piú l’afflissero quanto piú vere le conoscea». Dopo un lungo sospiro, Carlo risponde: «Conte, per certo ogn’altro nimico, quantunque forte, estimo che sia al bene ammaestrato guerriere assai debole e agevole a vincere a rispetto del suo medesimo appetito [della propria medesima passione]; ma quantunque l’affanno sia grande e la forza bisogni inestimabile, sí m’hanno le vostre parole spronato, che conviene, avanti che troppi giorni trapassino, che io vi faccia per opera vedere che, come io so altrui vincere, cosí similmente so a me medesimo, soprastare [so vincere me stesso]».

Finale edificante

Re Carlo conferisce una ricca dote alle due fanciulle e le marita a due nobili cavalieri con grande gioia del padre. Boccaccio conclude la novella sostenendo: «Saranno forse di quei che diranno piccola cosa essere a un re l’aver maritate duo giovinette,

Miniatura raffigurante un torneo cavalleresco, da un manoscritto del XIV sec.

e io lí il consentirò; ma molto grande e, grandissima la dirò se diremo un re innamorato, questo abbia fatto, colei maritando cui egli amava senza aver preso o pigliare del suo amore fronda o fiore o frutto. Cosí adunque il magnifico re operò, il nobile cavaliere altamente premiando, l’amate giovinette laudevolmente onorando e se medesimo fortemente vincendo» [X, 6]. Appare qui evidente l’insegnamento morale di non fare del male al prossimo e di essere altruisti. La novella conclusiva del Decameron sottolinea come la nobiltà non sia solo quella di sangue. Il marchese di Saluzzo, sollecitato dal suo popolo, deve sposarsi per assicurare continuità al casato e decide di impalmare Griselda, una bellissima contadina dalla quale ha un figlio maschio e una femmina. Per metterne alla prova la

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vivere al tempo del decameron/5 Miracolo dei pellegrini alla tomba di San Nicola, scomparto della predella con Storie di San Nicola di Bari del polittico realizzato da Gentile da Fabriano su commissione della famiglia Quaratesi per la chiesa fiorentina di S. Nicolò sopr’Arno, tempera su tavola. 1425. Washington, National Gallery of Art.

bontà, la forza e l’amore, il marchese fa sopportare a Griselda ogni sorta di umiliazione: le fa credere di aver ucciso i loro figli; la caccia dal castello; le annuncia di volersi risposare con una giovane nobile, in realtà loro figlia. Griselda non si perde d’animo e il marchese «trovandola paziente, piú cara che mai in casa tornatalasi [ripresala], i suoi figlioli grandi le mostra e come marchesana l’onora e la fa onorare». Il lieto fine della vicenda fa capire che anche una contadina può diventare principessa, dato che lo è già nell’animo [X, 10].

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Queste novelle dimostrano come il Decameron non sia «una grandiosa epopea dei mercanti», come ha sostenuto il filologo e critico letterario Vittore Branca (1913-2004), e neppure l’apologia della società borghese e dei suoi valori, bensí la condanna e il superamento di quelli grazie al recupero dell’antico messaggio cortese e cavalleresco: l’amore come disinteressata e completa dedizione; il disprezzo del denaro e dei beni materiali; l’amicizia e la solidarietà come principi di vita. Boccaccio propone una rifon-

dazione cavalleresca della società come risposta alla peste del 1348, vista come punizione divina contro un mondo governato dall’avarizia, dalla superbia e dall’invidia, di cui, come già notava Dante, Firenze era l’esempio lampante. Eppure, alle soglie dell’età moderna, la direzione presa dalla società non segue la strada indicata dallo scrittore e si indirizza verso l’individualismo borghese e la logica del profitto.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Storie di mercanti maggio

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oltre lo sguardo/14

Il grande di Furio Cappelli

inganno

Il romanzesco quanto controverso racconto biblico della contesa tra i due figli di Isacco, Esaú e Giacobbe, ha sollecitato da sempre la curiosità e la creatività degli artisti. Ne è un esempio principe il dittico della Chiesa Superiore della basilica di Assisi, opera, forse, dello stesso Giotto… 70

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Mosaico raffigurante il patriarca Isacco che benedice Giacobbe mentre Esaú rientra dalla caccia. 1176 circa. Monreale, cattedrale di S. Maria Nuova.

«Dio ti conceda rugiada del cielo / e terre grasse / e abbondanza di frumento e di mosto» (Genesi, 27:28) MEDIOEVO

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a Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi è celebre per le Storie del santo che corrono lungo le fasce basali della navata, in larga parte riconducibili a Giotto e alla sua bottega. Sopra questo ciclo si articolano le Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, che segnano il momento iniziale nella decorazione pittorica dell’aula. Sono assai meno note delle Storie francescane, ma nel loro ambito spicca un «dittico» (una composizione articolata in due scene) che conosce una particolare fama. Si tratta delle Storie di Isacco che si vedono sulla parete destra, in corrispondenza della seconda campata della struttura. Realizzate intorno al 1290, rappresentano un momento chiave nella storia del cantiere di Assisi e, piú in generale, in quella della pittura italiana. Noto alla critica come Maestro di Isacco, il loro autore è infatti una personalità di eccezionale risalto, che ha avuto

re molto a cuore a chi aveva pianificato l’intero ciclo, selezionandone i soggetti da rappresentare.

Due feti turbolenti

Il patriarca Isacco è il figlio di Abramo che Yahweh aveva chiesto di sacrificare, per poi revocare il suo ordine poco prima del supplizio. Prese in moglie la bella Rebecca all’età di quarant’anni, ma costei era sterile, e Isacco dovette supplicare il Signore per poter avere una discendenza. Quando ormai aveva compiuto sessant’anni, il suo desiderio fu esaudito e Rebecca rimase incinta di due gemelli. Nel suo ventre si scontravano di continuo, come se avessero ingaggiato una lotta prima ancora di venire al mondo. La donna chiese lumi al Signore su questo strano comportamento, e dal cielo giunse cosí una rivelazione inaspettata: «Due nazioni sono nel tuo seno / e due popoli dal tuo grembo si disperdeA sinistra capitello scolpito raffigurante la benedizione di Giacobbe. 1125-1140. Vézelay, basilica di S. Maria Maddalena. Nella pagina accanto la benedizione impartita da Isacco in una miniatura della Bibbia moralizzata di Toledo (o di San Luigi). 1220-1240 circa. Toledo, Cattedrale.

modo di esprimere in quei riquadri tutta la sua genialità narrativa e formale, con una finezza che non è in alcun modo riscontrabile nei pittori che avevano lavorato in precedenza a quella impresa. Molto si è discusso e si discuterà ancora se nel Maestro di Isacco debba identificarsi proprio Giotto, che avrebbe cosí avuto modo di esprimersi per la prima volta in quell’aula in prima persona, senza inserirsi in opere altrui, e senza l’intervento di aiuti. Di sicuro, con quel «dittico» si evidenzia il momento che prelude alla «modernità» delle Storie di san Francesco, proprio in corrispondenza di un tema che doveva sta-

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ranno; / un popolo sarà piú forte dell’altro / e il maggiore servirà il minore» (25:23). Rebecca viene cosí a sapere che i due feti, intenti a cozzare tra di loro, sono destinati a originare altrettanti popoli. Una di queste genti (gli Edomiti, stanziati a sud della Palestina) primeggerà per forza, ma ci sarà un esito sorprendente, perché la parte debole (la gente di Israele) prenderà il sopravvento, e la controparte dovrà servirla. I gemelli vengono finalmente al mondo. Nasce per primo Esaú, dal colorito rossiccio e dalla fitta peluria e questo suo «mantello» indica che già da neonato si presenta forte e maturo. Il suo nome, infatti, simaggio

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gnifica in ebraico «uomo fatto». Subito dopo nasce Giacobbe: è il secondogenito, ma subito si attiva per primeggiare sul fratello. Ha la mano saldamente attaccata al calcagno di un piede di Esaú e si impone cosí all’attenzione, sin dal primo momento, con un gesto volitivo, che ne esprime l’esigenza di riscattarsi dalla sua condizione di minore. Vuole mettersi al posto del fratello, e il nome che gli viene dato in ebraico significa appunto «il soppiantatore». Esaú diviene l’immagine stessa di un uomo vincente, forte e impavido, che primeggia nella caccia, lasciando presagire le sue doti di capo e di guerriero.

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Giacobbe, invece, è di indole tranquilla, e passa volentieri molto tempo sotto la tenda, piuttosto che avventurarsi nei campi. Il padre Isacco ha una particolare predilezione per la cacciagione, cosicché Esaú diviene facilmente il suo prediletto. Giacobbe, invece, può contare sulla protezione della madre Rebecca. Un giorno Esaú ritorna dalla campagna del tutto esausto. Giacobbe ha preparato una minestra di lenticchie e il fratello gliene chiede un po’. Il «minore» ne approfitta per proporre un affare: darà a Esaú un piatto di minestra se lui sarà disposto a cedergli la pri(segue a p. 76)

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oltre lo sguardo/14

Gli antenati del Messia

Nel solco della tradizione, ma non troppo L’intera parete destra ad Assisi, sulle due fasce alte, è riservata all’Antico Testamento, e la suddivisione dello spazio in campate fa sí che sulla prima fascia si formino 4 coppie di riquadri, ciascuna dedicata a un rispettivo patriarca, da Noè ad Abramo, da Isacco a Giuseppe, scorrendo dal transetto all’ingresso. Rispetto agli sviluppi consueti dei cicli biblici, lo spazio dedicato alle vicende che precedono la nascita di Cristo è piú contenuto. Si tratta in tutto di 16 scene, quando erano rispettivamente 46 e 42 negli antichi cicli perduti di S. Pietro in Vaticano e di S. Paolo fuori le Mura, a Roma. Nell’opera di selezione si dà particolare evidenza ai piú illustri antenati del Messia. Il caso di Isacco, poi, è l’unico in Assisi dove le due scene siano in sequenza.

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Sulle due pagine la Benedizione di Isacco a Giacobbe (nella pagina accanto) ed Esaú respinto da Isacco, scene facenti parte del ciclo attribuito al Maestro di Isacco. 1290 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. Un particolare della parete destra della Chiesa Superiore.

Raccontano cioè due momenti distinti di uno stesso evento. Come due fotogrammi di una ripresa, si ripetono nell’ambientazione e ripropongono i medesimi personaggi, tranne Esaú, che entra in scena solo in seconda battuta, il che esalta il suo ruolo di escluso. Nei cicli antichi di Roma si poteva proporre una singola scena per evocare Isacco, come avvenne a S. Paolo fuori le Mura, dove fu raffigurata la sola Benedizione di Giacobbe. Oppure, come si vede ancora oggi nei mosaici di S. Maria Maggiore (432-440; vedi foto a p. 76), e come si vedeva negli affreschi di S. Pietro (440-461), si poteva assistere a due scene abbinate, ma con soluzioni del tutto distinte dall’inventiva del Maestro di Isacco.

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la genetica secondo dante

Tutto merito della provvidenza Dante ricorda i gemelli biblici per asserire che sin dal concepimento erano destinati a essere diversi, seppure nati dallo stesso seme e nello stesso ambiente. Lo stesso Romolo non sembrò generato dal suo vil padre, ma dal dio Marte, tanto sembrava impossibile che un uomo ignobile generasse un tale eroe. Tutto in realtà si spiega con gli influssi astrali. Grazie ad essi agisce la provvidenza di Dio, in modo da plasmare la cera mortal, senza tener conto dell’ostello: «Natura generata il suo cammino / simil farebbe sempre a’ generanti, / se non vincesse il proveder divino» (Paradiso, VIII, 133-135). mogenitura. Esaú è talmente spossato da non attribuire alcun peso alla cosa, e cede volentieri a Giacobbe quanto gli viene chiesto. Sembra solo un gioco, ma arriva il momento in cui Esaú capisce che quell’episodio preludeva a ben altro. Anni dopo, il vecchio Isacco si prepara alla morte. Disteso sul letto, ormai cieco, chiama Esaú e gli chiede di andare a caccia. Una volta rientrato, dovrà cucinare

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A sinistra la benedizione di Giacobbe e il ritorno di Esaú dalla caccia in un dittico a mosaico nella basilica romana di S. Maria Maggiore. 432-440. Nella pagina accanto miniature dalla Haggadah d’Oro. 1320 circa. Londra, British Library. Dall’alto: Giacobbe benedice Ephraim e Manasse; Giacobbe incontra il faraone; le levatrici al cospetto del faraone; il lutto per la morte di Giacobbe, chiuso nella bara.

uno dei suoi piatti preferiti con la selvaggina che ha catturato. Isacco gusterà quella prelibatezza e poi procederà alla benedizione del figlio: si tratta di un momento solenne con cui il patriarca presceglie il figlio che darà gloria alla sua discendenza. Senza farsi sentire, Rebecca ha avuto modo di ascoltare il dialogo, e architetta subito un piano per ribaltare la situazione a favore di Giacobbe. Gli riferisce ogni parola e ordina al figlio di prendere dal gregge due capretti che lei stessa avrebbe poi cucinato. A quel punto Giacobbe avrebbe dovuto portare il piatto al padre, fingendo di essere Esaú, e in quel modo avrebbe ricevuto la benedizione al suo posto.

Il tocco finale

Giacobbe è piuttosto perplesso e titubante, perché sa bene che il fratello ha una pelle ben piú irsuta della sua e al padre basterà accarezzarlo per rendersi conto dell’inganno. A quel punto c’è da temere che Isacco lo maledica, piuttosto che benedirlo, ma Rebecca taglia corto e si assume tutta la responsabilità della propria macchinazione: se Isacco dovesse pronunciare una maledizione, sarà lei a esserne colpita. Detto questo, sollecita il figlio a compiere quello che gli ha ordinato. Giacobbe le procura cosí i capretti, Rebecca li prepara e poi fruga tra i vestiti di Esaú per scegliere i migliori, cosicché li indossi il suo figlio prediletto. Come maggio

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tocco finale, ha un colpo di genio per mettere fuori strada il marito. Lavora le pelli dei capretti in modo da poter rivestire di un manto villoso le braccia e il collo di Giacobbe. Fatto questo, mette in mano al figlio il piatto con il pane e con la «cacciagione» cucinata con maestria, e lo manda al capezzale del patriarca. «Padre mio», esclama Giacobbe, e il cieco Isacco gli chiede: «Chi sei tu, figlio mio?» (27:18). Giacobbe dice di essere Esaú e di aver compiuto quanto gli era stato richiesto, per cui invita il padre a sedersi per poter mangiare, dopodiché potrà procedere alla meritata benedizione. Isacco è un po’ sorpreso, perché è passato davvero poco tempo dal momento in cui ha espresso a

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Esaú il suo desiderio. Dice al figlio: «Come hai fatto presto...» (27:20), e Giacobbe ha la risposta pronta: è tutto merito del Signore se ha trovato subito la preda davanti a sé. Ma Isacco non ha mangiato ancora la foglia, e gli chiede di avvicinarsi, affinché possa toccarlo. Posando le mani sulle braccia del figlio sente il vello dei capretti. Per un attimo il dubbio ancora persiste: «La voce è la voce di Giacobbe, ma le braccia sono le braccia di Esaú» (27:22). In verità le braccia pelose sono bastate a convincerlo. Chiede per un’ultima volta: «Tu sei proprio il mio figlio Esaú?», e Giacobbe conferma: «Lo sono» (27:24). Isacco finalmente gli chiede di essere servito per

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oltre lo sguardo/14 Francesco come Giacobbe?

Una benedizione da dimenticare Ormai cieco, anche Giacobbe si trovò in una situazione simile a quella di suo padre Isacco. Sul letto di morte impartí la benedizione ai nipoti Manasse ed Efraim, figli di Giuseppe, ma pose la mano destra sulla testa del secondogenito Efraim, dandogli cosí la preminenza, questo perché Manasse «sarà grande, ma il suo fratello minore sarà piú grande di lui» (Genesi, 48:19). E già nel 1228-29 la Vita prima di Tommaso da Celano, nel VII capitolo, propone un parallelo tra Francesco e Giacobbe nel momento in cui, prima di morire, il santo, cieco anch’egli, impartisce la benedizione al suo successore, frate Elia. Questi però cadde in disgrazia, subendo la deposizione e la scomunica nel 1239, e, per effetto di questa situazione sconcertante, già nella Vita seconda di Tommaso (1247-48) si perde ogni riferimento a lui e all’episodio biblico. Anche se due scene del ciclo di Assisi sono dedicate a Giuseppe, la benedizione di Giacobbe non fu presa in considerazione. Nella decisione di escluderla pesò forse proprio la necessità di non caricare eccessivamente la portata del parallelo tra Francesco e il patriarca, con il rischio di sollevare incomprensioni e polemiche sulla delicata questione dell’eredità dell’Assisiate. poterlo poi benedire. Mangia e beve un po’ di vino, poi invita il figlio ad avvicinarsi, perché vuole essere baciato. Giacobbe lo bacia e in quel mentre Isacco aspira l’odore degli abiti di Esaú, riconoscendo con gioia l’odore del figlio prediletto. Segue la tanto agognata benedizione, che parte proprio da quella sensazione olfattiva: «Ecco l’odore del mio figlio / come l’odore di un campo / che il Signore ha benedetto. / Dio ti conceda rugiada del cielo / e terre grasse / e abbondanza di frumento e di mosto. / Ti servano i popoli / e si prostrino davanti a te le genti. / Sii il signore dei tuoi fratelli / e si prostrino davanti a te i figli di tua madre. / Chi ti maledice sia maledetto / e chi ti benedice sia benedetto!» (27:27-29).

La navata della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, interamente affrescata da cicli che propongono episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, e, nella fascia inferiore, le Storie francescane.

Una scelta irrevocabile

doppiamente soppiantato da Giacobbe (che dunque è un «soppiantatore» di fatto, oltreché di nome), poiché dapprima gli ha estorto il diritto di primogenitura barattandola con un piatto di lenticchie, poi ha ottenuto la benedizione paterna al posto suo, con la frode. Si rivolge nuovamente al padre chiedendogli «una qualche benedizione» (27:36), ma Isacco risponde che non può fare nulla. Ha già investito Giacobbe di tutto, è divenuto il signore dei suoi fratelli e i fratelli sono suoi servi, e può contare sull’abbondanza di grano e di vino. Esaú insiste chiedendo anche «una sola benedizione» (27:38), e a Isacco non rimane che tacere. Il figlio si dispera, alza la voce e finisce in lacrime. Isacco riprende a parlare e prefigura a Esaú una vita aspra, senza poter contare sull’abbondanza delle acque e delle messi. Dovrà fare

Non appena Giacobbe esce di scena, entra Esaú con il piatto promesso. Invita il padre ad alzarsi per poter mangiare e per procedere poi alla benedizione. Isacco cade dalle nuvole: «Chi sei tu?» (27:32). Dopo aver appreso che gli sta davanti l’autentico primogenito, il patriarca è preso da un fremito violento che gli percorre tutte le membra. Dice a Esaú di avere già benedetto colui che gli ha portato il piatto, «e benedetto resterà» (27:33), nel senso che non può tornare indietro, sconfessando le sue parole. Il figlio è sconvolto, inizia a gridare e chiede di essere benedetto, ma Isacco gli fa notare che, anche se carpita con l’inganno, la benedizione si è già compiuta. Esaú precipita cosí nell’amarezza piú atroce. Si sente

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affidamento sulla sua spada e sarà al servizio di Giacobbe, ma un giorno si libererà da quel giogo. Esaú non accetta l’idea di sottomettersi, anzi, concepisce subito l’idea di uccidere il fratello. Giacobbe lo previene e fugge da suo zio Làbano. Comincia cosí a costituire la sua ricchezza e a mettere su famiglia in un altro luogo, finché un giorno viene a sapere che Esaú si sta avvicinando con quattrocento uomini al seguito, e ne ha paura. Giacobbe cerca subito di ingraziarselo, proclamandosi suo servo e inviandogli in dono bestiame in abbondanza. Riesce comunque a riconciliarsi con lui, a prescindere dall’atto di sudditanza. Insieme i due fratelli si ritrovano poi a seppellire il padre Isacco, morto alla veneranda età di 180 anni. Il Maestro di Isacco reinterpreta la storia dell’in-

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ganno in un modo che è al tempo stesso meticoloso e personale (vedi foto alle pp. 74-75). Costruisce lo spazio scenico con una efficacia sbalorditiva, come se stessimo assistendo a una rappresentazione con attori in carne e ossa. Entro la «scatola» della casa, il pittore disegna una prospettiva nella quale si scalano la panca in primo piano, il letto del patriarca e il retroscena. Le cortine di stoffa che pendono dall’alto, come altrettanti sipari, cingono la stanza (l’alcova) e scandiscono cosí i piani nel passaggio dall’esterno all’interno, e dall’interno al retroscena. Il vecchio Isacco disteso sul letto è la presenza fissa di entrambi i riquadri. Di fianco a lui si muovono i protagonisti dell’intrigo, con l’aggiunta di una testimone aggiunta alla narrazione per iniziativa del pittore. Si

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Nella pagina accanto la Visione dei troni celesti, scena dalle Storie francescane affrescate da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

tratta dell’ancella che nel primo riquadro si piazza dietro al patriarca per tenerlo sollevato. Quando poi, dopo la benedizione, Isacco si riassesta sul cuscino, l’ancella compare alle spalle di Esaú, con la stessa evidenza del personaggio biblico, con uno sguardo inquieto e la brocca del vino in mano. Trasgredendo le consuete norme sulla gerarchia delle figure, il pittore elegge cosí una «comparsa» ad attrice e a spettatrice di primo piano, con l’effetto di coinvolgere ancor piú l’osservatore nella storia. Lo sguardo attonito e rapito della donna riflette lo sguardo di chi ammira l’affresco. Tutto rientra perfettamente nella narrazione dell’intrigo. Lo splendido Giacobbe, dotato di aureola come il padre, vede afferrarsi la mano e ha uno sguardo che esprime determinazione, ma anche una certa inquietudine. Sono memorabili i dettagli del vello dei capretti che ricopre la sua pelle. Proprio dal collo ripende un lembo puntuto che sembra alludere a una zampa. Rebecca, la macchinatrice dell’inganno, è al suo fianco, nascosta dietro la cortina dell’alcova, concentrata e trepidante. Esaú, senza aureola e dall’espressione sconcertata, protende inutilmente il cucchiaio verso il padre. Isacco si allontana da lui (si ripone sul cuscino) e con le movenze delle mani respinge la pietanza. Nello stesso momento, Rebecca e l’ingannatore escono di scena. La donna volge le spalle allo spettatore, mentre Giacobbe varca la soglia di casa.

Un atto di leggerezza

Pagina romanzesca di grande rinomanza, la storia dell’inganno di Giacobbe ha suscitato da sempre l’interesse degli scrittori e degli artisti, proprio perché mostra un raggiro ai danni di un patriarca che Dio stesso ha consentito. Già l’apostolo san Paolo si esprime al riguardo: nella Lettera agli Ebrei (12:16) definisce Esaú un profanatore e un fornicatore per aver barattato la sua primogenitura con un piatto di lenticchie. Si trattava di un fatto gravissimo agli occhi di chi dava a quel diritto la giusta importanza, secondo la mentalità del tempo. Con quell’atto di leggerezza, Esaú rinunciava di fatto a ogni prerogativa ereditaria, sia sui beni che sulla dignità patriarcale. Di qui l’implicita «giustificazione» dell’atto di Giacobbe, peraltro rafforzata dal fatto che Esaú prese due donne ittite come prime mogli, invece che privilegiare da subito un legame con la sua gente, il che aveva profondamente amareggiato i suoi genitori. La Bibbia presenta questo aspetto in prima battuta (Genesi, 26: 34-35), e dà subito all’adulto Esaú, in questo modo, una coloritura negativa. Certo è, come asserisce san Paolo nella Lettera ai Romani (9:10-13), che

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Da leggere Luciano Bellosi, La pecora di Giotto, Einaudi, Torino 1983 Serena Romano, La basilica di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie narrative, Viella, Roma 2001 Serena Romano, La O di Giotto, Electa, Milano 2008 Chiara Frugoni, Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi, Einaudi, Torino 2015

il destino dei due fratelli era già segnato da Dio prima ancora che nascessero, quando proprio Yahweh disse: «il maggiore servirà il minore». Questo a dimostrazione del fatto che la volontà divina prescinde dalle opere. La predilezione del minore da parte di Dio fa la differenza: «Ho amato Giacobbe, e ho odiato Esaú. Ho fatto dei suoi monti un deserto e ho dato la sua eredità agli sciacalli del deserto» (Malachia, 1:2-3). Proprio la qualifica di Giacobbe come minore fa capire l’importanza che la sua vicenda ha assunto nel piano iconologico degli affreschi di Assisi. Quel personaggio biblico può essere infatti inteso come una prefigurazione di san Francesco in persona. L’Assisiate, infatti, non mancava mai di asserire la propria inferiorità, e Minori furono da lui chiamati i frati che seguivano la sua regola. Anche se non poteva vantare le finezze dei teologi o la fierezza dei guerrieri, poté comunque conseguire la santità e la predilezione del Signore. Anzi, aveva perso l’occasione di diventare un uomo di elevata posizione, poteva essere un ricco mercante e un valente cavaliere, ma tradendo quelle aspettative si era perfettamente adeguato alla volontà di Dio. Come ha di recente evidenziato Chiara Frugoni, un’operetta in latino dal titolo Meditazione di un povero nel deserto – scritta nel 1282-83 probabilmente dal teologo francescano Giovanni di Wales (del Galles, morto a Parigi nel 1285) – esprime esplicitamente il nesso tra Francesco e Giacobbe, proprio partendo dalla contrapposizione tra il fratello minore buono e l’orgoglioso Esaú, ricollegato al fratricida Caino e addirittura allo stesso Lucifero, la cui bellezza non valse a fargli mantenere il suo posto di preminenza in paradiso. Il tema della morte del patriarca si ricollega poi alla morte di Francesco e alla sua ascesa in cielo. Il trapasso del santo è narrato sulla parete opposta, mentre sotto la seconda scena di Isacco osserviamo la Visione dei troni, dove fra’ Pacifico, compagno dell’Assisiate, ha modo di vedere il seggio paradisiaco che è destinato ad accogliere Francesco in persona: «la sua umiltà gli ha fatto meritare questo seggio», commenta l’autore della Meditazione.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Nastri, trecce, nodi di Salomone

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di Mila Lavorini

La rivoluzione di

Donatello

Crocifisso, scultura in legno policromo di Donatello. 1408 circa. Firenze, basilica di Santa Croce, Cappella Bardi di Vernio.

È considerato uno dei maestri piú importanti e influenti dell’arte italiana di tutti i tempi. Oggi, una mostra di portata storica ne ricostruisce lo straordinario percorso


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L L’

impossibile si è trasformato in un evento epocale, che supera qualsiasi livello immaginabile di ambizione e coinvolge alcune tra le piú prestigiose istituzioni culturali internazionali. È un viaggio nel tempo, in cui statuaria e arte pittorica dialogano lungo un percorso articolato in 14 sezioni, che ospitano un consistente corpus di Donatello, riunito in un’unica rassegna, allestita contemporaneamente, a Firenze, nelle due sedi di Palazzo Strozzi e del Museo Nazionale del Bargello, enti promotori e organizzatori della manifestazione, in collaborazione con Staatliche Museen di Berlino e Victoria and Albert Museum di Londra, che, a loro volta, terranno le rispettive mostre sull’artista dal 2 settembre 2022 all’8 gennaio 2023 e nella primavera 2023. Una triade formata dai piú emblematici luoghi europei, quindi, ospita e ospiterà tre esposizioni distinte, ma complementari nella loro singolarità ed esclusività, per fornire un quadro esaustivo del primo scultore rinascimentale, già omaggiato in passato, ma in maniera meno precisa.

sculture, dipinti e disegni, con prestiti unici, alcuni dei quali mai concessi in precedenza, provenienti da oltre cinquanta importanti musei, tra cui spiccano National Gallery of Art di Washington, Metropolitan Museum of Art di New York, National Gallery di Londra, Museo del Louvre di Parigi, Kunsthistorisches Museum di Vienna e Gallerie degli Uffizi di Firenze.

A destra Madonna col Bambino (Madonna Piot), terracotta già dorata, cera, vetro, opera di Donatello e della sua bottega. 1440 circa. Parigi, Museo del Louvre. In basso Madonna col Bambino, gruppo in terracotta già dipinta di Donatello. 1410-1415 circa. Berlino, Staatliche Museen.

Capolavori a confronto

Frutto di uno sforzo sinergico durato un triennio, l’inedita retrospettiva riunisce una selezione di capolavori del maestro fiorentino, a confronto con manufatti di artisti a lui contemporanei, quali Brunelleschi e Masaccio, Mantegna e Giovanni Bellini, o posteriori, come Michelangelo e Raffaello; sono presenti circa 130 opere, tra

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Dossier Didascalia Undici sono le aree tematiche aliquatur adiinodis distinte Palazzo Strozzi, che que vero entessenzialmente qui puntano alla crodoloreium econectu nologia alle località di soggiorrehendebis eatur no, mentre il Bargello ha impostatendamusam to l’allestimento in tre settori, con consent, perspiti una contestualizzazione inedita conseque nis di Donatello, lo spanel Salone maxim eaquis zio cosí denominato proprio in earuntia cones seguito alla prima storica mostra apienda. organizzata nel 1887, in occasione del quinto centenario della nascita dello scultore, e che espone in permanenza un suo corposo nucleo, proveniente da vari ambiti. Seppur lodevole, quella rassegna risultò piuttosto lacunosa,

San Giorgio e, nella predella, Combattimento di san Giorgio col drago e liberazione della principessa, opera di Donatello. 1415-1417 circa. Firenze, Museo del Bargello.

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Una sala della sezione della mostra in Palazzo Strozzi. Nella pagina accanto, a destra San Giovanni Battista di casa Martelli, statua in marmo di Donatello. 1442 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

poiché era ancora molto debole il concetto di esatta attribuzione autografa, che diventò, invece, molto piú puntuale un secolo dopo, quando Stati Uniti d’America e Italia celebrarono il sesto genetliaco, esponendo anche le opere riassegnate ai legittimi artefici, quali Desiderio da Settignano e Francesco da Sangallo e, nello stesso tempo, fornendo una notazione storiografica sulla notevole fortuna di cui Donatello godette nell’Ottocento. La novità che caratterizza l’odierno progetto è l’interazione tra pittura e scultura, a copertura di un ordine temporale che si dipana fino all’inizio del Seicento, grazie a una Madonna attribuita ad Artemisia Gentileschi, con l’intento di

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oltrepassare il criterio di monografico «isolamento» degli autori, spesso divenuti simbolo del periodo in cui operarono, esautorandoli dalle sperimentazioni coeve o successive alla loro produzione, da parte di altri protagonisti della scena artistica.

Nei luoghi del maestro

Oltre a Firenze, Londra e Berlino, la presentazione in corso intende interessare e valorizzare le località toscane che conservano opere dell’artista o a lui ricollegabili, come Siena, Prato Arezzo, Pontorme e Torrita di Siena, attraverso un itinerario coadiuvato da una mappa tematica. Donatello fu un talento indubbiamente versatile, creatore

di una rottura che portò a innovativi modi di pensare e concepire l’arte, intessendo passato e contemporaneità in una trama preziosa, che si fece materiale ispiratore per le generazioni a lui successive che lo ebbero come precettore ideale: il suo fu un salto culturale a favore di una continua ricerca di individualità autoriale come norma, sovvertendo le regole istituzionali, sostanzialmente rispettate dai compagni Brunelleschi e Masaccio. Temporalmente incollocabile, quel fiorentino mingherlino, gentile e focoso insieme, travalica il Rinascimento di cui fu considerato patriarca, esorbita dalla storia dell’arte occidentale, riplasmando il mondo intorno e rovesciando il

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rapporto con lo spettatore; gioca con i tempi dello schema illustrativo, anticipando la tecnica fotografica e cinematografica e rompe i confini tra pittura e scultura, superando i limiti della seconda. Rivoluzionario fin dagli esordi, appena ventenne, nel 1406, Donato, figlio di Orsa e Niccolò di Betto Bardi, modesto cardatore di lana, realizza il Profetino – ora al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze –, mentre due anni piú tardi crea il Crocifisso ligneo che gli procurerà il biasimo del Brunelleschi, il quale addirittura lo sfiderà, scolpendone, a sua volta, uno, per «insegnargli» come si deve rappresentare Cristo.

Nella pagina accanto l’Annunciazione Cavalcanti, scultura in pietra serena dorata e in parte policromata realizzata da Donatello e cosí chiamata perché destinata alla tomba dell’omonima famiglia. 1435 circa. Firenze, basilica di Santa Croce.

Il parere dell’amico

Un episodio cosí raccontato da Giorgio Vasari ne Le vite de’ piú eccellenti pittori, scultori e architettori (1550): «Fece con straordinaria fatica un Crucifisso di legno, il quale quando ebbe finito, parendogli aver fatto una cosa rarissima, lo mostrò a Filippo di ser Brunellesco suo amicissimo, per averne il parere suo; (...) Filippo, che liberalissimo era, rispose che gli pareva che egli avesse messo in croce un contadino e non un corpo simile a Gesú Cristo, il quale fu delicatissimo, et in tutte le parti il piú perfetto uomo che nascesse già mai. Udendosi mordere Donato, e piú a dentro che non pensava, dove sperava essere lodato, rispose: “Se cosí facile fusse fare come giudicare, il mio Cristo ti parrebbe Cristo, e non un contadino: però piglia del legno e pruova a farne uno ancor tu”. Filippo, senza piú farne parola, tornato a casa, senza che alcuno lo sapesse, mise mano a fare un Crucifisso, e cercando d’avanzare, per non condannar il proprio giudizio, Donato, lo condusse dopo molti mesi a somma perfezzione. E ciò fatto, invitò una mat-

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Speranza, scultura in bronzo dorato realizzata da Donatello per il fonte battesimale del Battistero di S. Giovanni a Siena. 1427-1429.

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Dossier tina Donato a desinar seco (...) E cosí, andando a casa di Filippo di compagnia, arivati in Mercato Vecchio, Filippo comperò alcune cose, e datole a Donato, disse: “Avíati con queste cose a casa, e lí aspettami, che io ne vengo or ora”. Entrato dunque Donato in casa, giunto che fu in terreno, vide il Crucifisso di Filippo a un buon lume, e fermatosi a considerarlo, lo trovò cosí perfettamente finito, che vinto e tutto pieno di stupore, come fuor di sé, aperse le mani che tenevano il grembiule. Onde cascatogli l’uova, il formaggio e l’altre robe tutte, si versò e fracassò ogni cosa; ma non restando però di far le maraviglie e star come insensato, sopragiunto Filippo, ridendo disse: “Che disegno è il tuo, Donato? Che desinaremo noi avendo tu versato ogni cosa?”. “Io per me”, rispose Donato, “ho per istamani avuta la parte mia, se tu vuoi la tua, pigliatela. Ma non piú, a te è conceduto fare i Cristi, et a me i contadini”».

Sperimentatore instancabile

E proprio le due croci, risultato di questa singolare sfida, aprono il tracciato espositivo che ci introduce alla narrazione di un Donatello che fu incessante e instancabile sperimentatore nei materiali, nelle tecniche, nei formati e nei generi, pioniere, esperto dello «stiacciato» (vedi box a p. 93), del bronzetto e del monumento equestre all’antica o dello stucco parietale, o delle storie a rilievo e del «non finito»: una girandola esplosiva, una giostra incessante, a cui parteciparono decine di «alunni», provenienti da tutta Italia, che passarono nella sua bottega, alcuni dei quali a loro volta diventarono maestri. Tale poliedricità ebbe variegati risultati stilistici, che hanno talvolta complicato l’attribuzione certa e la datazione di alcuni lavori, dando vita a numerosi dibattiti volti a trovare una chiave di lettura universalmente analitica. L’offuscato disegno valutativo ottocentesco di

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Amore-Attis, statua in bronzo parzialmente dorato di Donatello. 1435-1440 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

alcune committenze private dal carattere «autonomo» esercitò un forte influsso sull’immagine dell’autore fiorentino, e contribuí al dilagare in Europa e negli Stati Uniti di calchi, insieme al diffondersi della fotografia, facilitando la conoscenza ravvicinata di opere distanti, fino a quel momento, o perfino mai viste, in precedenza. La scoperta di un «altro» Donatello, personalità pregna di intelligenza e purezza, aiutò lo sfoltimento dal suo repertorio di statue riconducibili ad altre firme e, contemporaneamente, fece brillare l’identità dell’uomo che era stato capace di eseguire la sublime Maddalena in pioppo bianco, caratterizzata da estrema tensione spirituale o la straordinaria Crocifissione bronzea, intarsiata in oro e argento. Appare arduo classificare e categorizzare un insieme che si presta a contrastanti intermaggio

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La sala di Palazzo Strozzi al centro della quale è esposta la statua di Amore-Attis.

pretazioni, a seconda dell’ambito storico-filosofico entro cui si misura e delle variabili causate dall’altalena dei pezzi «ballerini», messi in giro da collezionisti del XIX secolo, come il busto di Niccolò da Uzzano al Bargello, ancora materia di discussione. Una piú netta e rigorosa decurtazione si ebbe, durante il Novecento, seppur con divergenze tra gli studiosi che, come contropartita, condussero a «new entries» tra gli elaborati autentici di Donatello e la conseguente rivalutazione di numerose Madonne ascrivibili alla sua maturità, come la Piot oppure rilievi sacri per la devozione privata, quali il Calvario Camondo, entrambe visibili al Louvre. Nuove indagini con relativi aggiornamenti hanno, talvolta, permesso di dare un senso a suggerimenti non considerati, come per esempio il cosiddetto «Altare Forzori», al Victoria and Albert Museum. Leader di un team di sapienti collaboratori, coordinò grandi imprese decorative, quali la fiorentina Sagrestia Vecchia di S. Lorenzo o il presbiterio di S. Antonio a Padova, oltre a elargire idee e disegni per opere commissionate ad altri come la tomba di Cristoforo Felici in S. Francesco a Siena.

Un crescendo emotivo

Il teorico dell’architettura Filarete riferisce a Vasari che Donatello «è huomo ch’ogni picholo pasto è allui assai, e sta contento a ogni cosa». Nei suoi personaggi, enfatizza il lato umano e temporale, in maniera moderna, attraverso naturalismo e potente espressività, a delineare uno stile drammatico e sentimentale dalle dimensioni universali, abbracciando la sfera emotiva in tutte le sue sfumature: passando da sofferenza e angoscia a gioia o tenerezza, in un crescendo sempre piú intenso e profondo. È una trasgressione che ci coglie talvolta impreparati, ma che presto ci travolge, catapultandoci

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Lo stiacciato

Emozioni millimetriche Con «stiacciato» o «schiacciato» si indica un rilievo appiattito, con variazioni quasi impercettibili, e scarsamente sporgente dal piano di fondo, che rende in prospettiva il volume reale dei corpi, raggiungendo cosí effetti pittorici. Delicati segni e linee suggeriscono un’illusione di profondità attraverso numerosi e sottilissimi gradi di spessore. Donatello adopera lo stiacciato sia nei rilievi marmorei, sia in quelli bronzei, come nel Convito di Erode, inquadrabile tra il 1425 e il 1430, uno dei pannelli che decorano l’esagonale fonte battesimale nel Battistero di Siena, inizialmente commissionati ad altri artisti, tra cui Jacopo della Quercia, aventi come tema le storie di san Giovanni Battista. Sempre pronto a sfidare le regole, l’artista fiorentino applica, in questo caso, le leggi prospettiche brunelleschiane, rette da una sapiente e rigorosa costruzione, per sezioni parallele e le ortogonali convergenti verso un unico punto di fuga, individuabile verso il centro della composizione, pregna di pathos; accuratamente tratteggiati nella loro individualità e personalità, i personaggi esprimono intensamente i loro stati Convito di Erode, uno dei pannelli in bronzo dorato realizzati da Donatello per il fonte battesimale del Battistero di S. Giovanni a Siena. 1425-1430.

d’animo e sentimenti. Non solo si rappresenta il dramma dell’uccisione di san Giovanni Battista, richiesta da Erodiade, ma addirittura simultaneamente, le fasi che precedono la decapitazione; il racconto è scandito dal tempo, formato mediante lo spazio, in una scena, ambientata all’interno di una domus romana. In 7,5 cm di profondità, si assiste a un crescendo emotivo, in sincronia con l’aumento del movimento dei protagonisti in primo piano, a differenza del fondo, piú ordinato e tranquillo. E mentre al centro si va a creare un vuoto in cui si concentra la luce, ci si focalizza sul macabro dettaglio della testa tagliata sul vassoio, sorretto da un servo, nell’angolo in basso a sinistra; qui gli invitati sono stati realizzati ad altorilievo, mentre man mano che si allontana, le figure sono leggermente sbalzate. Lo schema, però, è simmetrico, con un secondo gruppo di persone addossate sul bordo destro, sui cui volti si legge l’orrore provocato dall’evento a cui stanno assistendo. Il chiaroscuro dei panneggi coadiuva a scandire e distinguere danza di Salomè, decollazione e presentazione a Erode della testa del Battista, i tre momenti della narrazione.

nella sua geniale visione artistica, dove il passato si trasforma in materia di riflessione esistenziale avulsa da qualsivoglia determinazione temporale. L’uomo è protagonista assoluto, studiato e descritto completamente, fino a raggiungere incomparabili gradi di finezza psicologica e fisiognomica, cogliendone appieno l’essenza.

Una stagione cruciale

Donatello nacque a Firenze, nel 1386, nel momento in cui si stava assistendo all’ascesa di una nuova élite, costituita da banchieri e commercianti, fondamentale per quel progresso della conoscenza che permise alla città toscana di divenire, un secolo dopo, la capitale europea della cultura, affiancata

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dalla lontana Budapest. Era, però, secondo Le vite di Giorgio Vasari, anche l’epoca in cui invidia e superbia, mescolate «con una vana ambizione insolente» caratterizzavano il mondo dell’arte e le sculture erano prive di vivezza, come i loro autori. Ecco perché «la natura giustamente sdegnata (...) deliberò far nascere chi, operando, riducesse ad ottima forma, con buona grazia e proporzione, i mali arrivati bronzi e i poveri marmi (...) Laonde (...) colmò Donato nel nascere di maravigliose doti, (...) pieno di benignità, di giudizio e di amore». Abbiamo poche notizie sui primi anni di quell’adolescente dal carattere raffinato, che «lodava con giudizioso rispetto le cose altrui», detto «Donatello» per via della sua corporatura esile, ma anche per la sua

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Dossier eleganza e cortesia. Il nome dell’aristocratica famiglia Martelli appare tra gli educatori del fanciullo che, quindicenne, fu mandato presso una bottega di oreficeria, a Pistoia, per iniziare il suo apprendistato. Qui incontra Filippo Brunelleschi, piú grande di lui di nove anni, con il quale condivise in seguito molte esperienze; uniti da un’amicizia basata sulla passione comune per l’arte antica, furono infatti compagni di un viaggio che li portò a Roma, dove rimasero due anni per studiarne monumenti e sculture. E i Romani, vedendoli scavare tra le rovine di antichi edifici, credevano che stessero cercando tesori sepolti, cosicché li soprannominarono «la coppia del tesoro» . Nel 1404, di ritorno a Firenze, il giovane uomo entrò nel laboratorio di Lorenzo Ghiberti, che stava iniziando la sua carriera come maestro e stava ricevendo importanti incarichi per il complesso cattedralizio di S. Maria del Fiore e per la chiesa di Orsanmichele; grazie alla predilezione mostrata dall’allievo per la scultura e il rilievo, gli furono commissionate numerose statue, tra cui il San Marco e il San Giorgio e quelle per il campanile di Giotto. Fin da subito, fu palese la sua vocazione monumentale anche in brani di piccolo formato e il desiderio quasi spasmodico di mettersi alla prova costantemente, senza mai ripetere gli stessi modelli, ispirato da ciò che gli aveva lasciato la sua permanenza a Roma, come la visione dei dettagli che impreziosivano quelle opere cosí lontane nel tempo.

La cesta delle monete

A quarant’anni, ormai famoso, decise di aprire una propria bottega insieme allo scultore e architetto Michelozzo, con il quale collaborò per oltre tre lustri, in una relazione fruttuosa per entrambi, sia a livello professionale che personale, oltre che nella gestione

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Il Salone di Donatello nel Museo Nazionale del Bargello.

pratica dell’attività, compito particolarmente noioso per Donatello, poco interessato e adatto alle questioni di carattere burocratico; sovente, si dimenticava di fare visita ai clienti, di aggiornare i registri delle spese e di pagare l’affitto e, conseguentemente, veniva multato. Vasari ci riferisce che non si preoccupava delle questioni finanziarie e che in bottega c’era una cesta con dentro monete che gli apprendisti potevano prendere liberamente, quando ne avevano bisogno, senza che nessuno controllasse se fossero usate per motivi professionali o personali. Cosimo il Vecchio, quasi coetaneo di Donatello, essendo nato

nel 1389, era intanto divenuto uno degli uomini piú potenti di Firenze, committente di opere pubbliche, utili anche per aumentare la sua influenza politica. Con lui, il Banco mediceo, fondato dal padre Giovanni di Bicci nel 1397, raggiunse la massima espansione. Si trattava, in realtà di un «Gruppo» che, oltre alla sede centrale fiorentina, comprendeva anche le «filiali fuori città», sia in Italia che all’estero, e tre «botteghe» operanti entro le mura cittadine, due delle quali dedicate al trattamento dei panni di lana e una specializzata nelle stoffe di seta. Il banchiere apprezzava e amava, sia come artista sia come amico, Donatello che, a ogni suo minimo maggio

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Donatello decise di aprire una sua bottega all’età di quarant’anni e chiamò a lavorare accanto a sé Michelozzo cenno, indovinava ed eseguiva tutto quello che il duca desiderava; tra le committenze, troviamo il languido David bronzeo per decorare il cortile del Palazzo Medici-Riccardi, giudicato «naturale nella vivacità e nella morbidezza», ma anche indecente da alcuni, vista la sensuale nudità dell’eroe biblico. Nel 1443 Donatello partí per Padova, ormai nell’orbita della Repubblica di Venezia, dove realizzò un monumento funebre, progettato non per ornare una tomba, ma per celebrare la gloria del condottiero Gattamelata, per il quale s’ispirò alla statua equestre di Marco Aurelio, a Roma. Rimase lí per oltre un decennio, finché,

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A destra David vittorioso, statua in bronzo parzialmente dorato di Donatello. 1435-1440 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

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Dossier all’inizio del 1454, a quasi settant’anni, sentendo nostalgia del luogo natale, l’artista fece ritorno a Firenze e riaprí un laboratorio, ricevendo nuove committenze, come la Giuditta e Oloferne. Gli ultimi anni non furono facili per il maestro: anziano e malato, non riuscí a completare gli incarichi relativi ai pulpiti per la basilica di S. Lorenzo, portati a termine dai suoi discepoli. Morí il 13 dicembre 1466, all’età di ottant’anni, lasciando un conto da saldare di 34 fiorini. Gli venne concesso l’onore di essere sepolto

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sotto l’altare della chiesa laurenziana, a lato di Cosimo de’Medici, scomparso due anni prima, che si era distinto come suo principale mecenate e che, per volontà testamentaria, gli aveva lasciato una proprietà di notevole valore, sita a Cafaggiolo, che gli avrebbe permesso di vivere piú agiatamente.

Una rendita settimanale

L’inaspettato dono era stato però restituito a distanza di un anno, in quanto Donatello riteneva troppo stressante stare dietro a tutte le incombenze quotidiane che ta-

In basso Danza di spiritelli, scultura in marmo e mosaico di tessere ceramiche invetriate e già dorate di Donatello e Michelozzo, dal pergamo del Sacro Cingolo a Prato. 1434-1438. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.

le proprietà richiedeva. Divertito dall’inaspettata reazione, Piero de’Medici gli aveva concesso allora una rendita settimanale in contanti, che aveva permesso all’artista di vivere piú serenamente fino alla sua dipartita che procurò dolore a tanta gente, «Laonde, per onorarlo piú nella morte che e’

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Ancora un’immagine dell’allestimento della mostra in Palazzo Strozzi.

non avevano fatto nella vita, gli fecero essequie onoratissime (...); accompagnandolo tutti i pittori, gli architetti, gli scultori, gli orefici e quasi tutto il popolo di quella città. Essendo egli amalato, poco inanzi che si morisse, l’andarono a trovare alcuni suoi parenti, e poi che l’ebbono, come s’usa, salutato e confortato, gli dissero che suo debito era lasciar loro un podere che egli aveva in quel di Prato, ancor che piccolo fusse e di pochissima rendita, e che di ciò lo pregavano strettamente. Ciò udito Donato, che in tutte le sue cose aveva del buono, disse loro: “Io non posso compiacervi, parenti miei, perché io voglio, e cosí mi pare ragionevole, lasciarlo al contadino che l’ha sempre lavorato e vi ha durato fatica; e non a voi, che senza avergli mai fatto utile nessuno, né altro che pensar d’a-

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verlo, vorreste con questa vostra visita che io ve lo lasciassi; andate, che siate benedetti”».

Legato a Firenze

Donatello adopera marmo, pietra, bronzo, terracotta, legno, stucco, rame sbalzato, cartapesta, paste vitree e ceramiche, spesso in opere polimateriche, e sempre raggiungendo straordinari effetti espressivi non convenzionali, durante la lunga e prolifica carriera che ci ha regalato decine di testimonianze, sparse nel mondo; la maggior parte della produzione è, comunque, concentrata nella sua città natale, impreziosendone i siti piú significativi. Dall’esordiente David marmoreo del 1408, originariamente richiesto per decorare uno dei contrafforti del Duomo fiorentino, al

San Giovanni Evangelista, eseguito a distanza di quattro anni, si assiste ad alcune variazioni: nel primo esperimento sussistono elementi tardo-gotici, riscontrabili nella posa arcuata della figura allungata e nel panneggio a falciate, accanto a innovazioni quali la testa all’antica con corona di amaranto, la sforbiciata della veste che si apre e fa intravedere la gamba, insieme alla mano che ne regge un lembo, mentre nella seconda prova il busto è stilizzato, ma drappeggio e barba appaiono morbidi, lo sguardo accigliato e le labbra serrate. Sarà, però, la corporazione di Corazzai e Spadai che, nel 1417, commissionerà un’opera chiave, cioè il San Giorgio, eroe che si ritaglia uno spazio autonomo, «liberandosi» dalla pervasiva architettura:

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Dossier Sulle due pagine battenti bronzei della Porta dei Martiri (a sinistra) e della Porta degli Apostoli, realizzati da Donatello per la Sagrestia Vecchia della basilica di S. Lorenzo a Firenze. 1440-1442 circa.

in tale composizione, la posizione frontale lascia il posto a una rotazione del corpo che lo separa dalla nicchia, mentre il piede fuoriesce; il marmo prende vita, mentre si percepisce la concentrazione fisica e mentale prima dell’azione. E nel basamento, un esempio eccezionale della abilità tecnica resa da Donatello, nell’esecuzione dello stiacciato.

Le opere della maturità

E poi il crudo realismo popolano dei profeti Abacuc e Geremia o il brano delicatamente sofisticato dai suggestivi effetti chiaroscurali, dato alla cantoria della cattedrale di S. Maria del Fiore, databile tra il 1433 e il 1439, per giungere alla ineguagliabile Maddalena, emblema di sofferenza, precarietà della vita e fede in Dio, eseguita dall’artista già settantenne, conservati al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Il forte sentimento religioso della fase finale della sua professione permea anche la coppia raffigurante Giuditta e Oloferne, concepita come un gruppo senza vincoli spaziali, da poterlo osservare da differenti angolazioni. Intorno agli anni Trenta è databile, invece, l’Annunciazione Cavalcanti, in pietra serena, dove si riesce quasi a percepire il dialogo tra l’Arcangelo e Maria, grazie al sapiente inquadramento in uno spazio angusto, ma definito, e dove la ricchezza della decorazione fa da contraltare al lirismo essenziale. Arriva intorno al 1440 l’iconico bronzeo David, prima statua rinascimentale a «tutto tondo» a dimensioni naturali, eseguita con la tecnica detta a «cera persa»: una celebrazione dell’uomo che unisce intelletto e fede, per difendere la libertà civica e che ha una prorompente forza psicologica. Il

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Dossier personaggio è efebico, ambiguo, intenso; la capigliatura e il cappello creano un gioco di luci e ombre sul volto. L’immagine ha dato adito a dibattiti, con esperti che hanno considerato l’ipotesi che fosse la rappresentazione di Mercurio, visti i calzari alati e il petaso, mentre la testa sotto i suoi piedi che potesse essere appartenere ad Argo, gigante dai 100 occhi, a guardia della dea Io, amante di Giove e tramutata in mucca dalla gelosa Giunone.

Un fanciullo gioioso

Lo stesso anno segna la creazione di un altro bronzo, di dimensioni piú contenute, poco piú di un metro, noto come Amore-Attis, che ha suggerito molteplici interpretazioni, dovute alla inconsueta iconografia. Si tratta di un fanciullo dall’aspetto bizzarro, con un codino, dal viso paffuto che esprime gioia, le braccia alzate come in un movimento di danza, le ali che fanno pensare a Cupido, le scarpette a Mercurio, mentre i calzari ci rimandano alla moda frigia e il serpente a uno spiritello della natura. Decisamente originale è l’abbigliamento, che presenta una cintura nella quale, posteriormente, vi sono capsule di papavero, presumibilmente associabili alla famiglia Bartolini, a sostegno di pantaloni che lasciano scoperti genitali e natiche. Potrebbe essere un riferimento alla leggenda del pastore Attis, dio della rigenerazione, che si autoevirò: impressionante la precisione anatomica e l’intensa espressività di questa figura che richiama alla dualità tra le virtú, simboleggiate nella parte superiore del corpo, e i vizi, illustrati nella sezione inferiore. Da Palazzo Strozzi – dove, accanto a opere simboliche, come la decorazione delle porte della Sagrestia Vecchia di S. Lorenzo, che occupò Donato a lungo, segnando anche

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Maria Maddalena penitente, statua realizzata da Donatello in legno di pioppo bianco, dipinta e integrata con stoppa e gesso per alcuni particolari. 1455 circa. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

la fine dell’amicizia con Brunelleschi che non amò la fattura da «schermidori» degli apostoli donatelliani, hanno trovato posto manufatti meno popolari, quali gli «Spiritelli» del pergamo del Duomo di Prato, il Convito di Erode dal fonte battesimale di Siena, o numerose Madonne col Bambino, provenienti da Germania, Stati Uniti e altri Paesi – un suggestivo cammino ci porta al Museo Nazionale del Bargello. Qui, seconda sede del parallelo allestimento, si vive una esperienza di confronto con altre realtà come il Filippo Scolari, detto Pippo Spano e il Farinata degli Uberti, affreschi staccati di Andrea del Castagno, dalle Gallerie degli Uffizi, il David Martelli di Desiderio da Settignano, la Madonna della Scala di Michelangelo, o la Madonna delle Nuvole del Museum of Fine Arts di Boston, uscita, per la prima volta, dal suo contesto originario. Poliziano narra che Donatello era sensibile alla bellezza maschile e che amava essere circondato da bei ragazzi, all’interno della sua bottega e che li sporcava di fuliggine, perché non piacessero ad altri. Giocoso, ma anche umile, secondo Vespasiano da Bisticci, dal quale apprendiamo che restituí una cappa con mantello regalatigli da Cosimo, perché non si sentiva a suo agio.

Dove e quando «Donatello, il Rinascimento» Firenze, Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello fino al 31 luglio Info www.palazzostrozzi.org www.bargellomusei.beniculturali.it maggio

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Storie, uomini e sapori

Le iperboli narrative di Rabelais di Sergio G. Grasso

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vrà conosciuto François Rabelais l’opera del suo contemporaneo italiano Teofilo Folengo, alias Merlino Cocai? Non v’è dubbio, se si pensa alla popolarità che il Baldus e le Maccheronee ebbero nel secondo ventennio del XVI secolo e considerando il clima ecclesiastico e il fermento protestante in cui si muovevano tanto la cultura francese quanto quella lombardoveneta. Folengo nacque nel 1491, Rabelais tre anni piú tardi; entrambi morirono piuttosto giovani, il primo a 53 anni, il secondo a 59 e tutti e due furono frati benché di non risoluta vocazione, al punto che ambedue lasciarono ben presto il chiostro per ritornarvi una manciata d’anni dopo, Folengo col saio e Rabelais come medico. Ebbero tuttavia diversa vicenda umana e, soprattutto, differenti destini letterari tra i posteri.

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È un fatto: Rabelais è ritenuto il padre della «moderna» prosa francese, mentre al nome di Folengo – che scrisse in latino, per quanto bizzarro, le sue opere piú importanti – sono dedicati solo qualche nota a piè di pagina nelle antologie del liceo classico o qualche saggio nelle librerie dei cultori di Storia della letteratura italiana.

Incurante dei divieti François Rabelais trascorse otto anni di obbedienza francescana, distinguendosi per le doti intellettuali e umanistiche ma anche per la pungente sagacia. Sfidando il divieto imposto dalla Sorbona di possedere testi in lingua greca, studiò, tradusse e commentò, in modo ritenuto poco ortodosso, Erodoto e Galeno. Sospettato di eresia, uscí dall’Ordine per laurearsi in medicina a Montpellier nel 1531.

Tavola raffigurante Gargamella, madre di Gargantua, che sta per consumare un pasto, da un’edizione ottocentesca dell’opera di Rabelais. La stima e i buoni uffici del vescovo di Maillezais gli consentirono di vestire il saio benedettino e di esercitare la professione di medico all’Hôtel Dieu di Lione. Fu archiatra del vescovo di Parigi, soggiornò a Torino, a Ferrara e a Firenze, frequentando anche la corte pontificia quando il suo vescovo fu nominato cardinale. Avido di conoscenze ed esperienze frequentò le università di Bordeaux, Tolosa, Orléans e Parigi oltre ai corsi di diritto dell’università di Poitiers. Pubblicò testi scientifici e umanistici intrattenendo rapporti personali ed epistolari con personalità eminenti come Erasmo da Rotterdam. Nelle more di questi viaggi, con maggio

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A sinistra ritratto di François Rabelais, olio su tela di autore anonimo. XVII sec. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. In basso testa grottesca di Teofilo Folengo, alias Merlino Cocai, disegno di scuola leonardesca. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

la protezione cardinalizia, spinsero Rabelais a comporre un secondo romanzo (La vie très horrifique du grand Gargantua, père de Pantagruel), quindi un terzo (Tiers livre des faits et dits Héroïques du noble Pantagruele) e poi ancora un quarto e un quinto.

Contro la scolastica L’epopea dei due giganti serve a Rabelais per attaccare in modo derisorio la vecchia filosofia scolastica, gli inumani imbrogli della giustizia di tradizione medievale, l’educazione dei collegi, le superstizioni religiose e la tirannide di re e imperatori, sempre pronti a muovere guerre e persecuzioni in nome di ideali falsi e illusori.

lo pseudonimo-anagramma di Alcofribas Nasier, nel 1532 Rabelais dava alle stampe la sua prima opera, Les horribles et épouvantables faits et prouesses du très renommé Pantagruel Roi des Dipsodes, romanzo eroicomico sulle iperboliche avventure di un giovane gigante dotato di enorme forza e insaziabile appetito a cui «il padre impose quel nome da Panta che in greco vuol dire tutto e Gruel che, in lingua agarena (saracena) significa assetato». In prosa francese – anziché, come il Folengo in carme latino-maccheronico non sempre alla portata del popolo – Rabelais recupera la corposa tradizione goliardica due-trecentesca e mescola lo stile e il linguaggio aulico del Cinquecento al vernacolo rustico e spesso triviale. A poco valse il giudizio di oscenità del libro emesso dai teologi della Sorbona: il successo del Pantagruel e ancor piú

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CALEIDO SCOPIO Sulle due pagine tavole realizzate da Gustave Doré per un’edizione delle opere di François Rabelais. 1873. A sinistra, il pasto di Gargantua: l’illustrazione si riferisce al passo in cui si dice che il gigante veniva alimentato da quattro persone che, senza sosta, gli gettavano mostarda nella bocca. Nella pagina accanto, Panurgo, uno dei personaggi del ciclo, inghirlandato e con un calice di vino in mano, osserva una figura piú piccola, in piedi sulla sporgenza di una bottiglia.

Con una penna brillantissima, intinta di veleno, Rabelais istiga la Chiesa a tornare ai valori fondanti del cristianesimo e afferma l’assoluta inutilità della vita monacale; non si trattiene dallo sbeffeggiare gli ecclesiastici corrotti, la deificazione del papa, la presunta sacralità dei decreti e le bolle pontificie. L’arguzia e l’umorismo della

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preziosa prosa rabelaisiana si fondano su un’acuta osservazione della realtà e su una sterminata fucina letteraria di figure retoriche quali la similitudine, l’iperbole, il paradosso linguistico e la reiterazione: «Li insultarono grandemente chiamandoli affamati, sdentati, buffoni di pel rosso, galeotti, cacainletto, ragazzacci, lime sorde, fannulloni, leccapiatti, buzzoni,

fanfaroni, cattivi soggetti, zoticoni, rompiscatole, rodibriciole, rodomonti, fiocchettoni, scimmiotti, lasagnoni, miserabili, macacchi, matti, zucconi, buggeroni, palloni, pitocchi, bovai da stronzi, pastori di merda ed altrettali epiteti diffamatori, aggiungendo che non eran pan pe’ lor denti quelle belle focaccie e ch’era anche troppo per loro grosso pan di crusca e pagnottaccia». Tutta l’opera di Rabelais è improntata maggio

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all’eccesso, alla dismisura, all’esagerazione grottesca. Gargantua e suo figlio Pantagruel sono due giganti dotati di una forza enorme e con una voracità cosí stupefacente da aver fatto diventare i termini pantagruelico e gargantuesco, sinonimi di fame smisurata e immane bisboccia. Entrambi vivono nel Paese di Utopia, ma viaggiano tra popoli bizzarri, come i Papimani

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o i Gastrolatri che sacrificano al loro «dio ventripotente» smisurate quantità di «anduglie ammantate di mostarda fina, cervellate, salsicce, salami, lingue di bue affumicate, prosciutti, salumi, teste di cinghiale, schiena di maiale con piselli». Percorrono nazioni dove «ognuno fa tutto per la trippa» e dove assistono a parate di truppe di salsicciotti a cavallo, mentre in cielo sfrecciano maiali volanti.

Altrove incontrano mostri e animali fantastici, popolazioni di mangiatori di mulini a vento, uomini dal naso a forma di asso di fiori e fanno la conoscenza con valorosi cucinieri come Tuttasugna, Crespellino, Pesalardo, Lasagnone, Scannaporco o Carpafredda. Il cibo, suprema soddisfazione del piacere carnale, attraversa l’intera opera rabelaisiana, in un

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impeto di allegorie gastronomiche, gozzoviglie, conviti e banchetti. Signore di tanta abbondanza sono la regina del Paese della Quinta Essenza e colei che governa il Paese delle Lanterne. La prima invita i suoi gentiluomini a imbandire le

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tavole, sulle quali deve arrivare ogni ben di Dio: «La gran pentola era piena di zuppe di vario genere, nonché insalate, salse, intingoli, capretti allo spiedo, arrosti, bolliti, carbonate, gran pezzi di bue salato, prosciutti stravecchi, pasticceria, un mondo di cuscus alla

moresca, tartine e formaggi, giuncate, gelatine, frutti d’ogni sorta». L’altra si sgrassa la stomaco e lo ripulisce ben bene prima di mangiare, poi si siede a una tavola in cui sono serviti «i quattro quarti del montone che portò Elle e Frisso maggio

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Lotta tra Carnevale e Quaresima (particolare), olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1559. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

il giorno 3 di febbraio a causa di un ingorgo di tripperesede, avendone mangiate di troppo. Le tripperesede sono trippe grasse di fartitauri. I fartitauri sono buoi ingrassati alla greppia e ai prati rimessiticci. (...) Di questi grandi buoi ne avevano fatti ammazzare trecentosessantasettemila e quattordici per metterli sotto sale il Martedí Grasso, cosí da avere in aprile bue stagionato a cataste, onde commemorarne i salati con devozione al cominciare dei pasti e aprire meglio al vino. In quella occasione, come potete immaginare, si ebbe un diluvio di trippe, e tanto saporite che ognuno se ne leccava le dita. Ma la vera diavoleria stava in questo, che non era possibile serbarle senza che andassero a male (...). Per cui fu deciso di sfanfanarsele tutte e che non un’oncia ne andasse perduta».

Un ingordo flemmatico

attraverso lo stretto della Propontide; i due capretti della celebre capra Amaltea nutrice di Giove; i piccoli della cerbiatta Egeria, nutrice di Numa Pompilio; sei paperi covati da quella degna oca Ilmatica che col suo canto salvò la rocca Tarpea di Roma; i maialini della troia».

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Abbondano le descrizioni di improbabili ricette e ingredienti inverosimili, come le trippe grasse di cui fa indigestione fin quasi a scoppiare Gargamella, quando era incinta di Gargantua: «A lei il fondamento si sfondò un dopopranzo,

Anche quando il pranzo e la cena sono penitenziali, «intrallardellati di magro» o apparecchiati per inappetenti, sulla tavola compaiono smisurati trionfi di vivande e alimenti. È questo il caso del pasto di un flemmatico: «Dopo aver pisciato un orinale pieno, sedeva a tavola. E poiché era per natura flemmatico, cominciava impasto con qualche dozzina di prosciutti, di lingue di bue affumicate, di bottarghe, di salsicce e simili altre avanguardie del vino. Intanto quattro camerieri gli gettavano in bocca palate di mostarda l’una dopo l’altra senza tregua; poi ci vedeva su una spaventevole sorsata di vino bianco per sollevare i rognoni. Quindi mangiava, secondo la stagione, le carni che desiderava e non cessava di mangiare se non quando la pelle gli tirava». Il grasso e il magro, Carnevale e Quaresima, «carnivori» e «vegetariani», tutti i conflitti e le opposizioni sottesi ai modelli alimentari del Medioevo, si ricompongono in Rabelais nel trionfo del banchetto, l’equivalente del concepimento e della nascita, il «corpo vittorioso» che assorbe il mondo vinto e si rinnova. Ecco, appunto: rinascimento.

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Quando i santi prendevano le armi

Il sacro scetticismo di Tommaso di Paolo Pinti

San Tommaso, olio su tela di Peter Paul Rubens. 1610-1612. Madrid, Museo del Prado.


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riginario della Galilea, Tommaso, nacque nel I secolo a.C. per poi morire martire a Mylapore, in India, il 3 luglio del 72 d.C. Fu uno dei dodici Apostoli di Gesú ed è noto per essere il protagonista del famoso episodio, attestato dal solo Vangelo secondo Giovanni (20,24-29), in cui non credette alla resurrezione di Gesú, finché non toccò con mano le sue ferite. Il brano del suddetto Vangelo recita: «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dídimo, non era con loro quando venne Gesú. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesú, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere piú incredulo ma credente”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesú gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno”». Secondo la tradizione, l’apostolo arrivò a predicare il Vangelo in Persia e India, dove fondò la prima comunità cristiana. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e dalla Chiesa copta, e le sue reliquie si trovano nella basilica di S. Tommaso Apostolo a Ortona, in Abruzzo, dopo che nel 1258 tre galere ortonesi, comandate dal generale Leone Acciaiuoli, le prelevarono dall’isola di Chio, dove il santo era stato seppellito dopo il martirio. Negli Atti di Tommaso, testo gnostico composto nel III secolo in lingua siriaca, si dice che l’apostolo fu ucciso con una lancia e che il martirio avvenne su una collina presso l’attuale Chennai, capitale

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San Tommaso, olio su tela attribuito alla scuola di Bartolomé Esteban Murillo e facente parte della serie dei dodici apostoli. Seconda metà del XVII sec. Parma, Complesso Monumentale della Pilotta, Galleria Nazionale. Qui il santo impugna un’alabarda, morfologicamente riferibile alla fine del XVI sec., e non la consueta lancia. del Tamil Nadu, il 3 luglio del 72. Come arma del martirio, viene anche indicata una spada, ma la lancia è certamente la piú accreditata, tanto da essere utilizzata come simbolo del santo stesso.

Una fonte poco attendibile In verità, a san Tommaso è piú frequentemente associato un altro simbolo: la squadra d’architetto, in memoria del palazzo che doveva costruire in India per il re degli Indo-parti Gondofare. Una notizia che ci viene, ancora una volta, dai fantasiosi e apocrifi Atti di Tommaso. In antico, comparivano anche il libro e la spada, poi spodestati dalla sola squadra ovvero dalla lancia. Dipinti raffiguranti san Tommaso

con la lancia non sono molto frequenti, e la lancia stessa non sempre è raffigurata come tale. Nella pittura spagnola, la serie dei dodici apostoli fa la sua comparsa alla fine del Medioevo e, conosciuta come Apostolados, conobbe notevole successo a seguito dei princípi imposti dal Concilio di Trento. Se ne conserva un esempio a Parma, nella Galleria Nazionale, nel Complesso Monumentale della Pilotta. Questo Apostolado di Parma venne in un primo tempo attribuito a Jusepe (o José) de Ribera (1591-1652), poi a Bartolomé Esteban Murillo (1618-1682) e, infine, alla scuola di quest’ultimo. Qui la figura individuata come san Tommaso (vedi foto in questa pagina)

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CALEIDO SCOPIO A destra Martirio di san Bartolomeo, olio su tela attribuito a Giovanni Canti. Fine del XVII sec. Parma, Complesso monumentale della Pilotta. In basso Amandola (Fermo), abbazia dei Ss. Ruffino e Vitale. Affresco nel quale, ai lati della Madonna, compaiono due ritratti di san Rufino, che, in entrambi i casi, mostra un coltello e un libro. Inizi del XV sec.

San Tommaso, olio su tela di Georges de La Tour. 1615-1620. Tokyo, National Museum of Western Art. L’arma è la stessa del San Tommaso conservato al Louvre, descritta molto fedelmente (confronta foto alla pagina successiva).

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ha per simbolo un’alabarda, di tipologia ben definita, ascrivibile alla seconda metà, se non all’ultimo quarto, del XVI secolo. Un’altra arma simile si vede in mano a san Matteo, ma con manico/ asta di lunghezza assai inferiore e somigliante a una scure d’arme: secondo varie tesi, questo santo dovrebbe avere come simbolo una spada, arma con cui venne ucciso, ma anche un’ascia o un’alabarda. In questo caso, invece, nessuna delle tre compare e si nota un’arma diversa, derivata da non si sa quale fonte. Resta comunque un costante mistero l’uso del termine «ascia» per definire le scuri e le accette, che sono tutt’altra cosa, anche dal punto di vista morfologico e d’impiego.

Scambi inspiegabili Curioso – ma non certo raro come tipo di errore – è il fatto che, in queste opere conservate a Parma, a proposito del San Tommaso, si definisca «lancia» quella che, con tutta evidenza, è un’alabarda, mentre per il San Matteo si parli di «alabarda» a proposito di un’arma da botta, con manico non piú lungo di un metro. Quali motivi possono aver spinto l’autore di queste opere a rappresentare, con grande fedeltà, peraltro, un’alabarda in mano a un santo che – a non volerlo identificare con una squadra – era associato a una lancia? L’artista ha voluto riprodurre con realismo tale arma, dimostrando di non considerarla un elemento secondario: e non poteva non conoscere la differenza (enorme) fra una lancia e un’alabarda. Ma la cosa davvero interessante, e curiosa come poche, è la rappresentazione che il pittore Georges de La Tour (1593-1652) fa, in due quadri con san Tommaso (uno al Louvre di Parigi e l’altro al National Museum of Western Art di Tokio), di uno «spiedo da caccia», che Carlo De Vita definisce

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«Breve e robusto ferro a foglia o a triangolo, su asta circa ad altezza d’uomo, massiccia predisposta in modo da offrire una presa salda. Lo spiedo da caccia è caratterizzato da un arresto al ferro che impedisce all’animale un troppo profondo inferrarsi. Era usato per la caccia alle bestie nere» (da Armi bianche dal Medioevo all’Età Moderna, dizionario terminologico, 1983). In entrambi i dipinti, l’arma è la stessa, con ferro largo fortemente costolato al centro. In quello del Louvre si vede bene un «arresto mobile» – in pratica, un elemento di ferro, osso o corno, posto trasversalmente al ferro, all’altezza della gorbia, per mezzo di lacci, e in grado di ostacolare efficacemente una penetrazione anche della gorbia e dell’asta nel

San Tommaso, olio su tela di Georges de La Tour. 1634-1638. Parigi, Museo del Louvre. L’apostolo impugna uno «spiedo da caccia» perfettamente riprodotto anche con il particolare dell’arresto mobile, costituito da una barretta fissata con un lacciolo all’altezza della gorbia e che serviva per non far penetrare eccessivamente l’arma nel corpo dell’animale e poterla cosí sfilare e riutilizzare facilmente. corpo dell’animale –, mentre su quello di Tokio il particolare non figura. Va detto che gli spiedi da caccia compaiono raramente in opere pittoriche che non rappresentino scene di caccia al cinghiale o al cervo. Conosciutissime, a riguardo, le incisioni di Jan Van der Straet (1523-1605), piú noto come

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CALEIDO SCOPIO San Tommaso, incisione di Luca Ciamberlano. 1606. New York, The Metropolitan Museum of Art. Qui l’artista riepiloga tutti gli attributi del santo: la lancia, il libro e la squadra d’architetto.

Giovanni Stradano. Quale significato voleva allora attribuire de La Tour all’arma in questione, che il santo impugna – soprattutto nell’opera conservata a Parigi – come se volesse usarla e non, come avviene di solito con i simboli dei santi, limitandosi a sorreggerla come qualsiasi altro strumento

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del martirio? Come fisionomia, e persino come abito, ritroviamo il personaggio nel San Giacomo Minore al Musée Toulouse-Lautrec di Albi in Francia, dove è conservata anche un’altra opera di de La Tour, San Giuda Taddeo, nella quale il santo sorregge un’arma in asta, abbastanza simile a una corsesca.

Anche a questo proposito, va detto che Giuda Taddeo, uno degli apostoli, non facilmente identificabile, è di solito raffigurato con il simbolo di un’alabarda o qualcosa di simile, anche se le varie tradizioni parlano di «pesante mazza», lancia e asce (da intendersi come accette o scuri). maggio

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Elisa Tosi Brandi Sigismondo Pandolfo Malatesta Oggetti, relazioni e consumi alla corte di un signore del tardo medioevo Jouvence, Milano, 316 pp., ill.

24,00 euro ISBN 9788878017535 www.jouvence.it

Frutto di ricerche condotte negli archivi di varie città italiane e non solo, il volume offre uno scorcio della vita di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468), signore di Rimini, attraverso gli arredi e le suppellettili di Castel Sismondo, accuratamente descritti nell’inventario fatto stilare dalla moglie Isotta il 13 ottobre 1468, pochi giorni dopo la sua morte. Ne traspare il duplice volto del Malatesta, sanguinario signore della guerra in perenne lite col papato (Pio II e Paolo II), e, al tempo stesso, arguto diplomatico dalle molteplici macchinazioni, ma anche la sua inclinazione artistica sia verso il mondo cortese e cavalleresco, sia verso quello umanistico e rinascimentale, inclinazione animata da un perenne «gusto di cercare cose nuove», messo

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in evidenza già da Francesco Sforza, che lo conosceva bene. Gli oggetti di cui si circondò denotano una mente aperta e innovatrice: le macchine da guerra piú moderne, le vesti alla turca, i tappeti turco-ottomani introdotti a Rimini proprio da lui, il primo mazzo di tarocchi documentato dalle fonti scritte italiane. Nell’inventario di Castel Sismondo figuravano argenteria, pale d’altare, sculture lignee e marmoree, collari per cani in rete d’oro o ornati di perle e pietre preziose, laccetti da falcone in seta ornati di perle, carnieri in argento per la selvaggina, tendaggi e abiti trapunti d’oro e d’argento, quattro arazzi con le «storie dei paladini», pettini d’avorio, cassoni istoriati e raffinato mobilio. Ma a denotare l’indole di Sigismondo sono soprattutto i libri, di cui era appassionato raccoglitore, tanto da incrementare in modo decisivo le due importanti biblioteche pubbliche malatestiane, quella di Rimini e quella di Cesena, tuttora esistente. Tra i volumi conservati al castello: 19 libri miniati

con oro e argento; l’Hesperis (1455/57), poema epico che ne celebrava le gesta; una copia miniata del Milione di Marco Polo, testimonianza del suo amore per l’esotico e l’avventura; il Liber Isottaeus (1449/51), fatto comporre in onore della moglie, e i sonetti composti per lei dallo stesso Sigismondo. I due si erano incontrati verso il 1446, quando lei aveva 13 anni e il Malatesta era ancora sposato (in seconde nozze) con Polissena, figlia di Francesco Sforza, morta di peste nel 1449. Ciononostante, Sigismondo indirizzava a Isotta lodi appassionate, come la dedica sulle medaglie fatte coniare per lei nel 1446: «A Isotta da Rimini, per bellezza e virtú orgoglio d’Italia». Nel maggio del 1447 fece seppellire nella chiesa di S. Francesco, insieme agli antenati Malatesta, il figlio neonato avuto dall’innamorata, e poco dopo venne iniziata nella stessa chiesa la cappella per Isotta, costituente il primo nucleo

della trasformazione dell’edificio nel Tempio Malatestiano. E ancora a Isotta, nel 1464, durante la campagna in Morea, Sigismondo affidò la reggenza dello Stato. Le nozze vennero celebrate nel 1453 anche per la volontà del Malatesta di evitare un altro matrimonio politico (con le relative conseguenze dinastiche), unendosi semplicemente alla figlia di un mercante. Gli attriti col suocero Francesco Sforza, che non gli aveva assegnato Pesaro, lasciando la città sotto l’influenza del suo acerrimo nemico Federico da Montefeltro (1445), aveva causato infatti un ribaltamento delle alleanze e la sconfitta dello Sforza da parte del Malatesta. Uomo eccezionale, «cavaliere umanista», innovatore su piú fronti (culturale, architettonico, militare), Sigismondo si distinse per la crociata contro i Turchi in Morea (Peloponneso), alle dipendenze di Venezia (1464). Pur tornandone sconfitto e malato, ebbe modo di esprimere anche in quest’occasione la sua creatività tentando di allearsi in segreto con Maometto II che

voleva adescare con un importante dono. La macchinazione venne però sventata da Pio II e gli valse la scomunica. Sigismondo morí il 9 ottobre 1468 e fu sepolto nel Tempio Malatestiano. Completano il volume un ricco apparato di immagini e un glossario. Maria Paola Zanoboni Stefano Zuffi Pietro Aretino Lettere a Tiziano

Skira editore, Milano, 90 pp., ill. b/n

9,90 euro ISBN 978-88-572-4744-1 www.skira.net

Scritte nell’arco di un ventennio, le lettere di Pietro Aretino a e su Tiziano sono un documento di eccezionale interesse, che, oltre a testimoniare la solida amicizia instauratasi fra il poligrafo e l’artista, restituiscono con toni vivaci e accattivanti le atmosfere del contesto culturale nel quale le due grandi personalità vissero e operarono. S. M.




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