Medioevo n. 303, Aprile 2022

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MEDIOEVO n. 303 APRILE 2022

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Mens. Anno 26 numero 303 Aprile 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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ECOLOGIA 1200: LA GRANDE SICCITÀ

IN EDICOLA IL 2 APRILE 2022



SOMMARIO

Aprile 2022 ANTEPRIMA

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AMORI MEDIEVALI La nipote del canonico di Federico Canaccini

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RESTAURI Quel ragazzo farà strada...

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FORMAZIONE Specialisti al servizio del patrimonio

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MOSTRE Collezionisti eccellenti

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

20

di Giuseppe M. Della Fina

COSTUME E SOCIETÀ

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Piemonte

ECOLOGIA Egitto Quell’«onda verde» del Nilo

28

di Federico Canaccini

Quel che ci attende nell’aldilà

di Paolo Ponga

90

Dossier

SALUZZO NELLA CAPITALE DELLA CAVALLERIA 65 testi di Marco Silvia Beltramo Baiocco

90 CALEIDOSCOPIO

28 VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/4 Il coraggio di farsi valere

di Corrado Occhipinti Confalonieri

di Sergio G. Grasso

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OLTRE LO SGUARDO/13

Gesú Bambino e la mela Tutto l’universo in una sfera di Furio Cappelli

STORIE, UOMINI E SAPORI L’inconfondibile linguaggio del silenzio 102 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Con il libro e con il coltello 108 di Paolo Pinti

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LIBRI Lo Scaffale

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Piccat, e Simone


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Mens. Anno 26 numero 303 Aprile 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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ECOLOGIA 1200: LA GRANDE SICCITÀ

Hanno collaborato a questo numero: Simone Baiocco è Conservatore Arti dal XIV al XVI secolo di Palazzo Madama, Torino. Silvia Beltramo è professoressa associata di Storia dell’Architettura al Politecnico di Torino. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Marco Piccat è stato professore ordinario di filologia romanza all’Università degli Studi di Trieste. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Paolo Ponga è giornalista. Stefania Romani è giornalista.

IN EDICOLA IL 2 APRILE 2022

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MEDIOEVO Anno XXVI, n. 303 - aprile 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Jetmir Bushati: copertina e pp. 66/67, 71 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 5, 32, 36, 56 (sinistra), 62, 109; The Print Collector/ Heritage Images: pp. 28/29, 34; Album/Photo Boistesselin/Kharbine Tapabor: p. 35; Electa/Domenico Oddi: p. 53; Erich Lessing/Album: p. 57; Fototeca Gilardi: pp. 61, 63; Album/Prisma: pp. 106/107; Album/ Fine Art Images: p. 108 – Ufficio stampa Friends of Florence: Claudio Giusti: pp. 6/7; Antonio Quattrone: pp. 8-13 – Cortesia degli autori: pp. 14, 68, 68/69, 74, 84, 89, 110 (basso), 111 – Ufficio stampa Electa: Musée des Amériques-Auch: p. 16 (sinistra); Museo e Real Bosco di Capodimonte: p. 16 (destra) – Doc. red.: pp. 29, 33, 38-48, 54-55, 56 (destra), 58-59, 70 (alto), 73, 86/87, 102-105, 106, 110 (alto) – Shutterstock: pp. 30/31, 60 – Giorgio Olivero: p. 65 (e p. 75) – Mario De Casa: p. 70 (basso) – Lucio Rossi: pp. 72, 76/77 – Silvia Beltramo: pp. 78/79, 79, 80, 83, 88 – Marco Gattinoni: p. 81 – Studio Ante associati: p. 82 – Paolo Ponga: pp. 90/91, 92 (basso), 93-101 – Cippigraphix: cartina a p. 30 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 69, 79, 92. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito: https://arretrati.pressdi.it

In copertina una veduta del centro storico di Saluzzo.

Prossimamente casus belli

La guerra degli otto santi

vivere al tempo del decameron

Una vita da nobili

dossier

Lancillotto Un eroe tra storia e leggenda


amori medievali di Federico Canaccini

La nipote del canonico

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iamo a Parigi, dove il filosofo e teologo Pietro Abelardo (1079-1142) si è trasferito, lasciando la scuola di Laon. Qui aveva seguito saltuariamente, e con poco entusiasmo, le lezioni di Anselmo di Laon, maestro certamente «abile con le parole, ma incapace di analizzare i significati». Questa sua scarsa frequenza viene interpretata come una mancanza di rispetto e la rottura con Anselmo è inevitabile: nel 1114, l’intraprendente teologo, a 35 anni, occupa la cattedra vacante di teologia a Parigi, la piú ambita, e la sua bravura è confermata dalle turbe di studenti che accorre ad ascoltare le sue lezioni. Pietro, che è anche chierico e canonico della cattedrale, ha raggiunto il culmine del successo ed è divenuto la star dell’università piú famosa d’Europa: «Pensavo di essere rimasto l’unico filosofo al mondo» dirà egli stesso. Nel 1116, però, un incontro fatale cambierà totalmente la sua vita: il chierico Fulberto, canonico della cattedrale di Parigi come lui, gli presenta sua nipote sedicenne, Eloisa, forse orfana e già educata al greco, latino ed ebraico al monastero di Argenteuil. Di lei non sappiamo quasi nulla: Abelardo ci dice appena che, quanto all’aspetto, per faciem, non era infima. Il teologo accetta di arricchire la cultura della ragazza, consapevole di essere irresistibile, di avere «una tale fama e un tale fascino, anche in considerazione della giovane età, che a qualsiasi donna si fosse degnato di offrire il suo amore, non temeva di riceverne alcun rifiuto». In realtà, è lui a essere presto rapito dal fascino della giovane e fa in modo di incontrarla sempre piú spesso, con il pretesto d’impartirle i suoi insegnamenti: i due si innamorano sinceramente, passionalmente, come si evince dalle lettere che si scambieranno nel tempo. Abelardo è coinvolto totalmente e l’amore da segreto diventa pubblico: Fulberto, infuriato, gli proibisce di incontrare la nipote, che, nel frattempo, è in dolce attesa. Abelardo perde la testa, rapisce Eloisa nottetempo e la conduce a casa sua, in Bretagna, dove nasce Astrolabio, un bimbo «portato dalle stelle». Abelardo fa di tutto per rimediare a quello che, sulla bocca di tutti, è uno dei piú grandi scandali del momento: promette a

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Fulberto di sposare Eloisa, chiedendogli solo di poter celebrare le nozze di nascosto, cosí da non compromettere la propria carriera di professore. Eloisa, però, si oppone alle nozze: capisce che una moglie sarebbe di ostacolo a un uomo come lui e afferma che «è meglio essere l’amante che la moglie, perchè solo cosí saprà di essere amata per amore e non per tener fede al vincolo matrimoniale». Tuttavia, finisce con il cedere, sposando in segreto a Parigi Abelardo, il quale, per sottrarla alle angherie dello zio, la sistema temporaneamente ad Argentuil. Fulberto crede che Abelardo voglia sbarazzarsi della ni-

La storia di Abelardo ed Eloisa in una incisione dei primi dell’Ottocento, realizzata forse a Nantes dalla Ferdinand Favre et Compagnie. Parigi, Musée des Arts Décoratifs. pote e, corrotto un servo del maestro piú famoso di Parigi, lo fa evirare durante il sonno: «In simile stato di prostrazione e di confusione, piú per vergogna che per vocazione, mi convinsi a cercar rifugio nel chiostro, non prima però che per mio comando, Eloisa spontaneamente fosse entrata in un monastero». Da allora i due vivranno separati, ma uniti, avranno modo di vedersi ancora e, alla morte di Abelardo, Eloisa chiederà a Pietro il Venerabile di esaudire un desiderio del suo amato: poter riposare là dove lei è badessa e dove, un giorno, verrà sepolta.

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ANTE PRIMA

Quel ragazzo farà strada... RESTAURI • Tornano a

farsi ammirare, a Firenze, due magnifici rilievi scolpiti nel marmo da Michelangelo, quando l’artista era ancora un giovane apprendista

La Madonna della scala (1490) e la Battaglia dei centauri (1491-1492) di Michelangelo nel nuovo allestimento della Sala dei marmi del Museo di Casa Buonarroti, a Firenze.

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el 1490, quando portò a termine la realizzazione della Madonna della scala, Michelangelo aveva appena quindici anni ed era apprendista alla scuola del Giardino di San Marco, fondata da Lorenzo de’ Medici e guidata da Bertoldo di Giovanni, ultimo allievo e collaboratore di Donatello. Poco piú tardi, fra il 1491 e il 1492, ultimò anche la Battaglia dei centauri: si tratta, in entrambi i casi, di rilievi scolpiti nel marmo, dei quali si è appena concluso il restauro. Quest’ultimo, condotto sulla base del progetto approvato dalla Fondazione Casa Buonarroti – presso il cui museo le opere sono conservate – è stato reso possibile grazie a una donazione della Fondazione Friends of Florence, che ha sostenuto anche il riallestimento della Sala dei marmi nella quale i due rilievi sono esposti. L’intervento è stato, innanzi tutto, l’occasione per uno studio e una riconsiderazione critica delle opere giovanili di Michelangelo, conservate nel Museo di Casa Buonarroti. Nel corso del lavoro, inoltre, le operazioni di pulitura, eseguite con una metodologia stabilita sulla base delle evidenze scaturite dalla campagna diagnostica realizzata, hanno fatto emergere ulteriormente su entrambe le opere la maestria dell’artista nel saper ricavare con scalpelli e gradine, dalle stesse superfici lavorate, effetti cromatici e di luce di impressionante vigore. Sebbene si tratti di opere giovanili, la Madonna della scala e la Battaglia DOVE E QUANDO

Museo di Casa Buonarroti Firenze, via Ghibellina 70 Orario tutti i giorni, 10,00-16,30; chiuso il martedí e nelle seguenti festività: 1° gennaio, domenica di Pasqua, 15 agosto, 25 dicembre Info tel. 055 241752; www.casabuonarroti.it

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ANTE PRIMA dei centauri già possiedono, infatti, tutti gli elementi salienti che si possono ritrovare nella produzione piú matura dell’artista.

Il recupero delle cromie originarie Trascorsi rispettivamente venticinque e trent’anni dai restauri precedenti, il nuovo intervento di pulitura è stato funzionale a rimuovere le sottili stratificazioni dei depositi atmosferici di natura coerente e incoerente che opacizzavano e alteravano cromaticamente i rilievi. Infatti la cromia del marmo, mutata a causa dell’alterazione e della penetrazione dei materiali utilizzati durante le calcature ottocentesche (cere, olii, saponi) e dei materiali di restauro (cere e solventi come la trementina dal colore leggermente ambrato utilizzata nel caso della Battaglia dei centauri, per esempio) ha raggiunto un equilibrio che dopo l’attuale intervento di pulitura, consente la lettura dell’altorilievo

Sulle due pagine immagini della Madonna della scala: a sinistra, prima del restauro; in basso, durante l’intervento; nella pagina accanto, alla conclusione dei lavori. Il rilievo fu ultimato da Michelangelo nel 1490. Firenze, Museo di Casa Buonarroti.

nei suoi dati tecnici scultorei in modo chiaro e armonico. La pulitura delle opere ha dato risultati tali da rendere non piú adatto alla loro migliore valorizzazione l’allestimento preesistente, che vedeva i rilievi su uno sfondo chiaro, che mortificava il colore e il modellato dei due marmi. Nel nuovo allestimento sono state progettate strutture metalliche verniciate di color antracite che fanno risaltare i due rilievi. Il racconto di entrambe le opere è affidato a un breve testo molto esauriente sulla storia collezionistica e artistica, realizzato in caratteri color antracite su fondo grigio chiaro sia in italiano sia in lingua inglese. Inoltre la nuova illuminazione a LED consente la lettura delle sculture in ogni dettaglio. Come già detto, la Madonna della scala è stata realizzata quando

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ANTE PRIMA

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Michelangelo aveva appena quindici anni. Se da Donatello deriva la particolare tecnica dello «stiacciato» (rilievo bassissimo che intende dare una riduzione in prospettiva del volume reale dei corpi, conseguendo così un valore pittorico), michelangiolesca è la scala monumentale della composizione, dominata dalla Vergine che occupa tutto lo spazio disponibile, e col Figlio, di spalle, che si stringe al suo seno in una posa che tornerà in opere piú tarde, quali il gruppo della Madonna Medici della Sagrestia Nuova e il cosiddetto «Cartonetto», disegno di Casa Buonarroti. Rimasta alla famiglia dopo la morte di

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Sulle due pagine immagini della Battaglia dei centauri: nella pagina accanto, una fase delle operazioni di pulitura; in questa pagina, il rilievo dopo il restauro (in alto) e prima dell’intervento. 1491-1492. Firenze, Museo di Casa Buonarroti.

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Michelangelo nel 1564, fu ceduta, suo malgrado, da Leonardo, nipote ed erede dell’artista, al duca Cosimo I de’ Medici, insieme a sculture incompiute e rimaste a Firenze, come il Genio della Vittoria conservato a Palazzo Vecchio e i quattro Prigioni conservati alla Galleria dell’Accademia. Tenuta in grande considerazione dal duca come attesta il Vasari nel 1568, fece parte delle collezioni medicee fino al 1616, quando il granduca Cosimo II la restituí, con un gesto di grande munificenza, a Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote del sommo artista, intento alla sua celebrazione nella Galleria di Casa Buonarroti.

Una magnifica incompiuta Scolpita fra il 1491 e il 1492, la Battaglia dei centauri si basa su un soggetto suggerito al giovane Michelangelo da Agnolo Poliziano, umanista della cerchia di Lorenzo il Magnifico, committente dell’opera, rimasta incompiuta per la sua morte, sopraggiunta l’8 aprile del 1492. A ispirare l’artista potrebbe essere stato il passo delle Metamorfosi di Ovidio (XII, 210-576) che tratta della battaglia dei lapiti e dei centauri alle nozze di Piritoo con Ippodamia, oppure un mito connesso alle fatiche di Ercole, secondo cui l’eroe avrebbe liberato Deianira, sua promessa sposa, dalle nozze con il centauro Euritione, ucciso durante una furibonda zuffa con i centauri. Nei serrati intrecci di figure avvinghiate nella lotta, il rilievo si richiama ai sarcofagi classici e, nella sua incompiutezza, fornisce un saggio della perizia del giovane nella lavorazione del marmo a vari livelli di finitura: dal quasi tutto tondo delle figure piú emergenti, compreso l’eroe di tre quarti che anticipa il gigantesco David, al fine rilievo dei combattenti sullo sfondo; ed è straordinario il controllo degli incastri tra i corpi. Colpisce inoltre l’espressività

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Sulle due pagine immagini della Battaglia dei centauri. 1491-1492. Firenze, Museo di Casa Buonarroti. Nella pagina accanto, un particolare della tecnica esecutiva adottata da Michelangelo; a destra, il rilievo durante il restauro: si può notare la maestria dell’artista nel rendere il groviglio dei corpi in lotta.

emotiva delle figure, anche di quelle appena accennate: la rabbia dei lottatori, la violenza dei rapitori, il dolore dei colpiti. Il rilievo, segnalato nel 1527 al marchese Federico Gonzaga per un possibile acquisto non andato a buon fine, apprezzato ancora da Michelangelo, prima di trasferirsi definitivamente a

Roma nel 1534, è rimasto sempre dei Buonarroti e ha goduto, dal 1614 al 1874, di una collocazione privilegiata, sotto l’Epifania del Condivi nella Galleria realizzata da Michelangelo Buonarroti il Giovane per celebrare le gesta del suo illustre antenato e benefattore della famiglia. (red.)

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ANTE PRIMA

Specialisti al servizio del patrimonio FORMAZIONE • Recentemente

restaurato, l’ex monastero di S. Benedetto, a Gubbio, è divenuto sede della Scuola di specializzazione in Beni Storico-Artistici dell’Università degli Studi di Perugia, destinata ad aspiranti operatori nei campi della tutela, del restauro, della gestione e della valorizzazione dei beni culturali

È

stata inaugurata a Gubbio la nuova sede della Scuola di specializzazione in Beni StoricoArtistici dell’Università degli Studi di Perugia, all’interno dell’ex monastero di S. Benedetto appena restaurato. In proposito, Cristina Galassi, direttore della Scuola, ha osservato: «Insegnare la storia dell’arte, ma anche la tutela, la gestione e la valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale, in un luogo come questo – concesso nel 1388 ai Monaci Olivetani di San Donato della vicina località di Madonna del Ponte – significa lavorare immersi in ciò che cerchiamo di trasmettere e insegnare». Si tratta di una Scuola di alta formazione, consorziata con altri undici atenei italiani, a cui si può accedere a numero chiuso dopo avere conseguito la laurea triennale e magistrale. Tra gli obiettivi formativi vi è quello di formare specialisti con uno specifico profilo professionale. Il percorso formativo – articolato su due anni – prevede

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Due immagini della nuova sede della Scuola di specializzazione in Beni StoricoArtistici di Gubbio. lo studio dell’arte antica, moderna e contemporanea, l’approfondimento delle tematiche relative alla tutela, alla valorizzazione, alla didattica museale e alle evidenze urbanistiche e territoriali.

Gli sbocchi professionali Spazio viene dato anche alle tecniche relative alla conservazione e al restauro dei beni culturali, come pure alle competenze necessarie per una gestione manageriale dei monumenti aperti al pubblico, dei musei e degli eventi culturali. Attenzione viene prestata inoltre agli ordinamenti giuridici vigenti per il patrimonio storico-artistico. Gli specializzati dovranno essere in grado di lavorare, con funzioni di responsabilità elevata, nel Ministero della Cultura, nelle Regioni, nei

Comuni e in altri Enti pubblici, come in fondazioni culturali e organismi privati quali imprese, studi professionali specialistici e cooperative di servizi. Tra i progetti per un prossimo futuro vi sono quelli di allargare ulteriormente la rete degli Atenei consorziati cosí da ampliare l’offerta formativa e d’istituire una Spring School. La sede verrà utilizzata pure per iniziative culturali ed espositive di alto livello in sinergia con la Regione Umbria, il Comune di Gubbio e la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia. Sul sito web della Scuola (http:// benistoricoartistici.unipg. it) è possibile trovare tutte le informazioni relative ai requisiti necessari per l’ammissione. Giuseppe M. Della Fina aprile

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Collezionisti eccellenti MOSTRE • I Farnese riunirono una raccolta d’opere d’arte straordinariamente ricca,

che fu espressione e consacrazione del prestigio e del potere raggiunti dalla famiglia. Una vicenda esemplare, ora raccontata a Parma, nel Complesso della Pilotta A sinistra Messa di San Gregorio, mosaico di piume su tavola. 1539 Auch, Musée des Amériques-Auch.

A destra armatura per giostrare «all’italiana». Metà del XVI sec. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte.

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venticinque anni dall’ultima esposizione sul tema, il Complesso Monumentale della Pilotta ospita una grande mostra dedicata alla committenza della famiglia Farnese, con l’obiettivo d’indagare la straordinaria affermazione della casata nella compagine politica e culturale europea dal Cinque al Settecento, attraverso l’utilizzo delle arti come strumento di legittimazione. La rassegna, che coinvolge gli ambienti piú spettacolari del Complesso Monumentale e s’inserisce nel piú ampio progetto di rilancio dell’istituto, riunisce

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oltre 300 opere provenienti da collezioni pubbliche e private, italiane ed europee insieme a opere della Collezione Farnese a Parma. Spiccano alcuni prestiti eccezionali, a conferma delle relazioni e dell’interesse dei Farnese per la cultura e gli oggetti provenienti da terre lontane e sconosciute: due globi Coronelli dalla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e, per la prima volta in Italia dal Musée des Amériques-Auch, la Messa di San Gregorio eseguita in Messico dagli indios per ringraziare Paolo III della bolla Sublimis Deus


(1537), che riconobbe l’umanità dei nativi americani e ne condannò lo sfruttamento.

Disegni e dipinti E poi un nucleo di circa 200 disegni di architettura presenta, insieme a modelli, elaborazioni grafiche e filmati, il quadro complessivo dell’architettura farnesiana dal punto di vista storico, urbano e territoriale, mettendo in rilievo la relazione tra questa disciplina e l’affermazione dinastica in termini di prestigio, espansione e visionarietà della committenza. Fra i dipinti, vi sono opere di Raffaello, Tiziano Vecellio, Francesco Mazzola «il Parmigianino», El Greco e Annibale Carracci, esposti a rievocazione della galleria farnesiana, dove erano custodite le 100 tele piú significative della collezione di famiglia. Infine piú di 80 oggetti dal Gabinetto delle Cose Rare del Museo e Real Bosco di Capodimonte tra cui la Cassetta Farnese, insieme alla Tazza Farnese dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, alle monete e medaglie del Complesso Monumentale della Pilotta e ai pezzi della Collezione Gonzaga di Guastalla confluiti nella collezione Farnese, permetteranno di ricostruire una camera delle meraviglie rinascimentale. (red.) DOVE E QUANDO

«I Farnese. Architettura, Arte, Potere» Parma, Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31 luglio Orario ma-do, 10,30-18,30; lunedí chiuso Info tel. 0521 220400; www.complessopilotta.it Catalogo Electa

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Come al tempo degli Statuti L

a prima edizione della Festa degli Statuti risale al 1996, quando si volle celebrare anche in questo modo il Millenario della prima notizia (996) pervenutaci sul castello alto-medievale di Fossato di Vico (Perugia). Gli Statuti rappresentano la codificazione scritta di usi, consuetudini e vecchie norme tramandate e aggiornate, per l’ordinamento del vivere civile all’interno della comunità. Nella copia cartacea si può inoltre leggere che la loro pubblicazione avvenne il 13 maggio 1386, in «Logia habitationis» del Vicario di Fossato. Gli Statuti di Fossato sopravvissero fino all’epoca napoleonica, superando anche il periodo della sottomissione allo Stato Pontificio avvenuta nel 1540. Ogni anno, nel secondo fine settimana di maggio, a Fossato di Vico si celebrano gli Statuti realizzando una festa medievale, basata sulla vita del 1386, alla quale contribuisce il naturale aspetto del centro storico fossatano. La festa nasce successivamente allo studio dei testi e alla pubblicazione del libro Gli Statuti medievali di Fossato ed annesse Riformanze, di Luigi Galassi. All’interno del volume sono ricomprese tutte le 265 rubriche e le annesse riformanze o aggiornamenti. Nei tre giorni di festa si rievoca la vita nel 1386 e si celebra la «Publicatio Statutorum», cioè la pubblicazione degli Statuti di Fossato, che sono tra i piú antichi dell’Umbria e i piú antichi di tutto l’Appennino Umbro-Marchigiano. L’intero territorio comunale viene diviso in quattro parti, cioè in quattro «Porte», che prendono il nome delle quattro entrate al centro storico. Le Porte sono: «Porta Portella», «Porta del Castello», «Porta Nova» e «Porta del Serrone». Queste quattro Porte si contendono il Palio della Festa degli Statuti, il quale viene dipinto da artisti locali. Le prove si basano sulla gara del tiro con l’arco storico, la gara della «Ciurumella» e il punteggio dato dai giudici in base all’attinenza storica dei mestieri medievali, che vengono rappresentati il sabato e la domenica pomeriggio, del corteo storico e delle taverne. La Festa degli Statuti fa registrare ogni anno grande partecipazione da parte della popolazione e coinvolge tutti gli abitanti del territorio, i quali riescono a immergersi e far immergere visitatori e turisti nell’avvolgente clima medievale e a rievocare quegli Statuti che per tanti secoli hanno regolato la vita all’interno dell’antico castello umbro. Vie, piazze e taverne si vestono a festa, diventando i luoghi ideali e caratteristici per riassaporare i gusti e i profumi del periodo. L’odore di pane caldo e carne alla brace, il fumo acre che si dipana dalle strette vie, il vino che tutto inebria e rallegra, attimi di un passato tanto lontano, ma che tutti in quei momenti hanno a portata di mano. I Portaioli sanno come rallegrare l’atmosfera e rendere ognuno non spettatore ma partecipante e in quel crogiuolo di luci e ombre, sapori e odori, silenzi e grida, si contendono l’agognato Palio. (red.)

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ANTE PRIMA

Tre visioni per ripartire Ugo Picarelli (primo a sinistra), con Maurizio Di Stefano, Presidente ICOMOS Italia, Dana Firas, Presidente Petra National Trust, e Mounir Bouchenaki Presidente Onorario della Borsa.

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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a XXIV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgerà a Paestum dal 27 al 30 ottobre. In questa intervista il suo Fondatore e Direttore, Ugo Picarelli, ne anticipa i contenuti. Direttore Picarelli, dallo scorso anno la BMTA finalmente ha la sua location definitiva... «Continua la grande sfida messa in campo dalla BMTA a favore del sito UNESCO e della sua destinazione, che il Comune di Capaccio Paestum ha saputo cogliere, riqualificando l’ex Tabacchificio Cafasso, un contenitore di archeologia industriale prestigioso per il suo valore identitario e che il Sindaco Franco Alfieri renderà ancora piú accogliente ed efficiente per l’edizione 2022». Quali sono le novità per addetti ai lavori e visitatori? «Gli operatori non vedono l’ora di ripartire con la loro offerta turistico-culturale ed enogastronomica, dopo due anni di alti e bassi con importanti decrementi dei flussi turistici. Partendo dal successo conseguito nel 2021, con gli alberghi completamente pieni, a fronte di 7000 visitatori con 550 relatori protagonisti nelle 100 conferenze, sarà proposto al Consorzio Albergatori di Paestum di mettere in campo un pacchetto per intercettare e invogliare la domanda nazionale per la concomitanza favorevole del ponte lungo, che dà l’opportunità di allungare la propria permanenza oltre il fine settimana della BMTA, includendo lunedí 31 ottobre e il festivo martedí 1° novembre. La promozione, rivolta a individuali e gruppi, sarà veicolata

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dalle principali riviste di viaggi e turismo e da una ampia campagna di comunicazione social, offrendo ingressi gratuiti ai siti culturali, degustazioni, tariffe scontate sui treni dell’alta velocità e regionali». Quali saranno i focus dell’edizione 2022? «La BMTA, consapevole di essere non solo strumento di relazioni, ma di avere il dovere di presentare buone pratiche che possano essere fattibili a brevemedio termine con una prospettiva di sviluppo locale e occupazione, si appresta a rinnovare questo approccio per un futuro immediato “new normal”, con la presentazione di tre proposte (internazionale, nazionale, locale) come già nel 2021. Protagonista del programma sarà sempre il turismo culturale all’insegna dell’esperienza unica e autentica, nonostante l’aspetto esperienziale sia già di per sé alla base dell’offerta e della sostenibilità che sarà declinato nelle tre visioni che la Borsa si ripropone di presentare annualmente». Cosa fa la BMTA per incrementare l’incoming in Italia? «La sezione ArcheoIncoming, nata nel 2019 per recuperare la domanda europea e i nostri connazionali, caratterizzerà la Borsa con la presenza dei principali tour operator specialisti del turismo archeologico, che inseriranno nella loro programmazione viaggi a tema nei giorni dell’evento con destinazione Paestum e Campania». Il Parco Archeologico di Paestum e Velia ha da poco il suo neo Direttore, quali le impressioni? «La professoressa Tiziana D’Angelo, già tra i relatori della Borsa negli anni passati, conosce molto bene l’evento, per cui il suo apporto sarà fondamentale per una ulteriore crescita. Inoltre, grazie alla sua esperienza internazionale potrà rafforzare la nostra intuizione nelle edizioni passate di invitare Istituti e Università del mondo anglosassone a organizzare a Paestum campagne di scavo e masterclass per i loro studenti, in quanto questo fenomeno in tante destinazioni determina un notevole apporto di docenti e giovani a fini scientifici e formativi con un interessante indotto economico». aprile

MEDIOEVO



AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

AL DESIGN MIC-Museo Internazionale delle Ceramiche fino al 30 aprile

ROMA DI MANO DI JACOPO DA PUNTORME. DISEGNI DI JACOPO PONTORMO NELLE COLLEZIONI DELL’ISTITUTO CENTRALE PER LA GRAFICA Istituto centrale per la grafica fino al 18 aprile (prorogata)

È esposto per la prima volta nella sua interezza il fondo di disegni di Jacopo Carucci (1494-1556) – meglio noto come Pontormo, dal luogo di nascita – la cui fama al tempo rivaleggiò con quella dei grandissimi, da Raffaello ad Andrea del Sarto, da Bronzino a Vasari. Considerata l’intrinseca fragilità di questi manufatti, a tal punto da sconsigliarne il prestito, questo importantissimo VICENZA LA FABBRICA DEL RINASCIMENTO. PROCESSI CREATIVI, MERCATO E PRODUZIONE A VICENZA. PALLADIO, VERONESE, BASSANO, VITTORIA Basilica Palladiana fino al 18 aprile

nucleo di disegni, quasi tutti bifaccia, è poco noto anche agli specialisti; ciononostante, si tratta di capolavori, in parte inediti, che riferiscono dell’attività creativa piú intima dell’artista. Soprattutto, si tratta di un corpus di disegni fresco di operatività dell’artista al lavoro, una sorta di archivio personale di bottega la cui importanza in tutti questi anni era sfuggita agli esperti dell’arte del maestro. info www.grafica.beniculturali.it

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Alla metà del Cinquecento Vicenza, fra le aree piú dinamiche in Europa per la produzione e il commercio della seta, conosce una sorprendente trasformazione, diventando una capitale della cultura grazie al progetto della cosmopolita nobiltà cittadina, che investe e scommette sulla visione di un gruppo di giovani artisti. Sono il genio dell’architettura Andrea Palladio, i pittori Paolo Veronese e Jacopo Bassano e il grande scultore Alessandro Vittoria. A legarli è la passione per l’arte nuova nutrita dall’antico, nata nella Roma di Michelangelo e Raffaello, quella che Giorgio Vasari definirà la «maniera moderna»,

la cui forza permetterà loro di scardinare i modelli tradizionali dominanti a Venezia, insieme alle suggestioni offerte da artisti quali Giulio Romano e Parmigianino. La rassegna ricostruisce questo straordinario periodo, cinquant’anni di vita artistica nella terraferma veneta, dal 1550 alla fine del secolo. E attraverso piú di 80 opere, il percorso indaga i meccanismi di produzione e i processi creativi che si celano dietro i capolavori, raccontandone la realizzazione, individuando coordinate materiali e storiche entro cui sono stati concepiti. info www.mostreinbasilica.it; Facebook: @mostreinbasilicapalladiana; Instagram: @mostreinbasilica #lafabbricadelrinascimento; #rinascimentoavicenza; #mostreinbasilica

Attraverso una selezione di 200 ceramiche da vino e da acqua appartenenti alle collezioni del museo, la mostra documenta gli usi e costumi del bere dall’antichità classica a oggi. Vengono dunque proposte le forme ceramiche del bere dal mondo greco, etrusco e romano fino agli sviluppi del design contemporaneo, analizzando il loro impiego nella convivialità della tavola e legando l’uso delle ceramiche da vino e da acqua ai contesti sociali sviluppati da ogni epoca per coglierne gli elementi di originalità e quelli di continuità. Le opere selezionate sono articolate in quattro sezioni che propongono un viaggio nei secoli all’insegna della convivialità e delle forme ceramiche legate al bere. E, per le ceramiche diffuse dal Medioevo al XVIII secolo, si può rilevare la predominanza morfologica del boccale, dalla tipica conformazione con manico contrapposto al versatoio, che registra nel corso dei secoli varianti formali e decorative peculiari ai vari ambiti.

FAENZA GIOIA DI BER. CERAMICHE DA VINO E DA ACQUA IN ITALIA DALL’ANTICHITÀ CLASSICA

aprile

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info tel. 0546 697311; e-mail: info@micfaenza.org; www. micfaenza.org/

PISTOIA MEDIOEVO A PISTOIA. CROCEVIA DI ARTISTI FRA ROMANICO E GOTICO Antico Palazzo dei Vescovi e Museo Civico fino all’8 maggio

In occasione dell’anno Iacobeo, l’esposizione illustra, per la prima volta, lo straordinario panorama delle arti a Pistoia dal XII agli inizi del XV secolo e documenta il ruolo di primo piano assunto dalla città nel campo delle arti figurative. Pistoia godeva della presenza di committenti illuminati, in grado di attrarre figure quali Guglielmo (uno dei piú famosi

Duecento dall’attività della bottega del Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, la piú importante in Toscana, e nel Quattrocento dalle eleganze lineari e dalla preziosità decorativa delle illustrazioni eseguite dal Maestro della Cappella Bracciolini nella Divina Commedia conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel Trecento Pistoia offre in campo pittorico un panorama variegato di personalità e tendenze culturali, e la presenza di artisti del calibro di Lippo di Benivieni, Taddeo Gaddi e Niccolò di Tommaso la colloca in una posizione di primo piano, ribadita dalla Maestà e angeli di Pietro Lorenzetti proveniente dagli Uffizi, uno dei prestiti piú prestigiosi della mostra, sottoposto a restauro per l’occasione. info tel. 0573 974267; e-mail: info@pistoiamusei.it; www.fondazionepistoiamusei.it BRESCIA TOCCAR CON MANO I LONGOBARDI Museo di Santa Giulia fino al 29 maggio

scultori attivi nel duomo di Pisa) e Guido da Como, e poi Nicola e Giovanni Pisano, che lasciarono capolavori fondanti della storia dell’arte italiana. Fa da specchio a questi importanti episodi di scultura la piú imponente delle opere di oreficeria, ideale sigillo della mostra: l’altare di san Jacopo, che attesta Pistoia come snodo di ricezione per le arti suntuarie. Anche la miniatura visse un periodo di grande vivacità, testimoniata alla fine del

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aprile

Realizzata in collaborazione con il Museo Tattile Statale Omero di Ancona, la mostra offre la possibilità di ammirare contemporaneamente i sette monumenti del sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)», con l’obiettivo di far conoscere la straordinarietà e la complessità del sito Patrimonio UNESCO, attraverso un percorso tattile e una gamma differenziata di opzioni di fruizione che ne facilitano la comprensione, assicurando a tutti un’esperienza multisensoriale ottimale. Nelle sale sono esposti sette modellini tridimensionali in scala dei monumenti architettonici che

rappresentano maggiormente il sito seriale longobardo e sette modellini relativi alle aree in cui sono situati i monumenti, per permettere l’esplorazione tattile dei loro contesti di provenienza. A rendere il percorso ancor piú accessibile sono le audio descrizioni (in italiano e inglese), registrate dagli attori della Compagnia #SIneNOmine della Casa di Reclusione di Maiano a Spoleto, da ascoltare tramite NFC e QR code, nonché un catalogo in Braille e uno in large print in libera consultazione. Infine, per consentire una fruizione dei modelli inclusiva, sono stati realizzati video con la tecnica del compositing nella LISLingua dei Segni Italiana, insieme a immagini e animazioni, sottotitoli e audio. info www.bresciamusei.com

FIRENZE DALL’INFERNO ALL’EMPIREO IL MONDO DI DANTE TRA SCIENZA E POESIA Palazzo Pitti fino al 29 maggio (prorogata)

Scienza e poesia si fondono nella Divina Commedia di Dante Alighieri. Per la prima volta a «Dante scienziato» viene dedicata una mostra che fa leva sulla dimensione visuale evocata dai suoi versi. Prendendo spunto dalle lezioni accademiche di Galileo sulla misura e sul luogo dell’Inferno dantesco – dove lo scienziato definiva il poeta «corografo e architetto» – la mostra inquadra le competenze scientifiche di Dante nella cultura del suo tempo, tracciando il profilo dell’Alighieri come medico, abbachista, geometra, «geologo» e cosmografo.

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AGENDA DEL MESE I passi della Commedia, del Convivio e della Questio de aqua et terra sono illustrati attraverso l’esposizione di opere artistiche, manoscritti, modelli tridimensionali e prodotti multimediali che illustrano il sistema cosmologico, la geografia fisica e la geografia spirituale delle opere dantesche. Le sezioni dell’esposizione replicano idealmente la tripartizione della Commedia. Il percorso espositivo è scandito da tre sale che rappresentano le tre cantiche. Nella prima, Inferno, il visitatore si trova immerso nelle viscere della Terra; alzando lo sguardo verso la copertura a cupola vede le terre emerse dall’interno, vale a dire dal punto di vista di Lucifero, il cui immenso corpo sta sospeso al vertice della grande voragine conica che ospita le anime dei dannati. Nel Purgatorio, la sala è coperta dal cielo stellato dell’emisfero australe, là dove Dante immagina di trovarsi una volta uscito «a riveder le stelle». Nell’ultima, Paradiso, si è sospesi tra il mondo materiale, riprodotto sul pavimento secondo il sistema tolemaico, e il mondo spirituale, rappresentato sulla cupola dalle schiere angeliche che ruotano vorticosamente intorno al punto luminosissimo da cui tutto ha origine e verso cui tutto è proteso. Oltre a preziose opere originali – manoscritti, stampe, disegni, incisioni, mappe del mondo e strumenti scientifici – sono in mostra riproduzioni in alta risoluzione di opere non trasportabili, grandi modelli tridimensionali che rappresentano la Terra e la struttura cosmologica dell’Universo come erano

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conosciute da Dante, e filmati realizzati dal Laboratorio Multimediale del Museo Galileo. info https://mostre. museogalileo.it/dante/ VENEZIA VENETIA 1600. NASCITE E RINASCITE Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 5 giugno

«L’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedí Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fú dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...»: il mito di Venezia sta anche nella leggenda della sua fondazione, raccontata cosí nel Chronicon Altinate (XI-XII secolo) e coincidente con la posa della prima pietra della chiesa di S. Giacometo a Rivoalto il giorno dell’Annunciazione alla Madonna. Una leggenda che, tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise insieme racconti che si erano intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del valore di Venezia: città eletta da Dio. Che ora celebra i suoi 1600 anni anche con una mostra messa in scena nel luogo simbolo del potere e della gloria della Serenissima:

il Palazzo dei Dogi in piazza San Marco. L’esposizione racconta – attraverso oltre 250 opere d’arte, manufatti antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno segnato la storia di Venezia, scegliendo un punto di vista inedito, cioè quello degli innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle altrettante rigenerazioni e rinnovamenti che hanno segnato la sua esistenza. info https://palazzoducale.

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MILANO TIZIANO E L’IMMAGINE DELLA DONNA NEL CINQUECENTO VENEZIANO Palazzo Reale fino al 5 giugno

A Venezia nel Cinquecento l’immagine femminile acquista un’importanza forse mai vista prima nella storia della pittura. Questo è dovuto a vari fattori, quali la presenza di Tiziano e di altri artisti operanti sia a Venezia che in terraferma, particolarmente interessati alla raffigurazione della bellezza muliebre, ma anche, parallelamente, al particolare status che le donne avevano nella società veneziana. La struttura portante dell’esposizione affronta dunque un argomento aprile

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(fino al 15 giugno) all’interno dell’allestimento progettato nell’Appartamento Ducale, lungo il percorso di Corte Vecchia. info www.mantovaducale. beniculturali.it

eternamente valido ma anche completamente nuovo, presentando l’immagine femminile attraverso tutto l’ampio spettro delle tematiche possibili e nel contempo mettendo a confronto gli approcci artistici individuali tra Tiziano e gli altri pittori del tempo. Partendo dal tema del ritratto realistico di donne appartenenti a diverse classi sociali, passando a quello fortemente idealizzato delle cosí dette «belle veneziane» si incontrano via via celebri eroine e sante, fino ad arrivare alle divinità del mito e alle allegorie. Sono circa un centinaio le opere esposte, di cui 46 dipinti, 15 di Tiziano – per lo piú prestati dal Kunsthistorisches Museum di Vienna –, a cui si aggiungono sculture, oggetti di arte applicata come gioielli, una creazione omaggio di Roberto Capucci a Isabella d’Este (1994), libri e grafica. info www.palazzorealemilano.it

PARMA I FARNESE. ARCHITETTURA, ARTE, POTERE Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31 luglio

A venticinque anni dall’ultima esposizione sul tema, il Complesso Monumentale della Pilotta ospita una grande rassegna dedicata alla committenza della famiglia Farnese, con l’obiettivo d’indagare la straordinaria affermazione della casata nella

MICHELANGELO: I BRONZI DELLA PASSIONE Palazzo Ducale fino al 15 giugno

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aprile

FIRENZE DONATELLO, IL RINASCIMENTO Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello fino al 31 luglio

MANTOVA

Filo conduttore della mostra sono tre sculture in bronzo raffiguranti Cristo crocifisso e i due ladroni: eseguite da un ignoto scultore lombardo, le opere derivano senza dubbio da disegni e modelli del «divino» artista toscano e il breve ma accurato percorso espositivo ne illustra l’articolata vicenda, misurando l’influenza di Michelangelo nell’ambiente mantovano. Alcuni disegni antichi, realizzati a Mantova nel 1582, attestano infatti il passaggio di modelli di Michelangelo nella città dei Gonzaga. Le figure

spiccano opere di Raffaello, Tiziano Vecellio, Francesco Mazzola «il Parmigianino», El Greco e Annibale Carracci – e una selezione di oggetti provenienti dal Gabinetto delle Cose Rare del Museo e Real Bosco di Capodimonte, tra cui la Cassetta Farnese, insieme alla Tazza Farnese dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, alle monete e medaglie del Complesso Monumentale della Pilotta e ai pezzi della Collezione Gonzaga di Guastalla confluiti nella collezione Farnese, permetteranno di ricostruire una camera delle meraviglie rinascimentale. info tel. 0521 220400; www.complessopilotta.it

magistralmente modellate nella materia rappresentano, come detto, Cristo e i due ladroni crocefissi sul Golgota: questo tema iconografico viene definito «Calvario», dal nome latino della collina appena fuori dalle mura di Gerusalemme su cui, secondo la narrazione dei vangeli, salí Gesú per esservi crocifisso. L’opera, appartenuta all’inizio dell’Ottocento all’artista neoclassico Giuseppe Bossi, è conservata nelle Raccolte di Arte Applicata del Castello Sforzesco a Milano. Ora, grazie al prestito, si può ammirarla

compagine politica e culturale europea dal Cinque al Settecento, attraverso l’utilizzo delle arti come strumento di legittimazione. Tra i prestiti, un nucleo di circa 200 disegni di architettura presenta, insieme a modelli, elaborazioni grafiche e filmati, il quadro complessivo dell’architettura farnesiana dal punto di vista storico, urbano e territoriale, mettendo in rilievo la relazione tra questa disciplina e l’affermazione dinastica in termini di prestigio, espansione e visionarietà della committenza. E poi capolavori della pittura – tra i quali

Il progetto espositivo nasce come celebrazione del grande maestro, puntando ad allargare la riflessione su questo artista rivoluzionario nei materiali, nelle tecniche e nei generi. Scultore supremo del Quattrocento – tra i secoli d’oro dell’arte italiana – e prediletto della famiglia Medici, insieme a Brunelleschi e Masaccio, Donatello diede il via alla straordinaria stagione del Rinascimento, proponendo nuove idee e soluzioni figurative che hanno segnato per sempre la storia dell’arte occidentale. Attraverso le sue opere Donatello rigenera l’idea stessa di scultura, con una potenza di visione unica in cui unisce le scoperte sulla prospettiva e un concetto totalmente moderno di umanità. La dimensione umana dell’arte di Donatello abbraccia in tutta la loro profondità le piú diverse forme delle emozioni, dalla dolcezza alla crudeltà, dalla gioia al

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AGENDA DEL MESE dolore piú straziante. Distribuita su due sedi, Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello, la mostra riunisce circa 130 opere tra sculture, dipinti e disegni con prestiti unici, alcuni dei quali mai concessi prima, e propone un viaggio attraverso la vita e la fortuna di Donatello articolato in quattordici sezioni. Si inizia dagli esordi e dal dialogo con Brunelleschi, proponendo il confronto tra i due celebri Crocifissi lignei provenienti dalla Basilica di Santa Croce e da quella di Santa Maria Novella. Si procede poi attraverso i luoghi per cui Donatello ha lavorato (Siena, Prato e Padova, oltre a Firenze), trovando moltissimi seguaci, entrando in dialogo con altri celebri artisti molto piú giovani quali Mantegna e Bellini, e sperimentando nei materiali piú diversi le sue formidabili invenzioni plastiche e scultoree. Conclude il

percorso una sezione speciale dedicata all’influenza di Donatello sugli artisti a lui successivi, tra cui Raffaello, Michelangelo e Bronzino, testimoniando cosí l’importanza capitale della sua opera per le vicende dell’arte italiana. info www.palazzostrozzi.org; www.bargellomusei.beniculturali.it CASTELSEPRIO (VA) Parco Archeologico e Antiquarium

GONATE OLONA (VA) Monastero di Torba TRAME LONGOBARDE. TRA ARCHITETTURA E TESSUTI fino al 31 luglio

Partendo da un lavoro che ha intrecciato insieme dati scientifici e ricostruzioni plausibili, la mostra-dossier propone un’accurata lettura delle tecniche antiche di tessitura attraverso la ricostruzione di tessuti, abiti e telai verosimilmente in uso tra VI e VIII secolo d.C. La ricostruzione dei tessuti e degli abiti, in particolare, rappresentano il filo conduttore che ci porta a conoscere piú da vicino il popolo longobardo partendo da quelli che erano gli oggetti e i manufatti che sono parte integrante della vita quotidiana. Tutti gli abiti sono stati realizzati per una metà con tessuti fatti rigorosamente a mano su telai orizzontali a licci riproducendo il numero dei fili di ordito e trama presenti al centimetro, nonché lo spessore degli stessi fili e le torsioni. Considerando che verosimilmente tali tessuti venivano realizzati da donne in ambito domestico, sono state ipotizzate delle altezze del tessuto abbastanza ridotte e compatibili con telai verticali, a pesi o a doppio subbio, utilizzati nel periodo di riferimento. L’altra metà degli abiti è stata realizzata impiegando una tela di cotone

industriale proprio per sottolineare che il modello dell’abito riproposto è il frutto di contaminazioni scientifiche e di elaborazioni dei curatori. info www.antiquarium. castelseprio.beniculturali.it; www.fondoambiente.it LONDRA RAFFAELLO The National Gallery fino al 31 luglio (dal 9 aprile)

Programmata per il 2020, nel cinquecentenario della morte dell’artista, ma rinviata a causa delle restrizioni imposte

dalla pandemia innescata dal Covid-19, apre finalmente i battenti la grande mostra su Raffaello voluta dalla National Gallery. Si tratta di una delle piú ricche rassegne mai dedicate al maestro urbinate, del quale viene documentato lo straordinario eclettismo, che gli permise di eccellere come pittore, ma anche come disegnatore, architetto e «archeologo». Nella sua breve carriera – l’artista, morto a soli

37 anni, fu attivo per poco piú di un ventennio – Raffaello fu capace di segnare una svolta decisiva nella storia dell’arte universale, ma non solo, poiché la sua opera contribuí a rimodellare il volto dell’intera cultura occidentale. Ed è proprio questo l’aspetto che la mostra, attraverso una selezione di poco meno di 100 opere, intende evidenziare, proponendo un percorso espositivo di tipo cronologico, che dalle prime esperienze compiute a Urbino e nelle Marche si snoda tra Firenze e

Roma, città che decretarono la consacrazione del pittore. info www.nationalgallery.org.uk FIRENZE LE TRE PIETÀ DI MICHELANGELO. NON VI SI PENSA QUANTO SANGUE COSTA Museo dell’Opera del Duomo, sala della Tribuna di Michelangelo fino al 1° agosto

Vengono per la prima volta messe a confronto l’originale della Pietà Bandini, di cui è da aprile

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poco terminato il restauro, e i calchi della Pietà Vaticana e della Pietà Rondanini provenienti dai Musei Vaticani. Collocate una vicina all’altra, le tre Pietà offrono l’opportunità di vedere l’evoluzione dell’arte di Michelangelo, nonché la sua maturazione spirituale, dalla prima giovinezza – quando a Roma scolpí per la Cappella dei Re di Francia nell’antica S. Pietro l’opera ora nella navata laterale nord della basilica – alla sua ultima stagione, quando, ormai vecchio, mise mano alla Pietà oggi a Firenze e poi alla Pietà Rondanini conservata a Milano. Si tratta di un percorso lungo piú di cinquant’anni, che conduce dall’ambizione del giovane che scolpí il proprio nome sul petto della Madonna della versione vaticana all’immedesimazione personale dell’anziano artista, che, in quella del Museo dell’Opera, raffigura se stesso

nelle sembianze di Nicodemo. Vicino alla propria morte, Michelangelo meditava profondamente sulla Passione di Cristo, come egli stesso fece capire in un coevo disegno della Pietà, donato alla marchesa di Pescara Vittoria Colonna, dove scrisse la frase dantesca: «Non vi si pensa quanto sangue costa» (Paradiso XXIX, 91). Risultato sublime di questa meditazione spirituale fu l’esecuzione della Pietà Rondanini, la cui estrema bellezza rifulge nel tramonto della figura. info https://duomo.firenze.it MARSIGLIA LA GIOCONDA. ESPOSIZIONE IMMERSIVA Palais de la Bourse fino al 21 agosto

Qual è il motivo (o il segreto) della popolarità di cui gode la Gioconda, il dipinto senza dubbio piú conosciuto al mondo? Da questo

interrogativo, all’apparenza semplice, è nato il progetto espositivo che si è ora tradotto nella mostra immersiva presentata a Marsiglia, il cui obiettivo è quello di far comprendere le ragioni del mito e, soprattutto, di far conoscere il dipinto per quel che è effettivamente, al di là dei presunti misteri e dei luoghi comuni. Una riscoperta del capolavoro leonardesco che si avvale di storie narrate ed esperienze sensoriali organizzate su differenti livelli. Vengono per esempio illustrati i luoghi nei quali il maestro ambientò il celebre ritratto e altre opere celebri – come la Vergine delle rocce – e il contesto storico e culturale in cui maturò la realizzazione del quadro. E c’è spazio anche per

ripercorrere la fortuna moderna della Gioconda, nonché le traversie di cui fu involontaria protagonista, prima fra tutte il furto di cui fu vittima nel 1911. Si tratta dunque di una mostra ricca di contenuti, che ha il suo punto di forza nell’altrettanto ricco apparato di supporti multimediali. info www.grandpalais.fr

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. VIII Edizione Roma – Teatro Argentina

fino all’8 maggio info www.teatrodiroma.net

«C

ittà Romane. Idee, realtà e utopie nel mondo antico»: è questo il titolo scelto per l’VIII edizione di «Luce sull’archeologia», i cui appuntamenti sono in programma al Teatro Argentina di Roma, la domenica mattina, alle 11,00. Obiettivo della rassegna è mettere in luce l’idea stessa di città, con i suoi elementi universali e comuni, i modelli urbani di altre civiltà, gli archetipi greci. Da Roma, dove sogno e materia si fondono alla città celeste di sant’Agostino, alle città ideali della pittura rinascimentale. Ciascun incontro è arricchito dai contributi di storia dell’arte di Claudio Strinati, dalle anteprime del passato curate dal direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, ed è introdotto e presentato da Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, i prossimi appuntamenti. 3 aprile: Federico Marazzi, Città fra terra e cielo: San Vincenzo al Volturno e i grandi monasteri dell’Alto Medioevo; Umberto Roberto, Capitali d’Italia: Milano, Ravenna, Roma e l’imperatore; Francesco Sirano, Abitare a Ercolano antica nel I secolo d.C. Viaggio sotto la cenere del Vesuvio. 8 maggio: Luciano Canfora, Platone e la Kallipolis; padre Giuseppe Caruso, Una città in cielo. Agostino e il compimento della storia; Francesca Ghedini, La Roma di Ovidio: vissuta, sognata, rimpianta.

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ANTE PRIMA

MEDDosIOsierEVO

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I LONGOBARDI IN ITALIA

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L’alba del Medioevo

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Longobardi IN ITALIA L’ALBA DEL MEDIOEVO di Tommaso Indelli

N°49 Marzo/Aprile 2022

Rivista Bimestrale

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I LONGOBARDI IN ITALIA

età longobarda ha costituito un capitolo importante nella storia d’Italia e nel nuovo Dossier di «Medioevo» Tommaso Indelli ne ripercorre l’intera parabola, a partire da quando, nel 568, il re Alboino scese nella Penisola alla testa dei suoi guerrieri. Di quelle vicende sono oggi testimonianza numerosi monumenti, ai quali si sono aggiunti i significativi riscontri offerti dall’archeologia, grazie alle scoperte di cui sono state teatro tutte le aree nelle quali i Longobardi scelsero di insediarsi. Dall’avvento di Rotari, consegnato alla storia dalla promulgazione, nel 643, dell’Editto che porta il suo nome, a quello di Liutprando, sotto il cui regno l’Italia longobarda visse una delle sue stagioni piú fiorenti, il Dossier propone una rassegna ampia e puntuale, accompagnata da un ricco corredo iconografico e cartografico. Uno spazio importante è riservato anche al sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)». Riconosciuto dall’UNESCO nel 2011, riunisce le piú importanti testimonianze monumentali longobarde, dal Nord al Sud della Penisola: l’area della Gastaldaga con il Tempietto Longobardo e il Complesso Episcopale a Cividale del Friuli (Udine); l’area monumentale con il complesso monastico di S. Salvatore-S. Giulia a Brescia; il castrum con la Torre di Torba e la chiesa di S. Maria foris portas a Castelseprio Torba (Varese); la basilica di S. Salvatore a Spoleto (Perugia); il Tempietto del Clitunno a Campello sul Clitunno (Perugia); il complesso di S. Sofia a Benevento; il santuario di S. Michele a Monte Sant’Angelo (Foggia).

A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

MEDIOEVO DOSSIER

IN EDICOLA

IN EDICOLA IL 16 MARZO 2022

GLI ARGOMENTI

04/03/22 15:38

• L’arrivo in Italia • I successori di Alboino • Rotari, il re dell’Editto • L’apogeo e la caduta • La lotta alle eresie • Il sito seriale UNESCO «I Longobardi in Italia» • Il Mezzogiorno longobardo • La fine di un’epopea

A destra, sulle due pagine L’assassinio di Alboino, re dei Longobardi, olio su tela di Charles Landseer. 1856. Collezione privata.

Umbone di scudo, forse da parata, con una scena di battaglia, da Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo delle Civiltà, Museo dell’Alto Medioevo «Alessandra Vaccaro».

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Quell’«onda verde» del Nilo

di Federico Canaccini

Esodi di massa, campagne abbandonate, fame e sete, episodi di cannibalismo: negli anni tra il 1200 e il 1202, l’Egitto fu colpito da una catastrofe ecologica di dimensioni bibliche. Ce lo racconta un «testimone oculare» davvero eccezionale...


ecologia una catastrofe egiziana

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A sinistra un nilometro nei pressi della prima cataratta del Nilo, in una foto del 1905. Questi pozzi, comunicanti con il fiume, venivano utilizzati per tenere sotto controllo il livello delle acque e i loro primi esemplari furono messi in opera già in età antica. In basso la raffigurazione di un nilometro in una tavola dell’opera Oedipus Aegyptiacus (1652) di Athanasius Kircher.

sentir parlare del Nilo e delle sue inondazioni, è difficile che il pensiero corra al Medioevo. Per contro, sappiamo che l’antica civiltà egiziana, fiorita sulle sponde feconde di quello che si riteneva essere il fiume piú lungo del mondo (primato che sembra oggi invece appartenere al Rio delle Amazzoni, per circa 150 km, sulla base della scoperta di una nuova sorgente, annunciata da studiosi sudamericani fra il 2007 e il 2008), deve al maestoso corso d’acqua, e, soprattutto, alle sue cicliche piene, la sua ricchezza. La stessa forza creatrice della religione egiziana era impersonata dal dio Ptah, della lontana Menfi, che dava nome anche all’intera regione, Hewet-ka-Ptah, cioè «Tempio dell’anima di Ptah». Esso era raffigurato come un artigiano, chino sul tornio da vasaio, mentre dà forma all’ umanità. Nel Nuovo Regno (1543-1069 a.C.) si cantava di come Ptah «facesse tutto ciò con le due mani, come balsamo per il suo cuore». Non di meno, il dio era anche identificato con la cresta di limo primigenio che emerse dal caos primevo, da cui ebbe inizio la prima scintilla di vita: e cosí, analogamente a questo mitico episodio, dopo l’annuale piena del Nilo, il suolo

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ecologia una catastrofe egiziana Mar Mediterraneo Porto Said

Cairo Suez

Giza

Saqqara

Sinai

Menfi Ain Sukhna

Fayyum

Golfo di Suez

Nil

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Gharib

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Didascalia Alessandria aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, Mappaperspiti dell’Egitto con conseque il corso del nis Nilo da maxim Assuan eaquis fino al Delta: earuntia apparecones evidente come apienda. la presenza del fiume abbia determinato lo stanziamento dell’uomo. Sulle due pagine la Stele della Carestia, sull’isola di Sehel, nel Nilo, presso Assuan. L’iscrizione dà conto di un periodo di sette anni di siccità che colpí l’Egitto al tempo del faraone Djoser (III dinastia, 2680-2660 a.C. circa). Si pensa che la stele sia stata incisa in età tolemaica (332-31 a.C.).

el-Balyana Abydos

Qena Coptos Dendera Tebe Esna

Luxor

Egitto Edfu

Kom Ombo

Assuan

dell’Egitto riemergeva, al suo rifluire, in piccoli promontori ben presto ricoperti da folta vegetazione che divenivano ricettacolo di fauna multicolore. «L’Egitto è dono del Nilo», avrebbero chiosato i Greci, al punto che la parola Aigyptios («Egitto») sarebbe nata dalla traslitterazione dell’espressione Hewet-ka-Ptah: senza il fiume, quelle terre sarebbero rimaste un’immensa distesa desertica sino alle sponde del Mediterraneo. Dall’epoca faraonica sino alla costruzione della

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diga di Assuan, i cui lavori iniziarono nel 1902, il Nilo era l’unico fiume del Mediterraneo che andava incontro a regolari e cicliche piene nella calda stagione estiva: dopo una portata minima ai primi di giugno, il fiume iniziava leggermente a ingrossarsi grazie all’apporto prima della cosiddetta «onda verde» e poi delle «acque rosse», per raggiungere la massima ai primi del mese di settembre. Per conoscere il livello del Nilo, sin dall’antichità, furono costruiti dei aprile

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pozzi che comunicavano con il fiume e che, grazie a una parete graduata, mostravano l’altezza via via raggiunta dall’acqua. Il piú antico, quello di Heluan, rimase in funzione sino al 715, quando gli Arabi, che avevano conquistato l’Egitto nel 642 sotto la guida del generale ‘Amr, ne costruirono uno nuovo nell’isola di Roda, presso il Cairo. L’Egitto era stato sino ad allora dominio dell’impero bizantino: l’imperatore Eraclio aveva investito il pa-

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triarca monofisita Ciro anche del titolo di prefetto augustale, con il compito di porsi a capo di un esercito di circa 30 000 autoctoni, poco o nulla addestrati all’arte della guerra, per fronteggiare il nuovo inarrestabile nemico. In realtà, quando nel 640 il califfo Omar iniziò la conquista dell’Africa, la popolazione locale, vessata dall’oramai impopolare Ciro, non oppose una seria resistenza e la conquista araba fu rapida e quasi indolore. Dopo il successo militare, il califfo fondò la città fortifi-

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ecologia una catastrofe egiziana

di cammelli univano l’Egitto col Corno d’Africa. Ad approfittare di questa grande prosperità fu soprattutto il Saladino che, annessi la Siria e lo Yemen, una volta sconfitti i crociati nella battaglia di Hattin (1187), inflisse un duro colpo al regno di Gerusalemme e alle forze cristiane che iniziarono a dirottare le loro spedizioni crociate non piú verso la Città Santa, ma verso altri obiettivi, come il prospero Egitto.

Un testimone d’eccezione cata di Al-Fustat, l’odierna Cairo Vecchia, avviò poi la costruzione di una grande moschea e restaurò il canale che univa il Mar Rosso al Nilo. Nel corso dell’Alto Medioevo, l’Egitto fu sfruttato per lo piú a vantaggio di capitali lontane, come per esempio quella degli Abbasidi, la ricca e potente Baghdad. Vi fu una svolta solo verso il Mille, quando, sotto i califfi sciiti, Alessandria e il Mar Rosso tornarono a primeggiare tra le soste per la rotta che congiungeva il Mediterraneo con l’Estremo Oriente. I mercanti genovesi e veneziani, già impiantati in Terra Santa, assicuravano i trasporti col Maghreb e lunghe carovane

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Proprio agli inizi del XIII secolo, tra il 1200 e il 1202, nella terra dei faraoni, ora sotto la dominazione araba, si consumò un’immane tragedia, legata alla scarsa portata del Nilo e narrata in prima persona da un testimone d’eccezione, uno scienziato proveniente da Baghdad di nome ‘Abd al-Latif (vedi box alla pagina accanto), il quale, all’età di 40 anni, si trovava in Egitto, dove assistette a quella che sembra l’avatar orientale di alcuni apocalittici racconti delle cosiddette Cronache dell’Anno Mille di Rodolfo il Glabro. Al tempo dei Fatimidi, il livello minimo del fiume per garantire un buon raccolto era fissato a 16 cubiti (8,5 m circa), quota che veniva anche detta «l’acqua del sultano», raggiunta la quale i contadini erano costretti a pagare una tassa sulla terra agli emissari del aprile

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Nella pagina accanto il nilometro di Roda, presso il Cairo, in una tavola a colori (a sinistra) dall’opera Vollstaendige Völkergallerie in getreuen Abbildungen (1835-1840) e in una foto che ne mostra l’aspetto attuale. In basso ritratto di ‘Abd al-Latif con un suo allievo. Filadelfia, Free Library of Philadelphia.

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‘Abd al-Atif

Grande erudito e viaggiatore curioso Lo scienziato e storico arabo ‘Abd al-Latif, nacque nel 1162 a Baghdad, dove si dedicò agli studi coranici, per poi intraprendere approfondimenti nei piú svariati campi del sapere, tra cui la storia, la filosofia e la teologia. I suoi principali interessi furono però le scienze e, in particolare, la medicina. A ventotto anni, ‘Abd al-Latif, che nel frattempo aveva imparato anche altre lingue oltre all’arabo, intraprese un lungo viaggio, che lo condusse a Mosul, a Damasco e ancora in Turchia, in Grecia in Siria e in Egitto. Nell’occasione, conobbe e strinse amicizia con il Saladino e, al Cairo, con il filosofo e scienziato ebreo Mosè Maimonide, medico personale del visir e del figlio dello stesso Saladino. Verso il 1197 si recò ad Aleppo e di nuovo in Egitto e qui fu testimone della carestia che investí il Paese. Contravvenendo alla legge islamica che, come anche presso i cristiani, proibiva lo studio dell’anatomia servendosi di esami autoptici, analizzò le ossa delle migliaia di vittime,

scoprendo, fra l’altro, che la mandibola e l’osso sacro non corrispondevano alla descrizione fatta da Galeno quasi mille anni prima. ‘Abd al-Latif continuò a viaggiare, a insegnare e a scrivere, morendo intorno ai 70 anni a Baghdad, nel corso del suo pellegrinaggio alla Mecca. Purtroppo delle sue opere (il cui totale avrebbe superato i 150 volumi!) non è sopravvissuta che una minima parte. Certamente il suo trattato sul corpo umano divenne una pietra miliare per gli scienziati arabi (e poi per la Scuola Salernitana). Il manoscritto in arabo con la sua Storia d’Egitto (al-Ifada wa l-i‘tibar), fu rinvenuto nel 1655 dall’orientalista inglese Edward Pockocke, ma l’opera fu tradotta in francese solo nel 1810, nel pieno imperversare dell’egittomania esplosa in Francia all’indomani delle campagne di Napoleone. Appena un anno prima, infatti, era stata pubblicata la Description illustrata dell’Egitto, commissionata proprio da Bonaparte a Dominique-Vivant Denon.


ecologia una catastrofe egiziana A sinistra vagliatura del grano dopo la trebbiatura in una foto del 1905. Il limo che si deposita a ogni piena del Nilo ha sempre costituito un apporto decisivo per la pratica dell’agricoltura. Nella pagina accanto carta nella quale è riportato un tratto del Nilo con le oasi circostanti, dal capitolo dedicato al clima del litorale mediterraneo egiziano in una edizione dell’opera del geografo arabo al-Idrisi Kitab Rugiar (Libro di Ruggero).

giacché il Nilo non sfiorò neppure i 13 cubiti: «si annunciava un anno carico di funesti presagi». Ai primi di giugno del 1200 giunse «l’onda verde», la cui colorazione è probabilmente dovuta ad alghe microscopiche, agevolate da temporanee condizioni chimiche favorevoli: questa fase veniva ciclicamente cancellata dalle impetuose piene dei fiumi Atbara e Nilo Azzurro che, erodendo le etiopiche terre vulcaniche, inondavano e fertilizzavano la valle del Nilo.

Acqua imbevibile

sultano. Ma, naturalmente, il regime del Nilo non era sempre regolare: poteva eccezionalmente raggiungere i 18 cubiti, il che avrebbe garantito una produzione in grado di sfamare il Paese per i due anni successivi. E poi vi erano gli eccessi: se le acque del Nilo avessero superato i 20 cubiti, molte aree sarebbero potute rimanere sotto l’acqua troppo a lungo, rendendo addirittura impossibile la semina. E, di contro, un livello inferiore all’«acqua del sultano» avrebbe compromesso i raccolti e tutta l’economia di un intero popolo. Nel descrivere i tragici eventi di quegli anni, ‘Abd al-Latif esordisce segnalando che, dai tempi dell’Egira (622), cioè da circa 6 secoli, il Nilo «non era andato oltre i 14 cubiti e alcune dita» appena venti volte e che forse solamente sei volte «si era fermato a 13 cubiti e qualche dito». Si sta parlando di venti annate su un totale di circa 600. Eppure, registra lo storico arabo, nel 1200 si verificò «un fenomeno estremamente raro»,

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In quell’anno, però, qualcosa dovette andare storto, poiché le alghe ristagnarono piú a lungo del previsto. Il cronista scrive infatti che «questa sfumatura si fece sempre piú intensa e si notò che dal fiume emanava un odore fetido e guasto»: non si deve dimenticare che si era in piena estate e che il Nilo scorre in mezzo a un deserto. La popolazione tentò di bollire l’acqua per renderla bevibile, ma essa non migliorò né di odore, né di sapore e cosí si dovette ricorrere a quella proveniente dai rari pozzi: iniziarono a verificarsi i primi disordini per accaparrarsi l’acqua delle cisterne e dei pozzi. La presenza di materia vegetale nell’acqua indusse lo scienziato ad analizzarla e ‘Abd al-Latif intuí che, nelle lontane e quasi mitiche terre in cui il fiume sorgeva, evidentemente erano mancate piogge abbondanti e che altrettanto era accaduto ai possenti affluenti etiopici. Con il giungere dell’acqua di questi ultimi, le famose «acque rosse», il colore verdognolo sparí, ma il livello del nilometro, che ai primi di settembre doveva registrare il picco massimo, si fermò tragicamente ad appena 12 cubiti e 21 dita. Era la quota piú bassa mai registrata dell’epoca araba. Poi le acque del grande fiume iniziarono di nuovo a riaprile

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il nilo

Il grande fiume Gli antichi egiziani lo chiamavano iteru, che significa semplicemente «grande fiume». Dobbiamo invece ai Greci il nome Nilo (neilos in greco, nil in arabo), che significa invece «valle del fiume». Il Nilo, per molto tempo considerato come il piú lungo fiume del mondo (6853 km), è stato certamente il principale artefice della fioritura della civiltà egiziana e lungo il suo corso l’uomo si stanziò già nella preistoria. Sulle sue sorgenti si è a lungo dibattuto: Tolomeo, in epoca romana, le identificava presso il massiccio del Ruwenzori, mentre, solo nel 1937, l’esploratore Burkhart Waldecker le avrebbe identificate poco lontane dal lago Tanganica, sul monte Kikizi; ma è del 2006 la proposta di Neil McGrigor, il quale dichiarò di averle scoperte nell’intrico della foresta del Centro Africa, ben 106 km piú a sud del Kikizi. La ricerca continua.

Il Nilo è stato spesso scelto come ambientazione di romanzi e film: La sposa del Nilo (1911) è uno dei primi cortometraggi italiani, con faraoniche scene di massa e impressionanti ricostruzioni architettoniche, per appena 15 minuti, nel corso dei quali la protagonista viene sacrificata per propiziare la piena del fiume; Nefertite, Regina del Nilo (1961),

tirarsi: il Paese andava incontro a una delle peggiori carestie della propria storia.

«Una carestia spaventosa»

Dalle campagne, prive di acqua e con i campi inutilizzabili, iniziò uno sterminato esodo di popolazione assetata e affamata che si riversò nelle città e, in particolare, al Cairo, dove però trovò «una carestia spaventosa e una elevatissima mortalità». Molti lasciarono addirittura il Paese, tentando di raggiungere il Nord Africa o il Medio Oriente. La situazione si fece drammatica all’inizio dell’anno seguente, quando ormai «l’aria era contaminata, la peste e il contagio cominciarono a farsi sentire e i poveri, costretti dalla fame, si nutrirono di carogne, cadaveri, cani e degli escrementi degli animali. Questa penosa situazione si protrasse a lungo, fino a quando non iniziarono a cibarsi dei propri figli». Nelle pagine di ‘Abd al-Latif si legge che «non era raro sorprendere la gente coi bambini piccoli arrostiti o bolliti» e che lui stesso ne vide uno «arrosti-

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con Jeanne Crain e Vincent Price; dal romanzo Assassinio sul Nilo (1937), di Agatha Christie, sono stati tratti due film omonimi, il secondo dei quali distribuito proprio nelle scorse settimane. Possiamo ancora ricordare Il gioiello del Nilo (1985), film d’avventura con Michael Douglas, e, volendo, il cinepanettone italiano Vacanze sul Nilo (2002), con Christian De Sica e Massimo Boldi.

to in una cesta». I genitori della piccola vittima furono immediatamente condannati al rogo dal governatore e, almeno all’inizio, l’orrore e il raccapriccio per simili episodi furono al centro di tutte le conversazioni della popolazione. Poi, segnala in modo spietato il povero cronista, «la gente si abituò a queste cose e anzi sviluppò quasi una predilezione a cibarsi di quelle pietanze obbrobriose». In tempi di carestia, anche l’Occidente andò incontro ad atti di cannibalismo, ciclicamente segnalati dai cronisti del tempo. Il cronista francese Rodolfo il Glabro (985 circa-1050), a proposito della grande carestia che colpí l’Europa nel 1032-1033, non si discosta dalle parole dello scienziato arabo: «Come se ormai stesse divenendo un fatto abituale il mangiare carni umane, un tale ne portò di cotte per metterle in vendita al mercato di Tournus, quasi si trattasse di comune carne animale. Arrestato, l’uomo non negò quella colpa; fu allora immobilizzato e bruciato sul rogo. La carne venne seppellita; ma un altro la dissotterrò di notte e la mangiò, finendo egli pure bruciato».

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ecologia una catastrofe egiziana Il Cairo

Da accampamento a capitale

Famosa nel mondo per le piramidi di Giza e per le meraviglie del suo Museo Egizio, il Cairo deve la fondazione del suo primo agglomerato urbano all’intraprendente generale ‘Amr ibn al-As. Questi, dopo aver sconfitto l’esercito bizantino che occupava il castello romano di Babilonia, costruí nel 641 un nuovo fortilizio circondato da un fossato (da cui il nome del centro di El-Fustat, che letteralmente significa «accampamento di tende») e che corrisponde all’attuale Cairo Vecchia. Tale insediamento andò incontro a un primo ampliamento intorno all’870, quando il governatore Ahmad ibn Tulun, della dinastia tulunide (886-905), fece costruire, nei pressi, una cittadella attorno alla quale sarebbe sorto il quartiere di

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Katai. Solo con i Fatimidi (969-1171), si intraprese la onerosa iniziativa di costruire una vera e propria città, il cui splendore, almeno secondo il proprio fondatore, rivale della dinastia abbaside, avrebbe cancellato il ricordo della stessa Baghdad. Tra il 969 e il 972, nacque cosí la città di Al-Qahira («la Vittoriosa»), capitale fatimide e sede di corte, per iniziativa di Giawhar, generale del califfo Al-Mu’izz, che vi si trasferí nel 973. Bisogna attendere due secoli e l’arrivo degli Ayyubidi (1172-1250), per vedere riuniti all’interno di un’unica cinta muraria i due nuclei di Al-Qahira e dell’antica El-Fustat: all’ayyubide Saladino, che costellò il Medio Oriente di fortificazioni anche in chiave anticrociata, si deve anche la

costruzione della Cittadella (Qal’at Salah al-Din in arabo), una potente fortezza, eretta tra il 1176 e il 1183 a difesa della grande città, ormai crocevia di scambi e traffici. Il Cairo avrebbe goduto ancora per molti secoli di grande prosperità: tra Due e Trecento i Mamelucchi vi edificarono molti monumenti, abbellendola e dotandola di nuove fortificazioni. In epoca moderna, a partire dal 1517, passò sotto il dominio turco per almeno tre secoli per poi divenire teatro delle operazioni di Napoleone nella famosa Campagna delle Piramidi. Dopo essere stata occupata dagli Inglesi (1882), e dopo gli anni tragici della seconda guerra mondiale, la città, nel 1946, divenne finalmente capitale dello Stato d’Egitto. aprile

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Nella pagina accanto la Cittadella del Cairo, sorta per volere di Saladino fra il 1176 e il 1183, in una foto del 1882 circa.

Nel suo viaggiare, ‘Abd al-Latif registra che in quei mesi la situazione era ovunque parimenti drammatica: per le strade «non ce n’era nessuna in cui i piedi o gli occhi non si imbattessero in un cadavere o in un uomo in preda agli spasmi dell’agonia». La grande arteria che connetteva il Cairo a Damasco «si era trasformata in una sala di banchetti per gli avvoltoi e per le fiere che si ingozzavano della carne dei cadaveri». I genitori vendevano volentieri le figlie come schiave per pochi spiccioli, con la speranza che qualcuno le potesse sfamare, scampandole cosí all’inedia.

Un ritiro misterioso e repentino

Con l’arrivo della primavera dell’anno seguente il Nilo si tinse nuovamente di verde e l’acqua si fece ancora una volta putrida e imbevibile; solo dopo due mesi tornò nuovamente pulita e, verso i primi di giugno, il livello cominciò leggermente a salire, tra le preghiere rivolte ad Allah da parte di quanti erano sfuggiti a quel terribile anno. Ai primi di settembre, il Nilo toccò il suo apice, raggiungendo appena i 15 cubiti e 16 dita, un livello comunque poco lontano da quello, agognato, di 16 cubiti. Ma poi le acque iniziarono misteriosamente a ritirarsi, con una velocità inaudita, al punto che, in alcune zone, l’inondazione non si produsse. Oltre a ciò, molti campi inondati non furono neppure seminati, poiché i proprietari, rovinati dall’annata precedente, non avevano il denaro per farli coltivare o i braccianti in grado di lavorarli. Per l’Egitto degli eredi di Saladino si prospettava un nuovo anno di carestia, peggiore del precedente. «Si videro morire meno poveri – scrive ‘Abd al-Latif – solamente perché erano già stati sterminati quasi tutti dalla fame», e cosí la pratica del cannibalismo si interruppe per la mancanza di cadaveri, piú che per la ripugnanza e l’orrore: «il numero dei poveri che persero la vita per la fame e le privazioni, Allah solo lo conosce». Le cifre della catastrofe sono impressionanti: con occhio scientifico, ‘Abd al-Latif prova a darne una stima, informandoci che, nella sola città di Latif, nel giro di due anni, i tessitori di tappeti passarono da 900 che erano, ad appena 15 e aggiunge che «la stessa identica proporzione era da applicarsi a tutti gli altri mestieri artigianali». Il prezzo degli affitti nelle città egiziane, oramai deserte, crollò drasticamente fino all’85%: «dalle porte spalancate delle case si intravedevano mucchi di cadaveri, alcuni in putrefazione, altri ancora caldi». Le stime ufficiali parlano di 111 000 morti tra il luglio del 1200 e l’aprile del 1202, ma ‘Abd al-Latif scrive che tale numero era «meno di niente rispetto alle moltitudini infinite che persero la vita per la fame, oppure furono divorate, in tutte le città, nelle campagne o per le strade».

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La carestia fu aggravata da focolai di epidemie e pestilenze che scoppiarono ai primi dell’anno 1202, proprio quando iniziava la semina: il numero delle vittime fu incalcolabili e ad Alessandria l’imam locale, la guida religiosa, avrebbe cantato, in un solo giorno, le preghiere funebri per 700 defunti, mentre nel giro di appena un mese un’eredità sarebbe passata rapidamente a quaranta eredi diversi. Le cifre di questi aneddoti sono probabilmente esagerate, ma ci fanno capire la drammaticità del momento e comunque poco si discostano dalle parole del Boccaccio quando, descrivendo le vittime della Peste Nera, afferma: «O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per addietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser vòti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime ereditá, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenarono con li lor passati!». Il Nilo era ai suoi minimi storici: in alcuni punti era possibile guadarlo a piedi e, in febbraio, tornò a colorarsi di verde, seminando il panico tra la popolazione. Infine, all’alba del 20 maggio del 1202, il Medio Oriente fu sconvolto da una violenta scossa di terremoto, con epicentro nel Sud della Siria, che «squassò gli edifici, facendo tremare le porte delle case e incrinando tetti e architravi». Al sisma fece seguito anche uno tsunami, poiché, narra lo storico, «le città portuali furono inondate, le navi scagliate contro la spiaggia e molta gente fu travolta dalle onde». Il terremoto fu l’apice di questa interminabile, tragica fase per l’Egitto. Poi, finalmente, nel giugno del 1202, il Nilo riprese a salire, anche se «il primo mese crebbe di appena quattro dita», prostrando la popolazione e gettandola in «un profondo pessimismo sull’inondazione prevista per quell’anno. La disperazione era generale e la gente pensava che qualcosa di indicibile fosse accaduto alle sorgenti del Nilo». Dopo alcuni tentennamenti che tennero la popolazione col fiato sospeso (dopo essere cresciuto di tre cubiti, per due giorni il livello del Nilo non si sollevò neppure di un dito), «le acque affluirono con grande abbondanza», scrive quasi con sollievo ‘Abd al-Latif, al punto che «aumentarono di volume velocemente e si disse che vere e proprie montagne d’acqua si accavallavano le une sulle altre». Dopo due anni di terribili carestie, pestilenze, terremoti e agghiaccianti scenari apocalittici, il 4 settembre del 1202, il sacro Nilo sfiorava il fatidico limite dell’Acqua del Sultano, i tanto sospirati 16 cubiti, per poi tornare a scemare, giorno dopo giorno lasciando finalmente cariche di limo e fertili le enormi distese delle valli egiziane.

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vivere al tempo del decameron/4 Pagina di un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Le due vignette illustrano la nona novella della seconda giornata: a sinistra, Ambrogiuolo si fa portare dentro una cassa in casa di Bernabò, dove sono sua moglie e una domestica; a destra, il sultano di Babilonia dona molte ricchezze a Bernabò e sua moglie, mentre Ambrogiuolo, per punizione, viene legato nel deserto e lasciato torturare dagli insetti.

Alle donne, nel millennio medievale, era di fatto negata qualsiasi reale autonomia. Eppure, non mancavano figure capaci di rivendicare il proprio ruolo, affidandosi all’ingegno, alla competenza e, se necessario, a una buona dose d’astuzia

Il coraggio di farsi valere

di Corrado Occhipinti Confalonieri

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I

ntorno al 1360, Giovanni Boccaccio scrive in latino il De mulieribus claris, la biografia di 106 figure femminili famose nella storia, in cui incita le donne «a sviluppare la bella intelligenza di cui Dio le ha dotate, il che avverrà purché lo desiderino». In varie novelle del Decameron – scritto in volgare almeno dieci anni prima – il Certaldese aveva già messo in luce l’intelletto delle donne, capaci di affrontare anche da sole le difficoltà della vita, ma anche di schivare con astuzia le situazioni incresciose. Nella nona novella della seconda giornata (Decameron II, 9), Bernabò Lomellin, mercante genovese, scommette con Ambrogiuolo da Piacenza quanto la moglie Ginevra gli sia fedele: «Io sono disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto [in azioni di questo genere, cioè il tradimento] la puoi conducere; e se tu non puoi io non voglio che tu perda altro che 1000 fiorini d’oro». Ambrogiuolo accetta la scommessa e la rilancia a 5000 fiorini: «Io mi voglio obbligare da andare a Genova e infra tre mesi dal dí che io mi partirò di qui [si trovano a Parigi per affari] avere della tua don-

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na fatta mia volontà, e in segno di ciò recarne meco delle sue cose piú care e sí fatti e tanti indizii, che tu medesimo confesserai esser vero». Ambrogiuolo appare molto sicuro di sé: andare e tornare da Parigi a Genova in tre mesi era per l’epoca un lasso di tempo piuttosto breve.

Nudi contro i parassiti

Dopo aver corrotto «una povera femina che molto nella casa usava» dei coniugi Lomellin, Ambrogiuolo si intrufola di notte nella camera da letto della moglie, Ginevra, e «le dipinture e ogni altra cosa notabile che in quella era cominciò raguardare e a fermare nella sua memoria». Quindi «avvicinatosi al letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla che con lei era dormivan forte, pianamente scopertala tutta, vide che cosí era bella ignuda come vestita, ma niuno segnale da potere rapportare le vide, fuori che uno che ella n’avea sotto la sinistra poppa, ciò era un neo dintorno al quale erano alquanti peluzzi biondi come oro». Da questo brano possiamo rilevare, fra l’altro, come nel Medioevo le persone andassero a dormire nude: un modo per liberarsi dei parassiti che infestavano gli abiti.

Ambrogiuolo ruba dalla camera vari oggetti personali di Ginevra e torna a Parigi prima della scadenza pattuita: li mostra al marito della donna e gli descrive la loro camera da letto. Bernabò è scettico, gli dice che poteva aver ottenuto quelle prove da «de’ fanti della casa». Quando però Ambrogiuolo gli rivela il dettaglio del seno, Bernabò cade nella trappola: «parve che gli fosse dato d’un coltello al cuore, si fatto dolore sentí», furibondo paga al calunniatore la scommessa. Tornato nei pressi di Genova, Bernabò ordina a un suo servitore di uccidere la moglie che crede fedifraga: non si pone neppure il dubbio che sia innocente, tanto è accecato dall’orgoglio ferito. Il servitore, però, non ha il coraggio di ammazzare la sua padrona, né sa spiegarsi il motivo di tanta brutalità. Ginevra gli consegna i vestiti come finta prova dell’esecuzione avvenuta, si fa dare un farsetto e un mantello con il cappuccio e giura Fronte di cassone nuziale decorato con la storia di Ginevra, Bernabò e Ambrogiuolo, opera di Giovanni di Francesco Toscani, attivo nei primi decenni del XV sec.

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vivere al tempo del decameron/4

all’uomo che sarebbe fuggita lontano, dove nessuno l’avrebbe piú potuta trovare. La fuggitiva si taglia i capelli, adatta il farsetto, con la camicia realizza brache di tela simili a quelle dei marinai; cosí travestita si imbarca con il nome di Sicurano da Finale su una nave che deve portare alcuni falconi pellegrini al sultano d’Alessandria. Fingendosi uomo, Ginevra conquista la fiducia del sovrano che in breve tempo la fa diventare «uno dei suoi piú grandi uomini». Trascorsi sei anni, Ginevra riceve il compito dal suo padrone di recarsi alla fiera di San Giovanni d’Acri: qui scopre che Ambrogiuolo ha con sé una borsa, gioielli e una cintura che le appartenevano. Sicurano/Ginevra gli chiede dove abbia preso quegli oggetti femminili e Ambrogiuolo si vanta che

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«queste mi donò con alcuna altra cosa una gentile donna di Genova (…) una notte che giacqui con lei e pregommi che per suo amore le tenessi»; le racconta della scommessa vinta con il marito della donna che per il tradimento l’ha fatta uccidere.

Viaggio ad Alessandria

Ginevra capisce «qual fosse la cagione dell’ira di Bernabò verso lei e manifestatamente conobbe costui [Ambrogiuolo] di tutto il suo male essere cagione; e seco pensò di non lasciarglielne impunità [di non lasciarlo impunito di quella malvagia azione]». Si finge amica di Ambrogiuolo e lo porta ad Alessandria, dove «gli fece fare un fondaco [magazzino di merci] e misegli in mano de’ suoi denari assai», poi, con l’aiuto di alcuni importanti mercanti, fa venire in città il marito, che nel frattempo è cadu-

to in disgrazia. «Aveva già Sicurano fatta raccontare ad Ambruogiuolo la novella davanti al soldano e fattone al soldano prender piacere; ma poi che vide quivi Bernabò, pensando che alla bisogna non era da dare indugio [che non conveniva rimandare], preso tempo convenevole [colta l’occasione favorevole], dal soldano impetrò che davanti venir si facesse Ambruogiuolo e Bernabò, e in presenza di Bernabò, se agevolmente far non si potesse, con severità da Ambruogiuolo si traesse il vero [se non si potesse con le buone, con le cattive si sapesse da Ambruogiuolo la verità] come stato fosse quello di che egli della moglie di Bernabò si vantava». Spaventato dalle espressioni accigliate del sultano e di Sicurano, finalmente il calunniatore piacentino rivela la verità. Poi il sultano si rivolge a Bernabò, gli chiede cosa aprile

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Nella pagina accanto vignetta da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La scena si riferisce alla terza novella della quinta giornata e mostra Pietro Boccamazza che viene aggredito nel bosco dai briganti, mentre l’Agnolella riesce a fuggire a cavallo. In questa pagina la rappresentazione della stessa novella in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. A sinistra, l’aggressione subita nel bosco da Pietro Boccamazza e dall’Agnolella; a destra, la coppia si ricongiunge presso il castello dell’Orsini.

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vivere al tempo del decameron/4 A destra la quinta novella della prima giornata in un’altra pagina di un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. A sinistra, la marchesa del Monferrato accoglie il re Filippo il Bornio e il suo seguito; a destra, la nobildonna offre al sovrano un banchetto a base di galline. Nella pagina accanto la scena del banchetto nella versione contenuta in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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abbia fatto alla sua donna: «Io, vinto dall’ira della perdita de’ miei denari e dall’onta della vergogna [dalla vergogna dell’ingiuria] che mi parea avere ricevuta dalla mia donna, la feci a un mio famigliare [servitore] uccidere; e, secondo che egli mi rapportò [riferí], ella fu prestamente divorata da molti lupi». Il sultano accetta la richiesta di Ginevra/Sicurano di punire l’ingannatore e di perdonare l’ingannato che «piú credulo alla altrui falsità che alla verità da lui per lunga esperienza potuta [avrebbe dovuto] conoscere». Poi la donna rivela a tutti la propria identità, strappandosi i vestiti di dosso e mostra cosí di essere Ginevra. Quando il marito la riconosce «a piedi di lei si gittò piangendo e domandò perdonanza, la quale ella, quantunque egli mal degno [indegno] ne fosse, benignamente gli diede, e in piede il fece levare teneramente sí come suo marito abbracciandolo». Il sultano ordina che Ambro-

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giuolo venga legato a un palo e unto di miele: «con sua grandissima angoscia dalle mosche e dalle vespe e da’ tafani, de’ quali quel paese è copioso molto, fu non solamente ucciso ma infino all’ossa divorato: le quali bianche rimase e a’ nervi appiccate, poi lungo tempo senza esser mosse, della sua malvagità fecero a chiunque le vide testimonianza». Il sultano ordina che tutti i beni di Ambrogiuolo, «diecimila dobbre [doble, moneta d’oro moresca e spagnola]», vadano a Ginevra e le regala personalmente altre diecimila dobbre, fra oro, gioielli, vasellame, denaro. Ginevra e Bernabò tornano a Genova, dove «con sommo onore ricevuti furono, e spezialmente madonna Zinevra, la quale da tutti si credeva che morta fosse; e sempre di gran virtú e da molto, mentre [finché] visse, fu reputata». Oltre all’intraprendente coraggio di Ginevra, in questa novella Boccaccio suggerisce agli uomini

di non farsi abbindolare da estranei ma di fidarsi della persona con cui condividono la vita.

Abbandonata nel bosco

Anche Agnolella (V, 3), sebbene sia una fanciulla inesperta, riesce a cavarsela da sola in un mondo dominato dalla brutalità e dalla violenza. La giovane, figlia di un «uomo plebeio ma assai caro a’ romani» e Pietro Boccamazza «di famiglia tralle romane assai onorevole» decidono di fuggire dall’Urbe e raggiungere a cavallo Anagni per coronare il loro sogno d’amore, osteggiato dalla famiglia di Pietro. Nei pressi di Frascati, si perdono nella foresta: Pietro viene catturato dai fanti di una famiglia rivale, ma durante un’imboscata riesce a fuggire, mentre di Agnolella perde le tracce. Nel suo girovagare nella foresta, la ragazza trova una casetta in cui abita un’anziana coppia che le

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vivere al tempo del decameron/4 dice di non poterle offrire protezione dai briganti e dai malfattori che popolano il bosco. Vedendo che ormai è sera, Agnolella risponde sicura: «Se a Dio piacerà, Egli ci guarderà e voi e me di questa noia; la quale se pur m’avenisse, è molto meno male essere dagli uomini straziata che sbranata per i boschi dalle fiere»; smonta da cavallo ed entra in casa. La mattina seguente, Agnolella sente il rumore degli zoccoli di altri cavalli nella corte e si nasconde nel fienile: sono briganti che chiedono all’anziano padrone di casa di chi sia quel «ronzino». L’uomo gli risponde che è senza proprietario: «ci capitò ieri sera, e noi cel mettemmo in casa acciò che i lupi nol manicassero [non lo mangiassero]». Uno dei briganti si avvicina al fienile e «non sappiendo altro che farsi, gittò la sua lancia nel fieno e assai vicino fu a uccidere la nascosa giovane e ella a palesarsi, per ciò che la lancia le venne allato alla sinistra poppa [ovvero vicino al cuore], tanto che col ferro le stracciò de’ vestimenti, laonde la fu per mettere un grande strido temendo d’esser fedita; ma ricordandosi là dove era, tutta riscossasi [reagendo contro lo spavento, a cui, quasi immemore del pericolo, stava per cedere] stette cheta». Dopo aver mangiato e bevuto, la brigata se ne va portando via il cavallo di Agnolella. L’anziana coppia accompagna la ragazza al sicuro in un castello di amici di Pietro; poco tempo dopo viene raggiunta dal suo amato e possono cosí sposarsi. La novella dimostra come nell’età di Mezzo, sebbene venissero custodite fino al matrimonio e sempre accompagnate a ogni uscita di casa, le ragazze fossero in grado di reagire davanti ai pericoli. Agnolella, infatti, si dice pronta a subire violenza pur di avere salva la vita, non si fa prendere dal panico quando nel fienile deve stare in silenzio e mantenere il sangue freddo per non essere scoperta. In una società prepotente e ma-

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schilista come quella medievale, l’astuzia può del resto mettere le donne al riparo da «avances» indesiderate. La marchesa del Monferrato (I, 5), «bellissima e valorosa», è insidiata dal re di Francia, Filippo «il bornio [guercio, dal francese borgne]» che prima di imbarcarsi a Genova per partecipare alla terza crociata (1189/92) vuole passare dal castello dove abita la donna per sedurla in assenza del marito. Ricevuta l’ambasciata che il giorno successivo il re sarebbe passato a pranzo, la marchesa «savia e avveduta, lietamente rispose che questa l’era somma grazia sopra ogn’altra e che gli fosse il ben venuto». La donna «fatte [radunare] senza indugio quante galline nella contrada erano (…) di quelle sole varie vivande divisò [ordinò] a’ suoi cuochi per lo convito reale». Il giorno del banchetto, il re e la marchesa si siedono a un tavolo e gli altri invitati «secondo le loro qualità [secondo il loro rango] ad altre mense furono onorati». Filippo «con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere avea»; viene servito di «molti vini preziosi», ma si accorge che tutte le portate sono composte da carne di gallina. Il re allora si rivolge alla marchesa e le chiede: «Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno?». La marchesa pronta gli risponde: «Monsignor no, ma le femmine, quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall’altre variino, tutte per ciò [tuttavia] son fatte qui come altrove». Il re comprende il perché di quello strano convito e la «vertú nascosa nelle parole» della marchesa e cosí «come disavedutamente acceso s’era di lei, saviamente s’era da spegnere per onor di lui il male concetto fuoco».

Fiorini fasulli

A Firenze, un’altra donna perbene viene insediata da un uomo di alto rango (VI, 3). Il prestante Diego della Ratta ha già posseduto la moglie di un tizio «avarissimo e

La nona novella della terza giornata in una edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. A sinistra, Giletta, in cambio di una cura per il re, chiede in sposo Beltramo di Rossiglione; a destra, la donna presenta a Beltramo i suoi due figli nel corso di un banchetto.

cattivo», dandogli cinquecento fiorini d’oro affinché «una notte con la moglie il lasciasse giacere». In realtà, i soldi non erano altro che «popolini d’ariento [moneta d’argento del valore di due soldi]» dorati, ma il marito sta zitto per non aggiungere al danno la beffa. Nel giorno della festa di San Giovanni, quando Diego nota tra la folla Nonna [diminutivo di Madonna] de’ Pulci «fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore», le fa chiedere dal vescovo: «Nonna, che ti par di costui? credestil vincere [vorresti aggiudicartelo]?». La donna non intende passare sopra la proposta indecente e risponde in moaprile

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do che tutti i presenti la sentano: «Messere, e’ forse non vincerebbe me; ma vorrei buona moneta [moneta autentica, non falsata]». I due uomini – notare che uno dei due è il vescovo! – se ne vanno con la coda fra le gambe: «essendo la giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui motteggiando». Nel Decameron, in ogni caso, le donne non si difendono dagli uomini solo con l’astuzia: riescono anche a farsi amare grazie alla loro determinazione. Giletta di Narbona (III, 9) è la figlia di un valente medico, dal quale ha appreso i segreti del mestiere. Da sempre la fanciulla è innamorata di Beltramo

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da Rossiglione «bellissimo e piacevole», che però non la nota.

Una «medica» provetta

Il giovane rimane orfano, viene affidato al re di Francia e parte per Parigi. La giovane è disperata, rifiuta qualsiasi marito che le viene proposto, vuole solo Beltramo. Tempo dopo, la «medica» viene a sapere «come al re di Francia, per una nascenza [tumore] che avuta avea nel petto ed era male stata curata, gli era rimasa una fistola la quale di grandissima noia e di grandissima angoscia gli era, né s’era ancor potuto trovare medico, come che molti se ne fossero espermentati, che di ciò l’avesse potuto guarire ma tutti

l’avean peggiorato: per la qualcosa il re disperatosene, piú d’alcun non volea né consiglio né aiuto». Giletta coglie la palla al balzo, parte per Parigi, incontra il re e gli garantisce che lo guarirà in soli otto giorni. All’inizio il sovrano è diffidente, pensa che quella fanciulla «bella, giovane e avvenente» non sia in grado di riuscire là dove valenti medici hanno fallito. Poi acconsente e Giletta riesce a guarirlo nei tempi prestabiliti. La storia è dunque la prova di come nel Medioevo vi fossero giovani donne che praticavano con successo la medicina, anche se, per dimostrare le loro capacità, si dovevano dimostrare piú competenti

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vivere al tempo del decameron/4 dei colleghi uomini (come spesso succede ancora oggi...). Il re è al settimo cielo e chiede a Giletta che cosa voglia in cambio. Al che la ragazza gli confessa di essere innamorata di Beltramo e che vorrebbe sposarlo. Il sovrano convoca il suo protetto, che però si mostra scettico di fronte alla proposta, perché «quantunque molto bella gli paresse» ritiene Giletta di un rango troppo inferiore. Il re insiste e le nozze vengono celebrate, ma, prima di consumare il matrimonio, Beltramo parte per Firenze, mentre la sua sposa se ne va sconsolata a Rossiglione. Qui «trovando ella, per lo lungo tempo che senza Conte stato v’era, ogni cosa guasta e scapestrata [trovando ella quivi ogni cosa in rovina e in disordine], siccome savia donna con gran diligenza e sollecitudine ogni cosa rimise in ordine; di che i subgetti si contentaron molto [furono molto contenti] e lei ebbero molto cara e poserle grande amore, forte biasi-

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mando il conte di ciò che [perché] egli di lei non si contentava». Dopo aver sistemato la sua contea, Giletta invia a Beltramo due cavalieri con un messaggio: è disposta ad andarsene se il motivo del suo mancato ritorno è la sua presenza. La risposta del marito è lapidaria: «Di questo faccia ella il piacere suo; io per me vi tornerò allora a esser con lei che ella questo anello avrà in dito e in braccio figliuolo di me acquistato». Giletta non si perde d’animo e decide di partire vestita da pellegrina per Firenze con un cugino e una cameriera. Qui viene a sapere che Beltramo si è invaghito di una ragazza molto povera che vive ancora con la madre perché priva di dote.

Il piano di Giletta

Giletta decide di mettere in atto un piano: dice alla madre della ragazza che provvederà lei alla dote, ma: «bisogna che voi (…) facciate al Conte mio marito dire che vostra figliuola sia

Nella pagina accanto la settima novella della quarta giornata in un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. A sinistra, Simona piange sul corpo di Pasquino, avvelenato dalla salvia; a destra, per dimostrare la propria innocenza, la giovane muore anch’essa avvelenata di fronte al giudice. In basso il banchetto durante il quale Giletta presenta a Beltramo i suoi due figli (vedi alle pp. 44/45) nel Decameron illustrato da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

presta a fare ogni suo piacere, dove ella possa esser certa che egli cosí l’ami come dimostra; il che ella non crederà mai se egli non le manda l’anello il quale egli porta in mano e che ella ha udito che egli ama cotanto: il quale se egli vi manda, voi mi donerete. E appresso mi manderete a dire vostra figliuola essere apparecchiata di fare il piacere suo, e qui il farete occultamente venire e na-

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scostamente me in iscambio di vostra figliuola gli metterete allato. Forse mi farà Idio grazia di ingravidare: e cosí appresso, avendo il suo anello indito e il figliolo in braccio da lui generato, io il racquisterò e con lui dimorerò come moglie dee dimorare con marito». La strategia di Giletta funziona e, dopo diversi rapporti sessuali in incognito col marito, rimane incinta. Trascorso qualche mese, Beltramo viene a sapere che la moglie se ne è andata dalla contea e decide di tornare nelle sue terre. Dopo aver partorito due gemelli «maschi simigliantissimi al padre loro», Giletta torna anche lei a Rossiglione: prima di un banchetto, davanti agli invitati, mostra al marito l’anello, i due gemelli e gli racconta la verità. Beltramo «conoscendo lei dire il vero e veggendo la sua perseveranza e il suo senno e appresso [e per di piú] due cosí be’ figlioletti e per servar quello che promesso avea e per compiacere a tutti i suoi uomini e alle donne, che tutti pregavano che lei

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come sua legittima sposa dovesse ormai raccogliere e onorare, pose giú la sua obstinata gravezza [depose la sua ostinata severità, rigidezza] e lei abbracciò e basciò e per sua legittima moglie riconobbe, e quegli per i suoi figlioli (…) e da quel dí innanzi lei sempre come sua sposa e moglie onorando l’amò e sommamente ebbe cara».

L’incontro nel giardino

Ma non tutte le storie d’amore di donne forti sono a lieto fine come quella di Giletta. A Firenze, Simona (IV, 7) è economicamente autonoma, perché si guadagna da vivere filando a casa la lana. Nonostante la sua umile condizione «non fu per ciò di sí povero animo che ella non ardisse a ricevere [di ricevere] amore nella sua mente, il quale con gli atti e con le parole piacevoli d’un giovinetto di non maggior peso [condizione sociale] di lei che dando andava per un suo maestro lanaiuolo lana a filare, buona pezza mostrato aveva di volervi entrare». Pasquino

le propone di vedersi la domenica successiva al giardino di San Gallo, la ragazza accetta e con l’amica Lagina si reca all’appuntamento. Anche Pasquino è in compagnia di un amico chiamato Stramba e «fatto uno amorazzo nuovo tra lo Stramba e la Lagina, essi a far de’ loro piaceri in una parte del giardin si raccolsero [si ritirarono], e lo Stramba e la Lagina lasciarono in un’altra». Pasquino mostra a Simona come fa a tenere pulita la bocca, strappa da un grosso cespuglio di salvia una foglia e se la strofina sui denti e sulle gengive. Improvvisamente il ragazzo «si incominciò tutto nel viso a cambiare, e appresso il cambiamento non stette guari che gli perdé la vista e la parola e in breve egli si morí». Simona piange, grida disperata, accorrono lo Stramba e la Lagina. Vedendo l’amico morto «già tutto enfiato e pieno di oscure macchie per lo viso e per lo corpo divenuto», lo Stramba accusa Simona di aver avvelenato l’amico.

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Due momenti della terza novella della sesta giornata, che ha fra i suoi protagonisti Nonna de’ Pulci e messer Diego Della Ratta, in un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

Simona viene condotta davanti al giudice che «non potendo comprendere [non potendo persuadersi] costei in questa cosa avere operata malizia [aver commesso un reato] né esser colpevole, volle, lei presente, vedere il morto corpo è il luogo e ’l modo da lei raccontatogli [e come si era svolto il fatto secondo il suo racconto]». Per far capire al giudice cosa fosse successo, Simona prende una foglia dal cespuglio e se la sfrega sui denti, mentre lo Stramba e altri compagni la scherniscono e la accusano di «malvagità». La ragazza «dal dolore del perduto amante e dalla paura della dimandata pena dallo Stramba

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ristretta stava [stava confusa] e per l’aversi la salvia fregata a’ denti, in quel medesimo accidente cadde che [in cui] prima caduto era Pasquino, non senza gran meraviglia di quanti eran presenti». Probabilmente Pasquino aveva confuso l’innocua salvia con una pianta velenosa.

La viltà degli amici

Simona è una ragazza sola che affronta con coraggio il suo destino: per dimostrare la sua buona fede compie gli stessi gesti di Pasquino senza pensare che potrebbe fare la sua stessa fine. Emilia, la narratrice della novella, condanna fermamente l’atteggiamento degli infami compagni di Pasquino «piú vili uomini»: nessuno di loro prende le difese di Simona che non aveva alcun motivo per uccidere il suo amato. Con queste novelle Boccaccio dimostra come donne intelligenti e coraggiose siano presenti in ogni

classe sociale: Ginevra, moglie di un mercante; Agnolella, figlia di un popolano; la marchesa di Saluzzo, nobildonna terriera; Nonna de’ Pulci appartenente alla alta società cittadina; Giletta medico-amministratrice e Simona operaia. Lo scrittore punta il dito contro gli uomini, li mostra violenti, orgogliosi, iracondi, testardi: sembrano racchiudere la summa di tutti i peccati; alcuni, però, sono anche capaci di ammettere gli errori commessi. Per amore, tuttavia, le donne dimenticano il loro valore e sono pronte a sottomettersi: Ginevra perdona Bernabò che pure voleva ucciderla; Giletta deve dimostrare con grande impegno e fatica di essere degna di Beltramo. Errori che, purtroppo, molte donne commettono ancora oggi.

NEL PROSSIMO NUMERO ● I nobili nel Decameron aprile

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oltre lo sguardo/13

Tutto l’universo in una sfera di Furio Cappelli

Una mela tenuta come per caso tra le mani del Bambino Gesú, un globo munito di una croce, esibito con ostentazione dall’imperatore Federico II: cosa accomuna questi due simboli, in apparenza simili eppure diversi? E cosa c’entra, in tutto ciò, la struttura naturale di cui si compone… un uovo?

Q Q

uando osserviamo tante immagini di Gesú Bambino sulle ginocchia o in braccio a Maria Vergine, diamo per scontato che l’oggetto sferico che reca in mano sia una mela. Effettivamente un pittore del primo Rinascimento come il veneziano Carlo Crivelli (1435 circa-1495 circa) – autore di una soave schiera di Madonne col Bambino su tavola –, non lascia spazio a dubbi di sorta. Quella che reca in mano Gesú è proprio una mela. Sappiamo anche il significato di quel frutto: si riferisce al pomo della discordia che fu colto da Eva nel giardino dell’Eden e Gesú lo esibisce proprio perché il suo sacrificio sulla croce è valso a cancellare l’onta del peccato originale. Ma se il legame simbolico e «scenico» tra Gesú Bambino e la mela si evidenziò con forza a partire dal Basso Medioevo, un viaggio retrospettivo ci riserva molte sorprese. Osservando un’ampia schiera di Madonne piú antiche, soprattutto nella piena età romanica, ci accorgiamo infatti che il Bambino esibisce un attributo di forma analoga, ma di tutt’altro genere: il globo del potere universale. Per comprenderne la presenza, occorre prima di tutto evidenziare quelle composizioni dove la Madre di Dio non solo si astrae da ogni possibile senso di intima dolcezza, ma esibisce una solenne e imperiosa fissità.

L’adattamento di un modello profano

Il nostro percorso parte dal Foro Romano, dall’ex chiesa di S. Maria Antiqua, di recente riaperta al pubblico (vedi «Medioevo» n. 262, novembre 2018; anche on line su issuu.com). La cappella originaria accolse un affresco con la Madonna regina intenta a sorreggere il Bambino (vedi foto a p. 54), con due Angeli al fianco nell’atto di rendere omaggio alla Vergine

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con il dono di una corona aurea. La rappresentazione si ricollega cosí al tema classico dell’aurum coronarium, ossia l’offerta di una corona aurea ai conquistatori, con un plateale adattamento in ambito sacro di un cerimoniale di tutt’altro genere, piú facile da immaginare in una corte imperiale. È il primo strato evidente nella cosiddetta «parete palinsesto» della chiesa romana (denominazione attribuita a una porzione delle pitture situate alla destra dell’abside, nella quale sono state riconosciute ben nove diverse fasi, comprese fra il V-VI e il IX secolo, prima delle quali va inoltre considerato uno strato originario, costituito dai residui di una decorazione in opus sectile di epoca tardo-antica, n.d.r.), e ci troviamo senza appigli precisi nella prima metà del VI secolo, con l’incognita sulla committenza e sulla matrice dell’opera: teodoriciana o giustinianea, romana o bizantina? Di sicuro è un’immagine che cattura in modo quasi ipnotico lo sguardo dello spettatore. Il volto della Vergine è rigidamente frontale e i suoi grandi occhi sprigionano un senso di altera maestà. La corona e Madonna col Bambino, particolare del Polittico di Sant’Emidio (o di Ascoli Piceno), tempera e oro su tavola di Carlo Crivelli. 1473. Ascoli Piceno, cattedrale di S. Emidio. Si noti il particolare del Figlio di Dio che tiene una mela fra le mani.

«Io sono la Luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni, 8:12) aprile

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oltre lo sguardo/13 legami gioiosi

«Mangia, pupetto, mangia con me» A partire dal XIII secolo, le innumerevoli immagini della Madonna col Bambino furono espresse in modo sempre piú intimistico, dolce e colloquiale, ed erano fonte di commozione, al di là del soggetto raffigurato, proprio come vivide esaltazioni dell’amore materno. Come ricorda Chiara Frugoni, san Francesco d’Assisi rimase particolarmente colpito da una Madonna del latte, dove la Vergine (a rigore, sprovvista di latte materno), nutrendo Gesú al proprio seno, diviene l’immagine piú compiuta del legame tutto terreno tra madre e figlio. Poteva d’altro canto accadere che un bambino offrisse la propria mela al piccolo Gesú, vedendolo raffigurato in una chiesa, dicendogli: «Mangia, pupetto, mangia con me», come racconta una miniatura del XV secolo. Se questo aneddoto non riguarda un personaggio specifico, c’è il caso di san Hermann di Steinfield (morto nel periodo 1230-1241), entrato nell’ordine dei Premonstratensi. Egli si uní in matrimonio spirituale alla Vergine e già durante la sua infanzia, vissuta a Colonia, il legame si era stabilito con forza, tanto che all’età di sette anni, di fronte a una sua apparizione o a una sua statua, regalò a Maria una mela ed ebbe modo di giocare con Gesú. L’iconografia mariana svolge naturalmente un ruolo importante nell’ispirare questo racconto, proprio perché le immagini sacre rafforzano sempre piú il senso intimo e gioioso del legame tra madre e figlio, e la stessa mela, attributo di Gesú in riferimento al peccato originale, può cosí diventare un «oggetto di scena» per un atto di omaggio.

Affresco della Vergine tradizionalmente indicata come Maria Regina nella chiesa di S. Maria Antiqua, a Roma. Prima metà del VI sec.

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Madonna della Clemenza, dipinto su tavola. 702-707. Roma, basilica di S. Maria in Trastevere.

il manto spiccano grazie agli enormi castoni bianchi che alludono a pietre preziose, con un effetto analogo alla magnetica e scintillante visione di Teodora nella basilica di S. Vitale a Ravenna. È poi interessante notare che questa visione della Madonna come basilissa (imperatrice bizantina) conoscerà una fortuna tutta particolare in Italia, trovando invece uno scarso seguito proprio nel mondo bizantino. Sempre a Roma, l’icona di S. Maria in Trastevere (702-707) è forse il piú antico esempio superstite di pittura su tavola con Maria Regina fastosamente abbigliata e incoronata, ritratta in posizione frontale con il Bambino seduto sulle ginocchia, anch’egli rivolto direttamente all’osservatore (vedi foto in questa pagina). Si parla in questo caso di Madonna Nikopoiòs o Nikopeia («Colei che mostra la vittoria»), intendendo una vittoria sui nemici di ogni tipo: può trattarsi di truppe che assediano la città, ma, piú in generale, la Madonna fortifica i fedeli contro gli assalti del peccato e dell’eresia. In questo genere di rappresentazione non è necessariamente incoronata, ma nella sua rigorosa frontalità assume perfettamente il senso di una esibizione trionfale del Figlio, che campeggia sulle ginocchia della Madre come se fosse seduto su un trono. Si intende

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quindi evocare Gesú come «un sovrano nell’esercizio del suo potere», il cui gesto di benedizione si riconnette all’iconografia imperiale. D’altronde la tenerezza della Madre, qualora veniva ad attutire il tono maestoso dell’insieme, era in origine tutta tesa a ottenere il favore del Figlio nei riguardi del genere umano, in qualità di advocata (protettrice), per la salvezza dei fedeli. Proprio perché sorregge il Figlio, la Vergine è anche sede della sapienza del Padre Eterno. Di qui nasce il titolo di Maestà e di Sedes Sapientiae, che spesso è riservato a queste raffigurazioni nel Basso Medioevo italiano. L’iconografia della Sedes Sapientiae o della Maiestas Sanctae Mariae gode di un particolare sviluppo nella scultura lignea romanica d’Oltralpe, confluendo poi nella scultura monumentale delle cattedrali gotiche, cosí come nei «nuovi» orientamenti della pittura su tavola e della scultura del Due-Trecento italiano.

Maria benedicente

Ma il piú antico esemplare superstite di Madonna Sedes Sapientiae è la Goldene Madonna del Museo Diocesano di Essen (vedi foto a p. 58), un gruppo ligneo rivestito in lamina d’oro databile intorno al 980, dove la Vergine

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oltre lo sguardo/13 Nella statuaria gotica

La nuova Eva Il tema di Maria come «nuova Eva» assume un rilievo particolare nella statuaria gotica, insieme alla sempre piú diffusa iconografia della mela come attributo della stessa Vergine, del Bambino o di entrambi. A Notre-Dame di Parigi la porta nord della facciata (la Porta dell’Incoronazione della Vergine; 1210-1215) presenta il gruppo mariano nel trumeau (pilastro centrale), in posa stante: Maria A sinistra statua della Vergine della porta nord della facciata di Notre-Dame a Parigi. In basso, si nota la scena del Peccato originale. 1210-1215, con rifacimenti e integrazioni del XIX sec. A destra Madonna in trono col Bambino di Castelli, scultura in legno policromo. 1180-1210 circa. L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo (MUNDA).

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incoronata regge il Bambino che esibisce il libro delle Scritture. Sotto di lei si svolge il racconto del Peccato originale, mentre al di sopra si delinea la rappresentazione dell’Arca dell’alleanza, in riferimento alla sua assunzione in cielo. Sul prototipo della Vergine della porta del transetto nord della cattedrale parigina (1250 circa) si basa poi, intorno al 1260, la Vergine in avorio della SainteChapelle, oggi conservata al Louvre, dove la Madonna condivide il pomo con un Bambino sorridente. Sulla scia di questa scultura Giovanni Pisano realizza la sua Vergine in avorio della cattedrale di Pisa, oggi nel Museo dell’Opera del Duomo (1298-99),

dove il solo Bambino esibisce fieramente la sfera. L’attributo è per giunta arricchito da una croce-vessillo, forse però estranea all’assetto originale. Gli echi del Portale dei Re di Chartres (1145-55 circa), d’altra parte, erano giunti già in precedenza sino in Abruzzo. La Madonna in trono col Bambino di Castelli, splendida opera lignea databile al 11801210 circa (oggi al MUNDA, Museo Nazionale d’Abruzzo de L’Aquila), ricrea il gruppo scultoreo della porta sud della cattedrale francese. Il pomo non è esibito ma si intravede appena, racchiuso nella mano destra della Vergine.

in posa benedicente sfoggia tra pollice, medio e anulare della mano sinistra un globo rivestito di castoni, come se fosse un oggetto di oreficeria. Incoronato da un diadema, il Bambino è adagiato su di lei in vesti di sacerdote, e regge con la mano destra una Bibbia, che sfoggia una coperta istoriata ricca anch’essa di castoni. Allude a una preziosa rilegatura, tipica dei codici pergamenacei dell’epoca. Come definire la sfera impugnata dalla Vergine in una simile opera? L’elemento sferico viene in genere interpretato come una mela, in riferimento al peccato originale. Il pomo edenico è al tempo stesso un frutto del paradiso e un simbolo di redenzione: se a impugnarlo è Maria (come sarebbe in questo caso), si afferma la sua qualifica di «nuova Eva» cara alla teologia medievale (vedi box in queste pagine); se a impugnarlo è Gesú, come si vede in altri casi, è ancor piú immediato il rapporto tra il sacrificio che l’attende e la salvezza dei credenti: egli è infatti il frutto della grazia e l’antidoto del peccato originale, il «nuovo Adamo». In realtà, però, il caso di Essen rivela una sottile e appassionante complessità: il tema iconografico del globo rimanda anche alla simbologia della sovranità imperiale, dal momento che, come raffigurazione del mondo, è un antico attributo del principe nell’esercizio della sua autorità universale. L’utilizzo del globo (il piú delle volte crucisignato) è anche riscontrabile nell’iconografia di san Michele Arcangelo, soprattutto in area bizantina, dove i due attributi dell’asta o della spada e del globo stesso alludono alla sua qualifica di soldato e di comandante (archistratega) delle milizie celesti. Il riferimento alla mela dei progenitori sembra

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Madonna col Bambino, gruppo in avorio, dalla Sainte-Chapelle di Parigi. 1260 circa. Parigi, Museo del Louvre.

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oltre lo sguardo/13 aver preso il sopravvento solo in seconda battuta, e in molti casi, come nella Madonna di Essen, non è chiaramente riconoscibile. In tanti altri esemplari, d’altronde, il dubbio sull’identità dell’attributo non è sciolto, poiché la sfera può essere sia un globo che una mela. Può essere esibita dalla Vergine, dal Bambino o da entrambi. Si può ridurre anche a un semplice disco. Di sicuro, come ha osservato lo storico dell’arte Ferdinando Bologna (19252019), anche quando la sfera finisce per essere trattata alla stregua di «un gentile motivo di giuoco» che lega affettuosamente le due figure, resta fondamentalmente «un attributo esclusivo di Cristo» di cui la Madonna è solo compartecipe.

Come una tutrice

Nel caso «imperiale» di Essen, la Vergine sembra agire come una tutrice. Esercita cioè un’autorità facendo le veci del Figlio non ancora adulto. Si è cosí potuta avanzare l’ipotesi che a volere quell’opera fosse l’imperatrice reggente Teofano (983-991), in allusione al ruolo di tutrice che svolgeva nei riguardi del sovrano Ottone III. In tal senso, la sfera andrebbe cosí Goldene Madonna, gruppo ligneo rivestito in lamina d’oro. 980 circa. Essen, Museo Diocesano.

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interpretata come globo del potere universale, perfettamente in tono con l’apparato regale della scultura. Facciamo a questo punto un salto avanti nel tempo, in pieno Duecento. Un sorprendente esempio di Madonna col Bambino in cui la sfera è senza dubbio un’immagine del mondo è la tavola d’altare proveniente da Cossito (Amatrice; vedi foto alla pagina seguente). Messa in salvo dopo il terremoto del 2016, è oggi conservata a Cittaducale (Rieti). All’apice dell’opera, una solenne iscrizione, dipinta in forma abbreviata entro due medaglioni simmetrici, recita «Madre di Dio», per metà in latino, per metà in greco. Non si tratta di una semplice didascalia, poiché non solo identifica la Vergine, ma ne autentica le fattezze, che risultano cosí esemplate sulla vera immagine della Madre di Dio, sulla scorta di una remota e indiscussa tradizione. I clipei o medaglioni monogrammati, con le scritte rosse su fondo giallo, si riscontrano in diverse combinazioni nelle icone su tavola, sia in Oriente che in Occidente. Il giallo del fondo, che suggerisce la presenza dell’oro, invita in particolare a un parallelo con i fondi monocromi dei mosaici o con le coperture istoriate in metallo prezioso che arricchivano talvolta le stesse icone. La collocazione simmetrica dei clipei di Cossito rientra perfettamente all’interno di uno schema complessivo, esprimendo in una forma lucida e trionfale l’immagine della croce, dove l’asse verticale è disegnato dai volti rigidamente frontali delle due figure: ai medaglioni che segnano l’asse orizzontale, corrispondono le aureole che incorniciano i due volti. Una crocetta sormonta sul suo manto il volto di Maria, l’aureola Madonna in trono con Bambino, anta centrale di tabernacolo, da S. Maria a Cossito. XIII sec. Cittaducale, Scuola Forestale dei Carabinieri.

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del Bambino iscrive la croce, ed è la figura stessa del Figlio con la postura simmetrica delle braccia che richiama ancora una volta lo strumento del supplizio. È un Bambino vestito di camiciola, tunica e manto che benedice solennemente, al modo del Cristo adulto e Pantocràtore (giudice), che vince, regna e impera, parafrasando un inno del XII secolo. Di umano ha solo l’aura di una regalità solenne. Il manto gli fascia la vita e ricade dalla spalla sinistra come in una figura togata del mondo antico, e in luogo delle consuete Scritture esibisce con la sinistra, sulla punta delle dita, il globo del potere universale (che si associa alla «costellazione» dei nimbi e dei medaglioni iscritti). Le vesti trapuntate di stelle (il manto di Maria, la tunica del Bambino), la frontalità della Vergine e la posizione centrale del Bambino, alludono al cosmo e all’asse del mondo, suggerendo l’omologia tra la croce e l’albero cosmico. Maria è il centro della terra, come dice san Bernardo di Chiaravalle, ed è anche la «sposa di Cristo» come immagine della Chiesa, sottomessa al Figlio che è emanazione di Dio. Il globo del Bambino è reso volumetricamente grazie a una delicata ombreggiatura, che ne accentua la presenza «oggettuale». La forma lievemente schiacciata sembra persino alludere a un uovo, che è un’immagine dell’Universo, secondo il teologo Guglielmo di Conches (1080 circa-1154 circa): la Terra sta nel mezzo come il tuorlo. Il colore giallooro che lo connota, in ossequio alla lettura cosmologica della composizione, può alludere a Cristo come sole della salvezza (sol salutis) e sole mai sconfitto (sol invictus), proprio perché l’oro rimanda proverbialmente all’astro lucente, alla sua potenza e al suo splendore. D’altronde, un inno liturgico del XII secolo raffigura Cristo come «il sole che non conosce tramonto», e Maria lo genera «come la stella il raggio». La caratterizzazione del Bambino con il globo in

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oltre lo sguardo/13 federico ii

Come un antico imperatore Risale al XIII secolo la versione superstite della celebre mappa nota come Tabula Peutingeriana, la cui redazione originale sembra essere di epoca tardo-antica. Roma è personificata da un imperatore di stampo teocratico che si fregia di globo, scettro, corona e scudo. Costantinopoli è personificata da una figura dotata di lancia e scudo che indica la colonna di porfido del Foro, su cui campeggia la statua di Costantino-Helios. La redazione medievale della Tabula – eseguita in uno scriptorium presumibilmente monastico d’Oltralpe –, poteva avere forti implicazioni ideologiche, legate a precise contingenze storiche, con particolare riferimento a Federico II di Svevia (1220-50), e alla sua ricerca di una legittimazione autocratica in forte contrasto con il papato. Il ritratto che egli fece eseguire di sé per la Porta di Capua (1234) ci è giunto in stato frammentario, ma non è difficile immaginare che la sua figura in trono impugnasse il globo e lo scettro. L’adesione dell’iconografia federiciana a questo modello è in ogni caso evidente nelle immagini impresse sui sigilli in cera che pendevano dalle sue bolle imperiali, e si riscontra nel giovane monarca troneggiante dell’Exultet di Salerno (1220 circa), con tutta probabilità identificabile con Federico in persona (vedi foto alla pagina accanto). In questo caso, in un codice di uso liturgico, si assiste a una rilettura in chiave laica delle icone sacre, con un adattamento di taluni modi impiegati proprio nella raffigurazione di Gesú. mano si situa sul filo delle effigi imperiali che alludono alla sacralità del sovrano. Quando Costantino procede alla costruzione della città che da lui prenderà nome nel luogo della vecchia Bisanzio – a seguito della vittoria definitiva su Licinio a Crisopoli (324) –, fa erigere una statua che lo rappresenta in veste di Helios-Sole, a sormontare la colonna di porfido che campeggia al centro del nuovo Foro. Era raffigurato nell’atto di tenere con la destra il globo sormontato dalla Vittoria alata, desunta dalla simbologia antica dell’Urbe.

Corse in onore del Sole

La scelta di una simbologia solare nella glorificazione e nella rappresentazione dell’imperatore si estendeva anche ai rituali che si svolgevano nell’ippodromo, con le corse in onore dell’astro lucente. Una tradizione riconduceva al fondatore di Roma l’istituzione di questi rituali, e il nuovo Romolo, ossia Costantino fondatore della Roma sul Bosforo, poteva cosí asserire i legami

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A sinistra la testa e il globo della statua colossale bronzea di Costantino eretta a Roma fra il 330 e il 340. Roma, Musei Capitolini. I frammenti dell’opera erano in origine conservati in Laterano e fanno parte della donazione di papa Sisto IV (1471) che costituí il primo nucleo della prestigiosa raccolta romana.

con le origini dell’Urbe. Dopo la statua eretta al Foro di Costantinopoli, tra il 330 e il 340 Costantino venne onorato a Roma dalla sua statua di bronzo in forma colossale (talvolta riferita al figlio Costanzo II) di cui rimangono i frammenti (la testa, la mano sinistra, il globo) oggi esposti nei Musei Capitolini, e già conservati al Laterano, laddove nel Medioevo stavano a testimoniare la favolosa statua del dio Sole che sorgeva presso il rispettivo tempio. A partire da Costantino il concetto teocratico della figura del principe dà luogo a una lunga tradizione di ritratti improntati dalla stessa maestà. Nelle loro monete,Valentiniano I e Valente (364-375) vengono aprile

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garantire leggibilità

Riproduzione a stampa di una sezione dell’Exultet di Salerno raffigurante un giovane re, verosimilmente identificabile con Federico II di Svevia. L’opera originale, databile intorno al 1220 e conservata nel Museo Diocesano di Salerno, consiste in un rotolo figurato, realizzato su commissione del nobile salernitano Giovanni da Procida.

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Da leggere André Grabar, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, Jaca Book, Milano 1983 Marie Madeleine Davy, Il simbolismo medievale, Edizioni Mediterranee, Roma 1988 Piotr Skubiszewski, Cristo, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1994, anche on line su treccani.it

Nella pagina accanto l’immagine di Ottone III in una pagina dei Vangeli che portano il nome dell’imperatore. Fine del X sec. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. A destra riproduzione a stampa di una miniatura dei Vangeli di Liuthar raffigurante Ottone III che riceve la corona dalla mano di Dio. L’opera originale, databile intorno al 990, si conserva ad Aquisgrana nel Tesoro della cattedrale.

rappresentati seduti in trono con una posa frontale e uno sguardo immoto a stringere il globo, sormontato dalla vittoria a mezzobusto. Si giunge cosí al ritratto marmoreo di Carlo I d’Angiò dei Musei Capitolini, realizzato presumibilmente da Arnolfo di Cambio nel 1275-1277, seduto in trono a impugnare il globo come Costantino nella sua statua colossale (vedi «Medioevo» n. 152, settembre 2009). Le mani attuali, sprovviste dell’attributo, sono frutto di un restauro del tardo Quattrocento. Effigi cosí concepite vantano una tradizione prettamente laica a cui lo stesso Federico II poteva facilmente connettersi (vedi box a p. 60), nel consapevole recupero di alcuni motivi fondanti del Sacro Romano Impero degli Ottoni, sulla scorta della loro tipica «teologia politica», con la visione del sovrano come rex et sacerdos, sul modello del Davide dell’Antico Testamento. Già all’epoca di Ottone I (962-973) i sigilli presentavano effigi imperiali con il monarca in trono impugnante lo scettro e il globo crucisignato. Nei Vangeli di Ottone III (fine del X secolo) oggi al-

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la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, vediamo l’imperatore in trono con lo scettro e il globo crucisignato, con i dignitari religiosi e laici ai suoi fianchi, mentre nella pagina a fronte si assiste al corteo delle province dell’impero, che si recano a rendere omaggio al sovrano. Nei Vangeli di Liuthar (Aquisgrana, 990 circa) e nei Vangeli di Montecassino (1022 circa) si giunge a una rivisitazione di schemi iconologici religiosi ai fini della ideologia ottoniana: in un caso, Ottone III (983-1002), racchiuso nella mandorla, si sostituisce alla maestà del Salvatore; nell’altro, il successore Enrico II (1014-24) campeggia all’inizio del quarto Vangelo, sostituendosi alla consueta immagine di san Giovanni. Con gli imperatori della dinastia salica si interrompe questa sequenza di immagini «teocratiche», ma proprio la contaminazione compiuta dagli Ottoni tra iconografia religiosa e laica portò all’adozione del globo del potere da parte del Cristo.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Esaú e Giacobbe, storia di due fratelli

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Bisanzio

L’ IMPERO SUL BOSFORO di Marco Di Branco

Nel maggio del 330 d.C. Costantino, l’imperatore «cristiano», inaugura la sua capitale, una città grandiosa che porta il suo nome, voluta come una seconda Roma, sulle rive del Bosforo. Oltre dieci secoli piú tardi, nel 1453, è ancora il mese di maggio a segnare il destino di quella splendida metropoli: Maometto II espugna Costantinopoli e pone fine alla sua gloriosa parabola. Gli studiosi hanno chiamato «bizantino» il millennio che separa i due eventi e in quei dieci secoli si sono succeduti episodi che hanno segnato momenti cruciali della storia universale, e l’impero d’Oriente, oltre ad affermarsi come una delle maggiori potenze del tempo, è stato anche la culla di una fioritura artistica eccezionale. Alle testimonianze e all’eredità di questa straordinaria vicenda è dedicata la nuova Monografia di «Archeo»: il suo autore, Marco Di Branco, propone un viaggio ideale nei luoghi che furono teatro degli eventi piú importanti e un altrettanto ideale incontro con gli uomini e le donne che ne furono protagonisti. Un racconto avvincente, corredato da splendide immagini e da un ricco e puntuale apparato cartografico.

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testi di Marco Piccat, Silvia Beltramo e Simone Baiocco

SALUZZO

Nella capitale della cavalleria La storia del marchesato di Saluzzo si snoda nell’arco di poco piú di tre secoli, nel corso dei quali i suoi rappresentanti si ritagliano una posizione di rilievo nel panorama italiano ed europeo. Di questa fiorente stagione sono oggi testimonianza concreta le magnifiche architetture civili e una straordinaria produzione artistica. Un invito alla visita...

Madonna della Misericordia (particolare), dipinto su tavola di Hans Clemer. 1499 circa. Saluzzo, Museo Casa Cavassa (vedi alle pp. 74/75 la veduta d’insieme e la descrizione dell’opera).


Dossier

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i tutta l’epopea dei Saluzzo, uno dei rami degli Aleramici – antichi signori del territorio al confine col ducato di Savoia, le attuali province di Torino e Cuneo, e le Alpi francesi –, una sola figura femminile ha vinto sul passare del tempo, ed è un personaggio del mondo della letteratura. È la leggendaria marchesa Griselda, nota e cresciuta grazie al rapporto di cultura e di amicizia che legava Francesco Petrarca a Giovanni Boccaccio, protagonista

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di un triste e insieme infelice matrimonio fino al suo inatteso finale, che, pur con differenti modalità e qualità, ritroviamo appunto nelle pagine dei due celebri scrittori. Grazie alle loro penne, il mito della dama di Saluzzo venne diramato ben oltre il tempo e la regione d’origine per raggiungere tutti i Paesi d’Europa e non solo. Boccaccio concludeva la narrazione del Decameron con questa novella e non sembra esservi tornato sopra, mentre il Petrarca, intitolando De

insigni obedientia et fide uxoria, ad Iohannem Bocacium de Certaldo, costruí poco alla volta una vera e propria operazione culturale. Mentre Boccaccio propone una localizzazione della storia estremamente sfuggente, «Già è gran tempo, fu tra marchesi di Saluzzo, il maggior della casa, un giovane chiamato Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli...», Petrarca visualizzava esattamente il panorama che circoscriveva le terre piemontesi allora occupate dalla famiglia dei


Saluzzo, comprese tra gli Appennini e «mons unus altissimus qui, vertice nubila superans, liquido sese ingerit», il Monviso, «Vesullus ex Apenini iugis», attorniato dal fiume Po, «fluviorum a Virgilio rex dictus», per approdare alla terra saluzzese «vicis et castellis satis frequens», retta da una stirpe di «marchionum (...) nobilium» e governata da un personaggio «maximus» tra tutti, «Valterius», un marchese appunto. Nella storia di Griselda si mescolavano magistralmente i diversi

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sensi scritturali indicati da Dante: letterale, allegorico, tropologico e anagogico. Il primo è costituito infatti dalla semplice storia di una giovane del volgo che, grazie all’incontro con un giovane nobile in cerca di moglie, sale, suo malgrado, al potere; l’allegoria è evidenziata piuttosto dal gioco della virtú costantemente messa alla prova dalle diverse e sempre piú crudeli richieste che il coniuge impone, sia per quanto riguarda i figli, sia per la sua stessa presenza a corte; il senso

successivo è caratterizzato dalla figura speculare dell’obbedienza coniugale, sempre immediata e senza ripensamenti di sorta; mentre, per l’ultimo livello, si è identificato l’ambito della catechesi cristiana nello specifico del «sopportare» tutte le prove come momenti di un percorso finalizzato all’esemplarità della figura femminile. Solo l’invenzione letteraria ha Veduta panoramica di Saluzzo, cuore del marchesato omonimo.

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Dossier consegnato alla storia della cultura europea il sogno di una marchesa «saluzzese», degna di tale eccellente qualità non per destino di nascita o per scelta della fortuna, ma per disposizione d’animo, sogno raro e per questo incredibilmente affascinante.

Il primo fu Manfredo

Ovviamente la «terra Salutiarum» o di «Sanluzzo» non ha mai conosciuto il tempo di un marchese di nome Gualtieri e neppure il passaggio della dolce Griselda, mentre la tradizione ci ricorda che sono stati ben tredici i marchesi di Saluzzo, dal 1175 al 1548. Il primo della dinastia, pur senza avere mai aggiunto al proprio titolo nobiliare la specificazione di alcun luogo, fu Manfredo (morto nel 1175), figlio di Bonifacio del Vasto (in Abruzzo), marchese di Savona e Liguria occidentale; unendo nella sua persona l’eredità arduinica e aleramica in

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Se sia

Sulle due pagine particolari di un antico albero genealogico dei marchesi di Saluzzo. A destra cartina del Piemonte con la localizzazione di Saluzzo.

Biella

Torino

Saluzzo Cuneo

seguito alla spartizione delle proprietà paterne con altri sei fratelli – Guglielmo, Ugo, Anselmo, Enrico, Bonifacio minore e Ottone – di una porzione dei vasti terreni fra il Po, le Alpi e la Stura, scelse di abitare e vivere in Saluzzo. La famiglia discendeva da un ramo dei marchesi di Monferrato che riconosceva come capostipite il celebre Aleramo, a cui, nel 933, i re Ugo e Lotario donano, a richiesta del conte Engelberto, la corte detta Auriola (oggi Trino), tra i fiumi (rogge) Lamporo e Stura, nel comitato di Vercelli. A spiegare la citazione antica e poetica della dama di Saluzzo nel panorama del mondo boccaccesco può essere stata la diffusione del toponimo per la fama della «cortesia» dei suoi marchesi e delle loro donne, diffusa, già nel Duecento, attraverso alcune composizioni della stagione trovadorica. In tale ambito, infatti, si possono trovare documenti dell’accoglienza del «fin amor» in terra di Piemonte, preci-

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Novara

Vercelli

Milano

Casale Monferrato Asti

Alessandria

Bra Mondoví

MAR LIGURE

samente nelle corti dei Marchesi di Saluzzo, Busca e Monferrato. Varie dame saluzzesi appartenenti alla famiglia di Manfredo II (1175-1215), figlio di Manfredo, il primo a ottenere il titolo di marchese, compaiono infatti nella stagione della venuta dei primi trovatori in Italia: il richiamo ad Alasia, figlia di Guglielmo V di Monferrato, e moglie di Manfredo, cantata da Peire Vidal «E, N’Alaçais,tant vos ai ades quisa / (...) q’ ar genser es qe an c fos d amor enqisa», come peraltro risulta dalla biografia provenzale di Rambaldo di Vaqueiras «Madona Azalais, comtessa de Saluza, sofri P. Vidal per entendedor», o alla figlia Agnese, oggetto delle rime dello stesso Rambaldo «N’Agnes», o ancora ad Agnesina, citata da Albertet de Sisteron «De Salussa non vuoil que N’ Agnesina/ mi retenga per son entendedor» e da Aimeric de Belenuey «De Salussa la bella N’ Agnesina / fassa est clam a san entendedor» e ancora da altri ne sono segni chiari.

Da carbonaio a signore

In realtà, gli esordi della storia dei Saluzzo si ammantarono presto, come per molte altre casate nobili italiane, di leggende in grado di nobilitare al massimo l’origine relativamente modesta dei capostipiti. Cosí Jacopo d’Acqui, nel suo Chronicon imaginis mundi, celebrava cose grandiose di Aleramo, a partire

dalla nobiltà della madre, una tedesca in pellegrinaggio a Roma fermatasi a Sezzé, nel Monferrato, per partorire; il giovane avrebbe passato in quel luogo tutta la gioventú, per presentarsi alla corte di Ottone I in occasione dell’assedio di Brescia; qui innamorato di Adelasia Casale figlia dell’imperatore, l’avrebbe Monferrato sedotta per fuggire con lei a Pietra Ardena, nei monti del comitato di Albenga. Dopo aver vissuto alcuni anni facendo il carbonaio, col figlio Ottone, sarebbe andato a combattere nelle schiere dell’imperatore, prima di venire perdonato, dopo essere stato riconosciuto, e ottenere il titolo che gli spettava. La vita del territorio seguí il tramite per via ereditaria dai marchesi di Torino a quelli del Vasto per poi giungere, alla metà del XII secolo, nelle mani dei discendenti di Manfredo, che si succedettero tramite il passaggio del governo al primogenito maschio e un corollario di nobili, parte di un entourage stabile nel passare dei decenni. A beneficiare della presenza di un potere locale non fu in un primo tempo il solo capoluogo, ma piuttosto l’intero territorio, con i centri di Carmagnola, Racconigi, Revello, Dogliani, località allora in forte crescita. Tra il 1127 e il 1219 furono fondate le abbazie cistercensi di S. Maria di Staffarda – l’ente religioso attorno al quale la famiglia dei Saluzzo si raccolse in un primo momento –, S. Maria di Casanova e S. Maria di Rifreddo. Insieme a queste fondazioni monastiche, Manfredo I attivò un governo di concessioni feudali e acquisizioni fondiarie, in grado di conquistare la fedeltà dei principali signori della zona, in grado di accrescere il suo patrimonio. Ciò comportò qualche primo segnale di una contesa territoriale con i Savoia al tempo del successivo marchese, Manfredo III (1215-44), che sarebbe continuata, con ritmi alterni, per secoli. Tommaso I (1244-96) costruiva

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Dossier A sinistra Revello (Cuneo), cappella marchionale. Particolare degli affreschi che celebrano i marchesi di Saluzzo, attribuiti a un pittore della cerchia del fiammingo Hans Clemer. 1515 circa. Qui vediamo Bianca di Castiglia che impartisce i principi morali al figlio. L’allusione a Margherita di Foix sembra essere evidente dallo stemma dei Saluzzo presente sui vetri della finestra.

un secondo castello e governava un territorio già ampio, che andava dalle valli della Stura, della Mellea, della Maira e del Po, comprendendo la pianura che dalle Alpi Cozie si diramava fino a Carmagnola, iniziando ad amministrarvi ufficialmente la giustizia e a regolamentare un mercato presto il piú importante della regione. Come conseguenza dell’espansione del dominio, per registrare i propri rapporti con l’aristocrazia locale, si avviò in loco, da un lato, la produzione di una vera e propria documentazione «marchionale», che lascia presupporre l’avvio alla dimensione di principato, e, dall’altro, la comparsa di un’organizzazione di tipo comunale, fortemente legata e dipendente dai marchesi, con compiti amministrativi e senza contrasti con la rappresentanza ufficiale del potere. L’equilibrio del governo sino A destra Saluzzo. La Casa Cavassa, che fu dimora di Galeazzo Cavassa e del figlio Francesco.

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ad allora mantenuto subí un primo forte contraccolpo in epoca di poco precedente la composizione del Decameron, con la lotta intestina e crudele scoppiata all’interno della famiglia saluzzese a motivo di intrighi femminili. In effetti, durante il governo del marchese Manfredo IV (dal 1296 al 1340), era avvenuto che lo stesso, per volontà di Isabella Doria, sua seconda moglie, avesse «emancipato» e successivamente prescelto come erede il secondogenito Manfredo, a discapito del diseredato e legittimo primo figlio Federico, nato da Beatrice di Sicilia. Questa decisione scatenò una feroce lotta interna alla famiglia, ma dalle dimensioni inattese, nonché l’intromissione dei potentati confinanti nelle dinamiche interne al marchesato: Federico chiese allora l’aiuto e il sostegno, nella guerra contro il fratello, del delfino di Vienne e del principe Filippo d’Acaia, mentre dalla parte di Manfredo si dichiarò Edoardo di Savoia. Solo lo scorrere del sangue, il passare degli anni e l’arbitraggio del conte di Savoia, nel 1334, avrebbero in un primo tempo infine risolto la questione, ma, ancora nel 1340, Saluzzo fu saccheggiata dagli uomini di Manfredo a discapito di Federico II di Saluzzo, figlio di Federico, che aveva ereditato il potere dopo la morte del padre.

La Torre civica di Saluzzo, con il Monviso sullo sfondo.

Immagini di un apogeo

Una situazione simile venne a ripetersi, questa volta ancor piú tragicamente, durante la reggenza della marchesa, Margherita di Foix (1473-1536), la seconda importante immagine femminile (questa volta reale) che i Saluzzo hanno consegnato alla storia. In questo caso il discorso è evidenziato da alcune immagini rimasteci: la famiglia marchionale nello splendore di tutti i suoi membri al momento dell’apogeo della dinastia, all’inizio del Cinquecento,

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Dossier periodo che anticipa, di pochissimo, la sua fine improvvisa. L’iconografia unica, eseguita da un maestro della cerchia del pittore fiammingo Hans Clemer, che ne ha conservato il ricordo nella cappella del castello di Revello, dista una decina di chilometri da Saluzzo. La raffigurazione sembra l’interno di una scena di famiglia – con padre, madre e cinque figli maschi –, del genere «fratres in unum», ma è invece l’ultimo respiro di una dinastia dal lessico familiare consolidato, durato secoli, ma che proprio allora si stava trasformando in una tragica guerra di bande rivali. La raffigurazione dell’intero gruppo famigliare, con soggetti vivi e altri già defunti, riunita in un solo insieme, davvero unica per la storia dei Saluzzo, occupa le quattro lunette dell’abside della cappella. L’undicesimo marchese della serie, Ludovico II (1475-1504), ritratto alla sinistra del visitatore, appare inginocchiato in preghiera. Alle sue spalle ha il suo omonimo santo protettore, san Luigi, re di Francia. L’uomo, al momento dell’esecuzione di questa immagine, era già morto da dieci anni e il suo cadavere era sepolto e conservato nella cappella del Santo Sepolcro, nel convento domenicano di S. Giovanni in Saluzzo. È vestito con un ampio abito, con una mantellina in pelo di ermellino su cui spicca il collare a conchiglie, onorificenza dell’Ordine di San Michele, che Carlo VIII re di Francia gli aveva donato nel 1494. Dalla parte destra dell’affresco gli si contrappone la moglie, la francese Margherita di Foix, anche lei con le spalle protette dalla sua santa omonima, Margherita di Antiochia. I capelli, lunghi sulle spalle, sono il solo dettaglio che serve a ravvivare l’immagine di una dama ritratta nello stato vedovile, con abito, collettino chiaro, e leggero copricapo. La raffigurazione di Margherita è altra rispetto alle immagini conserva-

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A sinistra edicola votiva dedicata a san Chiaffredo, patrono di Saluzzo. Nella pagina accanto Casa Cavassa. Particolare del loggiato che, al primo piano, conserva affreschi a grisaille di Hans Clemer, raffiguranti alcune imprese di Ercole. 1506-1511.

te a Saluzzo, in cui troviamo invece esaltata la sua posizione e il suo potere nell’esibizione di abiti sontuosi, con preziosi tessuti e perle.

A ciascuno il suo santo

I cinque figli della coppia, tutti presenti negli affreschi sono distribuiti sulle pareti, tre dalla parte del padre (i figli destinati a carriere politiche) e due da quella della madre (i due destinati alla vita religiosa): cosí Michele Antonio, il primogenito, e poi Francesco e Adriano si succedono sulla parte sinistra della pittura. Per tutti viene disegnato, alle spalle, il santo omonimo e protettore: per il primo, per via del doppio nome, si presentano sia

sant’Antonio da Padova che san Michele Arcangelo, quest’ultimo ritratto con evidenza rispetto a tutti gli altri. San Francesco di Assisi e sant’Adriano di Nicomedia, alle spalle degli altri due figli della coppia, sono invece chiamati a tutelarne rispettivamente le vite terrene. I tre giovani, inginocchiati e di profilo, hanno un abbigliamento simile, con abiti e cappe di ermellino, e cappello rosso tra le mani. Il taglio dei capelli a paggetto con cui sono ritratti segue una regola della moda nobiliare del tempo. Anche Michele Antonio, come il padre, non era piú in vita al momento dell’affresco: primogenito e nato nel 1495, quando era morto aprile

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suo padre Ludovico II, aveva solo nove anni; fu sottoposto, pertanto, alla reggenza della madre Margherita e, anche dopo il raggiungimento della maggiore età (con il conferimento a sua volta del collare di San Luigi che mostra nell’affresco), permise alla madre un tacito governo di fatto, preferendo gli eventi bellici all’amministrazione marchionale; nel 1525, a seguito di molte imprese, era stato nominato luogotenente del re di Francia; tre anni dopo aveva trovato improvvisamente la morte per un colpo di cannone sparato in uno scontro con gli Spagnoli ad Aversa. Il suo corpo era stato tumulato nella chiesa dell’Aracoeli a Roma.

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La raffigurazione di Francesco, dopo Michele Antonio, e la dicitura «marchio magnanimus gloria», rende evidente la celebrazione di quello che era stato il tentativo della reggente Margherita, realizzatosi compiutamente nel 1529, di spodestare l’erede legittimo, il secondogenito Ludovico, a favore di Francesco, terzogenito. L’atto, che provocò una guerra interna alla famiglia era stato deciso dopo che Ludovico aveva ripetutamente dimostrato di nutrire simpatie filoimperiali e antifrancesi, in palese opposizione ai progetti elaborati dalla madre. A seguire nella pittura è Adriano, morto in giovane età, prima

della realizzazione dell’affresco, e di cui anche il cartiglio abbinato alle singole figure offre pochissimi elementi «forma (…) dulci…». Dalla parte opposta, in primo luogo è Giovanni Ludovico, presentato dai santi Giovanni Battista e Ludovico di Tolosa, destinato a cariche ecclesiastiche come esplicitato dal cappello vescovile disegnato sotto la figura sua e del fratello Gabriele.

I voleri di una madre

Il cartiglio aggiunto sottolinea, ancora una volta, quella che era stata la decisione della madre sul suo futuro «Hic ornat clerum religione pia», che invece il giovane aveva in ogni modo contrastato, cer-

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cando di interpretare la simpatia che i Saluzzesi dimostravano nei suoi confronti. Era stata un’insurrezione popolare vera e propria a liberarlo dal carcere nel castello di Verzuolo, altro importante centro del territorio, ponendolo alla testa del marchesato. Giovanni aveva voluto subito incontrare la madre, nonostante l’ora tarda (mezzanotte), nella residenza di Saluzzo per comunicarle che, considerata la sua esperienza di governo, avrebbe potuto continuare la reggenza de facto. Margherita finse di accettare e riappacificarsi con lui, ma il giorno dopo raggiunse il prediletto castello di Revello e riprese le trame per esautorare il figlio, fino a farlo poi imprigionare a Parigi. L’ultimo figlio della coppia, Gabriele, presentato dal suo arcangelo, divenne presto abate di Staffarda, seguendo il cammino a lui predestinato, ma, per le tensioni conseguenti alla lotta tra i

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suoi fratelli, dovette tornare allo stato laicale e, il 10 dicembre 1544 sposarsi proprio nella cappella di Revello, sotto l’immagine che lo promuoveva alla fortunata carriera ecclesiastica. L’ultimo marchese non ebbe comunque figli, e non riuscí a garantire oltre l’indipendenza del marchesato. La lotta intestina della famiglia marchionale era finita, e, con essa, anche la libertà del marchesato. Tornando al racconto della dinastia dei Saluzzo, con il figlio del marchese Federico II, entriamo in un nuovo capitolo. Tommaso III (1356-1416), infatti, è la figura maschile ancora oggi piú nota della corte saluzzese. I frequentissimi viaggi in Francia, a partire dal 1374, con permanenze ripetute e notevoli tra il 1390 e il 1405, il pellegrinaggio a Gerusalemme nel 1391, il matrimonio, in Parigi, nel 1403, con Marguerite de Roussy, la nascita di due figli nel 1404 e, nel

In alto particolare di una delle pitture che ornano una sala della Casa Cavassa. Nella pagina accanto Madonna della Misericordia, dipinto su tavola di Hans Clemer. 1499 circa. Saluzzo, Museo Casa Cavassa. In ginocchio, ai piedi della Vegine, sono raffigurati Ludovico II e Margherita di Foix.

1406, il ritorno a Saluzzo per l’impegno del governo sono i capitoli di una vita lunga e avventurosa.

«Febbre cavalleresca»

Dopo una giovinezza sofferta a causa della lunga contesa tra la famiglia e i vicini Savoia, maturò l’orgoglio di appartenere, per lignaggio, alla piú insigne nobiltà del tempo antico. Giunto alla corte di Carlo V, per promuovere la questione del vassallaggio del marchesato nei confronti del re di Francia, e abitante a Parigi per alcuni anni durante il regno di Carlo VI, trovò un clima di «febbre caaprile

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Dossier valleresca» che lo portò a rivestire l’«aventure» della propria esistenza, con un abito che nessun Saluzzo prima di lui aveva mai indossato: quello dello scrittore. La certezza di essere cavaliere, puro e leale, motivava il suo impegno nel cercare fama senza confini e senza tempo, inventando una storia. Sul lato pratico, non riuscí a garantirsi alleanze in grado di assicurare l’autonomia a una terra di cui rappresentava il futuro e l’immagine, subendo ripetuti scacchi, da quello a Monasterolo, all’accusa infamante di fellonia, all’assedio tremendo portato a Saluzzo da parte di Amedeo VIII, fino alla quasi completa abdicazione finale di fronte alla supremazia sabauda, da lui incessantemente, quanto inutilmente, contrastata. Ma, come alcuni «princes des fleurs de lis» suoi illustri contemporanei, quali René d’Anjou «roi de Jérusalem, d’Aragon, de Naples, des Deux-Siciles, de Valence, de Majorque, de Sardigne et de Corse, duc d’Anjou, de Bar et de Lorraine, comte de Barcelone et de Provence…» o Charles d’Orléans, che, in tempi di crisi del potere, «manqueront leur destin politique, mais compteront parmi les grandes écrivains de leur siècle» («fallirono in politica, ma si affermarono tra i grandi scrittori del loro secolo»), si ingegnò nel comporre un’opera letteraria, un’ autobiografia cavalleresca. Il Livre du Chevalier Errant, unica fatica letteraria del Saluzzo, conservato in due sole copie manoscritte, svolge il tema della ricerca della nomea per un nobile all’autunno del Medioevo. La storia si sviluppa con l’inoltrarsi del protagonista in tre diversi successivi regni da attraversare, che corrispondono ad altrettanti momenti della vita, inseguendo la sfida di dimostrare la propria appartenenza al gruppo degli eletti dell’antica e piú nobile cavalleria e insieme vanto della propria appartenenza familiare.

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Il primo regno da attraversare, quello del Dio d’Amore, apre su un sogno di maggio, intrecciando i destini antichi del lignaggio marchionale con quelli contemporanei del fasto della corte parigina. Il secondo si svela invece con un’immagine del mondo di Dama Fortuna, sovrana senza pari, che abita un castello isolato in cima alla rocca, al confine del cielo; l’instabilità dei potenti, riflesso della realtà che la Francia stava allora vivendo, espone un’amara riflessione sull’arrivo di un tempo che avrebbe sconvolto, nel giro di qualche decennio, le corti europee. L’ultimo regno mostra il piccolo mondo di Dama Conoscenza, nel quale, attraverso la liturgia di un felice ritrovarsi, l’autore prende coscienza delle regole del saggio governo. Nonostante una speranza conservata fino all’ultimo, nel 1413, tre anni prima della morte, Tommaso III fu costretto a siglare l’accordo per l’omaggio vassallatico a Savoia, poi sottoscritto anche da Valerano suo figlio illegittimo.

L’antico Palazzo Comunale di Saluzzo. La costruzione dell’edificio (e della Torre civica) viene fatta risalire al 1462, al tempo del marchesato di Ludovico I (1416-1475). Nel 1556 l’intervento si concluse con la sopraelevazione della torre.

Pace e stabilità

Con il marchese successivo, Ludovico I (1416-1475; il primo battezzato con un nome di tradizione francese), che governò per circa 60 anni, in un clima di pace e stabilità, la capitale del marchesato si trasformò grazie alla costruzione o all’abbellimento di vari edifici nel centro storico. I primi anni del suo governo, per via dell’età, avvennero sotto la reggenza della madre, Margherita di Roussy. La vita culturale si animò in tutto il territorio, mentre quella religiosa, attraverso la diffusione delle Compagnie dei Battuti, interveniva nel favorire la diffusione di nuovi linguaggi. Pur restando sotto la sovranità feudale dei Savoia, Ludovico prestò il medesimo giuramento al re di Francia, segno evidente del persistere della volontà di indipendenza. Con Ludovico II, uomo di gran-

de cultura, il marchesato toccò l’apogeo della propria potenza. Tra i diversi importanti interventi di cui il marchese fu artefice a favore del territorio saluzzese, è da ricordare, in modo particolare, il primo traforo delle Alpi, alle pendici del Monviso, per motivi commerciali (trasporto del sale dalla vicina Provenza), realizzato tra il 1475 e il 1480. Muovendosi con intelligenaprile

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Revello la Sacra Rappresentazione piú importante tra quelle dell’Alta Italia, della durata di tre giornate. In occasione dell’arrivo di Margherita di Foix, seconda moglie, non solo il castello dei Saluzzo (la «Castiglia») mutò aspetto, ma tutta la città alta venne interessata da interventi architettonici, al fine di trasformarla in capitale di uno Stato alla stregua dei tempi.

La fine

za, giocando su rapporti personali, come sull’intreccio delle relazioni internazionali che i nuovi tempi richiedevano, Ludovico II tenne importanti alleanze con i confinanti domini dei Savoia, dei Monferrato e degli Sforza, con gli Estensi e con le città di Genova e Venezia, fino a ottenere, nel 1480, l’investitura per il marchesato dall’imperatore Federico III d’Asburgo.

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La vicinanza assoluta alla casa di Francia, con contatti privilegiati con Carlo VIII come con Luigi XII, legarono in modo sempre piú stringente la storia del marchesato alla corte di Parigi. Nel 1502, due anni prima della morte, venne nominato viceré del regno di Napoli. In occasione della venuta in Piemonte di Giovanna di Monferrato, la prima moglie, venne allestita a

Dopo di lui, la contesa tra i figli, che abbiamo richiamato a proposito della figura di Margherita di Foix, portò rapidamente la fine della storia della famiglia. All’indomani della morte di Michele Antonio, infatti, la scelta di Francesco per contrastare la nomina di Giovanni Ludovico, la debolezza di Gabriele, ultimo dei figli di Ludovico II e Margherita, diedero al futuro della dinastia il colpo finale. Fino al 1548, infatti, il re di Francia continuò a concedere l’autorità marchionale a Francesco, Giovanni Ludovico, Gabriele, figli di Ludovico II; ma il 1° agosto di quell’anno i comuni che ne facevano parte deliberarono di invitare il re di Francia a sottomettere alla sua signoria il marchesato, che l’anno seguente fu riunito al delfinato. Lo status quo durò fino al 1588, quando i soldati di Carlo Emanuele I entrarono nelle terre saluzzesi; falliti i tentativi compiuti dal duca di Lesdiguières per riconquistare il territorio (1592 e 1594), la Pace di Vervins (1598) permise al duca di Savoia di tenere il territorio sotto il proprio potere, fino all’arbitrato del pontefice. La Pace di Lione (1601) stabilí che il marchesato di Saluzzo sarebbe rimasto al duca di Savoia, in cambio della Bresse, Bugey, paese di Gex e Valromey, ceduti alla Francia. E la storia, questa volta, era davvero finita per una terra che, per secoli, era stata un incrocio fertile di lingue, culture e tradizioni. Marco Piccat

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UNA CORONA DI ABBAZIE E CASTELLI

C’

è stato un tempo in cui Saluzzo era una delle raffinate capitali dei numerosi principati nei quali era diviso il Nord-Ovest dell’Italia. Di questa lunga fase di «piccola capitale» del marchesato omonimo, Saluzzo e il suo territorio conservano edifici civili e religiosi di grande qualità e pregio. D’altra parte, già Silvio Pellico definiva la città «non ultima in possanza», ma addirittura «altera» proprio per i suoi castelli «governati da prodi». Tra Medioevo e prima età moderna, infatti, il marchesato di Saluzzo (XII-XVI secolo) vive una stagione di straordinario sviluppo politico, economico e artistico, grazie alle relazioni

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che la famiglia marchionale seppe instaurare con le piú importanti corti d’Europa, come, per esempio, quella del re di Francia. Molte delle architetture realizzate in quest’epoca arricchiscono ancora oggi la città e il suo circondario, dando forma e sostanza a un paesaggio culturale unico, compreso tra la fertile pianura che unisce le province di Cuneo e Torino e le vallate alpine dominate dal Monviso. Testimonianze della cultura costruttiva romanica si conservano nel territorio, che ha accolto grandi insediamenti monastici e una fitta rete di chiese pievane all’epoca ancora soggette alla arcidiocesi di Torino.

Tra i monasteri emerge per rilevanza architettonica e paesaggistica il complesso di Villar San Costanzo, costituito da due abbazie di origine altomedievale (la fondazione è attribuita da fonti tarde al re longobardo Ariperto II, 701-712), suddivise tra il sito di S. Costanzo al Monte, situato sulle pendici del monte San Bernardo, e S. Pietro in Vincoli, nella parte pianeggiante prossima all’abitato di Villar. Un’altra abbazia risalente al periodo longobardo è l’antica abbazia dei Ss. Pietro e Colombano a Pagno, voluta dal re Astolfo a metà dell’VIII secolo e costituita dai monaci di S. Colombano di Bobbio; conserva tracce della aprile

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Crissolo Pian del Re

Barge

Staffarda

Torre San Giorgio

Calcinere Paesana

Monviso

Revello Pian Munè

Castellar Pagno

Casteldelfino Sampeyre Serre

San SSa an M Michele ichele PPrazzo razz ra azzo azzo az Prazzo PPr raazzzzo o ssu sup superiore upeerio eriio iore ree

Frassino

Brossasco

Venasca

Melle

San Damiano Macra Dronero

Rossana

Villar San Costanzo

Valgrana Monterosso Grana

Saluzzo Lagnasco Castello della Manta Verzuolo Costigliole Saluzzo Villafalletto Busca Tarantasca SS20 Roata Rossi

Caraglio San Defendente

Cuneo

SS705

chiesa antica, nell’originaria facciata a ovest e nella cripta riemersa a seguito degli scavi archeologici condotti a partire dal 2005.

Atmosfere cistercensi

Nei primi decenni del XII secolo, sono però i monaci cistercensi a segnare profondamente il paesaggio medievale delle terre saluzzesi. L’insediamento monastico di S. Maria di Staffarda rappresenta ancora oggi uno degli esempi piú interessanti e meglio conservati dell’architettura religiosa medievale del Nord Italia, ed è anche uno dei pochi luoghi che restituisce al visitatore l’atmosfera del mondo spirituale e agricolo cistercense.

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In alto cartina dell’area in cui si concentrano i castelli e le abbazie descritti nel testo. Sulle due pagine immagini di S. Costanzo al Monte, una delle due abbazie altomedievali facenti parte del complesso di Villar San Costanzo. Fonti tarde assegnano la costruzione dei luoghi di culto a re longobardi, nell’VIII sec.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Situata nella pianura saluzzese e caratterizzata dal profilo inconfondibile del Monviso che si staglia come fondale, l’abbazia di S. Maria è uno dei primi siti dei monaci bianchi fondati in Italia, dopo Tiglieto e Lucedio, tra il 1127 e il 1138, su proprietà donate da Manfredo, primo marchese di Saluzzo. Il monastero ha goduto fin dall’inizio dell’appoggio della famiglia marchionale, destinato a consolidarsi nel tempo, accogliendo le sepolture signorili, un vero e proprio mausoleo dinastico simbolo del prestigio dei marchesi. Pochi anni piú tardi, questo legame si afferma anche con successive fondazioni, quella dell’abbazia di Casanova (1142),

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vicino a Carmagnola, e di Rifreddo (1219), sul Montebracco.

Una vita ben regolata

Entrando nel complesso monastico di Staffarda, il rosso mattone dei muri caratterizza gli edifici destinati all’attività agricola e quelli riservati alla clausura monastica, con una continuità d’impiego che giunge fino ai giorni nostri. Il primo nucleo dell’abbazia era costituito dalla chiesa, dal monastero e da un’area esterna alla clausura, caratterizzata dalla presenza di un piccolo borgo, nel quale risiedevano i laici dipendenti del monastero. All’interno della clausura la vita dei monaci si svolgeva negli ambienti disposti, secondo un preciso ordine, intorno

In alto veduta dall’alto della Castiglia, il castello dei marchesi di Saluzzo voluto da Tommaso I e sorto fra il 1270 e il 1286. Nella pagina accanto una veduta esterna dell’abbazia di S. Maria di Staffarda, fondata dai monaci cistercensi tra il 1127 e il 1138, su proprietà donate dal primo marchese di Saluzzo, Manfredo.

al chiostro, il centro dell’abbazia. A fianco della chiesa, al piano terra sul lato est, si conservano la sacrestia, la sala capitolare, l’auditorio e la sala dei monaci, mentre il piano superiore è occupato interamente dal dormitorio, riplasmato in età moderna. In queste strutture i monaci bianchi si attennero scrupolosamente ai modelli progettuali cistercensi provenienti dalla Borgogna, aprile

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con l’ascetico rigore che si riscontra anche nella scultura architettonica degli ambienti del cenobio. Conclusa intorno agli anni Cinquanta del XII secolo, la chiesa di S. Maria conserva l’impianto medievale, caratterizzato dalla bicromia dei materiali da costruzione, il mattone usato per la muratura e la pietra per i capitelli e per altri elementi architettonici di pregio. Non segue modelli cistercensi ma mostra chiari riferimenti all’architettura lombarda, in particolare pavese, nella planimetria a tre absidi semicircolari, nei pilastri polistili, nel transetto non sporgente, nei capitelli cubici

zuolo, Lagnasco, Castellar, Costigliole, Revello e Saluzzo, sedi dei rispettivi rami della famiglia. Per avere sentore della vita della corte signorile saluzzese, una visita al castello della Manta, di proprietà del FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) fin dal 1985, permette di conoscere alcuni «tesori» dell’architettura e dell’arte di corte della fine del Medioevo. Al nucleo piú antico dell’edificio, risalente alla fine del XIII secolo e oggi riconoscibile nella torre circolare centrale, si sommano corpi di fabbrica aggiunti nel corso del tardo Medioevo e dell’età moderna, se-

in buona parte integro. Adagiato lungo le pendici della collina, coronato dalla presenza del castello costruito alla fine del XIII secolo, oggi noto come la Castiglia, il borgo medievale – racchiuso in un doppio cerchio di mura – arriva fino al piano, dove si erge la maestosa collegiata, poi cattedrale, ricostruita alla fine del XV secolo. Percorrendo le caratteristiche vie che seguono le curve della collina o si inerpicano con ripide scale realizzate in acciottolato antico, si svela poco a poco l’abitato di Saluzzo con la sua forma e le sue architetture, tra domus medievali e

e nelle volte a crociera costolonate. Le maestranze utilizzano una tecnica costruttiva e modelli consolidati, e guardare a Pavia, allora capitale del regno d’Italia, significava fare scelte all’avanguardia nel panorama architettonico. La committenza marchionale si consolida nel corso dei secoli centrali e del tardo Medioevo, investendo in cantieri architettonici impegnativi, che hanno dato esito ad alcuni degli edifici che ancora oggi costituiscono emergenze assolute nel territorio saluzzese. Una preziosa testimonianza si riscontra nel sistema dei castelli che costellano i crinali delle prime colline tra le valli Varaita e Bronda, a ridosso dei centri urbani di Ver-

guendo le esigenze della famiglia Saluzzo Della Manta. Valerano, il capostipite di questo ramo dinastico, ingrandí il castello, trasformandolo in una residenza signorile, adeguando la struttura militare e ingentilendola con nuovi spazi: tra questi, grande rilevanza riveste la sala baronale, arricchita dal famoso ciclo di affreschi raffiguranti Prodi ed Eroine e la Fontana della Giovinezza, datato agli anni Venti del XV secolo, e che inaugura una nuova stagione culturale per il marchesato. La capitale del marchesato, Saluzzo, conserva un centro storico di straordinario interesse, che documenta il tessuto edificato di una città tardo-medievale ancora

palazzi aggiornati al nuovo gusto dell’età moderna, che racchiudono ancora giardini e prospettive di rara bellezza, esito di uno patrimonio stratificato e che costituisce tuttora un’eredità culturale a lascito della comunità.

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Un gioiello tardo-gotico

Tra le architetture che si incontrano nella parte alta di Saluzzo, dietro l’antica platea – l’asse principale della città medievale che accoglie le residenze signorili e l’antica sede comunale– vi è il complesso conventuale dei frati predicatori di S. Giovanni di Saluzzo, al cui interno sorge il gioiello tardo-gotico della cappella marchionale. La chiesa è l’esito

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di una serie di cantieri che si sono svolti lungo il corso del Trecento e che ne hanno definito l’impianto basilicale a tre navate separate da pilastri polistili, coperto da volte a crociera costolonate. La complessa stratificazione dell’architettura, insieme alla non

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chiara documentazione relativa all’origine dell’edificio, non permettono di definirne compiutamente tutte le fasi di costruzione, ma emerge, fin da subito, l’importanza rivestita dalla chiesa per la famiglia marchionale. La committenza signorile, iniziata nei primi

in alto l’esterno della cappella marchionale della chiesa di S. Giovanni a Saluzzo, di epoca tardo-gotica. Nella pagina accanto il monumento funebre del marchese Ludovico II, all’interno della cappella marchionale della chiesa di S. Giovanni. Primi decenni del XVI sec. aprile

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decenni del XIV secolo, si conclude con la costruzione della cappella, il «mausoleo del principe», un cantiere lunghissimo che, dalla volontà testamentaria di Tommaso dei primi anni del XV secolo, termina nei primi decenni del XVI secolo con la realizzazione del monumento funebre per Ludovico II. La posizione rilevata dell’edificio lo fa emergere nel panorama del centro storico con il forte dislivello esistente tra la facciata della chiesa e l’abside. Lo spazio quadrangolare della cappella, illuminato da quattro finestre archiacute, è concluso da un’abside poligonale limitata da tre lati di un esagono. Gli articolati profili delle modanature verticali, che scandiscono i prospetti laterali, presentano una sequenza di elementi di diversa sezione che si uniscono per sorreggere l’arco d’imposta della volta e i costoloni privi della mediazione dei capitelli. Nelle pareti senza finestre, nella seconda campata, si aprono due grandi nicchie, destinate a ospitare le sepolture dei marchesi e arricchite da un ricco apparato scultoreo. La cappella funeraria dei marchesi riveste un carattere eccezionale per la cultura locale ed europea. I lapicidi Anechino Sambla e magistro Perineto Soqueto, impegnati nell’edificazione della cappella a partire dal 1491 su incarico del marchese Ludovico II, provengono dalla Francia meridionale; in particolare, la presenza di Perineto Zochelli è testimoniata, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, nelle chiese di Avignone, Aix-en-Provence e a Carpentras, esempi che costituiscono l’appendice piú tarda nel gotico flamboyant che dialoga con le straordinarie e uniche soluzioni adottate a Saluzzo e che non teme i confronti con altre sedi auliche e maggiormente note, come le cappelle signorili di Vincennes, Chambery, Riom e Bourges. Silvia Beltramo

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I TESORI DELLA CORTE QUEL SOGNO DI UN RAFFINATO MONDO CORTESE

«T

esori del Marchesato di Saluzzo»: il titolo di una mostra realizzata nel 2021 nascondeva piú di un’ambizione. La sfida era infatti costituita dal fatto di narrare il ruolo culturale e figurativo di un piccolo Stato di frontiera, che ha avuto il suo massimo splendore tra tardo Medioevo e prima età moderna, ben consci del fatto che gli oggetti esposti dovevano dialogare con il patrimonio diffuso sul territorio. Dunque un «tesoro» raccolto e custodito presso una corte, nella città che si fa vera capitale, era solo parzialmente ricostruibile, ma il resto del patrimonio, un tessuto ricco e articolato, andava ricercato anche nei centri minori e nelle valli. Un vero e proprio tesoro, in realtà, era esistito davvero all’inizio di questa vicenda e ne rimane almeno una traccia documentaria. Si tratta di una serie di oggetti preziosi, reliquie, opere d’arte e libri miniati portati in patria dal marchese Tommaso III al suo rientro da Parigi nel 1405. Tommaso stesso – profondamente legato alla cultura letteraria della corte parigina, di cui era sostanzialmente un esponente – è autore del Livre du Chevalier Errant, poema cavalleresco in cui è agevole cogliere i richiami tra l’astratto mondo cortese e la vita, anche politica, del suo autore. Il testo è stato trasmesso da due soli manoscritti, di cui uno splendidamente decorato e miniato presso la bottega del Maestro del Citè des Dames, uno tra i principali miniatori operosi nella capitale francese e tipico esponente di quella cultura franco-fiamminga che con-

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traddistingue, all’inizio del Quattrocento, il panorama figurativo parigino (Parigi, Bibliothèque Nationale de France, ms. fr. 12559). La cultura francese non è però limitata a queste significative importazioni: ne è traccia anche il piú celebre esempio figurativo, un ciclo di affreschi tra i piú importanti dell’Italia settentrionale nella stagione del tardo-gotico. Mi riferisco, ovviamente, alla decorazione della Sala Baronale del Castello della Manta, commissionata dal figlio illegittimo di Tommaso III, Valerano, durante la sua reggenza in nome del fratellastro che diverrà il marchese Ludovico I. Siamo dunque negli anni intorno al 1420 ed è tuttora difficile declinare le interazioni del maestro principale, autore dei Prodi e delle Eroine, con il bagaglio dei suoi collaboratori, che si riconoscono maggiormente nella parete con la Fontana della Giovinezza; cosí è difficile misurare la distanza dell’anonimo maestro dalla cultura, a sua volta innestata su radici francesi, di Giacomo Jaquerio, pittore di corte per gli Acaia e i Savoia, tra pianura piemontese e commissioni oltralpine.

Una scelta simbolica

Un altro straordinario cantiere di corte è legato alla chiesa domenicana di S. Giovanni a Saluzzo, al centro degli investimenti devozionali delle maggiori famiglie cittadine e dei marchesi che, in modo potentemente simbolico, scelgono l’abside di questo edificio per la

costruzione della propria cappella funeraria. L’impresa, avviata da Tommaso III e proseguita dai suoi successori, rappresenta uno fra i piú singolari trapianti del tardogotico francese in area italiana. La prima fase della campagna decorativa, tuttora riconoscibile, corrisponde ad alcune bellissime mensole con figure di Sibille e Profeti, databili intorno al 14401445, che sono state riutilizzate nel cantiere completato poi nella seconda metà del secolo; nell’insieme, il progetto costituisce una delle piú alte testimonianze della auto-rappresentazione della corte e non a caso nello stesso spazio si costruirà, agli inizi del Cinquecento, il piú importante monumento sepolcrale, quello di Ludovico II. Per questa realizzazione, la marchesa reggente Margherita di Foix dà spazio alla cultura figurativa del Rinascimento lombardo, coinvolgendo lo scultore Benedetto Briosco, tra i massimi protagonisti degli apparati decorativi della Certosa di Pavia, attratto a Saluzzo (tra 1508 e 1513) non soltanto dalle commissioni artistiche, ma dalla possibilità di sfruttare risorse minerarie e materiali lapidei locali, che iniziavano a ottenere un buon apprezzamento anche al di fuori dei confini del marchesato. Sulla scia di Briosco, e dopo una importante esperienza nel marchesato del Monferrato, compare poi a Saluzzo un secondo scultore lombardo: Matteo Sanmicheli. Portatore di un elegantissimo gusto

Nella pagina accanto miniatura raffigurante le nove Eroine, dall’edizione del Livre du Chavalier Errant di Tommaso III di Saluzzo illustrata dal Maestro del Citè des Dames. 1403-1404 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Dossier decorativo, egli ottiene, in particolare, il favore della potente famiglia Cavassa, che gli commissiona un intervento decorativo sul proprio palazzo e, soprattutto, la realizzazione della cappella funeraria affacciata sul chiostro del medesimo convento domenicano di S. Giovanni. Qui, nel terzo decennio del Cinquecento, trova posto anche il monumento di Galeazzo Cavassa, uno dei due esponenti di quella famiglia che avevano avuto il ruolo di vicario marchionale, ai vertici dunque del piccolo Stato. Come si è sottolineato, nelle scelte figurative della corte saluzzese si alternano e si confrontano linguaggi diversi, in coerenza con la situazione di un territorio che rappresenta una vera e propria cerniera tra la Francia e la Pianura Padana. Analogo confronto si individua anche sul territorio e nelle valli, nelle chiese dei centri minori, dove non soltanto troviamo significativi apparati decorativi e cicli affrescati, ma anche preziose oreficerie, che a loro volta documentano l’apporto della cultura franco-fiamminga.

La Sala Baronale del castello della Manta con l’affresco che ritrae Prodi ed Eroine, databile negli anni Venti del XV sec.

Robusta semplicità

Il massimo esempio di questa cultura oltralpina è forse costituito da quello che è identificabile come vero e proprio pittore «di corte» dei marchesi di Saluzzo tra XV e XVI secolo, ovvero Hans Clemer; originario della Piccardia, Clemer si era bene inserito nell’area provenzale per poi transitare a Saluzzo dove le sue figure dotate di robusta semplicità e verità, il suo immaginario iperdecorato impongono in poco tempo un linguaggio ben riconoscibile e molto apprezzato. Il pittore lavora anche per altre committenze, ma il suo stretto rapporto con gli ambienti di corte è testimoniato in maniera esemplare dalla Madonna della Misericordia (Saluzzo, Museo Civico di Casa Cavassa), in cui il marchese Ludovico II e la sua consorte Margherita appaiono in-

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ginocchiati con familiari e accoliti, quasi a dare un’istantanea dell’atmosfera cortigiana. Altre scelte erano in ogni caso possibili e la preferenza verso la cultura lombarda (in alternativa a quella oltralpina) trova ricono-

scimento soprattutto da parte di Margherita, che regge le sorti politiche del ducato dopo la morte di Ludovico nel 1504. Ecco allora comparire, per esempio, un pittore identificato come Maestro di Santa Rosalia, autore, tra l’altro, di una aprile

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pala che ha come protagonista San Tommaso d’Aquino (ora al Museo Civico di Casa Cavassa), per la quale si era fatto in passato il nome del Bergognone. Al contempo, significativa è la presenza della bottega casalese di Aimo e Balzarino Volpi,

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deboli portavoce del linguaggio che invece si era imposto nel ducato di Savoia, oppure l’anonimo maestro che realizza, ormai negli avanzati anni Venti, una pala voluta dal segretario marchionale Giovanni Agostino Gambaudi, in cui si rive-

la esponente di una tardiva frangia leonardesca, cordiale e un poco leziosa (il dipinto, destinato alla chiesa saluzzese di S. Giovanni, si trova ora alla Galleria Sabauda di Torino). Sulla stessa scia, ben piú autorevolmente, si pone l’arrivo

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In alto il coro ligneo di S. Maria di Staffarda, oggi custodito nel Museo Civico d’Arte Antica di Torino. 1520-1530. Nella pagina accanto l’altare maggiore dell’abbazia di S. Maria di Staffarda, sormontato da una magnifica macchina d’altare, con Storie della vita di Cristo e della Vergine, dorata e dipinta da Pascale Oddone. 1531.

nei territori del marchesato di due pale del milanese Giampietrino, in particolare la bella Natività ora a Torino (Pinacoteca Albertina). Il confronto tra le diverse culture si ripropone anche nella grande abbazia «di corte», S. Maria di Staffarda, in particolare nella sua stagione di maggiore rilievo che coincide con la committenza di Giovanni Ludovico di Saluzzo. Il cadetto di Ludovico II, nella sua qualità di abate commendatario, inizia intorno al 1520 a caratterizzare il proprio ruolo con la fornitura di arredi adeguati alla chiesa

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abbaziale. Si tratta del grande coro ligneo oggi conservato in parte nella parrocchiale di Pollenzo e in parte al Museo Civico di Torino. Nel coro è evidente la compresenza di due culture: una, preponderante, che lo lega al mondo dell’intaglio francese, borgognone (esemplificata anche dal leggio esposto in mostra), e un’altra che parla invece della tradizione delle tarsie dell’Italia padana.

Maestri della scultura

Tuttora nella chiesa è invece la grandiosa macchina d’altare, con Storie della vita di Cristo e della Vergine, firmata da Oddone Pascale nel 1531; originario dell’area, il pittore è riconoscibile come un elegante epigono della tradizione del Piemonte meridionale. Qui ha probabilmente coordinato una bottega piú articolata, in cui buona parte delle scene sono state affidate a specialisti della scultura lignea. Le

scelte del committente, tutte orientate in chiave filofrancese, vengono condotte e messe in atto durante il turbolento periodo in cui egli è in progressiva e forte contrapposizione con la madre Margherita e il fratello Michele Antonio. Poco oltre la metà del Cinquecento, la stagione culturalmente piú ambiziosa del marchesato di Saluzzo si esaurisce e, progressivamente, lo sguardo sarà rivolto sempre piú verso Torino e verso quel ducato di Savoia che a lungo aveva costituito il temuto contraltare politico nella regione. D’altro canto, la stessa autonomia dello Stato termina con l’annessione alla Francia nel 1549 e con il successivo, definitivo passaggio ai Savoia, ad apertura del secolo successivo. Le peculiarità del marchesato e il suo sogno di un raffinato mondo cortese si spengono dunque definitivamente. Simone Baiocco

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Quel che ci attende nell’aldilà di Paolo Ponga

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A Bastia Mondoví, in provincia di Cuneo, sorgeva una piccola cappella dedicata a san Fiorenzo. Ceduta dai Savoia ai Della Torre, venne ampliata e, per iniziativa di Bonifacio, interamente ricoperta da uno spettacolare ciclo affrescato: una Biblia pauperum dai toni vivaci e grotteschi, con una vivida e cruda rappresentazione dell’esistenza ultraterrena

Tutte le foto che corredano l’articolo si riferiscono alla chiesa di S. Fiorenzo di Bastia Mondoví (Cuneo) e ai suoi affreschi. Le pitture, ultimate nel 1472, sono attribuite ad artisti attivi nella zona nella seconda metà del XV sec. La rappresentazione dell’Inferno, al centro della quale domina l’immagine mostruosa di Lucifero. Tutto intorno i dannati sono vittime delle sevizie inferte loro dai demoni.

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iaggiare e visitare posti nuovi significa aprire il ne probabilmente decapitato il 22 settembre del 297. cuore e la mente alle sensazioni che essi possoProbabilmente, però, il Fiorenzo venerato in queste no regalare e può talvolta accadere di tornare zone era derivato da una commistione di tradizioni indietro di secoli, in un mondo cosí simile e al tempo agiografiche diverse. In ogni caso, intorno al X secostesso differente dall’attuale. Oppure, come scrisse a fra lo, venne edificata nelle campagne di Bastia Mondoví, l’XI e il XII secolo il grande pensatore persiano Omar lungo «la via del sale» che portava alle Alpi Marittime Khayyam bisogna ricordare che «la vita è un viaggio, e al mare, una piccola cappella dedicata al santo, che si viaggiare è vivere due volte». credeva capace di scacciare i terribili Nella piccola e poco conosciuta serpenti che abitavano le campagne chiesa di S. Fiorenzo a Bastia Mone proteggere la povera gente. Nel doví, in provincia di Cuneo, è pos1409 Bastia fu affidata dai Savoia sibile addirittura viaggiare dopo la alla famiglia Della Torre; di questi, morte, per scoprire che cosa ci atil nobile Bonifacio decise, nella setenda nell’aldilà. O, quanto meno, conda metà del secolo, di ampliare Biella Novara era questo lo scopo dello straordinaMilano la piccola cappella e di far affrescare Vercelli rio ciclo di affreschi dipinti nella semeravigliosamente l’intera chiesa. conda metà del XV secolo, alla fine Nei secoli successivi il tempio Torino Casale Monferrato del Medioevo dunque, ma ancora fu un po’ trascurato, ma la fede nel Carmagnola con la sensibilità tipica del millensanto protettore non venne mai Asti Alessandria nio precedente: una Biblia Paupemeno: nel 1719, in seguito alle viBra rum, una «Bibbia dei poveri» che, sioni ricevute, il parroco fece smanCuneo Bastia in 326 mq di pitture, illustra la vita tellare il piccolo altare della cappella MondovÍ MAR di san Fiorenzo, il ciclo della Passioa sinistra del presbiterio, dove furoLIGURE ne, santi e scene di vita contadina, no in effetti rinvenute le ossa di una ma, soprattutto, la nostra esistenza antica sepoltura, rimesse poi dentro ultraterrena, con immagini coinvolgenti e sconvolgenun’urna del nuovo altare. In tempi recenti è infine nati per la loro brutalità. ta l’Associazione Culturale San Fiorenzo onlus, che si Fiorenzo era un nobile romano, appartenente aloccupa di mantenere, recuperare e rendere agibile al la legione Tebea e convertito al cristianesimo, e venpubblico il patrimonio artistico locale; è stata creata ia

L’esterno di S. Fiorenzo. Nata come cappella, la chiesa venne ampliata nel Quattrocento, dopo essere stata affidata alla famiglia dei Della Torre. Nella pagina accanto la decollazione di san Fiorenzo: il martire, già militare della legione Tebea, fu decapitato, probabilmente, il 22 settembre del 297.

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anche una piattaforma internet tramite la quale è possibile effettuare una visita virtuale alla chiesa. La struttura esterna di S. Fiorenzo, situata lungo la strada provinciale che porta verso Niella Tanaro e verso sud, è molto semplice. Il paesaggio che la circonda alterna dolci colline a campi coltivati, il Tanaro e le montagne sullo sfondo. Ci troviamo a poca distanza dai famosi vigneti delle Langhe, in un territorio dal sapore antico, che ricorda almeno un poco quello di alcune zone della Toscana o dell’Umbria.

Quasi come un fumetto

Varcato l’ingresso ed entrati nell’unica navata, è impossibile non rimanere senza fiato, circondati dalle infinite immagini di personaggi che ci guardano dalle pareti e paiono vivi, mentre interagiscono fra loro come i protagonisti di un fumetto di 650 anni fa. Non è noto il nome dell’autore, ma è certo che gli artisti furono diversi; è probabile la presenza di Frater Henricus – pittore al quale si deve la decorazione della cappella di S. Bernardo a Piozzo –, Giovanni Mazzucco, Matteo e Tommaso Biazaci e forse altri, tutti attivi in quegli anni nella zona del Monregalese, alle prese con quello che diventerà un capolavoro del gotico piemontese, intri-

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so del realismo rappresentato pochi anni prima nella Salita al Calvario di Ranverso, dipinta da Giacomo Jaquerio. Certa è la data del termine dei lavori, riportata su di un dipinto: 1472. Veniamo dunque alla descrizione delle pitture. Nel presbiterio si possono osservare, a destra, un’immagine di San Giorgio, al centro, San Sebastiano e una bella Crocefissione, con il Cristo tra i due ladroni, le pie donne, la Maddalena e San Giovanni, mentre nella volta al di sopra si trovano gli Evangelisti e, tutto intorno, un tripudio di santi, finemente dipinti nello stile gotico internazionale dell’epoca. Nella parete opposta, in controfacciata dell’ingresso, si trovano invece sette riquadri che narrano episodi dell’infanzia di Gesú, tra i quali alcuni che riportano leggende dei Vangeli apocrifi, come il miracolo del grano o quello della palma. Sulla parete di sinistra della chiesa si snoda un grande ciclo della Passione, fatto da 22 riquadri in due file sovrapposte, arrivato a noi purtroppo rovinato in diversi punti, a causa dell’umidità; le parti sopravvissute sono però ancora di grande bellezza. Straordinaria e unica è la parete opposta, quella di destra. La parte vicina al presbiterio contiene otto riquadri con scene della vita di san Fiorenzo, che rinuncia alla carriera

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Annunciazione, uno degli affreschi sull’esterno della chiesa.

militare per predicare il cristianesimo, e quindi i miracoli da lui compiuti a beneficio dei pellegrini e degli abitanti della zona: la liberazione dai mostri serpente con i grandi uccelli, e la ricrescita dell’arto perduto allo zoppo. La zona vicina all’ingresso è invece quella delle dodici scene della vita di sant’Antonio Abate e della scritta che indica il committente e la data di esecuzione: «MCCCCLXXII die XXIII MENSIS iunii hoc opus fecit fieri facius turrinus» («23 giugno 1472, quest’opera fu realizzata da Bonifacio della Torre»).

Il destino delle anime

A fare della chiesa un unicum è però la parte contenuta fra le due vite illustrate dei santi: si tratta della parete con la Gerusalemme Celeste, ossia il Paradiso (vedi foto alle pp. 98/99). Nel grande affresco viene spiegato a chi frequentava la chiesa quale fosse il destino delle loro anime, e cosa potessero fare per evitare la dannazione eterna. Il giudizio è affidato all’arcangelo Michele, il quale, alle porte del Paradiso, pesa su di una bilancia le buone e le cattive azioni di un personaggio nobile, conteso fra l’angelo e il diavolo. Piú in basso si trova la chiave interpretativa del giudizio universale delle anime: le opere di misericordia. È infatti il Vangelo di Matteo che racconta come verrà premiato chi avrà dato aiuto al prossimo, qui rappresentato da un affresco che descrive tutte le buone azioni: la donna che allatta due bimbi in fasce; quella che dà il pane a un affamato; un’altra che offre vino a uno zoppo e monete a un pellegrino; mentre una terza dona i vestiti a un viandante; e poi vediamo ancora un uomo che si reca a trovare un carcerato, un’altra donna che consola un ammalato e alcuni religiosi che celebrano l’ufficio funebre per un defunto. I sofferenti sono simili al Cristo stesso, e quindi rappresentati tutti con l’aureola. A destra di questa immagine si trova quella del Purgatorio, ai margini del Paradiso e dell’Inferno: una sorta di sepolcro nel quale si intravedono le anime immerse nelle fiamme e nel buio mentre pregano per la loro salvezza; scontata la punizione, le anime vengono liberate e accolte in Paradiso da un angelo. Quest’ultimo è rappresentato come una città, la Gerusalemme Celeste racchiusa da potenti mura turrite, nella quale si assiste all’Incoronazione della Vergine, circondata da infinite schiere di angeli e santi, molti dei quali identificabili da una scritta o dai loro attributi. Le figure stanno festeggiando e cantando, al suono di tutti gli strumenti musicali della fine del Medioevo, qui identificabili. L’angelo di guardia alla torre di destra ci introduce alla visione dell’Inferno, pronunciando una sentenza di dannazione: «Ite maledicti in ignem eternum» («Maledetti andate nel fuoco eterno»). In basso, sfila quindi il

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medioevo nascosto piemonte Sulle due pagine l’interno di S. Fiorenzo, a navata unica. Questa la sequenza degli affreschi che ornano la chiesa: 1. sulla parete sinistra corre il ciclo della Passione, articolato in due registri e suddiviso in 22 riquadri; 2. nel presbiterio (vedi anche la foto in basso) vi sono la Crocifissione, nella lunetta, sotto la quale si succedono San Sebastiano, la Madonna con il Bambino fra i santi Fiorenzo e Martino e San Michele con San Bartolomeo; 3. sulla parete destra vi sono scene della vita di san Fiorenzo e di sant’Antonio Abate e poi la rappresentazione dell’Inferno.

corteo dei dannati rappresentato come la Cavalcata dei Vizi: sette personaggi interpretano i sette peccati capitali e vengono trascinati nella bocca del Leviatano infernale mentre cavalcano animali emblematici, legati al collo con una catena. In capo e in coda del corteo vi sono due diavoli, mentre un terzo dà il ritmo alla scena suonando un flauto e un tamburo accanto alla scritta «O infelices peccatores venite ad choreas [a ballare]». L’ultimo personaggio a entrare nella bocca dell’Inferno è un uomo sonnolento a cavallo di un asino a rappresentare l’Accidia, mentre l’Ira è al sesto posto dipinta come un uomo che, in un impeto di collera, pugnala se stesso alla gola, mentre sta cavalcando un lupo. Il quinto è la Gola, che procede a cavallo di una volpe, tracannando vino con uno spiedo su una spalla, mentre davanti a lui l’Invidia, a cavallo di una fiera, indica i vicini con un dito e, piú oltre, vi è l’elegante Lussuria sopra un caprone, che si ammira in uno specchio e alza la gonna mostrando una coscia e le calze rosse. A contrasto, la figura successiva è quella dell’Avarizia, con un gruzzolo di monete, ma miseramente vestita, (segue a p. 101)

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La Gerusalemme Celeste (o Paradiso). Nel registro inferiore sono illustrate le opere di misericordia che, al momento del giudizio, avrebbero pesato a favore delle anime, e, sulla destra, il Purgatorio, immaginato come una sorta di sepolcro dal quale le anime possono uscire dopo aver scontato la punizione.

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Particolare dell’affresco raffigurante uno dei miracoli compiuti da san Fiorenzo: la liberazione della zona dai mostri serpente che la infestavano.

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mentre cavalca un levriero con un osso in bocca che vorrebbe sotterrare fuori dalla vista dei rivali. Ad aprire il corteo vi è l’uomo che rappresenta la Superbia, un sovrano con cappello e corona, i vestiti indossati sopra la cotta di maglia e la spada sguainata nella mano, a cavallo di un leone. Le fauci enormi del Leviatano infernale li inghiottiranno tutti, per sempre.

Un’immagine terrificante

Al di sopra di questi, campeggia, al centro, l’immagine di Lucifero, un essere mostruoso con le corna, enormi orecchie da cui spuntano serpenti, occhi tondi e due bocche che stanno assaggiando la carne dei dannati (vedi foto alle pp. 90/91); il corpo è pieno di peli e di brufoli con una pancia enorme, un’altra bocca è alle prese con uno sventurato, mentre le ginocchia sono bocche mostruose da cui escono serpenti e una catena gli imprigiona le caviglie sopra le zampe palmate. La figura siede sopra le anime di «procuratores» e poggia le zampe sopra gli «advocatores», due categorie di professionisti a quanto pare scarsamente considerate all’epoca. Tutto intorno si susseguono scene di supplizi terribili, nelle quali sembrano imporsi come protagonisti i demoni soddisfatti del loro lavoro ben eseguito piú delle povere anime che li subiscono. C’è il demone palmato che gira una ruota dentata che strazia i corpi delle sue vittime e poi li getta in un pozzo, oppure quello che cavalca la prostituta, straziandole la schiena, mentre la tiene per i capelli e la sodomizza con la coda. C’è il dannato avvolto dalle spire di un serpente che poi gli esce dalla bocca, indicando forse un colpevole di falsa testimonianza, mentre accanto a lui se la ridono due demoni, uno dei quali ha sulle spalle una gerla colma di anime. Sulla destra si trova un albero del male al quale stanno appese le anime per la parte del corpo che ha peccato, il goloso che viene strozzato da un serpente e non riesce a mangiare il cosciotto che un demone gli infila in bocca; l’usuraio viene ingozzato con oro fuso, mentre un altro diavolo taglia una fetta del braccio di un uomo mentre gli sta divorando la mano. Ma c’è ancora molto di piú, in questo affresco tutto da scoprire: altre composizioni, talmente esagerate ed enfatiche, da risultare quasi divertenti ai nostri occhi moderni, come se fosse la rappresentazione di una scena dell’orrore venata di comicità. Il tutto dona una visione straordinaria, come dicevamo, difficile da descrivere a parole. Una parete con le scene della vita e delle opere di due santi, che racchiudono i canti del Paradiso, le speranze delle anime del Purgatorio e gli strazi di quelle dell’Inferno, con le spiegazioni illustrate su come comportarsi per finire dalla parte giusta dell’aldilà: un insieme eccezionale, come, d’altronde, eccezionale è tutto il resto di questa piccola, meravigliosa chiesa di campagna.

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Storie, uomini e sapori

L’inconfondibile linguaggio del silenzio di Sergio G. Grasso

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l silenzio è una disciplina spirituale profondamente radicata in molte comunità religiose. Pur nella diversità degli approcci, per ebrei, cristiani, musulmani, induisti e buddhisti, il silenzio è inteso come forma di ascesi e pratica introspettiva da cui trarre la consapevolezza mistica necessaria ad approcciare la divinità.

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Fin dalle origini, il movimento monastico cristiano, ha considerato il silenzio elemento peculiare dell’itinerario spirituale del frate che persegue l’elevazione spirituale: silenzio come ascolto interiore ma anche come antidoto alle parole che feriscono la carità, esacerbano l’ego, giudicano e condannano, dividono e suscitano conflitti.

I padri ispiratori del monachesimo furono Antonio e Pacomio, entrambi egiziani, vissuti a cavallo del III e IV secolo, nel momento in cui, cessate le persecuzioni, i cristiani non avevano piú timore di praticare la propria fede o virtú. Antonio fu l’archetipo dell’anacoreta, dell’eremita che cercava Dio nella solitudine del aprile

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deserto vivendo da asceta (askètes = che si esercita) in silenzio e preghiera. Il copto Pacomio, dopo aver a lungo sperimentato la vita contemplativa in una grotta, fu il primo a esortare gli altri anacoreti, eremiti, stiliti e beati misantropi ad abbandonare i loro ritiri e a raccogliersi in una koinonía (comunità) o cenobio (koinòs bíos = vita comune), per attuare una nuova forma di ascesi collettiva, fatta di lavoro e preghiera in un

fraternamente nella carità, nella preghiera e nell’aiuto reciproco, interrompendo la solitudine solo nella quieta comunanza del refettorio e della chiesa.

Il «grande silenzio» Tutti i monaci dispongono di celle individuali in cui leggono, meditano, lavorano in silenzio e dove possono ritirarsi a digiunare anziché mangiare con i fratelli. Dal canto dell’ultima preghiera della

del Nilo, a Tebennisi, e, in breve, vi si raccolsero un centinaio di eremiti. Dopo vent’anni il numero di monaci aumentò al punto da richiedere l’istituzione di altri nove monasteri, tutti disciplinati da regole inflessibili, la prima delle quali riguardava il silenzio diurno e notturno. È il caso del pasto collettivo dei monaci, per il quale Pacomio nel 33° precetto stabilisce: «Si aliquid necessarium fuerit in mensa, nemo audebit loqui sed ministrantibus Tebaide, tempera su tavola variamente attribuita al Beato Angelico, a Gherardo Starnina o a un imitatore settecentesco. Firenze, Galleria degli Uffizi. L’opera raffigura il «territorio di Tebe», la Tebaide appunto, inteso come la regione desertica dell’Alto Egitto, dove i primi monaci ed eremiti cristiani si ritirarono in solitudine.

contesto di silenzio, responsabilità e consapevolezza interiore. La parola «monastero» è apparentemente una contraddizione in termini, poiché monachós significa letteralmente «colui che vive separato». Nella sua accezione piú ampia, il monastero è un luogo in cui una comunità di religiosi governati da un abate vive

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sera (compieta) fino all’alba, in ogni monastero vige il «grande silenzio» e anche durante il giorno al monaco è concesso di parlare solo se necessario alla carità, alla preghiera, a ciò che è essenziale, autentico, veritiero, evitando ogni doppiezza, menzogna e sottinteso. Il primo cenobio fu edificato da san Pacomio, tra il 318 e il 323, sulle rive

signum sonitum dabit» (Se a tavola occorre qualcosa, nessuno oserà parlare ma avviserà quelli che servono battendo un colpo) o ancora sul lavoro: «Operantes nihil loquentur saeculare; sed aut meditabuntur ea quae scripta sunt, aut certe silebunt» e nelle assemblee: «Cumque universae domus in unum fuerint congregatae (...) nec loquentur

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CALEIDO SCOPIO mutuo, sed unusquisque de Scripturis aliquid meditabitur» («Quando si riuniranno insieme tutte le case (...) non parleranno l’uno con l’altro, ma ciascuno mediterà qualche passo delle Scritture»). San Basilio, vescovo di Cesarea, notò che quelle comunità erano sempre situate in luoghi impervi e isolati, impregnate di austerità e rigore, abitate da sant’uomini votati alla contemplazione e alla preghiera, ma avulsi dalla dimensione caritativa del messaggio evangelico; il loro ideale di perfezione cristiana doveva realizzarsi con opere di assistenza e conforto verso chiunque ne avesse bisogno fuori da quelle mura. Basilio fece in modo che i nuovi monasteri sorgessero non piú in luoghi remoti e inaccessibili ma vicini alle città, con annessi ospizi, lebbrosari e ospedali destinati ai poveri, agli infelici e agli infermi. L’opera e le Regole dettate da san Basilio orientarono non solo il

monachesimo greco-bizantino e ortodosso ma influenzarono profondamente anche Benedetto da Norcia che probabilmente ne venne a conoscenza tramite l’abate Servando, vissuto a lungo in Palestina a contatto con i basiliani.

Per parlare serve il permesso Incardinata al precetto «Ora et Labora», la Regola benedettina insiste sul valore del silenzio nei cenobi: «A motivo dell’importanza del silenzio verrà concesso raramente [ai confratelli] il permesso di parlare, fossero ancora discepoli perfetti, anche per intenti buoni, santi ed edificanti», e ancora «Se al maestro conviene parlare ed istruire, al discepolo tocca tacere ed ascoltare». San Benedetto non vieta ai fratelli di comunicare, ma li esorta a considerare la potenza della parola e a servirsene in modo prudente e ponderato; proibisce invece di proferire trivialità, parole oziose ed eccitanti al riso (scurrilitates), poiché «la morte e la vita sono in potere

Sulle due pagine un monastero copto nei pressi di Wadi al-Natrun, Egitto. In basso affresco raffigurante san Pacomio che riceve la Regola dell’Ordine da un angelo. 1595-1596. Sucevita (Romania), chiesa della Resurrezione.

In alto la celebrazione di una festa in onore del sole in una tavola dell’opera Cérémonies et coutumes religieuses de tous les peuples du monde. 1723-1728. In basso vassoio in terracotta raffigurante pesci e peperoncini, dall’area di Cuzco.

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della lingua». Nel capitolo 38 della Regula Sancti Benedicti dedicato alla lettura dei testi sacri durante i pasti, Benedetto fa suo quanto decretato da Pacomio e stabilisce che l’unica voce ammessa durante i pasti comunitari doveva essere (e ancora è) quella del lettore e che: «Si quid tamen opus fuerit, sonitu cuiuscumque signi potius petatur quam voce» («Se poi proprio servisse qualche cosa, si attiri l’attenzione con un segno qualsiasi anziché con la voce»). I segnali dei monaci con gli occhi o la bocca, cosí come i gesti con le mani (signa pro loquela) divennero cosí gli indicia monasteralia utilizzati durante le lunghe ore di silenzio nei chiostri, nelle chiese e nei refettori. La regola del silenzio vigeva negli scriptoria, nelle botteghe e finanche nelle cucine. A tal proposito, nella Vita Sancti Pachomii Abatis, tradotta in latino nel VI secolo da fra’ Dionysius Exiguus, si legge che il santo inflisse tre settimane di dura penitenza al fratello

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cuciniere Teodoro, colpevole di aver permesso a un subalterno di chiedere ad alta voce dell’acqua mentre impastava il pane.

Una capitale della cristianità I piú zelanti nel rispettare i dettami della Regola di San Benedetto furono i monaci dell’abazia borgognona di Cluny, voluta nel 909 dal duca Guglielmo I d’Aquitania, dichiarata soggetta alla sola autorità papale e perciò autonoma dal sistema feudale ed episcopale. Alla fine dell’XI secolo Cluny era considerata la piú progredita capitale della cristianità occidentale, una casamadre a cui si conformavano oltre 10 000 monaci e 1400 monasteri. Abati come Odone († 942) e Odilone († 1043) seppero ridare la perduta austerità originale al precetto benedettino dell’Ora et Labora – e all’imperativo Lege et Tacet – , riportando il monachesimo allo spiritualismo e un ritualismo voluti da san Benedetto. Per dare un’idea

di quanto quei religiosi fossero votati al silenzio, le cronache raccontano che quando i Vichinghi catturarono un gruppo di monaci di Cluny e li interrogarono, quelli affrontarono torture e sevizie senza emettere una sola parola pur di non infrangere il voto del silenzio. Nella Vita Sancti Odonis, scritta da fra’ Giovanni da Salerno si legge che a Cluny: «Quoties necessitas ad exponendum res instabat, toties diversa signa invicem ebant ad perspicienda quae vellent, quas puto Grammatici digitorum et oculorum notas vocare voluerunt. Adeo excrevit inter eos ordo iste ut si sine o qui linguae essent ad omnia necesse est dicere signa ista cere possent» («Ogni volta che vi era necessità di dire qualcosa [i monaci] si capivano usando tanti segni diversi che i grammatici definirebbero linguaggio delle dita e degli occhi. Questo uso crebbe talmente da far ritenere che nessuna altra lingua parlata potesse esprimere le stesse cose»).

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Nel suo resoconto di viaggio in Inghilterra del 1180, il vescovo Gerardo di Cambrai annota che nel monastero cluniacense di Canterbury, durante il pasto serale, i monaci «conversavano» animatamente, servendosi solo di gesti delle dita e delle mani. Osservando quella che gli parve quasi una rappresentazione teatrale, il presule si chiese se l’uso della parola regalatoci dal Creatore non fosse piú rispettoso e pio di quella pantomima. Intorno al 1090, il monaco Udalrico riporta una lista di 52 indicia monasteralia (gesti delle mani, ammiccamenti del viso, movimenti del corpo) usati nel refettorio e nelle cucine di Cluny per non disobbedire alla Regola, segni che diventano 296 (per lo piú sostantivi) nelle relazioni del monaco Bernardo del 1144. Le Constitutiones Hirsaugienses del beato Guglielmo d’Hirsau enumerano 265 signa loquendi e, alla metà del Seicento, l’abate di Notre-Dame de la Trappe, François de Rancé ne descrive dettagliatamente 472: piú che sufficienti, combinati tra loro, per comunicare, esprimere, descrivere e commentare qualsiasi

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cosa, evento o stato d’animo. Si noti che gran parte di questi segni sono ancora oggi usati dai monaci (e dalle monache) in quasi tutti i monasteri, non solo cistercensi.

Basta alzare una spalla... Limitandosi all’ambito culinario, il piú citato dalle fonti manoscritte, molti autori moderni hanno catalogato una gamma di indicia in grado di designare qualsiasi cibo, bevanda, strumento o tecnica, nonché i diversi apprezzamenti o rimproveri al lavoro del cuoco. In linea generale, per formulare una domanda si faceva seguire il gesto riferito all’oggetto da un’alzata della spalla destra. La risposta affermativa si esprimeva abbassando leggermente la testa verso il petto, in senso contrario per il no. Per chiedere un piatto, il monaco teneva il palmo della mano aperto orizzontalmente al mento e alzava la spalla, se si fosse riferito a un bicchiere, avrebbe riunito le dita a tulipano davanti alla bocca o davanti agli occhi se il bicchiere era di vetro. L’acqua si indicava congiungendo le dita come una goccia che cade a terra, il vino portando l’indice

In alto miniatura in cui compare Odilone di Cluny (962-1049), il quinto abate del monastero, dal 994 sino al 1048, poi canonizzato, da un’edizione de Le Miroir Historial di Vincenzo de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé. A destra san Domenico e i suoi confratelli consumano un pasto, particolare della Pala di San Domenico de Guzmán, tempera con inserti in metallo su tavola, dalla chiesa di Sant Miquel de Tamarit de Llitera (Huesca). Primo quarto del XIV sec. Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya. aprile

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flesso alle labbra. Il pane si indicava disegnando con tre dita un cerchio orizzontale, ma ponendoci sopra l’altra mano di taglio, si precisava una fetta. Per le fave bastava far scorrere il pollice destro lungo l’indice sinistro, per i ceci si usava il medio e per le lenticchie l’anulare.

...e annusare il palmo sinistro Chi si riferiva al formaggio univa le mani diagonalmente e imitava la pressatura della cagliata. Succhiare il mignolo con le labbra rappresentava il latte, mentre lambire indice e medio con la lingua equivaleva al miele. L’aglio veniva descritto annusandosi il palmo sinistro, la cipolla avvicinando l’indice all’occhio per simulare una lacrima, i porri alzando al cielo pollice e indice uniti, le ciliegie mettendo il dito medio sotto l’occhio destro mentre sotto a quello sinistro si indicavano le noci. Grattarsi la gola col dito medio significava l’aceto, con il mignolo il limone e con l’indice la senape. Passare tutte le dita stese della mano destra sul palmo della sinistra indicava il burro, ma se il dito fosse stato singolo ci si sarebbe riferiti all’olio. Sebbene manchino riferimenti gestuali alla carne, alimento proscritto dalle tavole monacali, abbondano i riferimenti al pesce e alle sue diverse varietà. Premettendo il segno per pesce (movimento ondulatorio della mano all’altezza del petto), bastava agitare le dita verso il basso per nominare la seppia, se invece le dita venivano aperte e chiuse lentamente si indicava il polpo; i pugni sovrapposti nel gesto di afferrare rappresentavano l’anguilla, le labbra ad anello con quattro dita appoggiate alla guancia individuavano la lampreda, l’indice poggiato a unire le sopracciglia evocava l’orata mentre storione e salmone richiedevano che il mento venisse spinto con il pugno, quasi a indicare una loro presunta superbia.

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Quando i santi prendevano le armi

Con il libro e con il coltello di Paolo Pinti

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an Bartolomeo non sembra essersi distinto per imprese di particolare rilevanza, o almeno non ce n’è traccia nei Vangeli o in altre fonti. La sua santità, quindi, è dovuta a al fatto di essere uno dei dodici Apostoli. Bartolomeo – che nel Vangelo secondo Giovanni è denominato Natanaele (dono di Dio), ma per alcuni studiosi si tratta di due soggetti diversi – nacque probabilmente a Cana, nel I secolo d.C., e morí intorno all’anno 68 dello stesso secolo. Della sua vita non sappiamo praticamente nulla e anche sulla sua morte non abbiamo notizie, a parte la tradizione che lo vuole ucciso (si suppone, martirizzato) e scuoiato, forse per ordine del re dei Medi in Siria, mentre altre fonti collocano l’evento nell’Atropatene (la parte nord-occidentale della Media, cosí chiamata da Atropo III, che ne fu il satrapo sotto Dario III, n.d.r.), l’attuale Azerbaigian. Nonostante la mancanza di miracoli o gesta piú o meno clamorose o esemplari, Bartolomeo fu attivo come apostolo, svolgendo la sua predicazione in Medio Oriente, e piú precisamente in Mesopotamia, e forse si spinse appunto fino all’Atropatene e all’India. È stato ed è tuttora molto venerato, tanto da essere il patrono di molte decine di Comuni italiani. È anche il protettore di numerose categorie di lavoratori: calzolai, commercianti di pelli, conciatori, cuoiai, fabbricanti

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San Bartolomeo con la propria pelle, particolare del Giudizio Universale dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina. 1536-1541. La spoglia del martire comprende un volto, tradizionalmente identificato con un autoritratto dello stesso Buonarroti. aprile

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di guanti e di manufatti di pelle, fattori, imbianchini, macellai, pellicciai, rilegatori di libri, sarti, stuccatori. Tutti costoro lo scelsero per via del suo legame con il coltello con cui sarebbe stato scuoiato, che costituisce il suo simbolo identificativo.

San Bartolomeo, statua di Pierre Legros il Giovane. 1705-1712. Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano.

Il santo «gemello» Dal punto di vista iconografico il santo viene costantemente raffigurato nell’atto di essere scuoiato oppure con un coltello e un libro in mano. Non ci si può sbagliare. Oppure sí? In realtà, esiste un altro santo – Ruffino o Rufino – che viene ritratto mentre tiene con una mano un libro e con l’altra un coltello, proprio come Bartolomeo. Cercando notizie sulla storia della sua vita, si trova molto poco e, di sicuro, nessun riferimento ai coltelli. Nel 1807, la ricognizione dei suoi resti, conservati nell’abbazia dei Ss. Rufino e Vitale ad Amandola (Fermo), ha permesso di rilevare la presenza di una ferita al collo e in una teca si può vedere una statua ottocentesca con una lesione analoga. In alcune fonti, si parla di lui come di un ex soldato, ma senza ulteriori spiegazioni. Anche il libro, in apparenza, non ha ragion d’essere, eppure c’è. E sempre nell’abbazia di Amandola troviamo un affresco dei primi del XV secolo, con una Madonna e ai lati due santi uguali fra loro (vedi foto a p. 110, in basso), che, esattamente come Bartolomeo, mostrano come loro simboli un libro e un coltello. In questo caso, però, si tratta di due immagini del medesimo santo, Ruffino appunto, come indica una scritta, e, soprattutto, entrambi appaiono molto piú giovani, mentre l’Apostolo è avanti negli anni e ha la barba. Tornando dunque a Bartolomeo, va detto che la mitologia classica ci propone un precedente celeberrimo: l’episodio in cui Apollo

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CALEIDO SCOPIO scuoia vivo il sileno Marsia, che aveva avuto l’ardire di sfidarlo in una gara musicale che oppose il doppio flauto del sileno alla lira del dio. Per gli artisti delle epoche successive si trattava dunque di una fonte d’ispirazione perfetta per raffigurare la scena di uno scorticamento in chiave edificante. Nella scultura, il soggetto ispirò perfino il grande Prassitele, mentre l’opera forse piú conosciuta in pittura è la Punizione di Marsia di Tiziano Vecellio, eseguita fra il 1570 e il 1576 e oggi conservata nel Museo Arcivescovile di Kromeríž, nella Repubblica Ceca.

Un soggetto di successo A riprova del fascino da sempre esercitato dall’orrido, il tema fu assai apprezzato ed ecco perché oggi possediamo un ricco repertorio di opere pittoriche anche in ambito religioso, nelle quali san

A destra Martirio di san Bartolomeo, olio su tela attribuito a Giovanni Canti. Fine del XVII sec. Parma, Complesso monumentale della Pilotta. In basso Amandola (Fermo), abbazia dei Ss. Ruffino e Vitale. Affresco nel quale, ai lati della Madonna, compaiono due ritratti di san Rufino, che, in entrambi i casi, mostra un coltello e un libro. Inizi del XV sec.

Bartolomeo viene straziato con ricchezza di dettagli, tanto piú ambiti dai committenti quanto piú realistici. Michelangelo, nel Giudizio Universale, ritrae l’Apostolo con in mano l’intera sua pelle, completa di capelli, naso, bocca... (vedi foto a p. 108) e, rispetto allo scorticamento, questa immagine è di certo piú moderata, sebbene risulti piuttosto bizzarra la pelle intera, con il viso praticamente intatto e che, dopo il restauro dell’affresco, sembra potersi interpretare come un autoritratto del grande artista. Decisamente grottesca è la figura del martire nel San Bartolomeo Apostolo (1480 circa) di Matteo di Giovanni, una tempera su tavola oggi conservata a Budapest, nel Museo di Belle Arti: completamente scuoiato e rosso per il sangue, il santo ha la pelle avvolta sul corpo come un mantello, cosí come il San Bartolomeo scorticato (1562), statua di Marco d’Agrate, nel Duomo di Milano. Il coltello compare nelle mani dei carnefici nelle scene di scuoiamento

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e solo saltuariamente in quelle del santo quando figura già privato della pelle; tuttavia, san Bartolomeo vestito ne è sempre dotato, anche perché è il suo simbolo, che consente ai fedeli di identificarlo con sicurezza.

Quando si dice coltello... Se parliamo di coltello, ci sembra di sapere senz’altro che cosa sia: in realtà, occorre tenere conto dei diversi ambiti in cui lo collochiamo. Tecnicamente, in un glossario, si deve definire coltello lo strumento da taglio da impugnare con la mano, munito di lama a un solo filo. Si dovrebbe parlare di strumento/ utensile e non di arma, ma se di generose dimensioni e provvisto di punta, le cose si complicano. Il grosso e conosciutissimo coltello da macellaio è anche appuntito e nulla ha da invidiare a molte armi bianche manesche, ma va sempre classificato come utensile, in quanto il suo fine naturale non è l’offesa alla persona. Dal punto di vista giuridico, le cose sono incredibilmente complicate: basterà sottolineare come, per evitare la galera, nel caso in cui si voglia girare armati di coltello, si deve fare attenzione alla lunghezza della lama, alla sua morfologia (a doppio filo, a un filo e mezzo, a un solo filo), al tipo di chiusura/fissaggio lama di cui è dotato... Nei quadri in cui compare san Bartolomeo, i coltelli sono sempre a lama fissa, a un solo filo, ma molto spesso quest’ultimo e la punta sono di dimensioni notevoli e molto robusti. In casi rari, ma non rarissimi, sulla lama è ben rappresentata la marca del fabbricante: si tratta di una curiosità degna di nota, che «segna» proprio le raffigurazioni del nostro santo. Va premesso che l’uso di imprimere, con un punzone, la marca distintiva del fabbricante sulle lame delle spade, ma anche sui ferri delle armi in asta o sulle armature, è stato sempre molto diffuso e, fino a tempi

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San Bartolomeo, particolare della predella del Polittico di Sant’Emidio (o di Ascoli Piceno), tempera e oro su tavola di Carlo Crivelli. 1473. Ascoli Piceno, cattedrale di S. Emidio. Si noti la marca del fabbricante sulla lama del coltello. recentissimi, si applica a scuri e vari attrezzi da taglio contadini. Piú di un pittore ha «colto» questo particolare nelle armi prese a modello per le proprie opere, rappresentandolo. Uno dei casi piú noti e importanti è nell’affresco nella Libreria Piccolomini, nella Cattedrale di Siena, eseguito fra il 1502 e il 1507 dal Pinturicchio, con Amico Aspertini e Raffaello Sanzio tra i collaboratori. Qui, nella scena

di Enea Silvio Piccolomini che parte per il concilio di Basilea, un fante impugna un roncone, che ha il ferro chiaramente marcato con il segno dello scorpione, una delle marche piú frequenti e misteriose, che a volte presenta la scritta ILO al suo interno. Ed è peraltro curioso che marche dei fabbricanti compaiano, ben descritte, su semplici coltelli, che possiamo conoscere attraverso le raffigurazioni di san Bartolomeo.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Massimo Oldoni La famiglia di Arlecchino Il demonio prima della maschera

Donzelli Editore, Roma, 332 pp. + 16 pp. ill. col. f.t.

35,00 euro ISBN 978-88-5522-268-6 www.donzelli.it

Chi si cela dietro la maschera? La domanda viene istintiva quando, nel corso del Carnevale, la realtà viene sospesa e ciascuno di noi può assumere le fattezze di un personaggio. Ma se la veste è quella di Arlecchino, la questione è ancor piú intrigante, perché proprio la maschera nasconde un’origine del tutto insospettabile. Con il suo tripudio di colori e la sua proverbiale astuzia, Arlecchino si fa gioco dei potenti e dispensa allegria al suo solo apparire. Nessuno associerebbe una figura del genere a un corteo di defunti che appare nella notte, eppure Arlecchino nasce proprio in un

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contesto cosí orrifico. Massimo Oldoni ripercorre le origini della maschera lungo un appassionante itinerario nella letteratura medievale, e coinvolge il lettore in un raffinato dedalo di fonti, spesso tradotte in italiano per la prima volta, e commentate con gioiosa meticolosità. Arlecchino si presenta cosí, all’esordio del libro, nella puntuale testimonianza affidata in Normandia dal prete Gualchelino allo storico Orderico Vitale. Questi racconta in modo dettagliato l’incontro con la familia Herlechini in una notte di luna del 1091, a Capodanno. Si trattava di una interminabile schiera di morti che camminavano in preda a supplizi di ogni genere. Sono i «biotanati», ossia coloro che hanno subíto una morte violenta, e che sono costretti a vagare come fantasmi posseduti da Satana. Tutti costoro hanno una storia, e molti di essi sono personaggi di alto livello e di ampia notorietà, costretti alle pene infernali. Gualchelino assiste cosí a un «treno apocalittico», un convoglio di anime in pena che transita nella

notte. E Arlecchino è il demonio che guida il corteo. Persino quando diviene il «servo villano» che scende in città con il suo abito pieno di toppe, mantiene ancora un barlume della sua identità satanica. I tanti colori del suo abito alludono ai mille stratagemmi che adotta per farsi gioco delle anime. La risata inconfondibile, stridula e sguaiata, esprime il ghigno tipico degli esseri infernali. Proprio Gualchelino, nel suo incontro notturno, si confronta con un gigante che gli sbarra la strada brandendo una clava, e quell’arma prefigura la mazza che il «nostro» Arlecchino nasconde dietro la schiena. Sono solo alcune suggestioni di un percorso davvero iridescente, ricco di connessioni gustose con la figura di re Artú o con la stessa esperienza ultraterrena di Dante, in un mondo dove i confini tra la realtà e la fantasia, tra la maschera e la persona erano estremamente labili, sino a comporre un affresco vivacissimo, che ha proprio la sgargiante policromia dell’abito arlecchinesco. Furio Cappelli

Sara Salvadori Hildegard von Bingen Nel cuore di Dio

Skira editore, Milano, 144 pp., ill. col.

35,00 euro ISBN 978-88-572-4658-1 www.skira.net

A poco meno di tre anni dall’analogo progetto editoriale dedicato allo Scivias (vedi «Medioevo» n. 273, ottobre 2019; anche on line su issuu.com), Sara Salvadori

torna a cimentarsi con la produzione di Ildegarda di Bingen, affrontando questa volta il Liber Divinorum Operum, l’ultima delle opere che compongono la trilogia profetica della mistica benedettina. Scaturito dalle visioni che la religiosa ebbe il privilegio di avere, il Liber fu composto fra il 1163 e il 1174 e ci è giunto nella splendida edizione manoscritta oggi conservata presso la Biblioteca Statale

di Lucca (vedi anche «Medioevo» n. 195, aprile 2013; anche on line su issuu.com). Il codice fu realizzato dopo la morte della religiosa renana, negli anni Venti del XIII secolo ed è noto soprattutto per le magnifiche miniature che ne illustrano e traducono per immagini il pensiero e le rivelazioni di cui fu destinataria. Immagini che ora costituiscono il cardine del volume, poiché, nelle varie sezioni dell’opera, oltre a essere descritte, esse vengono interpretate, offrendo al lettore le chiavi di lettura che permettono di andare ben oltre i meri elementi estetici. Un’operazione che culmina con la ricostruzione della Civitas Dei, «L’Edificio – come spiega Salvadori – che è immagine della prescienza divina, e mostra all’uomo che tutto abita in Dio e tutto a lui torna». Un percorso affascinante che l’autrice ha il merito di rendere accessibile anche ai non specialisti di una materia invero complessa, avvicinandoci al pensiero di una delle menti piú acute del Medioevo. Stefano Mammini aprile

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Elena Percivaldi Lombardia medievale 55 luoghi da scoprire Edizioni del Capricorno, Torino, 239 pp., ill. col.

14,00 euro ISBN 978-88-7707-513-0 www.edizionidelcapricorno.it

Studiosa attenta alla valorizzazione del patrimonio e alla divulgazione della sua conoscenza, Elena Percivaldi firma questa agile guida alla scoperta del

Medioevo lombardo. Come spiega nell’Introduzione, la ricchezza delle testimonianze è tale da averla indotta a selezionare unicamente monumenti religiosi, presentati in successione cronologica, dalle attestazioni riferibili ai secoli precedenti l’anno Mille a quelle tre-quattrocentesche. Di ciascun edificio viene ripercorsa la storia e vengono descritte le

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caratteristiche essenziali: notizie corredate da un ampio apparato iconografico e da utili indicazioni sulle modalità di visita. La rassegna comprende siti ben noti, ma anche contesti solitamente estranei alle direttrici piú battute dal turismo e il volume può dunque essere un prezioso invito alla scoperta di realtà solo all’apparenza minori. A riprova, anche in Lombardia, di una presenza della cultura significativa e soprattutto capillare, che è la peculiarità forse piú preziosa del territorio italiano. S. M. Alberta Campitelli Gli Horti dei papi I giardini vaticani dal Medioevo al Novecento

Editoriale Jaca Book, Milano, 354 pp., ill. col.

50,00 euro ISBN 978-88-16-60637-1 www.jacabook.it

Nuova edizione per un’opera di grande interesse, che permette di scoprire un patrimonio paesaggistico e culturale di straordinario valore: i 22 ettari dei Giardini Vaticani, magistralmente raccontati e descritti da Alberta Campitelli,

storica dell’arte che si è affermata come una delle piú autorevoli voci in materia, facendosi conoscere soprattutto per essere stata a lungo direttore delle Ville e dei Parchi Storici del Comune di Roma. Quella degli spazi verdi racchiusi dalla cerchia delle mura vaticane è una vicenda plurisecolare, che ebbe inizio già nel XIII secolo, quando papa Leone IV promosse la creazione di un viridarium che fu il piú antico giardino di Roma. S. M. Valentina Orlando Il Medioevo per Gioco

illustrazioni di Celina Elmi, Federighi Editori, Certaldo (Firenze), 48 pp

13,00 euro SBN 978-88-98897-37-7 Valentina Orlando Dante Alighieri. Una vita

illustrazioni di Celina Elmi, Federighi Editori, Certaldo (Firenze), 60 pp.

14,00 euro ISBN 978-88-89159-86-6 www.federighieditori.it

Puntano sul fascino che l’età di Mezzo può avere per i piú piccoli due pubblicazioni di Federighi Editori, casa editrice di Certaldo (Firenze) specializzata in illustrati per bambini e stampe d’arte. Il Medioevo per Gioco, con testo accattivante di Valentina Orlando e illustrazioni firmate da Celina Elmi, con una cura particolare per i dettagli e le ambientazioni, rientra nella collana Le Novelle della Cipolla, pensata per far accostare in maniera ludica i ragazzi ai popoli del passato e ai classici della letteratura. La protagonista del testo, Clara, una studentessa di archeologia, attraverso la lettura che comincia nella biblioteca della sua cittadina, si lascia trasportare indietro nei secoli, calandosi in un itinerario medievale che tocca botteghe, abbazie, castelli, villaggi sperduti. La ragazza conosce la vita quotidiana del tempo, grazie all’incontro con dame paggi e cavalieri: assistendo a giostre, banchetti, spettacoli di falconeria prende appunti sul suo inseparabile quaderno, per fissare concetti come il feudalesimo, la

centralità della Chiesa nella vita comunitaria, la suddivisione della società nelle categorie di chi combatte, prega e lavora. Fa parte invece della collana I Grandi per Gioco, dedicata a interpreti geniali di storia arte e scienza, il volume Dante Alighieri. Una vita, che racconta, con testi e disegni delle stesse autrici, aspetti personali e intimi del sommo poeta, visto come uomo innamorato e

padre, oltre che come scrittore e politico, attraverso le parole di una giovane libraia. A riconferma dei tanti spunti di lettura che continua a offrire l’autore della Divina Commedia. Stefania Romani aprile

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