Medioevo n. 301, Febbraio 2022

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SOMMARIO

Febbraio 2022 ANTEPRIMA

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AMORI MEDIEVALI La tragedia che «offese» Dante di Federico Canaccini

5

ARCHEOLOGIA Un tesoro dall’East Anglia Tutti in riga per l’aldilà

6 8

di Elena Percivaldi

MULTIMEDIALITÀ Bonifacio senza segreti

12

di Dario Ghiggi

MUSEI Fra Girolamo ritorna in convento 14 APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

16

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Lazio Nella terra dei gigli

STORIE MOSTRE Pistoia, una città tra Toscana ed Europa

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di Giuliano Pinto

di Giovanni Antonio Baragliu, Carlo Casi e Luciano Frazzoni

96

COSTUME E SOCIETÀ

96

VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/2 Dio ci salvi dai professionisti!

CALEIDOSCOPIO 52

OLTRE LO SGUARDO/11 Il Tetramorfo

Il mistero dei quattro Viventi di Furio Cappelli

STORIE, UOMINI E SAPORI Quel difetto di un imperatore «cattolicissimo» 108

di Sergio G. Grasso 62

VALENTINO, UNO, NESSUNO O CENTOMILA? di Arnaldo Casali

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di Corrado Occhipinti Confalonieri

Dossier

LIBRI Lo Scaffale

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Hanno collaborato a questo numero: Giovanni Antonio Baragliu è dirigente tecnico presso la Riserva naturale regionale Selva del Lamone-Farnese (VT). Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Arnaldo Casali è giornalista, storico e saggista. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesco Colotta è giornalista. Luciano Frazzoni è archeologo. Dario Ghiggi è amministratore delegato di Publics ICC. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Giuliano Pinto è professore emerito di storia medievale all’Università di Firenze. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

19/01/22 15:50

MEDIOEVO Anno XXVI, n. 301 - febbraio 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e pp. 28/29) e pp. 26/27, 30/31, 70-73, 75, 78/79, 84 (alto), 89, 91 (centro), 92-93, 94 (alto) – Doc. red.: pp. 5, 65, 68 (alto), 69, 84/85, 85, 94 (basso), 95, 108, 110/111 – British Museum, Londra: Ufficio Stampa: pp. 6-7 – Landesamt für Denkmalpflege im Regierungspräsidium, Stoccarda: ArchaeoBW: pp. 8/9, 9 (alto); F. Damminger: p. 9 (basso), 10 (basso); A. Furan: p. 10 (alto e centro) – Ufficio stampa-Istituzione Bologna Musei: pp. 12-13 – Ufficio Stampa-Firenze Musei: pp. 14-15 – Cortesia Pistoia Musei pp. 30 (basso), 32 (basso), 33, 35, 36 (alto e basso), 38/39, 40/41, 41, 42-43, 44, 46, 46/47; Lorenzo Gori: pp. 30 (alto), 32 (alto), 34, 36/37, 38, 40, 45, 47, 48-49 – Mondadori Portfolio: Album/Jean Vigne/Kharbine Tapabor: pp. 52, 56; Album/Prisma: p. 53; Fototeca Gilardi: pp. 60, 79, 90; Album/Fine Art Images: p. 63; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 66; Album/Oronoz: pp. 66/67; Electa/ Sergio Anelli: p. 68 (basso); AKG Images: pp. 76, 82, 88, 91 (alto), 109; Album: pp. 80/81, 86; Album/Collection IM/Kharbine Tapabor: p. 87; Erich Lessing/Album: p. 110 – Bibliothèque nationale de France, Parigi: p. 54 – Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi: pp. 54/55, 57, 58-59 – Penn Museum, Filadelfia: p. 64 – National Gallery of Art, Washington: p. 77 – Alamy Stock Photo: p. 83 – Massimo Tomasini: pp. 96/97, 99, 100 (alto), 101, 105 – Cortesia degli autori: pp. 98, 100 (centro), 102, 103, 104, 106-107 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 29, 98/99.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Pistoia. Il battistero di S. Giovanni in Corte, edificato in forme gotiche tra il 1301 e il 1366.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente scoperte

oltre lo sguardo

dossier

I Vichinghi nel Nuovo Mondo?

Il serpente di bronzo

L’Ordine teutonico e la conquista del Baltico


amori medievali di Federico Canaccini

La tragedia che «offese» Dante

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Dante Alighieri dobbiamo le poche informazioni sulla sfortunata storia d’amore di Paolo Malatesta e Francesca da Polenta. Le fonti documentarie, infatti, sono particolarmente avare riguardo a questi due personaggi storici che hanno fatto emozionare i lettori della Commedia, colpiti da versi celeberrimi, come «Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse». Tra il 1275 e il 1282, Guido da Polenta, in una strategia politica oculata, decide di dare in sposa la propria figlia Francesca a Giovanni dei Malatesta, che lo aveva aiutato a cacciare la famiglia rivale dei Traversari: Giovanni era zoppo e il suo soprannome, Gianciotto, lo attesta in modo inequivocabile. Dalle nozze nacque una figlia, di nome Concordia, in onore della madre di Gianciotto. Giovanni aveva un fratello, Paolo, detto il Bello, terzogenito di Malatesta da Verucchio, detto da Dante il «Mastin Vecchio». Costui aveva sposato nel 1269 Beatrice dei conti di Ghiaggiolo, da cui ebbe due figli. Paolo rivestí il ruolo di Capitano del Popolo a Firenze tra il 1282 e il 1283, ed

è quindi verosimile che Dante lo abbia conosciuto personalmente. Di fatto, il racconto intessuto nel V canto dell’Inferno riguardo all’adulterio e al duplice omicidio, è l’unica fonte coeva del dramma, ignorato dai cronisti e dagli storici del tempo. Gli aneddoti fioriti attorno alla vicenda e che spesso si trovano a corredo dei commenti danteschi, nascono proprio dai versi dell’Alighieri. Boccaccio, per esempio, si dilunga sui dettagli narrativi e la forza patetica: Francesca sarebbe stata data in sposa per ragioni politiche a un uomo riprovevole, e addirittura ingannata nella promessa di matrimonio, giacché credette di sposare il «bel Paolo», del quale si era già innamorata, mentre questi rivestiva il mero ruolo di procuratore facendo le veci del fratello. L’epilogo è noto: l’adulterio, consumato nella rocca di Gradara, fu scoperto da Gianciotto, il quale, tra il 1283 e il 1284, uccise tanto il fratello quanto la moglie, in un modo che «ancor m’offende», parole che commossero i poeti già nei decenni successivi al tempo di Dante. I fantasmi di Paolo e Francesca appaiono a Dante e Virgilio, olio su tela di Ary Scheffer. 1854. Amburgo, Kunsthalle.

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ANTE PRIMA

Un tesoro dall’East Anglia

ARCHEOLOGIA • Quando l’Inghilterra era

divisa in sette regni, in quella che oggi è la contea di Norfolk, fu nascosto un ricco tesoro di monete e oggetti in oro. Recentemente scoperto, aggiunge un tassello prezioso allo studio dell’economia anglosassone

L

a contea di Norfolk (Inghilterra orientale) si candida a patria del piú ricco tesoro di monete d’oro dell’età anglosassone mai rinvenuto finora. La scoperta si deve alle ricerche di due appassionati, che, armati di metal detector, hanno raccolto – fra il 2014 e il 2020 – 131 monete e quattro oggetti, anch’essi in oro, in una località che, su richiesta del primo dei due (al quale si deve il ritrovamento di gran parte del tesoro), non è stata specificata. I reperti, attualmente depositati presso il British Museum, furono seppelliti poco dopo il 600, al tempo in cui la contea di Norfolk era parte dell’East Anglia, uno dei regni dell’eptarchia inglese. Le monete sono soprattutto tremissi franchi, ai quali si aggiungono nove solidi aurei bizantini. Quanto agli oggetti, si tratta di un bratteato (un medaglione battuto su una singola faccia), di una piccola barra e di due pezzi probabilmente appartenenti a monili: la loro presenza suggerisce che le monete fossero state tesaurizzate come equivalenti di un lingotto e non per il loro valore nominale.

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Sulle due pagine varie immagini del tesoro di epoca anglosassone scoperto nella contea di Norfolk. 600 d.C. circa. I reperti sono attualmente depositati presso il British Museum di Londra. L’insieme si compone di 131 monete in oro, in larga maggioranza tremissi franchi, e quattro oggetti, anch’essi d’oro. Questi ultimi sono ben riconoscibili nella foto alla pagina accanto, a sinistra: si tratta di un bratteato (un medaglione battuto su una sola faccia), di una barretta e di due pezzi frammentari che, in origine, si ritiene facessero parte di altrettanti gioielli. L’East Anglia, che, oltre al Norfolk comprendeva il Suffolk, era uno dei piú importanti regni dell’antica Inghilterra e, a oggi, il suo territorio è fra quelli in cui le scoperte scaturite dall’uso dei metal detector sono state piú numerose e la nuova acquisizione non deve quindi sorprendere. I materiali provengono da un terreno nel quale una prima e isolata moneta d’oro era stata trovata nel 1990, che adesso sembra logico immaginare facesse parte anch’essa del tesoro.

Nuova luce sull’economia anglosassone Commentando la scoperta, Gareth Williams, del British Museum, ha detto: «Si tratta di un ritrovamento di eccezionale importanza. Il tesoro è cronologicamente vicino alla celebre nave funeraria di Sutton Hoo, nel Suffolk, e, sebbene la quantità complessiva di oro sia inferiore, ben piú alto è il numero delle monete. In ogni caso, il tesoro va valutato nel piú ampio contesto dei ritrovamenti avvenuti nell’East Anglia e non solo e potrà contribuire a una migliore conoscenza dell’economia dell’Inghilterra anglosassone». (red.)

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ANTE PRIMA

Tutti in riga per l’aldilà ARCHEOLOGIA •

A Knittlingen, nel land del Baden-Württemberg (Germania) la scoperta di una vasta necropoli in uso fra il VI e il VII secolo getta nuova luce sugli usi e i costumi delle genti stanziate in quelle terre nell’età delle Migrazioni 8

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l territorio circostante la città tedesca di Knittlingen, nel Baden-Württemberg, fu abitato sin dal Neolitico, come prova il ritrovamento di strutture databili al 5000-4500 a.C. La sua storia documentata inizia però nell’843, quando, dopo la sua fondazione, il borgo di «Cnudelingen» compare per la prima volta nelle fonti. In seguito, Knittlingen sarebbe entrata a far parte dei possedimenti del margraviato di Baden per poi finire sotto il controllo dell’abbazia cistercense di Maulbronn,

fondata nel 1147 e ancora oggi ben conservata. Il suo territorio, tuttavia, era occupato anche nell’Alto Medioevo, come indica il ritrovamento, effettuato nel 1984 in occasione dei lavori di costruzione di una zona residenziale, di una serie di sepolture poste a ovest del nucleo urbano. Ora, con la ripresa del progetto in vista dell’ulteriore sviluppo dell’area situata «Im Bergfeld», gli archeologi dalla ditta ArchaeoBW, incaricata di effettuare gli scavi per conto del Landesamt für Denkmalpflege (LAD), l’Ufficio febbraio

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statale per la conservazione dei monumenti del Consiglio regionale di Stoccarda, hanno riportato alla luce un cimitero altomedievale con altre 110 tombe, che fornirà nuovi dettagli sull’occupazione del territorio nell’età delle Migrazioni (nella piú recente letteratura scientifica, soprattutto di area tedesca e anglosassone, tale espressione fa riferimento ai secoli e agli avvenimenti tradizionalmente noti come età delle «invasioni barbariche», n.d.r.). Frequentata

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In alto Knittlingen «Im Bergfeld» (Germania). Un settore del cimitero altomedievale. Il fossato circolare accoglieva una sepoltura maschile. Nella pagina accanto un’immagine da drone di una porzione del cimitero. In basso una tomba maschile. Prima metà del VII sec. Il defunto fu sepolto con spatha e lancia (quest’ultima non visibile nella foto).

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ANTE PRIMA tra il VI e il VII secolo, la necropoli si presenta secondo il consueto schema merovingio «a righe», disposte in maniera piú o meno regolare; un nucleo di sepolture privilegiate, con tutta probabilità afferenti a un gruppo familiare di spicco, è stato inoltre rinvenuto all’interno di un’area separata, delimitata dal resto del cimitero da un fossato circolare.

A destra fibula a disco in filigrana d’oro, da una tomba femminile. Inizi del VII sec. Qui sotto amuleto in bronzo, da una tomba femminile. VII sec. In basso sepoltura di un cavallo decapitato.

Tombe monumentali A rimarcare la stratificazione sociale della comunità lí insediata, del resto, le strutture funerarie comprendono deposizioni in nuda terra e in cassa lignea, ma anche possibili «case della morte», tombe monumentali formate da una fossa nel terreno con copertura sostenuta da pali, ampiamente documentate nell’età delle Migrazioni e solitamente riservate a membri particolarmente eminenti. I defunti erano stati sepolti, secondo gli usi

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dell’epoca, con il loro costume tradizionale e accompagnati da ceramiche contenenti offerte alimentari, viatico per l’aldilà. Le deposizioni piú ricche, risalenti alla seconda metà del VI secolo, appaiono caratterizzate da vasellame di bronzo e sontuosi corredi personali: monili, collane, fibule, orecchini e bracciali, amuleti e utensili di uso quotidiano come coltelli e pettini per le donne, armi – spathae (spada a doppio taglio), lance, elementi degli scudi, punte di freccia – e cinture multiple per gli uomini. Notevole è il ritrovamento, nei pressi di una tomba maschile, di uno scheletro equino acefalo: un’usanza, quella di sacrificare e seppellire i cavalli accanto ai loro padroni, attestata anche in Italia in ambito longobardo. Di particolare interesse è anche una fibula a disco femminile, finemente decorata in filigrana d’oro e databile al VII secolo, che «annuncia» il progressivo cambiamento delle mode dovute all’intensificarsi dei contatti con il Mediterraneo. Con la fine del VII secolo, i corredi si fanno via via piú sobri, sintomo di un impoverimento della società oppure, piú probabilmente, del mutamento dei costumi funerari. Elena Percivaldi febbraio

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ANTE PRIMA

Bonifacio senza segreti MULTIMEDIALITÀ • La fruizione delle opere custodite dal Museo Civico Medievale

di Bologna si arricchisce di un nuovo strumento digitale. Che offre punti di vista inediti e fa scoprire anche dettagli altrimenti difficili da cogliere

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all’integrazione tra le piú avanzate tecnologie digitali, la modellizzazione in 3D e contenuti audiovisivi nasce «Meraviglie nascoste al museo», un nuovo racconto delle collezioni del Museo Civico Medievale di Bologna che la start up Publics ICC ha ideato e sviluppato, in partnership con l’Istituzione Bologna Musei, come declinazione del progetto «3D ART XP», pensato per andare incontro alle esigenze di istituzioni culturali e pubblici sempre piú consapevolmente orientati verso il tema dell’accessibilità della conoscenza. Il sito www.

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museocivicomedievalebologna. publicsicc.com integra ed espande la funzione espositiva reale dei musei, sfruttando il potenziale del digitale, per favorire la piú ampia divulgazione del patrimonio e, allo stesso tempo, stimolare e alimentare la riscoperta e l’approfondimento di argomenti e tematiche storiche, sociali e culturali. Attraverso un tour immersivo in alta definizione, la riproduzione tridimensionale di manufatti e la realizzazione di video storytelling, l’esplorazione virtuale si presenta come un’esperienza completa e dinamica, proprio come se il visitatore venisse trasportato direttamente all’interno degli febbraio

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Sulle due pagine schermate tratte dal sito del progetto «Meraviglie nascoste al museo», dedicato a una selezione delle opere custodite nel Museo Civico Medievale di Bologna.

spazi museali. La tecnologia laser a luce strutturata ha consentito di ottenere scansioni reali di ambienti funzionali alla creazione del modello in alta definizione dell’intero spazio museale, liberamente percorribile su qualsiasi tipo di device. Grazie a scanner mobili a luce strutturata e alla riproduzione in 3D con software di modellazione di ultima generazione, è stato creato un catalogo tridimensionale di 45 manufatti, per la prima volta esperibili a 360° e apprezzabili in tutti i dettagli e le caratteristiche formali, non sempre visibili a occhio nudo. Si può cosí «toccare con mano» la matrice del sigillo di Nicola D’Este di manifattura ferrarese (XIV-XV secolo) per osservarla nella sua interezza da angolazioni differenti, oppure apprezzare da vicino la minuziosità dei dettagli con cui è stato realizzato l’avorio intagliato di scultore fiammingo raffigurante la decapitazione del condottiero assiro Oloferne per mano della vedova ebrea Giuditta (prima metà del XVII secolo) o, ancora, ammirare l’esercizio di ardito virtuosismo con cui nel 1564 il Giambologna modellò il bozzetto originale del

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Nettuno, con l’artificioso risalto delle parti anatomiche.

Arrogante eppure benvoluto Un impegno del tutto particolare ha richiesto il processo di scannerizzazione e modellazione eseguito sulla monumentale statua

di Bonifacio VIII (1230-1303). Nonostante la fama di uomo arrogante e accentratore, avido di potere e ricchezze, il pontefice riuscí a far breccia nel cuore dei cittadini bolognesi, al punto da meritarsi una statua in suo onore, grazie al favorevole intervento risolutivo nella storica faida con Ferrara. In segno di riconoscenza, una sua effigie da collocare sulla facciata di Palazzo comunale venne commissionata all’orafo Manno

di Bandino da Siena il quale, per accentuarne l’effetto di ieraticità sacrale, realizzò l’opera in rame battuto dorato e bronzo fuso su un’anima di legno. Con i suoi 2,75 m di altezza, ancora oggi la scultura del papa ritratto nell’atto della benedizione apostolica svetta tra le opere piú iconiche del Museo Civico Medievale e tra i simboli della città di Bologna. «Meraviglie nascoste al museo» vuole configurarsi come una vera e propria piattaforma culturale integrata, volta a conferire un plus valoriale prima, durante e dopo la visita diretta negli spazi museali. E proprio in funzione di questa attenzione a soddisfare le esigenze del pubblico i visitatori possono completare l’esperienza di visita grazie alle schede di approfondimento integrate direttamente sui modelli 3D e ai contenuti multimediali articolati in 7 percorsi tematici, in cui è il direttore del museo stesso, Massimo Medica, ad accompagnarli in un viaggio che, come direbbe lo storico Jacques Le Goff «potrà darvi il duplice piacere di incontrare insieme l’altro e voi stessi». Dario Ghiggi

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ANTE PRIMA

Fra Girolamo ritorna in convento MUSEI • Grazie alla concessione in comodato d’uso

da parte del suo proprietario, un inedito ritratto di Girolamo Savonarola, plasmato nella terracotta, si può ora ammirare nel Museo di San Marco, a Firenze

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ra Girolamo Savonarola ritorna nel convento di S. Marco, dove fu eletto priore il 16 maggio 1491 e dove fu catturato la sera dell’8 aprile 1498, per poi finire giustiziato in piazza della Signoria il 23 maggio di quell’anno. È stata infatti presentata al pubblico un’opera finora inedita, un nuovo busto in terracotta policroma del celebre predicatore domenicano, attribuito a Marco della Robbia, poi fra Mattia (1468-1534), e databile tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Un’opera dichiarata d’importante interesse dal Ministero della Cultura che si aggiunge alle raccolte del museo fiorentino, per essere collocata nell’ambiente che costituiva la cappella del Savonarola. Concessa in comodato d’uso al Museo di San Marco dall’avvocato Alessandro Kiniger, attuale proprietario, la terracotta proviene dalla collezione di Giovanni Malfer (1882-1973), fondatore del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, che al principio del secolo scorso aveva soggiornato a lungo nel capoluogo toscano.

Naso adunco e sguardo altero

DOVE E QUANDO

Museo di San Marco Firenze, piazza San Marco 3 Info tel. 055 0882000; e-mail: drm-tos.mussanmarco-fi@beniculturali.it; www.polomusealetoscana.beniculturali.it Particolare del busto in terracotta di Girolamo Savonarola realizzato da Marco della Robbia (poi fra Mattia). Fine del XV-inizi del XVI sec. Firenze, Museo di San Marco.

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L’iconografia classica di Girolamo Savonarola è scolpita nell’immaginario di tutti in un ritratto di profilo su fondo scuro: cappuccio nero calato sul capo, naso adunco, labbra prominenti, guance infossate, sguardo altero. Sintesi perfetta di rigore morale è questa la piú iconica tra le immagini che raffigurano il frate. Il ritratto fu realizzato dal grande febbraio

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e attribuisce loro le numerose medaglie, alcune esposte a San Marco, con l’effigie del frate e le sue profezie sul verso. L’insolito ritratto frontale – contraddistinto da un carattere antieroico e di assoluta intimità – sembra destinato a un pubblico assolutamente fidato di confratelli e di seguaci. La scultura è modellata con tratti vigorosi ed essenziali, col capo incappucciato e quasi imprigionato nella nera veste monastica, e lo sguardo assorto in una severa ma serena contemplazione. I visitatori che percorreranno il corridoio meridionale del dormitorio saranno attratti in maniera irresistibile dagli occhi cerulei e lucenti di Savonarola, che sembrano contemplare In alto l’Annunciazione del Beato Angelico nella nuova esposizione. A sinistra e a destra due particolari dell’allestimento della sala che accoglie il busto in terracotta di Girolamo Savonarola. pittore domenicano Fra Bartolomeo (1473-1517), che conosceva bene Savonarola essendo entrato in convento grazie alle sue prediche, subito dopo la sua uccisione. Il busto ora presentato, invece, «costituisce – come ha detto lo storico dell’arte Giancarlo Gentilini, fra gli esperti piú autorevoli nel campo della scultura in terracotta – l’unica effigie a tutto tondo di epoca rinascimentale a oggi conosciuta del predicatore domenicano» e dunque si tratta di un esemplare di assoluta rarità e rilevanza. Il carattere dimesso e di intimità conventuale rientra

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perfettamente nei dettami della produzione artistica ispirata direttamente dal domenicano ferrarese, contraddistinta da forte e semplice austerità formale, che doveva in primo luogo suscitare la commozione dei devoti».

Frati in San Marco... L’8 aprile 1498 fra Mattia resistette con le armi all’arresto del Savonarola, insieme ai fratelli Paolo, Luca Bartolomeo e Francesco Iacopo. Giorgio Vasari attesta che lui e quest’ultimo fratello erano «frati in San Marco, stati vestiti dal reverendo Fra Girolamo Savonarola»

lo spettacolo drammatico di purificazione, quel falò delle vanità del 7 febbraio 1497 in piazza della Signoria, quando andarono in fumo migliaia di oggetti, arredi lussuosi e preziose opere d’arte, bollati come fonte di vizio e di perdizione, in un clima di accesa esaltazione da parte dei seguaci del frate ferrarese. Da segnalare, infine, che all’esposizione del busto si è aggiunta la realizzazione di una nuova illuminazione per l’Annunciazione del Beato Angelico, simbolo del Museo e del Rinascimento fiorentino. (red.)

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AGENDA DEL MESE

Mostre PARMA UN SPLENDOR MI SQUARCIÒ ’L VELO. DANTE ILLUSTRATO DAL CODICE 3285 A SCARAMUZZA Complesso monumentale della Pilotta, Salone delle Scuderie fino al 13 febbraio

Voluto per valorizzare il patrimonio dantesco di 14 biblioteche e archivi storici in cui l’autore della Commedia, dopo l’esilio, trovò la sua seconda patria, il progetto espositivo ha preso nome dal XXXII canto del Purgatorio e, nel sottotitolo, cita il contenuto dell’esposizione, vale a dire «il codice 3285» e il nome di Francesco Scaramuzza. Il

codice è uno dei maggiori tesori della Biblioteca Palatina, capolavoro già appartenente ai Danti del Cento, ed è riconosciuto come una delle piú antiche trascrizioni della Commedia dantesca (risale ai primi del Trecento), dotato di uno straordinario apparato decorativo. Scaramuzza invece è l’artista parmense che eseguí i dipinti murali con tecnica a encausto a freddo tra il 1841 e il 1857, al fine di impreziosire con la sua opera la Sala Dante della Biblioteca Palatina, che conserva la

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magnifica raccolta di manoscritti, incunaboli ed edizioni rare dantesche, passione e vanto della ducea di Maria Luigia d’Asburgo. Questo prestigioso incarico diede spunto al pittore per una ulteriore impresa: illustrare l’intera Divina Commedia e già nell’anno del centenario, il 1865, a Firenze vennero esposte le sue tavole riguardanti l’Inferno. Nel 1876 Scaramuzza termina l’avvenutura titanica di illustrare l’intera Commedia, in tutto 243 cartoni a penna, che sono l’oggetto dell’esposizione a lui riservata alle Scuderie Ducali. info https://complessopilotta.it

a cura di Stefano Mammini

abiti, in particolare, rappresentano il filo conduttore che ci porta a conoscere piú da vicino il popolo longobardo partendo da quelli che erano gli oggetti e i manufatti che sono parte integrante della vita quotidiana. Tutti gli abiti sono stati realizzati per una metà con tessuti fatti rigorosamente a mano su telai orizzontali a licci riproducendo il numero dei fili di ordito e trama presenti al centimetro, nonché lo spessore degli stessi fili e le torsioni. Considerando che verosimilmente tali tessuti venivano realizzati da donne in ambito domestico, sono state ipotizzate delle altezze del tessuto abbastanza ridotte e compatibili con telai verticali, a

pesi o a doppio subbio, utilizzati nel periodo di riferimento. L’altra metà degli abiti è stata realizzata impiegando una tela di cotone industriale proprio per sottolineare che il modello dell’abito riproposto è il frutto di contaminazioni scientifiche e di elaborazioni dei curatori. info e-mail ufficio. comunicazione@comune. campello.pg.it; www.longobardinitalia.it BOLOGNA ANTONIO CANOVA E BOLOGNA. ALLE ORIGINI DELLA PINACOTECA Pinacoteca Nazionale fino al 20 febbraio

Il Salone degli Incamminati del

CAMPELLO SUL CLITUNNO (PG) TRAME LONGOBARDE. TRA ARCHITETTURA E TESSUTI Palazzo Casagrande fino al 20 febbraio

Partendo da un lavoro che ha intrecciato insieme dati scientifici e ricostruzioni plausibili, la mostra-dossier propone un’accurata lettura delle tecniche antiche di tessitura attraverso la ricostruzione di tessuti, abiti e telai verosimilmente in uso tra VI e VIII secolo d.C. La ricostruzione dei tessuti e degli febbraio

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museo statale di via delle Belle Arti accoglie un percorso espositivo che approfondisce il tema dei rapporti tra Antonio Canova (1757-1822) e la città di Bologna, le sue istituzioni e i suoi artisti, evidenziando inoltre il ruolo dello scultore nella storia della collezione della Pinacoteca. Dipinti, sculture, manoscritti e documenti provenienti da diverse istituzioni museali, biblioteche e archivi affiancano le opere del museo, il cui percorso espositivo permanente è parte integrante del progetto. L’esposizione, che costituisce anche un’occasione per rievocare le origini della piú vasta collezione pubblica di arte bolognese, s’inserisce come progetto pilota all’interno di una programmazione di iniziative con cui la Pinacoteca Nazionale di Bologna intende rinnovare la propria presenza nel tessuto culturale della città, rendendo esplicito il legame tra il patrimonio del museo e la storia del territorio e quindi rinsaldando il legame tra passato e presente. In questa prospettiva confluiscono nel progetto scientifico della mostra tre principali oggetti di ricerca: le visite di Antonio Canova in città, le relazioni che egli mantenne con le istituzioni cittadine e l’attività diplomatica, a seguito della quale lo scultore riuscí a ottenere il rientro da Parigi nel 1815 di buona parte dei capolavori requisiti dai commissari di Napoleone, oggi nucleo sostanziale della collezione della Pinacoteca. info www.canovabologna.it VINCI LEONARDO E L’ARCHITETTURA Museo Leonardiano fino al 27 febbraio

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manoscritti di Leonardo provenienti dalla Biblioteca Leonardiana. Di grande fedeltà agli originali sono esposti i manoscritti B e L di Francia, i Codici di Madrid I e II e tre tavole tratte dal Codice Atlantico. info www.museoleonardiano.it SPOLETO

La mostra affronta alcune particolari tematiche legate agli interessi di Leonardo per l’architettura, documentati da numerosi disegni e annotazioni dispersi nei suoi manoscritti, talvolta sottovalutati o non compresi appieno. L’impiego delle più recenti tecnologie e di avanzate strumentazioni di rilevo e restituzione ha reso possibile gettare un nuovo sguardo su alcuni disegni e progetti leonardiani, consentendo la loro ricostruzione in forma fisica e tridimensionale. In particolare, sono state sottoposte a verifica le sue conoscenze di

tecnica delle costruzioni, i suoi progetti per Piombino e i disegni riferiti ad architetture note come «la polita stalla» e la «città ideale»con risultati scientifici di sostanziale novità. Arricchiscono l’esposizione alcune riproduzioni dei

TOCCAR CON MANO I LONGOBARDI Rocca Albornoz-Museo nazionale del ducato di Spoleto fino al 6 marzo

Realizzata in collaborazione con il Museo Tattile Statale Omero di Ancona, la mostra offre la possibilità di ammirare contemporaneamente i sette monumenti del sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)», con l’obiettivo di far conoscere la straordinarietà e la complessità del sito Patrimonio UNESCO, attraverso un percorso tattile e una gamma differenziata di opzioni di fruizione che ne facilitano la comprensione, assicurando a tutti un’esperienza multisensoriale ottimale. Nelle sale sono

esposti sette modellini tridimensionali in scala dei monumenti architettonici che rappresentano maggiormente il sito seriale longobardo e sette modellini relativi alle aree in cui sono situati i monumenti, per permettere l’esplorazione

tattile dei loro contesti di provenienza. A rendere il percorso ancor piú accessibile sono le audio descrizioni (in italiano e inglese), registrate dagli attori della Compagnia #SIneNOmine della Casa di Reclusione di Maiano a Spoleto, da ascoltare tramite NFC e QR code, nonché un catalogo in Braille e uno in large print in libera consultazione. Infine, per consentire una fruizione dei modelli inclusiva, sono stati realizzati video con la tecnica del compositing nella LISLingua dei Segni Italiana, insieme a immagini e animazioni, sottotitoli e audio. info www.longobardinitalia.it FIRENZE DALL’INFERNO ALL’EMPIREO IL MONDO DI DANTE TRA SCIENZA E POESIA Palazzo Pitti fino al 6 marzo

Scienza e poesia si fondono nella Divina Commedia di Dante Alighieri. Per la prima volta a «Dante scienziato» viene dedicata una mostra che fa leva sulla dimensione visuale evocata dai suoi versi. Prendendo spunto dalle lezioni accademiche di Galileo sulla misura e sul luogo dell’Inferno dantesco – dove lo scienziato definiva il poeta «corografo e architetto» – la mostra inquadra le competenze scientifiche di Dante nella cultura del suo tempo, tracciando il profilo dell’Alighieri come medico, abbachista, geometra, «geologo» e cosmografo. I passi della Commedia, del Convivio e della Questio de aqua et terra sono illustrati attraverso l’esposizione di opere artistiche, manoscritti, modelli tridimensionali e prodotti multimediali che

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AGENDA DEL MESE illustrano il sistema cosmologico, la geografia fisica e la geografia spirituale delle opere dantesche. Le sezioni dell’esposizione replicano idealmente la tripartizione della Commedia. Il percorso espositivo è scandito da tre sale che rappresentano le tre cantiche. Nella prima, Inferno, il visitatore si trova immerso nelle viscere della Terra; alzando lo sguardo verso la copertura a cupola vede le terre emerse dall’interno, vale a dire dal punto di vista di

Lucifero, il cui immenso corpo sta sospeso al vertice della grande voragine conica che ospita le anime dei dannati. Nel Purgatorio, la sala è coperta dal cielo stellato dell’emisfero australe, là dove Dante immagina di trovarsi una volta uscito «a riveder le stelle». Nell’ultima, Paradiso, si è sospesi tra il mondo materiale, riprodotto sul pavimento secondo il sistema tolemaico, e il mondo spirituale, rappresentato sulla cupola dalle schiere angeliche che ruotano vorticosamente intorno al punto luminosissimo da cui tutto ha origine e verso cui tutto è proteso. Oltre a preziose opere

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dell’attività creativa piú intima dell’artista. Soprattutto, si tratta di un nucleo di disegni fresco di operatività dell’artista al lavoro, una sorta di archivio personale di bottega la cui importanza in tutti questi anni era sfuggita agli esperti dell’arte del maestro. info www.grafica.beniculturali.it CITTADELLA (PD) MURA CHE UNISCONO. SALONICCO A CITTADELLA Palazzo Pretorio fino al 20 marzo

originali – manoscritti, stampe, disegni, incisioni, mappe del mondo e strumenti scientifici – sono in mostra riproduzioni in alta risoluzione di opere non trasportabili, grandi modelli tridimensionali che rappresentano la Terra e la struttura cosmologica dell’Universo come erano conosciute da Dante, e filmati realizzati dal Laboratorio Multimediale del Museo Galileo. info https://mostre. museogalileo.it/dante/ ROMA DI MANO DI JACOPO DA PUNTORME. DISEGNI DI JACOPO PONTORMO NELLE COLLEZIONI DELL’ISTITUTO CENTRALE

PER LA GRAFICA Istituto centrale per la grafica fino al 20 marzo

È esposto per la prima volta nella sua interezza il fondo di disegni di Jacopo Carucci (1494-1556) – meglio noto come Pontormo dal luogo di nascita – la cui fama al tempo rivaleggiò con quella dei grandissimi, da Raffaello ad Andrea del Sarto, da Bronzino a Vasari. Considerata l’intrinseca fragilità di questi manufatti, a tal punto da sconsigliarne il prestito, questo importantissimo nucleo di disegni quasi tutti bifaccia, è poco noto anche agli specialisti; ciononostante, si tratta di capolavori, in parte inediti, che riferiscono

La mura di Cittadella – che vanta in Europa l’unico camminamento di ronda medievale di forma ellittica interamente percorribile – sono un elemento identitario indissolubile del borgo: racchiudono il centro storico come a tutelare uno scrigno prezioso e al tempo stesso consentono di alzare lo sguardo all’orizzonte e di guardare oltre. Con questo spirito si è scelto di concludere i festeggiamenti per gli ottocento anni di Cittadella (1220-2020), guardando lontano, relazionandosi con altre importanti città europee e confrontandosi su cosa significhi essere città murata. Quest’anno la prestigiosa relazione avviata è con Salonicco: la città che vanta probabilmente le mura e fortificazioni piú antiche in Europa – dichiarate patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 1988 – la piú importante e popolosa

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città della Grecia dopo Atene, uno dei pilastri di quello che fu l’Impero Bizantino. «Mura che uniscono. Salonicco a Cittadella» da un lato svela la storia e le vicende dell’ultramillenario sistema di fortificazioni di Salonicco, grazie a un ampio apparato documentario e didascalico e a originali testimonianze archeologiche e d’arte antica prestate eccezionalmente dall’Eforato alle Antichità della città e dal Monastero di Vlatadon, dall’altro mette in dialogo Cittadella e Salonicco attraverso i linguaggi contemporanei dell’arte e della fotografia. info tel. 049 9413449; e-mail: info@fondazionepretorio. it; www.fondazionepretorio.it/

una mostra messa in scena nel luogo simbolo del potere e della gloria della Serenissima: il Palazzo dei Dogi in piazza San Marco. L’esposizione racconta – attraverso oltre 250 opere d’arte, manufatti antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno segnato la storia di Venezia, scegliendo un punto di vista inedito, cioè quello degli innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle

stampa, sopravvissuti ai secoli come lacerti di riuso e pervenuti a noi in forma di coperte di registri estensi. Attorno a essi, si snoda una rassegna di documentazione di varia natura, capace di restituire un quadro multiforme sulle influenze e sui rapporti di Dante con il mondo, cortese e urbano, stretto attorno alle capitali di Ferrara e Modena. È cosí possibile assistere alle vicende di diverse figure cantate nel poema, inscenate

formato il poeta, attingendo indirettamente alla sua biblioteca ideale. info tel. 059 230549; e-mail: as-mo@beniculturali.it; www. asmo.beniculturali.it; Facebook: Archivio di Stato di Modena

altrettante rigenerazioni e rinnovamenti che hanno segnato la sua esistenza. info https://palazzoducale. visitmuve.it; facebook visitmuve ducalevenezia; twitter visitmuve_ it, visitmuve_en, ducalevenezia;

attraverso i loro documenti ufficiali, e valutare il peso e la rilevanza manifestate dalla Commedia nella società e nella letteratura dei secoli passati. E si può in tal modo comprendere quale fosse l’humus culturale in cui si era

Sontuosa dimora realizzata per Federico di Montefeltro nella seconda metà del XV secolo, il Palazzo Ducale è un luogo dove, piú che altrove, l’architettura restituisce il suo valore simbolico e in cui risuonano, ancora vivi, i valori del

URBINO CITTÀ DI DIO. CITTÀ DEGLI UOMINI. ARCHITETTURE DANTESCHE E UTOPIE URBANE Galleria Nazionale delle MarchePalazzo Ducale di Urbino fino al 27 marzo

VENEZIA VENETIA 1600. NASCITE E RINASCITE Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25 marzo

«L’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedí Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fú dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...»: il mito di Venezia sta anche nella leggenda della sua fondazione, raccontata cosí nel Chronicon Altinate (XI-XII secolo) e coincidente con la posa della prima pietra della chiesa di S. Giacometo a Rivoalto il giorno dell’Annunciazione alla Madonna. Una leggenda che, tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise insieme racconti che si erano intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del valore di Venezia: città eletta da Dio. Che ora celebra i suoi 1600 anni anche con

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instagram visitmuve ducalevenezia

MODENA DANTE E GLI ESTE. RIFLESSI DELLA COMMEDIA FRA MODENA E FERRARA Archivio di Stato fino al 25 marzo

Il percorso espositivo offre uno sguardo sull’influenza avuta dall’Alighieri sul territorio governato dagli Estensi, espresso attraverso le carte d’archivio. Fulcro della mostra sono alcuni frammenti trequattrocenteschi della Divina Commedia, manoscritti e a

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AGENDA DEL MESE FRANCIA ARTI DELL’ISLAM. UN PASSATO PER UN PRESENTE Angoulême, Blois, ClermontFerrand, Digione, Figeac, Limoges, Mantes-La-Jolie, Marsiglia, Nancy, Nantes, Narbonne, Rennes, Rillieux-laPape, Rouen, Saint-Denis, Saint-Louis (La Réunion), Tolosa e Tourcoing fino al 27 marzo

Rinascimento. In questi spazi, quindi, riflettere sulla creazione architettonica acquista la duplice valenza di studio delle radici storiche e proiezione nella contemporaneità e per questa ragione la Galleria Nazionale delle Marche partecipa alle celebrazioni per il 700° anno della morte di Dante con una mostra incentrata sull’influenza dell’immaginario del poeta nella visione di artisti, architetti e illustratori. Alla fine degli anni Trenta del secolo scorso furono gli architetti razionalisti Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni i primi a offrire una forma tangibile della Divina Commedia nel Danteum: proiezione plastica dell’opera, un omaggio memoriale che evocava i principali luoghi danteschi attraverso grandi spazi che, tramite materiali e leggi architettoniche, dovevano esprimerne il significato. Un monumento maestoso pensato per via dei Fori Imperiali a Roma e mai realizzato, a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale. Questo celebre progetto, illustrato attraverso i materiali originari conservati all’Archivio Lingeri di Milano, mai esposti nella loro completezza, a Urbino è messo in dialogo con la Città ideale, capolavoro – anch’esso emblematico – del

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Rinascimento italiano e opera chiave delle collezioni della Galleria Nazionale delle Marche. Insieme sono presentate circa cento opere di architetti contemporanei, come

Fin dalla sua creazione, nel 2012, il Dipartimento di Arti dell’Islam del Museo del Louvre offre l’opportunità di scoprire le culture islamiche, fiorite dalla Spagna all’India tra il VII e il XIX secolo, sottolineando l’importanza degli scambi, stretti e fecondi, che furono stabiliti nel tempo tra la Francia e l’Oriente. Sulla

scia di questo approccio è nato il progetto espositivo che vede coinvolte 18 città francesi, ciascuna delle quali ospita un allestimento composto da una selezione di dieci opere provenienti dal museo parigino e da collezioni nazionali e regionali. Una selezione che documenta oltre 1300 anni di storia e che annovera oggetti di grande pregio, fra i quali possiamo ricordare una lampada da moschea dell’XI secolo proveniente da Gerusalemme, un candeliere dell’epoca di Saladino realizzato a Mosul sul quale è rappresentata la vita di Gesú o, ancora, cofanetti da toletta in avorio del XIII secolo che appartennero alla duchessa di Borgogna. info https://expo-arts-islam.fr ROMA RAFFAELLO E LA DOMUS AUREA. L’INVENZIONE DELLE GROTTESCHE Domus Aurea fino al 3 aprile

Corredata da apparati interattivi e multimediali, la mostra – allestita nella Sala Ottagona della Domus Aurea e nei cinque ambienti circostanti, Aimaro Isola, Andrea Branzi, Franco Purini, Carmen Andriani, Matilde Cassani, Yellow Office e Francesco Librizzi, che hanno riletto la «sezione» della Divina Commedia attraverso una serie di disegni originali. Un vero e proprio viaggio nell’architettura italiana contemporanea che vede coinvolte almeno tre generazioni diverse e ne mette a confronto l’immaginario architettonico sotto la protezione del Palazzo Ducale di Urbino, archetipo della progettazione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it febbraio

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oltre alle Stanze di Achille a Sciro e di Ettore e Andromaca ancora preziosamente decorate – racconta la straordinaria storia della scoperta delle superfici affrescate. Intorno alla metà del secondo decennio del Cinquecento, Raffaello fu il primo artista rinascimentale a comprendere a fondo la logica dei sistemi decorativi della residenza neroniana, riproponendoli organicamente, grazie alle sue profonde competenze antiquarie, in numerosi capolavori ricordati nell’esposizione. info raffaellodomusaurea.it VICENZA LA FABBRICA DEL RINASCIMENTO. PROCESSI CREATIVI, MERCATO E PRODUZIONE A VICENZA. PALLADIO, VERONESE, BASSANO, VITTORIA Basilica Palladiana fino al 18 aprile

Alla metà del Cinquecento Vicenza, fra le aree piú dinamiche in Europa per la

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produzione e il commercio della seta, conosce una sorprendente trasformazione, diventando una capitale della cultura grazie al progetto della cosmopolita nobiltà cittadina, che investe e scommette sulla visione di un gruppo di giovani artisti. Sono il genio dell’architettura Andrea Palladio, i pittori Paolo Veronese e Jacopo Bassano e il grande scultore Alessandro Vittoria. A legarli è la passione per l’arte nuova nutrita dall’antico, nata nella Roma di Michelangelo e Raffaello, quella che Giorgio Vasari definirà la «maniera moderna», la cui forza permetterà loro di scardinare i modelli tradizionali dominanti a Venezia, insieme alle suggestioni offerte da artisti quali Giulio Romano e Parmigianino. La rassegna ricostruisce questo straordinario periodo, cinquant’anni di vita artistica nella terraferma veneta, dal 1550 alla fine del secolo. E attraverso piú di 80 opere, il

percorso indaga i meccanismi di produzione e i processi creativi che si celano dietro i capolavori, raccontandone la realizzazione, individuando coordinate materiali e storiche entro cui sono stati concepiti. info www.mostreinbasilica.it; Facebook: @mostreinbasilicapalladiana; Instagram: @mostreinbasilica #lafabbricadelrinascimento; #rinascimentoavicenza; #mostreinbasilica

In occasione dell’anno Iacobeo, l’esposizione illustra, per la prima volta, lo straordinario panorama delle arti a Pistoia dal XII agli inizi del XV secolo e documenta il ruolo di primo piano assunto dalla città nel campo delle arti figurative. Pistoia godeva della presenza

da specchio a questi importanti episodi di scultura la piú imponente delle opere di oreficeria, ideale sigillo della mostra: l’altare di san Jacopo, che attesta Pistoia come snodo di ricezione per le arti suntuarie. Anche la miniatura visse un periodo di grande vivacità, testimoniata alla fine del Duecento dall’attività della bottega del Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, la piú importante in Toscana, e nel Quattrocento dalle eleganze lineari e dalla preziosità decorativa delle illustrazioni eseguite dal Maestro della Cappella Bracciolini nella Divina Commedia conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel Trecento Pistoia offre in campo pittorico un panorama variegato di personalità e tendenze culturali, e la presenza di artisti del calibro di Lippo di Benivieni, Taddeo Gaddi e Niccolò di Tommaso la colloca in una posizione di primo piano, ribadita dalla Maestà e angeli

di committenti illuminati, in grado di attrarre figure quali Guglielmo (uno dei piú famosi scultori attivi nel duomo di Pisa) e Guido da Como, e poi Nicola e Giovanni Pisano, che lasciarono capolavori fondanti della storia dell’arte italiana. Fa

di Pietro Lorenzetti proveniente dagli Uffizi, uno dei prestiti piú prestigiosi della mostra, sottoposto a restauro per l’occasione. info tel. 0573 974267; e-mail: info@pistoiamusei.it; www.fondazionepistoiamusei.it

PISTOIA MEDIOEVO A PISTOIA. CROCEVIA DI ARTISTI FRA ROMANICO E GOTICO Antico Palazzo dei Vescovi e Museo Civico fino all’8 maggio

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AGENDA DEL MESE MILANO TIZIANO E L’IMMAGINE DELLA DONNA Palazzo Reale fino al 5 giugno (dal 23 febbraio)

A Venezia nel Cinquecento l’immagine femminile acquista un’importanza forse mai vista prima nella storia della pittura. Questo è dovuto a vari fattori, quali la presenza di Tiziano e di altri artisti operanti sia a Venezia che in terraferma, particolarmente interessati alla raffigurazione della bellezza muliebre, ma anche, parallelamente, al particolare status che le donne avevano nella società veneziana. La struttura portante dell’esposizione affronta dunque un argomento eternamente valido ma anche completamente nuovo, presentando l’immagine femminile attraverso tutto l’ampio spettro delle tematiche possibili e nel contempo mettendo a

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confronto gli approcci artistici individuali tra Tiziano e gli altri pittori del tempo. Partendo dal tema del ritratto realistico di donne appartenenti a diverse classi sociali, passando a quello fortemente idealizzato delle

cosí dette «belle veneziane» si incontrano via via celebri eroine e sante, fino ad arrivare alle divinità del mito e alle allegorie. Sono circa un centinaio le opere esposte, di cui 46 dipinti, 15 di Tiziano – per lo piú prestati dal

Kunsthistorisches Museum di Vienna –, a cui si aggiungono sculture, oggetti di arte applicata come gioielli, una creazione omaggio di Roberto Capucci a Isabella d’Este (1994), libri e grafica. info www.palazzorealemilano.it

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. VIII Edizione Roma – Teatro Argentina

fino all’8 maggio info www.teatrodiroma.net

P

rende il via l’VIII edizione della rassegna «Luce sull’archeologia», i cui appuntamenti sono come sempre in programma al Teatro Argentina di Roma, la domenica mattina, alle 11,00. «Città Romane. Idee, realtà e utopie nel mondo antico»: è questo il titolo scelto per la manifestazione e l’obiettivo è quello di mettere in luce l’idea stessa di città, con i suoi elementi universali e comuni, i modelli urbani di altre civiltà, gli archetipi greci. Da Roma, dove sogno e materia si fondono alla città celeste di sant’Agostino, alle città ideali della pittura rinascimentale. Il percorso intende scrutare il sentimento degli antichi e dei moderni attraverso l’analisi delle strutture e delle forme urbanistiche delineate in scritti e immagini d’arte. Com’è ormai tradizione, ciascun incontro sarà arricchito dai contributi di storia dell’arte di Claudio Strinati, dalle anteprime del passato curate dal direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, e verrà introdotto e presentato da Massimiliano Ghilardi. Riportiamo, qui di seguito, il calendario degli appuntamenti. 6 febbraio: Emanuele Greco, Atene: la formazione della piú grande città del mondo greco classico; Annalisa Lo Monaco, Dall’utopia alla realtà: città narrate, città raffigurate, città vissute; Francesco Sirano, La città dei tre cuori. Capua antica tra Etruschi, Sanniti e Romani. 20 febbraio: Maurizio Bettini, I Romani e gli Dei; Gianluca De Sanctis, Il paesaggio sacro di Roma; Massimiliano Papini, Ombrose porticus: passeggiate oziose nell’antica Roma; con la partecipazione di Alessandra Cattoi, RAM film festival-L’archeologia al cinema. 27 febbraio: Alessandro D’Alessio, Neropolis. Realtà e utopia della nuova Roma di Nerone; Antonio Marchetta, L’altra faccia del potere: il Tieste di Seneca sullo sfondo del matricidio neroniano; con la partecipazione di Annarosa Mattei, Sogno notturno a Roma (1871-2021). 6 marzo: Paolo Carafa, Un nuovo fondatore, una nuova città: Augusto e Roma; Francesca Cenerini, I luoghi delle donne nelle città degli uomini; Emanuela Prinzivalli, Quale spazio per una donna cristiana nelle città dell’impero romano? 20 marzo: Carmine Ampolo, La Segesta di Cicerone tra storia e archeologia: la città in età ellenistico-romana; Giuseppe Parello, Agrigentum. La città romana nelle fonti e nelle evidenze archeologiche; Emanuele Greco, Thuri e Poseidonia diventano Copia e Paestum. 3 aprile: Federico Marazzi, Città fra terra e cielo: San Vincenzo al Volturno e i grandi monasteri dell’Alto Medioevo; Umberto Roberto, Capitali d’Italia: Milano, Ravenna, Roma e l’imperatore; Francesco Sirano, Abitare a Ercolano antica nel I secolo d.C. Viaggio sotto la cenere del Vesuvio. 8 maggio: Luciano Canfora, Platone e la Kallipolis; padre Giuseppe Caruso, Una città in cielo. Agostino e il compimento della storia; Francesca Ghedini, La Roma di Ovidio: vissuta, sognata, rimpianta. febbraio

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ANTE PRIMA

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MEDIOEVO DOSSIER

a devozione religiosa e la pratica del culto sono elementi fortemente distintivi dell’età di Mezzo e il nuovo Dossier di «Medioevo» ne offre una ricca documentazione, cercando soprattutto di mettere in luce quanto sia spesso labile il confine fra realtà storica e tradizione leggendaria, alimentata, quest’ultima, dal fiorire delle agiografie di santi. Un confine lungo il quale occorre comunque I I DIG NT PRO muoversi con attenzione, SAOLI E C RA poiché, come si legge MI nelle pagine introduttive, Dossier «un preconcetto eccesso di razionalismo può avere in questo ambito la medesima influenza deleteria di un cieco fideismo». L’ETÀ DEI Resta intatta la potenza di episodi comunque MISTERI, MIRACOLI E PRODIGI Quando e come uomini, passati alla storia, quali donne e re divennero «Servi di Dio» l’incontro fra papa Leone I e Attila, in occasione del quale il pontefice fu capace di convincere il re unno ad astenersi dal mettere Roma a ferro e fuoco, o l’incrollabile tenacia di sant’Antonio Abate nel resistere alle tentazioni del diavolo. Fatti come questi furono peraltro alla base della diffusione delle reliquie, fenomeno che assunse contorni eccezionali, ma che, proprio per la sua portata, non fu esente, già allora, da critiche, anche molto aspre. Questo nuovo Dossier di «Medioevo» propone dunque un vasto repertorio di temi e, facendo luce sul rapporto con la religione, ne testimonia l’importanza e la centralità nella vita quotidiana del tempo. Un ruolo di cui sono figlie anche la nascita dei grandi luoghi di culto, prime fra tutti le cattedrali, e la ricca produzione artistica a carattere sacro. Le cui immagini compongono il ricco corredo iconografico del fascicolo.

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N°48 Gennaio/Febbraio

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In alto sant’Orsola tiene nella mano destra la palma, simbolo del martirio subíto, rappresentato dalla freccia infissa nel petto, particolare di un affresco di Bernardino Luini. 1522-1524. Milano, chiesa di S. Maurizio al Monastero Maggiore.

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GLI ARGOMENTI

• Un mistero alla prova della storia • Campioni della fede • Carlo Magno • I santi coronati • La lotta alle eresie • Eremiti e anacoreti • L’avvento del monachesimo • San Francesco d’Assisi • Le sante militanti • Santa Rita da Cascia • Nuovi martiri • Il pensiero teologico • I cronisti della fede • Reliquie d’Italia

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mostre

PISTOIA

Una città tra Toscana ed Europa di Giuliano Pinto

Sebbene di dimensioni minori rispetto alle metropoli del tempo, tra il XIII e il XIV secolo Pistoia si impone sulla scena per il suo «brillante internazionalismo» e, grazie all’intraprendenza dei suoi uomini d’affari, prospera e fiorisce, dando luogo a una produzione artistica di assoluto rilievo. Una stagione culturale mirabilmente raccontata in una mostra allestita nell’Antico Palazzo dei Vescovi della città toscana

N

ella breve descrizione di Pistoia presente nella Cronica di Dino Compagni – siamo all’inizio del Trecento – la città è definita «nel piano, piccioletta» ma «ben murata e merlata». Certo una città piccola, Pistoia, se confrontata alla vicina Firenze – allora sei-sette volte piú popolata – ma anche alle non lontane Lucca e Pisa. Piccola città che vantava però, a quell’altezza cronologica, un patrimonio architettonico e artistico che non sfigurava piú di tanto se confrontato con quello delle grandi città vicine; un patrimonio che spiccava in molti casi per la propria originalità e che si sarebbe arricchito nel corso del secolo. Ecco, questo breve contributo mira a mettere in ri-


La piazza del Duomo di Pistoia, nella quale si affiancano i simboli del potere temporale e di quello spirituale: il Palazzo Comunale e la chiesa cattedrale, intitolata a san Zeno.

lievo le coordinate – d’ordine politico, economico, sociale, religioso – entro le quali si sviluppò la città nel corso dei due secoli forse piú importanti per la propria storia: il Duecento e il Trecento. L’obiettivo è quello di descrivere a grandi linee il contesto storico entro il quale maturarono esperienze artistiche di assoluto rilievo.

Ben oltre i confini regionali

I secoli XIII e XIV rappresentano un tornante significativo nella storia di Pistoia: si trattò del periodo che coincise con il massimo sviluppo del tessuto urbano e insieme fu l’epoca delle grandi realizzazioni artistiche, che danno tutt’ora l’impronta alla città. Fu soprattutto il periodo, almeno sino al primo quarto del Trecento, durante il quale gli uomini d’affari pistoiesi si proiettarono ben oltre i confini regionali, in una dimensione che non si esita a definire europea. Giustamente David Herlihy, a lungo il maggiore studioso della Pistoia medievale, ha usato l’espressione «brillante internazionalismo» a fare da pendant al «concentrato localismo», nel senso, quest’ultimo, del forte legame con la piccola patria: una città di dimensioni modeste e con un contado esiguo, che però conobbe un periodo di grande prosperità grazie all’attività internazionale dei propri mercanti-banchieri. Si trattò nel contempo del periodo in cui si iniziò


mostre pistoia

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S. Domenico P.zza VIA D PARCO . MU Treviso RA U PUBBLICO RBA VIA NE LE A. P.zza RO Leonardo VIA IV NO SS VEMBRE IN Da Vinci I V IA

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P.zza Duomo

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CIMITERO D.MISERICORDIA

BASTIONE

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In alto pianta della città di Pistoia. A sinistra il battistero di S. Giovanni in Corte, edificato in forme gotiche tra il 1301 e il 1366.

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P.zza D. Carmine V. D . PA S. Andrea PP E Palazzo Comunale Pal. Pretorio

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Madonna delle Grazie

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Pistoia

MEDIOEVO

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e si concluse l’assoggettamento della città a Firenze. Tale processo fu in primo luogo l’esito inevitabile della situazione geo-politica della Toscana settentrionale, quella posta a nord dell’Arno. Pistoia già agli albori dello sviluppo comunale (inizio secolo XII) si trovò stretta tra due città assai piú grandi e di piú antica tradizione quali erano Lucca e Firenze. Lucca era stata a lungo la città piú importante dell’intera Toscana prima di lasciare il primato a Pisa; Firenze, che disponeva di un ampio contado, era la potenza dell’interno in forte crescita a partire dalla metà del XII secolo. Al contrario, il territorio su cui Pistoia esercitava il proprio governo, coincidente in larga parte con la diocesi, era esiguo – inferiore ai mille chilometri quadrati – e in parte montagnoso. A ovest il crinale del Montalbano, distante solo pochi chilometri dalla città segnava grosso modo il confine con il territorio di Lucca; a est la diocesi di Pistoia si spingeva sino alla riva destra del Bisenzio, a una quindicina di chilometri da Firenze, ma lí stava emergendo una “quasi” città come Prato, del tutto au-

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tonoma dalla sede diocesana e in grado di disporre di un proprio territorio. Si aggiunga che Pistoia non poteva contare su un accesso diretto al mare, al contrario di Lucca, né di un grande fiume come l’Arno che univa Firenze al Tirreno. Porto Pisano rappresentava l’unico sbocco al mare praticabile. La pressione delle due grandi città spiega come Pistoia cercasse di espandersi oltre Appennino, in diocesi di Bologna, lungo le alte valli delle Limentre e del Reno, approfittando della lontananza della città emiliana. La pace del 1219 fissò i confini di Pistoia oltre il crinale appenninico, ponendo fine al contenzioso territoriale. In tal modo Pistoia si assicurò il controllo del tratto di valico della strada transappenninica, una delle piú importanti tra Toscana ed Emilia e vitale per i propri interessi economici. Basti ricordare la folta presenza a Bologna nel corso del XIII secolo di banchi di prestito gestiti da uomini d’affari pistoiesi. Da lí mercanti e banchieri della città toscana poterono muoversi e allargare il giro dei loro affari al Nord Italia e Oltralpe;

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In alto l’Antico Palazzo dei Vescovi, sede della mostra «Medioevo a Pistoia». A destra la facciata del Duomo. In basso la seconda cerchia di mura di Pistoia; in grigio la superficie entro la prima.

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Nel segno di san Jacopo

L’ora del rinnovamento Vent’anni dopo l’arrivo della reliquia di san Jacopo (intorno al 1140), che fa di Pistoia una tappa obbligata nel cammino devozionale piú importante dell’epoca, inizia il rinnovamento delle principali chiese, partendo dalla Cattedrale di S. Zeno. A Guglielmo, l’autore del grandioso pergamo della Cattedrale di Pisa (ora nella Cattedrale di Cagliari), si attribuisce il nuovo arredo presbiteriale; del perduto pulpito a esso pertinente si espongono due formelle superstiti, espressione del romanico toscano settentrionale per la forte impronta classica nell’impaginazione e nel modellato (Visitazione e Annuncio a Zaccaria) e per le preziose geometrie (pluteo aniconico). Sullo sfondo delle decorazioni bicrome dell’architettura, sono due i tipi di arredo peculiari delle chiese pistoiesi: i pulpiti e gli architravi. Negli edifici religiosi dedicati agli apostoli (S.

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In alto Fuga in Egitto, affresco, forse opera di un pittore pistoiese, dalla cripta del Duomo. 1160-1170. Pistoia, Antico Palazzo dei Vescovi. A destra l’evangelista Matteo allo scrittoio e i Progenitori di Cristo, miniature da una Bibbia illustrata dal Maestro della Prima Bibbia della Casanatense. 1150-1170 circa. Roma, Biblioteca Casanatense. febbraio

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Giovanni Fuorcivitas, S. Andrea, S. Bartolomeo in Pantano), Gruamonte e Adeodato, succeduti a Guglielmo, scolpiscono temi di evangelizzazione e di pellegrinaggio come il Cammino dei Magi, l’Ultima cena, la Missione degli Apostoli. A una simile figurazione apparteneva il frammento con Cristo e san Giacomo del Museo Civico, proveniente da San Jacopo in Castellare e qui esposto. In pittura, nonostante l’estrema scarsità di documenti figurativi superstiti, si può suggerire che già dal XII secolo l’area pistoiese presentasse la predisposizione a incrociare linguaggi molto diversi tra loro. A fronte di dipinti contemporanei di iconica severità (Madonna con il Bambino del Museo Civico, proveniente da S. Matteo) si segnala per il timbro narrativo e i colori luminosi il frammento qui esposto (Fuga in Egitto), appartenente all’antica decorazione ad affresco della cripta della Cattedrale. Affinità espressive con l’affresco della Fuga in Egitto caratterizzano le miniature della spettacolare Bibbia proveniente dalla Cattedrale (Roma, Biblioteca Casanatense), testimone della ricchezza e del prestigio dei canonici di S. Zeno.

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In alto pluteo a lacunare con teste diaboliche, dalla recinzione presbiteriale della cattedrale di S. Zeno. 1170 circa. A sinistra Visitazione e Annuncio a Zaccaria, rilievo in marmo e mastice nero, dallo smembrato pulpito della cattedrale di S. Zeno. 1170 circa.

ma sulla proiezione europea delle compagnie pistoiesi torneremo piú avanti. Si potrebbe dire che l’esiguità del territorio, stretto da due potenti vicini, e l’apertura dell’orizzonte al di là dell’Appennino furono determinanti per le fortune della città. In realtà il vero pericolo per l’indipendenza di Pistoia era rappresentato da Firenze. Lucca non era particolarmente interessata a espandersi verso l’interno, preoccupata piú di disporre di uno scalo sicuro sul Tirreno e di fronteggiare il pericolo rappresentato dalla vicina Pisa, nel XII secolo la piú potente città della Toscana. Firenze invece iniziò ben presto una politica di espansione verso ovest, durata quasi due secoli, che si concluse all’inizio del Quattrocento con la conquista di Pisa, e che relegò Lucca a un ruolo del tutto marginale all’interno della regione. Cosí l’asse politico della Toscana – e non solo quello – si spostò gradatamente dai centri della costa (Lucca e Pisa) alla grande città dell’interno. Per tutto il XII secolo Pistoia fronteggiò con alterne vicende la minaccia dei potenti vicini. Non mancarono neppure successi come quello del 1154 quando i pistoiesi, alleati di Pisa, sconfissero pratesi e fiorentini sotto le mura di Carmignano. L’alleanza con Pisa, città di riferimento della parte imperiale in Toscana, era nelle cose, dal momento che Lucca e Firenze era-

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mostre pistoia A sinistra un particolare dell’allestimento della mostra. Nella pagina accanto San Francesco e otto storie della sua vita, tempera su tavola assegnata al cosiddetto Maestro della croce n. 434. 1250-1260 circa. Pistoia, Museo Civico.

no schierate con il papa. La fortuna politica di Pistoia subí una prima battuta d’arresto nel 1228 quando una coalizione formata da Firenze, Lucca e Prato arrivò ad assediare la città, costringendola a capitolare e ad accettare una sorta di protettorato fiorentino. Un nuovo conflitto tra gli stessi protagonisti, scoppiato alla metà del secolo, all’indomani della morte di Federico II, rappresentò un’ulteriore tappa negativa per Pistoia (pace sottoscritta a Empoli il primo febbraio 1254): la città passò alla parte guelfa e fu obbligata ad accettare podestà fiorentini. La sconfitta di Firenze a Montaperti (1260) riportò momentaneamente i ghibellini al potere anche a Pistoia, ma la vittoria di Carlo d’Angiò a Benevento e il conseguente successo della Lega guelfa in Toscana, segnarono il definitivo tramonto del ghibellinismo pistoiese. Il cambio di regime non comportò conseguenze negative per l’economia cittadina, tutt’altro: le compagnie mercantili pistoiesi, come vedremo, ne trassero vantaggio nei rapporti con la curia romana e con gli Angioini di Napoli e di Provenza. Le vicende degli ultimi decenni del Duecento attestano uno stretto collegamento con gli avvenimenti interni alla città di Firenze: scontro tra Magnati e Popolani, e trionfo pure a Pistoia dei secondi, grazie anche all’operato di Giano della Bella, podestà a Pistoia nel primo semestre del 1294. E poi, ancora, lotte intestine tra Bianchi e Neri, secondo una tradizione di scontri tra fazioni, e tra singole famiglie, che caratterizzò a lungo Pistoia, forse piú di qualunque altra città toscana. Il

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duecento: il secolo d’oro

Un tripudio di capolavori Mai come nel Duecento, Pistoia si è conquistata un ruolo da protagonista nel panorama delle arti figurative a livello internazionale. Sebbene politicamente debole, anche per le modeste dimensioni del suo territorio, la città aveva rapporti con le principali piazze commerciali europee. Nella prima metà del secolo domina la presenza della famiglia Bigarelli, lombarda, che nel segno della continuità con Guglielmo realizza arredi plastici di grande monumentalità e finezza. Lanfranco firma il fonte battesimale di S. Giovanni in Corte (1226), Guido il pulpito di S. Bartolomeo in Pantano (1239-50), giocati sul contrasto della piú raffinata e fantasiosa bicromia e sulla efficace narratività didascalica. Alla metà del secolo l’arrivo dei frati Minori determina una svolta importante, che si avverte presto con il Maestro della Croce 434 degli Uffizi, il quale con la collaborazione del Maestro di Santa Maria Primerana dipinge una delle prime tavole agiografiche di san Francesco (Pistoia, Museo Civico). Considerando le ingenti perdite di opere d’arte, ipotizziamo che il Crocifisso – dalla splendida cromia, oggi sopra l’altare di S. Giovanni Fuorcivitas – nella duplice funzione di crocifisso e di deposto poteva febbraio

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appartenere al gruppo ligneo di una Deposizione che animava il corredo plastico della chiesa canonicale. Ai Francescani si deve il ricco corredo di libri di coro, con miniature eseguite dal Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, ovvero da una bottega di origine emiliana capillarmente attiva in città dagli anni Settanta del secolo. Ma è ancora la cappella di S. Jacopo a richiamare i migliori artisti toscani. Tra le personalità legate

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all’Opera di San Jacopo, emerge l’orafo senese Pace di Valentino, cui si attribuisce il calice detto di Sant’Atto, con le sue raffinate filigrane, e la croce di fine secolo, qui esposta, che furono rinvenuti nel 1840 nell’urna del santo. In questo stimolante contesto si forma il pistoiese Andrea di Jacopo d’Ognabene, probabile autore nel 1287 del primo nucleo dell’Altare d’argento di san Jacopo. Il suo punto di riferimento è Nicola Pisano. È molto probabile che lo

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mostre pistoia In basso San Francesco riceve le stimmate, lastra in marmo di Nicola Pisano e allievi. 1280 circa. Pistoia, Museo Civico.

scultore sia stato chiamato a Pistoia dai frati Minori subito dopo il 1270 per erigere il sepolcro di un importante presule, Filippo arcivescovo di Ravenna. Nel monumento parietale lo scultore innova questa tipologia di arredo funebre per lo stile e l’iconografia dei rilievi con l’Elevatio animae e le Stimmate di san Francesco. Contemporaneamente, il collaboratore di Nicola all’arca di S. Domenico a Bologna, Fra Guglielmo, realizza il pulpito di S. Giovanni Fuorcivitas, memore dell’arte antica e aperto all’impiego di vetri dipinti e dorati, di suggestiva cromia, nella lastra del parapetto della scala che adotta fedelmente motivi islamici. Sempre a un seguace di Nicola, Giroldo da Como, si deve l’esecuzione di un altro sepolcro parietale per la chiesa francescana, destinato a un membro della famiglia Ammannati, di cui si conservano le tre lastre frontali con la Madonna e il Bambino, san Francesco, santo apostolo e angeli turiferari (Pistoia, Museo Civico) esposti in mostra. Negli stessi anni, anche il fiorentino Coppo di Marcovaldo è impegnato nella decorazione della cappella di S. Jacopo. Protagonista dell’arredo della Cattedrale con il figlio Salerno, egli ha un valido seguace pistoiese in Manfredino di Alberto, il presunto autore degli affreschi dell’abside di S. Maria a Ripalta e di S. Bartolomeo in Pantano. Influenzato da Cimabue, egli si afferma a Genova nell’ultimo decennio del Duecento (affresco con san Michele Arcangelo, Genova, Museo di Sant’Agostino, qui esposto).

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In alto, sulle due pagine antifonario con una miniatura raffigurante san Martino che dona il mantello al povero. 1280-1285 circa. Firenze, Biblioteca Domenicana di Santa Maria Novella «Jacopo Passavanti». A destra calice detto di Sant’Atto, argento sbalzato, cesellato e dorato, filigrana in argento dorato, perle e pietre dure. 1270 circa. Pistoia, Antico Palazzo dei Vescovi.

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una quindicina di anni dopo le convulse vicende degli scontri tra Castruccio Castracani e Firenze, nei quali fu coinvolta anche Pistoia, passata sotto il dominio di Castruccio nel 1325, portarono a un capovolgimento della situazione. Nel 1329 la pax fiorentina impose a Pistoia la perdita di alcuni castelli del Montalbano (Carmignano, Artimino e Bacchereto), divenuti contado di Firenze, e un controllo militare della città attraverso l’istituzione di un capitano di custodia fiorentino. Nel 1351, al termine di quasi un decennio in cui Pistoia, dopo la cacciata del Duca di Atene da Firenze, aveva riacquistato larghi spazi di libertà – risale a quel periodo la redazione di nuovi Statuti –, fu imposta di nuovo alla città, e questa volta in forma stabile, la presenza di un capitano di custodia fiorentino: il duro scontro con i Visconti spingeva Firenze a forme di controllo piú rigide e dirette sul proprio dominio. Infine nel dicembre del 1401 si arrivò al completo inserimento di Pistoia nello Stato fiorentino: la città fu dichiarata ufficialmente «vero e nativo territorio del contado di Firenze, del quartiere di Santa Maria Novella».

Nell’orbita di Firenze

nuovo Statuto del Podestà, entrato in vigore nel 1296, rispecchiava bene il rapporto di dipendenza che si era ormai creato tra Pistoia e Firenze. La sua redazione fu affidata direttamente al governo fiorentino e i suoi contenuti si rifacevano in gran parte alla codificazione della città dominante, a cominciare dall’introduzione della figura del gonfaloniere di Giustizia accanto alla magistratura degli Anziani. Cosí, a partire dagli ultimi decenni del XIII secolo Pistoia si trovò saldamente inserita nell’orbita fiorentina, mantenendo un’autonomia spesso puramente formale. Altri passaggi nel corso del Trecento, pur in un’alternanza di situazioni, introdussero ulteriori limiti. La presa del potere a Pistoia da parte dei Bianchi (1301), mentre a Firenze prevalevano i Neri, provocò la reazione della stessa Firenze, in alleanza con Lucca. Lo scontro si trascinò per alcuni anni e si concluse con il lungo assedio che portò alla presa della città da parte degli eserciti nemici (aprile 1306). Pistoia dovette accettare la perdita di parti del proprio territorio a vantaggio di Lucca e di Firenze, e l’imposizione di podestà e di capitani nominati dai vincitori. La discesa di Arrigo VII (1312-1313) e la sconfitta dei fiorentini ad Altopascio (1315) a opera di Uguccione della Faggiola consentí ai pistoiesi di recuperare margini di sovranità, ma

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Dunque, tra i decenni finali del XIII secolo e l’inizio del XV, Pistoia fu assorbita completamente nel dominio fiorentino, pur rivendicando e mantenendo spazi di autonomia nella gestione interna e nei rapporti con quello che era il suo contado. Nello stesso periodo i legami, di natura anche culturale, in senso lato, con le città della parte occidentale della Toscana (Pisa e Lucca) – legami particolarmente forti nei primi due secoli del secondo millennio – si allentarono progressivamente nella misura in cui le vicende e la stessa vita cittadina furono condizionate dalla pervasività dell’influenza fiorentina. Il ridimensionamento prima e la perdita poi della libertà non influirono sullo sviluppo urbano. La piccola cinta muraria altomedievale, che racchiudeva una superficie di appena nove ettari, con al centro, grosso modo, la piazza della cattedrale, fu sostituita nel corso della seconda metà del XII secolo da una nuova cerchia, che aumentò di quattro volte la superficie precedente. Lo spazio tra le due cinte murarie fu rapidamente urbanizzato nei primi decenni del XIII secolo, a tal punto che le chiese e i conventi degli Ordini mendicanti (francescani, domenicani, serviti, agostiniani, carmelitani) dovettero sorgere al di là delle mura. I primi furono i francescani, che si istallarono verso la metà del Duecento nella zona di Santa Maria al Prato, a nord-ovest delle mura cittadine; seguirono a circa vent’anni di distanza i predicatori, che scelsero un terreno sito a mezzogiorno; poi fu la volta degli altri Ordini che si distribuirono fuori della cerchia muraria, formando una sorta di raggiera. La costruzione

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mostre pistoia degli edifici maggiori – quelli arrivati sino a noi, pur in molti casi con modifiche che si sono succedute nel tempo – fu avviata nel corso degli ultimi decenni del XIII secolo e completata in gran parte nella prima metà del XIV. Intorno alla città sorsero anche piccoli borghi, che, insieme agli stabilimenti dei Mendicanti, furono protetti in qualche modo da una rete di canali circolari (circule) e da terrapieni e steccati. La progressiva espansione dell’abitato oltre le mura spinse il Comune a dare avvio a fine Duecento alla progettazione e alla costruzione di una terza cinta. Il rallentamento e poi l’arresto della crescita demografica ritardarono il completamento dei lavori, che si conclusero solo nell’ultimo quarto del Trecento. La superficie intramuraria raggiunse cosí 117 ettari, ma, al pari di altre città, lo spazio tra la seconda e la terza cerchia rimase in larga parte vuoto, coperto da orti e giardini, in parte contigui ai grandi stabilimenti ecclesiastici, mentre le case si concentrarono solo lungo le principali direttrici viarie. All’interno del nuovo spazio sorsero solo cinque parrocchie delle trenta che arrivò a contare l’intera città. L’allargamento dello spazio urbano fu la naturale conseguenza della crescita della popolazione. L’elenco dei pistoiesi che nel 1219 giurarono la pace con Bologna ha portato ad attribuire alla città, a quella altezza cronologica, una popolazione di circa 11 mila abitanti. Per i decenni a cavallo fra XIII e XIV secolo – quelli dell’apogeo medievale – mancano fonti in grado di offrirci dati attendibili. Tuttavia, la decisione di (segue a p. 42)

Il Trecento

Nomi illustri e avvio di un’identità figurativa LA PRIMA METÀ DEL SECOLO All’inizio del Trecento, in una città ormai in procinto di perdere la sua libertà e squassata dalle fazioni, Giovanni Pisano realizza il pergamo della chiesa di S. Andrea, un capolavoro assoluto del Medioevo europeo in cui attua la sintesi tra concezione dottrinale, struttura compositiva e stile. A Pistoia Giovanni Pisano lascia anche due Crocifissi «in piccolo» (S. Andrea, S. Maria a Ripalta), a sigillo della sua presenza, e l’Angelo con la testa del Battista (già nel Battistero). Questa affascinante statua, che propone l’iconografia nordeuropea In basso un altro particolare dell’allestimento della mostra, ospitata negli spazi dell’Antico Palazzo dei Vescovi.

In alto Pistoia, Battistero di S. Giovanni in Corte. La lunetta del portale centrale con statue raffiguranti la Madonna col Bambino, San Giovanni Battista e San Jacopo. 1240 circa.

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della Johannesschüssel, ovvero la testa decollata del Battista, mantiene ancora vivo il dibattito sull’unità originaria del gruppo (indagato con recenti aggiornamenti diagnostici) e sul grado di autografia delle sue componenti. Altre statue dei primi due decenni del secolo attestano il legame con Siena (Angelo annunciante, Museo Civico) e il seguito di Giovanni in città (Sant’Andrea, proveniente dalla chiesa omonima). L’orafo Andrea di Jacopo d’Ognabene nel 1316 firma il paliotto frontale dell’altare d’argento di san Jacopo. In mostra di sua mano figurano anche il Calice degli Umiliati

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(Museo Civico) e la Croce di Lucchio (Bagni di Lucca). In pittura il panorama artistico assai diversificato è popolato da personalità di notevole livello e originalità. La figura autoctona che eccelle è il Maestro del 1310, che si confronta con l’altrettanto originale frescante del presbiterio di S. Giovanni Fuorcivitas. La precoce adesione alla cultura senese di matrice duccesca è manifestata dagli affreschi della cappella di S. Nicola inseriti nel percorso della mostra. Eco della soggezione politica a Firenze è la presenza di Lippo

di Benivieni, che, interprete personalissimo del giottismo, lascia in città il Compianto su Cristo morto, uno dei massimi capolavori del primo Trecento fiorentino, esposto nella sezione del Museo Civico del percorso della mostra. Anche nel campo della miniatura, le testimonianze puntano in direzione di Firenze. Ne è referente privilegiato la bottega dell’artista leader nella produzione libraria fiorentina, Pacino di Bonaguida, che nel Graduale di Popiglio (Museo di Arte Sacra) offre una versione elegante del suo

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A sinistra Crocifisso in legno di noce scolpito e dipinto, opera di Giovanni Pisano. 1300-1305 circa. Pistoia, chiesa di S. Andrea. Nella pagina accanto, in basso Vergine annunciata e Figura virile con cartiglio, statue in marmo di Agostino di Giovanni. 1337-1339. Pistoia, Antico Palazzo dei Vescovi.

composto classicismo figurativo. Per contro, l’Antifonario di San Pietro a Vitolini (Pistoia, Archivio Capitolare) si rivela opera di un maestro senese in contatto con la coeva miniatura pisana. LA SECONDA METÀ DEL SECOLO Sulla scia degli svolgimenti fiorentini si colloca anche l’importante Maestro della Maestà civica di Pistoia, presente con il giovanile polittico della Pinacoteca di Empoli, che ne attesta la formazione nel seguito del Maestro del 1310. Nel grande affresco eponimo del Palazzo Comunale (1345-50), egli denuncia un sensibile aggiornamento sull’arte di Maso di Banco. Anche il Maestro di Popiglio richiama l’esempio del conterraneo Maestro del 1310, per aprirsi in seguito ai riflessi della coeva pittura pisana. Influenze della cultura pittorica pisana si colgono nelle miniature che ornano l’Antifonario della chiesa di S. Giovanni Fuorcivitas (Pistoia, Archivio Capitolare),

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opera eponima che denomina un Maestro di probabile origine pistoiese. Il suo linguaggio spiccatamente espressivo si distingue per originalità nel panorama toscano dell’epoca, come illustra in mostra anche l’Antifonario della basilica di S. Maria all’Impruneta (Firenze). La scultura ha il suo decennio d’oro tra il 1330 e il 1340; vi concorrono la costruzione in fieri del Battistero e il ritrovamento del corpo del vescovo Atto. Organizzati dal capomastro e «accollatario» Cellino di Nese, artisti senesi come Agostino di Giovanni e il figlio Giovanni con la bottega realizzano in Cattedrale il cenotafio del grande giurista Cino de’ Sigibuldi (si vedano Figura virile e Annunciata) e il monumento per le spoglie del vescovo, mentre artisti pisani «girovaghi» (Maestro/i del Monumento Fieschi), di cui si espone un altarolo (Genova, S. Agostino), forniscono le statue per la lunetta del portale del Battistero, inserita nel percorso della mostra.

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In alto, sulle due pagine Madonna col Bambino e i santi Francesco d’Assisi, Giovanni Battista, Andrea e Antonio Abate; Mosè, David, Salomone e Geremia, tempera su tavola del Maestro della Maestà civica di Pistoia. 1330 circa. Empoli, Museo della Collegiata di Sant’Andrea.

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mostre pistoia iniziare la costruzione della terza cerchia testimonia di un’ulteriore e consistente crescita della popolazione, anche se forse meno forte di quella conosciuta da altre città toscane: non avrebbe avuto senso dare avvio all’impresa se la popolazione non si fosse discostata troppo da quella del 1219. L’ipotesi ragionevole è che Pistoia a fine Duecento arrivasse a toccare, e forse a superare i 15 mila abitanti. L’assedio e il sacco della città del 1306 per opera dei fiorentini e dei lucchesi determinarono un primo esodo della popolazione: «molta gente fue costretta per necessità a partirsi di Pistoia, sí che romase molto ignuda di persone e d’avere», scrive l’anonimo autore delle Storie pistoresi. Effetti negativi ebbero anche le guerre condotte da Castruccio Castracani, ma furono soprattutto le grandi epidemie tre-quattrocentesche, a partire dalla peste del 1348, a ridurre drasticamente la popolazione, che nel 1427 contava appena 4500 abitanti.

La regione piú urbanizzata d’Europa

Nel panorama regionale Pistoia era dunque una città minore: non poteva contare su una popolazione e su territori dipendenti paragonabili a quelli di cui disponevano Firenze, Siena, Pisa e Lucca. Arezzo, che aveva un numero di abitanti simile a quello di Pistoia, controllava però un territorio assai piú vasto. Bisogna aggiungere però che la Toscana del primo Trecento era la regione piú urbanizzata d’Europa e che fuori d’Italia una città di 15 mila abitanti si sarebbe collocata nella fascia piú alta. Su un piano, però, Pistoia non differiva piú di tanto dalle maggiori città toscane e si distingueva nettamente dai centri minori. Si trattava della capacità di avere rapporti importanti con città poste oltre i confini della regione, che per un certo periodo (metà Duecentoprimi decenni del Trecento) si estesero a varie aree dell’Occidente europeo e del mondo mediterraneo. Del resto gli uomini d’affari pistoiesi non potevano sperare di ottenere guadagni consistenti operando solo nella piccola patria; ben altra cosa erano le prospettive che si aprivano fuori di essa. Sulla proiezione fuori di Toscana e fuori d’Italia dei mercanti-banchieri pistoiesi è stato scritto molto, e già da tempo. Riassumendo, due furono le direttrici principali lungo le quali si mossero gli uomini d’affari della città toscana. La prima fu la piazza di Bologna, e Bologna fu il punto di partenza per estendere la rete degli affari ad alcune città dell’Emilia e della Lombardia. La seconda direttrice ebbe come fulcro le fiere della Champagne, e da lí soprattutto le Fiandre e l’intera Francia. Compagnie pistoiesi o singoli mercanti furono attivi anche nell’Italia meridionale, nelle città della Provenza, a Genova, in Catalogna, sporadicamente perfino nell’Oriente mediterraneo.

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influenze fiorentine

L’abbraccio della città del giglio Il processo di assoggettamento politico, commerciale e culturale della città a Firenze era giunto a maturazione sin dall’ultimo scorcio del Duecento. Esso fu sancito in maniera altamente simbolica nel 1296 dal nuovo Statuto del Podestà redatto direttamente dal governo fiorentino. Tuttavia, è dal secondo quarto del Trecento che la pittura fiorentina afferma la sua preminenza nel panorama artistico cittadino. Lo stesso Giovanni di Bartolomeo Cristiani, principale protagonista autoctono, ben rappresentato in questa sala, oltre ad avere intrattenuto secondo i documenti d’archivio a noi noti un rapporto di collaborazione con Nardo di Cione, svolse la sua attività soprattutto in riferimento ai fatti artistici fiorentini. L’autorevolissima presenza di Pietro Lorenzetti (Madonna col Bambino in trono e otto angeli, proveniente dalla chiesa di S. Francesco a Pistoia, qui esposta; vedi foto alla pagina accanto) sembra tenere alto l’interesse nei riguardi degli artisti senesi, ma in realtà la scena artistica è dominata ormai dai fiorentini, per l’attività intensa nella decorazione ad affresco dei seguaci diretti di Maso di Banco, Alesso di Andrea e Bonaccorso di Cino. Poco dopo la metà del febbraio

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In alto, sulle due pagine Compianto su Cristo morto, tempera su tavola di Lippo di Benivieni, dalla chiesa di S. Maria Maddalena a Pistoia. 1310 circa. Pistoia, Museo Civico. Su Gesú deposto dalla croce piangono la Vergine, Giovanni Evangelista, Giuseppe di Arimatea, Nicodemo e Maria Maddalena con le pie donne. A destra Madonna in trono col Bambino e otto angeli, tempera su tavola di Pietro Lorenzetti, dalla chiesa pistoiese di S. Francesco. 1340. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

secolo, Taddeo Gaddi (polittico di S. Giovanni Fuorcivitas, in mostra) afferma il definitivo predominio culturale fiorentino, divulgato poi in città dall’attività di Niccolò di Tommaso, ed esteso anche nel campo dell’illustrazione libraria. Da S. Giovanni Fuorcivitas proviene il Graduale miniato da Don Simone Camaldolese, mentre il suo seguace Matteo di Filippo Torelli è attivo per gli olivetani di San Benedetto, al principio del secolo seguente (Graduale, Biblioteca Leoniana). Nel terzo quarto del Trecento, stanti anche le relazioni commerciali della città con la Provenza, Pistoia apre a orafi fiorentini quali Romolo di Senuccio Salvi, autore del prezioso Reliquiario della Croce (1379-83). Pur con un ruolo defilato vi collabora anche il pistoiese Andrea di Piero Braccini, di cui è esposto un calice firmato nel 1384.

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mostre pistoia Il tardo-gotico

Eleganza e asprezza La perdita dell’autonomia politica e la definitiva sottomissione a Firenze nel 1402 fanno da sfondo alla stagione del tardo-gotico, che a Pistoia si afferma con caratteri distintivi, nel panorama della pittura toscana tra XIV e XV secolo. Il protagonista della scena artistica cittadina nella seconda metà del Trecento, Giovanni di Bartolomeo Cristiani, ripropone nell’ultimo decennio del secolo il suo linguaggio delicato nel trittico conservato nel Museo Diocesano di Milano e qui esposto, eseguito in collaborazione con Nanni di Jacopo, che fu probabilmente suo allievo. Se l’accostamento di Nanni di Jacopo alle suggestioni tardo-gotiche si coglie soprattutto nella brillantezza cromatica o nella preziosità dei tessuti che ornano i suoi dipinti – come nel trittico Madonna col Bambino in trono fra san Francesco e san Giacomo, datato 1404, in collezione Ricciarelli a Pistoia – il rinnovamento pittorico è promosso con maggiore convinzione da Antonio Vite. Autore di raffigurazioni vivacemente espressive, negli anni intorno al 1390 Vite apre la strada che condurrà alla piena affermazione dei fermenti tardogotici, il cui maggiore interprete è un artista di piú giovane generazione, il Maestro della Cappella Bracciolini. Pittore di tavole e affreschi, nonché miniatore, l’anonimo artista – cresciuto negli anni Ottanta del Trecento accanto a Giovanni di Bartolomeo Cristiani e attento alle novità di pittori fiorentini come Agnolo Gaddi e Gherardo Starnina – elabora un linguaggio fortemente originale. «Eleganze e asprezze» si fondono nelle sue opere, abitate da personaggi dall’espressività pungente, definiti con linee di contorno affilate e acide tonalità cromatiche: uno stile ancora in auge negli anni Venti del Quattrocento, come documenta il trittico della Cattedrale datato 1424.

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Madonna col Bambino in trono fra due angeli musicanti e san Francesco d’Assisi e san Giacomo Maggiore, tempera su tavola di Nanni di Jacopo di Nuto. 1404. Pistoia, Collezione Oriana e Aldo Ricciarelli.

Nella pagina accanto ancora un particolare dell’allestimento della mostra.

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A Bologna a metà Duecento erano presenti ben diciannove banchi pistoiesi, tra i quali spiccavano quelli degli Ammannati e dei Chiarenti. Oltre all’attività di prestito e al cambio di monete, essi erano in rapporti d’affari con lo Studio: si trattava di anticipare a professori e studenti stranieri il denaro che poi veniva risarcito tramite le rimesse dai paesi d’origine; l’Università affidava loro la gestione del prestito dei libri di testo agli studenti; la loro attività si estese poi alla confezione e alla vendita di codici, talvolta destinati al mercato internazionale. Il giro degli affari riguardava anche la vendita di panni milanesi e d’Oltralpe; e si rivolse in qualche caso a settori di interesse pubblico. I Chiarenti, per esempio, ottennero nel 1292 l’appalto del dazio del sale per Bologna, Modena e parte della Romagna. Da Pistoia andavano a Bologna non solo i mercantibanchieri, ma anche i giovani destinati agli studi giuridici. Il piú celebre di loro, Cino dei Sigibuldi, meglio noto come Cino da Pistoia, fu allievo nello Studio di Francesco d’Accursio, e divenne a sua volta uno dei maggiori giuristi del suo tempo. Da Bologna il giro d’affari delle compagnie pistoiesi si allargò presto a Piacenza, Cremona, Milano e ad altre città a nord del Po. La loro attività – anche qui la compagnia piú attiva, per oltre mezzo secolo, fu quella dei Chiarenti – consisteva principalmente nella vendita dei pregiati panni “franceschi” acquistati nelle Fiandre, nell’attività di cambio, nella concessione di prestiti a privati, nel finanziamento a istituzioni

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pubbliche. Compagnie pistoiesi, per esempio, furono coinvolte con autorità locali nella regolamentazione dei traffici che passavano attraverso la grande via transalpina del Sempione.

Podestà e funzionari forestieri

I rapporti di Pistoia con le città d’oltre Appennino non erano solo di natura economica. Per circa un secolo, dall’inizio del XIII sino ai primi anni del XIV, vi fu un intenso scambio di ufficiali (podestà e capitani del Popolo) tra Pistoia e varie città emiliane e lombarde; uno scambio piú intenso di quanto non ve ne fosse con quelle toscane. Per esempio fra il 1224 e il 1303 Pistoia accolse ventisei podestà bolognesi, e altri – non pochi – provenienti da Parma, Cremona, Milano ecc. A loro volta ben dieci ufficiali forestieri pistoiesi esercitarono la carica a Cremona tra il 1271 e il 1310; altri pistoiesi sono attestati a Parma, a Milano e in altre città del nord. A Bologna ricoprirono le cariche di vertice esponenti delle importanti famiglie dei Cancellieri e dei Vergiolesi. Insomma sino ai decenni centrali del Duecento Pistoia ebbe piú punti di contatto – sia sul piano economico che in ambito amministrativo – con centri situati a nord dell’Appennino che non con le vicine città toscane, Firenze compresa. Nella seconda metà del Duecento l’attività dei mercanti-banchieri pistoiesi fu continua e massiccia in (segue a p. 48)

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mostre pistoia A destra, sulle due pagine Madonna col Bambino in trono fra sei angeli e san Giovanni Battista, san Giacomo il Maggiore (oppure san Bartolomeo), san Zeno e san Giovanni Evangelista (?), affresco frammentario del Maestro della Maestà civica di Pistoia. 1345-1350 Pistoia, Palazzo Comunale. In basso e nella pagina accanto gli affreschi della cappella di S. Nicola nell’Antico Palazzo dei Vescovi. 1305-1310.

Nell’Antico Palazzo del Vescovo

Una tipologia nordica La cappella privata del vescovo fu fondata nella seconda metà del XII secolo, ma è menzionata nei documenti a partire dal 1226. Si tratta di uno degli esempi piú interessanti in territorio italiano di cappelle palatine a due piani, tra loro indipendenti, una tipologia squisitamente nordica, soprattutto di area francese. L’ambiente presenta una piccola abside sporgente all’esterno rivestita di mattoni. Fu costruito sopra la sacrestia della cappella di S. Jacopo, il sacello preposto a ospitare la reliquia di san Jacopo, che era collocato nelle prime due campate della navata destra della Cattedrale di S. Zeno, a ridosso della controfacciata, e che fu distrutto nel 1786. La decorazione affrescata rivestiva completamente l’ambiente: includeva anche le stelle a otto punte su fondo azzurro della volta e la finta cortina a drappeggio sotto il registro inferiore delle scene narrative. Queste ultime consistono in due cicli paralleli con Martirî degli Apostoli e Storie di san Nicola. Sotto alcuni affreschi sono presenti delle iscrizioni superstiti che

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la maestà civica

Il Medioevo nel Palazzo comunale Il grande affresco al piano terra del Palazzo Comunale, con la Madonna e il Bambino in trono fra sei angeli e i santi Giovanni Battista, Giacomo il Maggiore (oppure san Bartolomeo), Zeno e Giovanni evangelista (?), è una delle testimonianze piú rilevanti della pittura monumentale a Pistoia nella prima metà del XIV secolo. La raffigurazione si affianca alle altre Maestà civiche presenti in Toscana: da quelle piú celebri di Simone Martini e Lippo Memmi, rispettivamente a Siena e a San Gimignano, a quelle meno note di Bettino di Corsino nel Palazzo Pretorio di Prato o del Maestro di Mezzana nel prospiciente Palazzo Comunale. Essa riveste il medesimo significato di affidare la città e i suoi abitanti alla protezione mariana e, allo stesso tempo, ne riafferma i valori identitari politici e culturali. Un documento conservato nell’Archivio di Stato di Pistoia, della fine del 1344, attesta che in quel tempo una «pictura virginis gloriose Marie cum aliis sanctis» era in fase di ultimazione nella «camera comunis» del palazzo, e con ogni probabilità si tratta proprio di questo affresco. Il Maestro della Maestà civica di Pistoia rappresenta una delle personalità di primo piano nel panorama artistico cittadino fra il secondo e il terzo quarto del XIV secolo.

ne facilitano l’identificazione iconografica. La definizione critica e l’epoca di esecuzione di queste pitture sono oggetto di grande interesse da parte degli studiosi che hanno espresso varie ipotesi in merito. Quella piú plausibile indica l’autore degli affreschi in un ignoto maestro di cultura senese, con datazione oscillante entro il primo quarto del Trecento. L’antica cappella di San Jacopo, smantellata nel 1786 dal vescovo Scipione de’ Ricci, occupava le prime due campate della navata destra della Cattedrale. A essa erano collegate due stanze impiegate come sagrestie, ambedue già all’interno del contiguo Palazzo dei Vescovi. La prima era detta «vecchia» (1163-1170) o «Tesoro di San Jacopo», con le pareti e la volta dipinte a stelle d’oro su fondo azzurro. L’altra era detta «nuova» (fine del XIV secolo). In esse erano conservati arredi liturgici, suppellettili e paramenti sacri di straordinaria ricchezza, oggetto nel tempo di vari tentativi di furto. Il piú noto di questi ultimi è quello portato a termine nel 1293 da Vanni Fucci, cantato nell’Inferno di Dante (XXIV, vv. 97-151).

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mostre pistoia Un edificio prestigioso

Storia e recupero dell’Antico Palazzo dei Vescovi Nel cuore di piazza del Duomo, l’Antico Palazzo dei Vescovi con i suoi cinque piani, uno interrato piú quattro in elevato, abbraccia l’arco cronologico lungo cui si sviluppa l’intera storia di Pistoia, dalla sua fase pre-romana fino all’epoca moderna. Attestato dal 1091 e definito palatium nel 1112, l’edificio medievale è simbolo e manifestazione del potere del vescovo in città e delle sue alterne vicende, sorto in dialettica con la fabbrica della nuova cattedrale e con

la nascente istituzione del Comune. Dopo aver servito per secoli come sede episcopale, il palazzo, troppo bisognoso di cure e ristrutturazioni, nel 1786 fu venduto dal vescovo Scipione dei Ricci, e poi, tra il 1863 e il 1865, completamente stravolto per ospitare botteghe e appartamenti privati. La svolta arrivò nel 1973 quando la Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia lo acquisí promuovendo un lungo e avventuroso recupero inaugurandolo, nel 1981, come sede

molte parti dell’Occidente europeo e la loro presenza e il giro dei loro affari furono inferiori, forse, solo a quelli dei fiorentini e dei senesi. Il passaggio di Pistoia dalla parte guelfa alla fine degli anni ’60 aprí altri mercati e offrí nuove prospettive: i Chiarenti ottennero l’appalto della riscossione della Decima in varie parti d’Europa, e cosí piú tardi gli Ammannati. A loro fecero ricorso, piú volte, papi e alti prelati per l’accensione di prestiti. Con Bonifacio VIII i Chiarenti furono insieme a Mozzi e Spini i banchieri ufficiali della Santa Sede. I buoni rapporti con gli Angioini offrirono condizioni favorevoli in Provenza e nel Regno di Sicilia. La proiezione internazionale dei mercanti-banchieri pistoiesi e l’intreccio delle relazioni con tante realtà italiane ed europee ebbero ricadute sulla città che andavano oltre la sfera economica, interessando, in una sorta di trascinamento, la dimensione culturale e artistica.

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museale e di rappresentanza. Sono passati quarant’anni esatti da quel momento di entusiasmo, in cui la città finalmente si riappropriava di uno dei pezzi piú preziosi della sua storia e, oggi come allora, grazie all’acquisizione da parte di Pistoia Musei & Cultura scrl, l’Antico Palazzo dei Vescovi torna ad accogliere il pubblico in occasione della mostra «Medioevo a Pistoia. Crocevia di artisti tra Romanico e Gotico». Info www.fondazionepistoiamusei.it

Non bisogna pensare che gli uomini d’affari del tempo vivessero e agissero intenti a perseguire solo ed esclusivamente il successo economico; spesso disponevano di una buona formazione culturale ed erano pieni di curiosità nei confronti di mondi diversi dal loro; sapevano osservare e parlare con la gente del luogo. Occorre ricordare inoltre che accanto a loro, e spesso al loro servizio, furono presenti fuori di Toscana e fuori d’Italia anche intellettuali, come fu il caso di Soffredi del Grazia, notaio pistoiese attivo nella Champagne, che fu uno dei maggiori volgarizzatori italiani del Duecento.

Crisi e riconversione

A partire dalla fine del XIII secolo le compagnie pistoiesi subirono una rapida trasformazione. Si verificò prima quella che è stata definita una loro «fiorentinizzazione», ovvero quelle piú importanti (Chiarenti, febbraio

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Sulle due pagine altre immagini dell’allestimento della mostra «Medioevo a Pistoia. Crocevia di artisti fra Romanico e Gotico», in programma fino all’8 maggio.

Ammannati in primo luogo) cominciarono a operare in stretto collegamento con le maggiori compagnie fiorentine, a tal punto da aprire una loro sede nella città del Battista, scivolando in una posizione che divenne a poco a poco se non di dipendenza, quanto meno di secondo piano. Inoltre, la crisi che colpí molte compagnie toscane a inizio Trecento – fallirono grandi società come quelle di Bonsignori, Riccardi, Mozzi, Frescobaldi, Ammannati, ecc. – se ebbe effetti parziali su quelle fiorentine, dove alle società fallite ne subentrarono altre di nuove, fu assai piú pesante per quelle pistoiesi. Ebbe inizio il loro declino, che si concluse nel giro di qualche decennio. Le sporadiche presenze nella seconda metà del Trecento di compagnie pistoiesi fuori di Toscana e fuori d’Italia (ad Avignone e a Bruges per esempio) non cambiano il quadro complessivo: si trattava in genere di uomi-

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ni d’affari che vivevano ormai staccati dalla madrepatria e l’appellativo «pistoiese», «da Pistoia», aveva spesso solo un valore identificativo. A partire dalla seconda metà del XIV secolo Pistoia dovette subire una rapida riconversione della propria economia: dalla mercatura e dalla banca all’agricoltura e alla manifattura. La fertile piana intorno alla città – una città con una popolazione fortemente ridotta – cominciò a produrre eccedenze destinate al mercato fiorentino. Lo sviluppo manifatturiero (settore del tessile e lavorazione del ferro) fu tutto sommato di scarsa rilevanza, se non a livello locale o al massimo regionale (l’attività siderurgica). Pistoia visse cosí un processo di progressiva provincializzazione e la sua economia si restrinse a un orizzonte che coincideva in larga parte con quello del nascente Stato territoriale fiorentino. Non a caso le maggiori famiglie del tempo (Partini, Mannelli, Rospigliosi) trovarono conveniente depositare i loro capitali presso le banche fiorentine. Dunque, per quasi un secolo i mercanti-banchieri pistoiesi – organizzati in compagnie a base familiare che ebbero sempre come punto di riferimento la piccola patria – accumularono ingenti guadagni, buona parte dei quali andarono a vantaggio della città. Consentirono investimenti nell’edilizia pubblica e in quella religiosa, nella committenza artistica, che non esitò a rivolgersi ad alcuni dei maggiori artisti del tempo; meno nell’edilizia privata, fenomeno piú tardo, lí come altrove. Tra fine XII e metà XIV secolo sorsero i principali monumenti cittadini: prima l’Antico Palazzo dei Vescovi e le numerose chiese romaniche; poi le chiese e i conventi dei cinque Ordini mendicanti; a fine Duecento fu avviata la costruzione del palazzo degli Anziani (ora palazzo del Comune); infine a metà Trecento il Battistero andò a completare la piú importante piazza cittadina. Si formò allora quell’assetto monumentale della città che conobbe solo poche modifiche nei secoli successivi, arrivando nelle sue linee essenziali sino ai giorni nostri. Il testo di questo articolo è tratto dal catalogo della mostra e qui appare per gentile concessione dell’Editore Mandragora e di Pistoia Musei & Cultura scrl.

Dove e quando «Medioevo a Pistoia. Crocevia di artisti fra Romanico e Gotico» Pistoia, Antico Palazzo dei Vescovi fino all’8 maggio Info fondazionepistoiamusei.it Catalogo Mandragora

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vivere al tempo del decameron/2

Dio ci salvi dai professionisti! di Corrado Occhipinti Confalonieri

Le ironie di Boccaccio non risparmiano medici, giudici e notai. Ma sono soprattutto i primi a essere messi ripetutamente alla berlina, tradendo la scarsa fiducia dell’autore del Decameron nei confronti dei «medicanti». Un atteggiamento sul quale dovette influire la terribile esperienza della peste del 1348, contro la quale la scienza di allora poté ben poco

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e ai tempi di Giovanni Boccaccio (1313-1375) avessimo camminato in un’affollata città come Firenze – che nella prima metà del Trecento contava centomila abitanti, il doppio di Londra e la metà di Parigi –, da lontano avremmo riconosciuto medici, giudici e notai. Il loro ricco abbigliamento non poteva certo passare inosservato: «co’ panni lunghi e larghi e con gli scarlatti e co’

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vai e con altre assai apparenze grandissime» (Decameron, giornata VIII, novella 9). La veste scarlatta era caratteristica di chi aveva un titolo dottorale: i «panni lunghi e larghi» alludono alla guarnacca, l’ampio soprabito che si indossava appunto sopra la veste, chiamata gonnella. I vai erano una varietà di scoiattolo bianco e grigio con cui si ornavano il copricapo e il collo dell’abito. Quell’abbigliamento indicava

anche dove questi professionisti avevano studiato: la vicina Bologna, perché solo nel 1349 entrò in funzione l’università fiorentina. Nel Decameron, i medici compaiono piú volte (I, 10; III, 9; IV, 10; IX, 3; X, 2) a cominciare dall’introduzione della prima giornata, quando, durante la peste del 1348, «a cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtú [capacità] di medicina alcuna pareva che valesse o febbraio

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Miniatura raffigurante un medico che esamina l’addome di un paziente, da un’edizione manoscritta del Liber notabilium illustrissimi principis Philippi septimi... di Guido da Vigevano. 1345. Chantilly, Musée Condé.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’esame delle urine di un paziente, da un’edizione del Continens, traduzione in latino dell’al-Kitab al-Hawi, trattato del medico, filosofo e alchimista persiano Rhazes (forma latinizzata di Abu Bakr Muhammad ibn Zakariyya al-Razi). XIV sec. Parigi, Bibliothèque de la Sorbonne.

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vivere al tempo del decameron/2 facesse profitto». Qui scopriamo anche i guaritori improvvisati, fra cui le donne: «la ignoranza de’ medicanti [ovvero quelli che curavano con o senza diritto] (…) de’ quali, oltre al numero degli scienziati, cosí di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero diventato grandissimo».

Due pittori come vicini

Arrivato da Bologna, Simone Villa è uno dei tanti medici «piú degno di beni paterni che di scienza» (VIII, 9), ovviamente vestito di costoso scarlatto e «con un gran batalo» [falda del cappuccio che nobili, preti, dottori, ecc. lasciavano cadere sulle spalle] che a Firenze abita in via del Mellone, la stessa strada dei «dipintori» Bruno e Buffalmacco e perciò candidato ideale delle loro burle. «Mastro» Simone li nota e «parendogli che costoro meno che alcuni altri del mondo curassero [si preoccupassero del successo

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mondano] e piú lieti vivessero», nonostante fossero «poveri uomini e dipintori», ma da tutti considerati «astuti uomini» capaci di saper trarre sconosciuti «profetti [profitti] grandissimi», per carpire il loro segreto di felicità decide di volerne subito conoscere almeno uno. Fa amicizia con Bruno, che rapidamente capisce «questo medico esser un animale [espressione generica a indicare la sua dabbenaggine]» e comincia a raccontargli un sacco di scempiaggini. Il medico è affascinato dal nuovo amico e trova il coraggio di chiedergli come mai lui e Buffalmacco «essendo poveri uomini cosí lietamente viveano; e pregollo che gli insegnasse come faceano». A Bruno la domanda appare «dell’altre sue sciocche e dissipite [una delle sue solite sciocchezze e delle piú insipide]»; si mette a ridere e pensa di rispondergli in base alla sua «pecoraggine [scempiaggine]». Racconta al medico di far parte con Buffalmacco

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della via uno orinale, a ciò che coloro che avessero del suo consiglio bisogno il sapessero riconoscere dagli altri; e in una sua loggetta gli aveva dipinta la battaglia de’ topi e delle gatte». Questi soggetti hanno tutti un significato simbolico canzonatorio nei confronti di Simone. Nel Medioevo, per elaborare la diagnosi, il medico si limitava a tastare il polso e a controllare in un’ampolla le urine del paziente. Qui l’orinale come unico strumento medico ha un significato derisorio perché Simone possiede «i piú be’ libri e le piú belle robe (…) i guanti in mano e’ panni lunghi»; l’Agnus Dei è un amuleto per le donne gravide e per i bambini, quindi il messaggio diventa: per guarire non affidarti alle mie cure di medico ma al cielo; a Carnevale, la Quaresima è rappresentata come una brutta vecchia, smagrita per i digiuni: un aspetto opposto a una paziente che grazie alle cure di un bravo dottore deve rifiorire. In alto, sulle due pagine miniatura raffigurante il medico Simone da Villa che parla con Bruno e Buffalmacco e poi dentro una fossa fetida nella quale è stato scaraventato, da un’edizione in francese del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante Simone da Villa che cavalca Buffalmacco travestito da bestia, che poi lo getta in una discarica, da un’edizione in francese del Decameron. 1430 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

di una brigata composta da venticinque amici, «senza guardare chi essi fossero, piú gentili che non gentili o piú ricchi che poveri, solamente che uomini fossero conformi a’ loro costumi», con cui, due notti al mese, «andava in corso», ovvero per arti magiche mangiava, beveva, ascoltava musica, ma «sopra tutti gli altri piaceri che vi sono si è quello delle belle donne, le quali subitamente, piú che l’uom voglia, di tutto il mondo vi son recate».

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Addirittura al convito ci sono tutte «le reine del mondo»: lui giace in uno splendido talamo con la regina d’Inghilterra e Buffalmacco con quella di Francia. Quando hanno bisogno di soldi, le due regine regalano mille, duemila fiorini. Ovviamente Simone «la cui scienza non si stendeva forse piú oltre che medicare i fanciulli del lattime [le croste che vengono ai lattanti]» ci crede e vuol far parte della comitiva. Da notare la contraddizione che sfugge a Simone: i due pittori sono poveri – interessante e ripetuto dettaglio che ci fa scoprire la bassa condizione sociale degli artisti, ritenuti nel Medioevo piuttosto dei semplici artigiani – e poveri rimangono nonostante le generose elargizioni delle regine di mille, duemila fiorini. Per diventarne amico, invita Bruno a pranzo e a cena; per sdebitarsi, il pittore gli «aveva dipinto nella sala sua la Quaresima e un agnusdei all’entrar della camera e sopra l’uscio

Armi inutili

Per la battaglia dei topi e delle gatte, Boccaccio può essersi ispirato – nota Chiara Frugoni – a una novella medievale riportata poi successivamente anche da un anonimo, forse Teofilo Folengo. In questo poemetto i gatti indossano un’armatura simile all’abbigliamento del medico, con elmi di pelliccia e sopravvesti di vaio, cavalcano orinali di vetro panciuto, mortai per pestare i componenti delle medicine e impugnano armi fatte di fumo e di vento, come a dire l’inutilità delle armi a disposizione del medico per combattere le malattie. Il medico Simone si convince che può possedere la contessa di Civillari «la quale era la piú bella cosa che si trovasse in tutto il culattario dell’umana generazione». Civillari era una località di Firenze in cui si andava a defecare liberamente e si scaricava nella fossa lo sterco delle case. Il «dottore in medicine»

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A destra miniatura raffigurante il corsaro Paganino che rapisce Bartolomea, moglie del giudice Riccardo da Chinzica, sotto gli occhi del marito; sulla destra, la donna, nella dimora di Paganino a Monaco, comunica al marito di non voler tornare a casa con lui, da un’edizione in francese del Decameron. 1340-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

insiste con Bruno e Buffalmacco perché lo portino al convito, vuole giacere con la contessa, si vanta con loro del suo coraggio e della sua bellezza: «come io sono bello uomo e come mi stanno bene le gambe in su la persona [come sono in gamba] e ho un viso che pare una rosa (…) e so di molte belle cose e di belle canzonette»; da come ha perorato la sua causa, i due complici della burla si mostrano convinti. La notte del debutto nella confraternita, Simone deve vestirsi con «il suo scarlatto» piú bello, arrivato a S. Maria Novella arrampicarsi «su uno di quegli avelli rilevati [tombe, arche grandi rilevate da terra] che poco tempo ha [fa] si fecero» e aspettare l’arrivo di «una bestia nera e cornuta» sulla quale salire, ma solo se non avrà paura e senza invocare Dio e i santi. Il medico lo promette, si veste con Nella pagina accanto un’altra miniatura da un’edizione del Continens di Rhazes raffigurante un paziente che mostra al medico il proprio piede malato. XIV sec. Parigi, Bibliothèque de la Sorbonne.

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eleganza, per uscire di casa inventa alla moglie una scusa e si reca nel luogo stabilito: qui rimane a lungo, tremante sul gelido marmo della tomba, per la paura e per il freddo.

Travestito da orso

Buffalmacco «il quale era grande e atante [aitante] della persona, ordinò d’avere una di queste maschere che usare si soleano a certi giuochi li quali oggi non si fanno; e messosi indosso un pilliccion nero a rivescio [nel Medioevo il pelo era usato all’interno degli indumenti per riscaldare di piú il corpo], in quello s’acconciò in guisa che pareva pure un orso, se non che la maschera aveva viso di diavolo e era cornuta». Il codardo Simone appena vede arrivare la bestia chiede aiuto a Dio, poi deve stare in equilibrio su quello strano animale, tenendo le mani incrociate sul petto in segno d’obbedienza e sottomissione. Fra grandi scossoni viene portato a Civillari e qui gettato nella discarica. Dopo essere riuscito a uscirne «tutto dal capo al pié impastato, dolente e cattivo» torna a casa e subisce gli

aspri rimproveri della moglie, che ha subodorato il tradimento. Il giorno successivo, i due pittori si disegnano graffi e lividi su tutto il corpo e lo vanno a trovare. In casa «sentirono ogni cosa putirvi [puzzare], ché ancora ancora non s’era sí ogni cosa potuta nettare che non vi putisse». Simone crede che quei segni siano la conseguenza delle punizioni inflitte ai due amici dagli altri della confraternita perché non ha mantenuto fede ai giuramenti di non nominare il nome di Dio e dei santi e di non avere paura. Da quel momento, per farsi perdonare, incrementa gli inviti a pranzi e a cene degli amici pittori. Cosí, conclude il Boccaccio: «senno s’insegna a chi tanto non apparò [imparò] a Bologna». Un collega di Simone, ma di Salerno e sapiente, è Mazzeo della Montagna «grandissimo medico in cirugia» (IV, 10) piuttosto anziano e con una moglie giovane e bella che lo tradisce. Mazzeo è alle prese con un infermo «il quale aveva guasta l’una delle gambe» praticamente già quasi morto; per non compro-

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Miniatura raffigurante Ribi e Maso del Saggio che distraggono il giudice Niccola di San Lepidio improvvisando una lite e Matteuzzo ne approfitta per tirargli giù le braghe, da un’edizione in francese del Decameron. 1340-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

mettere la sua fama, Mazzeo mette le mani avanti: ai parenti dice che tenterà l’amputazione anche se non ci sono molte speranze di salvezza. Li avvisa pure che senza essere «addoppato» [anestetizzato con

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l’oppio] il paziente «non sosterrebbe la pena né si lascerebbe medicare». La mattina dell’operazione Mazzeo «fé (…) d’una certa sua composizione stillare una acqua la quale l’avesse, bevendola, tanto a far dormire quanto esso avvisava di doverlo poter penare [far soffrire] a curare; e quella fattasene venire a casa, nella sua camera la pose senza dire ad alcuno ciò che vi fosse». Ma accade un imprevisto: Mazzeo viene avvisato da un messo di «certi suoi grandissimi amici di Amalfi» che deve recarsi subito in

quella città a curare i feriti di una zuffa. Con disinvoltura, il medico rimanda l’importante operazione alla mattina seguente e sale su una «barchetta» alla volta della città marinara. In questo passaggio, Boccaccio ironicamente sottolinea la priorità data dal medico agli amici rispetto al paziente grave con la gamba in cancrena. La moglie approfitta dell’assenza di Mazzeo e nasconde il giovane amante in camera da letto, in attesa che la gente di casa vada dormire. Ma l’amante febbraio

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in alto miniature raffiguranti un prete che ascolta la confessione del notaio Ciappelletto in punto di morte e i fedeli che in chiesa ascoltano un’orazione in cui si esaltano le virtù del defunto, da un’edizione in francese del Decameron. 1340-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

«avendo o per fatica il dí durata [sopportata] o per cibo salato che mangiato avesse o forse per usanza [per sua natura] una grandissima sete, gli venne nella finestra veduta questa guastadetta [piccola caraffa] d’acqua la quale il medico per lo ‘nfermo aveva fatta, e credendola acqua da bere a bocca postalasi, tutta la bevé» e si addormentò subito profondamente. Nelle case medievali, le stanze non avevano armadi, l’oppio per l’anestesia è «nella finestra» [nicchia nel muro]. Qui notiamo come

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l’anestetico viene abbandonato da Mazzeo dove capita, dimostrando, ai nostri occhi, una notevole negligenza medica. La donna crede che l’amante sia morto, tanto è profondamente addormentato. Con l’aiuto della scaltra fantesca, lo mette in una bara vuota, lasciata davanti alla bottega di un falegname. Due usurai passano di là e se la portano a casa. Qui, improvvisamente, l’amante della donna si sveglia e i due «usurari» lo scambiano per un ladro. Per evitare che la tresca venga scoperta da Mazzeo, al giudice incaricato del caso la fantesca confessa di aver messo lei l’uomo «nell’arca dagli usureri imbolata [rubata]» e di essere l’amante dell’uomo che si era svegliato nella bara, salvando cosí la sua padrona.

Interventi azzardati

Da queste novelle, possiamo trarre alcune considerazioni su come venivano percepiti nella società del Trecento i medici. Nonostante Simone Villa e Mazzeo della Montagna abbiano studiato in due prestigiose università come Bologna e Salerno, l’uno non dà prova di

capacità professionale e l’altro di affidabilità. In generale, Boccaccio ha una pessima opinione dei medici: li ritiene boriosi e cialtroni, e anche di fronte alla peste si sono rivelati impotenti. Nel Medioevo sovente provocavano la morte del paziente per gli azzardati interventi chirurgici, per i medicinali impiegati dannosi o inutili, oltre, ovviamente, all’ignoranza delle norme igieniche. Le troppo abbondanti dosi di anestetico (oppio, mandragora, cicuta) spesso non fanno risvegliare dall’operazione il malato. Per questo, quando i medici non riescono a guarire il paziente, interviene Dio, come nelle Riformanze di Città di Castello del 1374, in cui il medico ideale deve essere «esperto, pratico e idoneo nell’arte della medicina», affinché «con l’aiuto di Dio, sappia curare le malattie del corpo e conservare la salute». Neppure giudici e notai escono bene dalle pagine del Decameron (I, 6; I, 9; II, 1; III, 5; IV,3; V 1; VI, 7; VIII, 9). L’anziano giudice Riccardo da Chinzica di Pisa (II, 10) commette lo stesso errore del medico salernitano e sposa una giovane

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vivere al tempo del decameron/2 donna. Non riuscendo ad assolvere con frequenza ai suoi doveri coniugali, pensa «con quelle medesime opere soddisfare alla moglie che egli faceva agli studii» e dopo aver rischiato di «far tavola» [cilecca] nel consumare il matrimonio insegna a Bartolomea un calendario per ridurre a una volta al mese il rapporto sessuale: «l’uomo e la donna doversi abstenere da cosí fatti congiugnimenti, sopra questi aggiungendo digiuni e quattro tempora e vigilie d’apostoli e di mille altri santi e venerdí e sabati e la domenica del Signore e la quaresima tutta, e certi punti della luna e altre eccezion molte, avvisandosi forse che cosí feria [giorno di riposo] far si convenisse con le donne nel letto, come egli faceva talvolta piatendo alle civili [trattando cause civili]».

Fuga con il corsaro

Capolettera miniato della rubrica De iure reddendo del IV libro sulle cause civili, dallo Statuto del Comune di Bologna per l’anno 1376. Bologna, Archivio di Stato. L’immagine, realizzata dal miniatore Nicolò di Giacomo, mostra una vivace e animata scena processuale, nella quale ciascun personaggio è tratteggiato con gestualità e fogge che ne caratterizzano il ruolo e lo stato sociale: su tutti domina

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il giudice, che indossa il mantello e il cappello rosso bordati di ermellino; con la destra indica un punto del codice al procuratore, in piedi sulla sinistra, che sta mostrando una carta processuale; ai suoi piedi due notai sono intenti a trascrivere i verbali del procedimento, mentre un gruppetto di persone (forse le parti in causa) si affolla alle spalle dello scanno cosí da poter assistere all’azione.

Bartolomea viene rapita e finalmente soddisfatta da un gagliardo corsaro; quando il marito la ritrova, lei gli rinfaccia: «E se egli v’era piú a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovevate pigliarla; benché a me non parve mai che voi giudice foste, anzi mi paravate un banditore di sagre e di feste». Alla moglie che dice di preferire il corsaro, Riccardo argomenta con termini giuridici, distinguendo i ripudi concubinari dai diritti matrimoniali: «Costui quando tu gli sarai rincresciuta, con gran vitupero di te medesima ti caccerà via: io ti avrò sempre cara e sempre, ancora che io non volessi, sarai donna della casa mia». Ma queste motivazioni non convincono la moglie che rimane con l’affascinante corsaro. Dal dolore Riccardo cade nella «mattezza» [follia] e poco tempo dopo muore; lascia cosí libera Bartolomea di sposarsi con il suo amante. Un altro giudice di cui narra il Boccaccio è il marchigiano Niccola di San Lepidio (VIII, 5). Per assicurare l’imparzialità nei processi, nelle città medievali del Due- e Trecento venivano chiamati podestà da altre città lontane. A Firenze febbraio

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Da leggere Arsenio e Chiara Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Laterza, Roma-Bari 1997

vengono spesso assegnati giudici marchigiani «li quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto misera, che altro non pare ogni lor fatto che una pidocchieria [di animo gretto, misero e di vita tanto ristretta, pitocca]: e per questa loro innata miseria e avarizia menano seco e giudici [funzionari] e notari che paiono uomini levati piú tosto dall’aratro o tratti dalla calzoleria, che delle scuole di leggi». Niccola di San Lepidio sembra piú un «magnano» [fabbro] che un giudice e viene posto a dirigere i processi criminali. Una mattina Maso del Saggio cerca in tribunale un suo amico, nota il giudice e gli sembra un «uccellone» [babbeo]. L’abbigliamento di Niccola gli conferma questa prima impressione: «il vaio tutto affumicato» [il berretto di scoiattolo grigio e bianco era diventato nero dalla sporcizia], «piú lunga la gonnella che la guarnacca» e «un paio di brache [mutande] (…) che in fondo loro infino a mezza gamba gli agiugnea [arrivava]». Uscito da palazzo, Maso incontra due amici, Ribi e Matteuzzo, e, per fare uno scherzo al giudice marchigiano, decidono di tirargli giú le «brache». La mattina dopo, confuso fra la folla dell’aula, Matteuzzo si nasconde sotto la panca su cui stava seduto Niccola di San Lepidio: l’asse su cui appoggia i piedi il giudice è sconnessa e Matteuzzo può infilare nella fessura il braccio e la mano. Gli altri due improvvisano una lite fra loro strattonando la guarnacca di Niccola per farsi dare retta. «Mentre che il giudice stava ritto e loro piú vicino per intendergli meglio, Matteuzzo, preso tempo, mise la mano per lo rotto dell’asse e pigliò il fondo delle brache del giudice e

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tirò giú forte: le brache ne venner giuso incontamente, per ciò che il giudice era magro e sgroppato [senza fianchi]». I due strattonano ancora il giudice, che vorrebbe sedersi per ricomporsi, ma, nel frattempo «tanto in queste parole il tennero per li panni che quanti nella corte n’erano s’accorsero essergli state tratte le brache». Compiuta la burla, i tre se la danno a gambe, invano Niccola chiede vendetta contro chi «traeva le brache a’ giudici quando sedevano al banco della ragione [giustizia]».

Molestie e ricatti

Spesso, inoltre, questi giudici approfittano della loro posizione per molestare e ricattare le donne. Lo stradicò (giudice) nella novella del medico salernitano e il giudice (forse il podestà Giovanni Acquabianca) in quella ambientata a Brescia (IV, 6) vogliono cominciare il processo e il confronto delle testimonianze andando a letto con la bella accusata: «per ciò che fresca e gagliarda era, [lo stradicò] volle una volta attaccar l’uncino alla cristianella di Dio, e ella [la fantesca salernitana], per essere meglio udita, non ne fu punto schifa»; diversa la reazione della vittima di Brescia: Andruola alla proposta del giudice «dove ella a’ suoi piaceri acconsentir si volesse, la libererebbe», con forza si ribella. Il caso limite di chi dovrebbe mostrare la sua imparzialità e rettitudine è rappresentato dal notaio Ciappelletto (I,1): «testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a’ quei tempi in Francia a’ saramenti [giuramenti] grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltremodo piacere e forte vi studiava [fortemente vi si appassionava], in commettere [intessere] tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, dei quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto piú d’allegrezza prendea. Invitato a un

omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai volenterosamente v’andava, e piu volte a fedire e a uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandissimo (...) delle femmine era cosí vago come sono i cani de’ bastoni [metafora per indicarlo come sodomita]». Canaglia a tal punto che anche quando sta per morire non teme di dannarsi; al frate che gli dà l’estrema unzione fra le tante bugie confessa: «Io son vergine come io usci’ del corpo della mamma mia»; quando il frate gli chiede il suo piú grave peccato della sua vita, Ciappelletto gli rivela «non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio». Il frate ritiene di aver parlato con un santo che potrebbe compiere molti miracoli: alla morte del notaio fa suonare le campane, diffonde la voce della santità di Ciappelletto e presto «tutti fu andato [andarono] a basciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere». Questi professionisti sono lontanissimi dalla solennità dei codici e della giustizia a cui Boccaccio, con tutta probabilità dottore in diritto canonico, crede profondamente. Per questo gli risultano familiari gli usi e i costumi, la pochezza spirituale e intellettuale, le miserie materiali, la prevaricazione, i ricatti – anche sessuali – di giudici e di notai. Come per i medici, la loro è una sapienza di facciata, spesso data al migliore offerente, enfatizzata dal ricco vestiario con cui si adornano. Giocando sul contrasto fra il ruolo di prestigio ricoperto nella società da medici, giudici e notai e quello che la maggior parte di loro era veramente, Boccaccio li rende figure caricaturali, parodie di loro stessi, mettendoli cosí alla berlina dei lettori.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Donne maltrattate, umiliate e offese

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Il mistero dei quattro Viventi

di Furio Cappelli

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Figure alate e dall’aspetto ibrido, il loro numero equivale a quello delle stagioni, dei punti cardinali e dei fiumi del Paradiso. Appaiono come accompagnatori delle manifestazioni dell’Eterno e sono legati agli evangelisti. Sono il Tetramorfo (la «quadruplice forma»), custodi di una simbologia complessa e affascinante, dalle origini antichissime…

«Il primo era simile a un leone, il secondo a un vitello, il terzo aveva faccia d’uomo, il quarto somigliava a un’aquila in volo». (Apocalisse, 4:7)

Nella pagina accanto Visione di Ezechiele, olio su tavola di Raffaello. 1517-1518 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nel Libro assegnato al profeta si può leggere la prima descrizione degli esseri che compongono il Tetramorfo, inserita nel resoconto della «cattività babilonese», quando gli Ebrei furono assoggettati dall’impero della Mesopotamia.

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l leone è il simbolo di san Marco, e Venezia – che ha l’evangelista come patrono e ne conserva le reliquie – sfoggia il «re della foresta» come proprio animale-simbolo in miriadi di opere di ogni epoca. Ma come si è stabilito questo legame? Nei testi biblici in generale, e nel Vangelo di San Marco in particolare, non troviamo traccia di questo strano nesso. Lo stesso discorso, d’altronde, vale per gli altri tre evangelisti. Ognuno di loro può contare su un animale-simbolo (una sorta di totem) ma le Scritture tacciono al riguardo. Si tratta di una storia molto particolare e dagli esiti tutt’altro che scontati. Nelle Scritture, infatti, emergono quattro figure che giocano un ruolo piuttosto potente, sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento: toro (o vitello), leone, uomo, aquila. Danno corpo a coloro che sono definiti, semplicemente, esseri viventi. E sono stati già i primissimi esegeti della Bibbia a proporre un legame tra i Viventi e gli autori dei Vangeli, in base alla grande attrattiva del numero 4. È un numero che ha sempre affascinato i cultori delle scienze sacre, poiché unifica il visibile e l’invisibile, le sfere del creato e dell’increato. Quattro sono le stagioni, i punti cardinali, i venti principali e i fiumi del Paradiso. Quattro sono i Viventi che compaiono a corredo della gloria del Signore, ogni volta che appare a un veggente, e quattro (non uno di piú, non uno di meno) sono gli evangelisti, gli annunciatori della buona novella del Redentore.

Analogie concettuali

I criteri dell’attribuzione di un Vivente a ciascun evangelista lasciavano spazio a un certo margine di libertà, proprio perché si doveva costruire un’analogia concettuale. In genere si prendeva l’inizio dei rispettivi Vangeli, e vi si coglieva un carattere che doveva valere per l’intera opera e per il suo autore. A quel punto si costruivano le corrispondenze, ma i punti di vista non potevano collimare facilmente. Il legame indiscusso, che ha resistito a ogni trattato di scienza sacra, è quello tra san Luca e il toro. Tutti gli febbraio

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oltre lo sguardo/11 altri abbinamenti hanno conosciuto variazioni, anche nell’arco dello stesso periodo. Se avesse resistito la prima proposta a noi nota, elaborata dal teologo greco Ireneo (130 circa-200 circa), il simbolo di Venezia sarebbe un’aquila. Il rapace, infatti, è per lui il simbolo di san Marco. D’altro canto, se si fosse imposta la linea predicata da sant’Agostino (354-430) e da Beda il Venerabile (673-735), Venezia avrebbe dovuto ricorrere alla semplice effigie di un uomo. Poiché i Viventi, come vedremo, sono esseri alati, quella effigie avrebbe fatto pensare facilmente a un angelo. Tanti osservatori, d’altronde, quando si trovarono di fronte alla rappresentazione dei Viventi, interpretarono l’Uomo alato come un essere angelico, e quella figura ha finito per trasformarsi proprio in un Angelo, in modo definitivo, già in età moderna.

La lettura vincente

La Serenissima, comunque, non si è mai dovuta porre questo problema, perché ha finito per imporsi la lettura proposta dal martire Vittorino di Pettau, primo esegeta biblico in latino († 304), e poi condivisa dall’esegeta greco Epifanio di Salamina (315 circa-403). A Luca, come abbiamo visto, corrisponde il toro, a Matteo l’uomo, a Marco il leone, a Giovanni l’aquila. In età carolingia, l’erudito Rabano Mauro (780 circa-856) spiegava che il simbolo di Luca è un toro perché il suo racconto inizia in un tempio, con un’of-

le origini

Dai Sumeri ai Babilonesi La primissima manifestazione del «complesso» dei quattro animali ci riporta addirittura ai Sumeri. Nei pressi della città di Ur, sul basso corso dell’Eufrate, è venuta alla luce una preziosa testimonianza in merito. Si tratta di un bassorilievo di piccole dimensioni, oggi conservato a Filadelfia (USA), databile agli anni 30002500 a.C. Vi si osserva un toro androcefalo (con testa umana) che subisce l’attacco di un’aquila leontocefala (con testa di leone). In questo caso i quattro animali simbolici vengono combinati a formare due creature ibride. Ma che cosa rappresentano? Purtroppo non possediamo testi che ci possano illuminare al riguardo, ma possiamo rilevare che si assiste alla lotta tra due forze o principi della natura, magari in riferimento a racconti mitici o a concetti religiosi oppure astrologici. In genere, l’aquila e il leone rappresentano l’aggressività e la velocità del predatore, in cielo e in terra; il toro e l’uomo sono invece segni di saldezza, fecondità e ragione. Si suppone cosí che venga messa in scena la lotta tra il bene e il male. Quando poi si entra nel mondo assirobabilonese, il misterioso repertorio degli animali sumerici riemerge in un’ampia casistica di combinazioni. Approda in particolare nell’edilizia regia, e assume connotati monumentali. Nasce cioè l’animale guardiano, posto a vigilare gli ingressi in duplice versione, cosí da affiancare solennemente il corridoio d’entrata. Può essere un leone alato con testa umana, un leone centauro o un toro androcefalo alato. Il toro cosí concepito è proprio la summa del futuro Tetramorfo biblico. Gode di particolare fortuna tra i regni di Assurnassirpal II (883-859 a.C.) e di Esarhaddon (680-669 a.C.). Ha testa umana, ali di aquila, torso di leone e zampe di toro. Assomma cosí un’ampia schiera di qualità: possiede intelligenza (uomo), domina i cieli (aquila) e il deserto (leone), assicura la fecondità (toro). Ognuna di queste figure potrebbe poi avere attinenza con lo Zodiaco, e dunque con la rappresentazione del cielo che proprio il mondo assiro-babilonese ha elaborato e trasmesso alla civiltà greco-romana, fino a ispirare gli oroscopi che resistono ai nostri giorni. Il Toro e il Leone, per esempio, sono segni zodiacali tuttora in uso. Rilievo raffigurante un’aquila leontocefala che assale un toro androcefalo, da Ubaid (Iraq). 3000-2500 a.C. Filadelfia, Penn Museum.

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Scultura in alabastro gessoso raffigurante un toro alato androcefalo, dal Palazzo Nord-Ovest di Assurnasirpal II a Nimrud (Iraq). Epoca neo-assira, 865-860 a.C. circa. Londra, British Museum.

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oltre lo sguardo/11 ferta d’incenso da parte del sacerdote Zaccaria, padre di san Giovanni Battista. Il toro (o il vitello) è un tipico animale da sacrificio, e si ricollega cosí all’immagine del dono rituale a Dio. L’uomo si associa a Matteo perché il suo Vangelo esordisce con l’albero genealogico di Cristo. La sequela degli antenati «carnali» esalta infatti la natura umana del Redentore. Il Vangelo di Marco, d’altra parte, fa pensare al leone, perché inizia con la voce «ruggente» di san Giovanni Battista

A destra fronte d’altare in legno dipinto raffigurante il Cristo circondato dai simboli dei quattro evangelisti, dalla chiesa di S. Stefano a Guils de Cerdanya (Catalogna). XIII sec. Madrid, Museo del Prado. A sinistra miniatura raffigurante la visione mistica di Ezechiele, con i sette cieli contenenti il Sole, la Luna e 15 stelle, e i quattro animali escatologici, il gallo, l’aquila, il bue e il leone, da un’edizione manoscritta della Bibbia. XIII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

del leone è cosí interpretato poiché, in base alla trattatistica dei Bestiari, il felino è in grado di dormire a occhi aperti. Rimane in uno stato di veglia perenne, quindi. In modo analogo, Cristo non smise mai di restare in vita. Sembrava assopito per sempre dopo la sua tragica morte, ma ebbe modo di risorgere. Lo storico dell’arte Emile Mâle riassume cosí: «Gesú fu un uomo con la nascita, vitello [o toro, n.d.A.] con la morte, leone con la resurrezione e aquila con l’ascesa in cielo». che si diffonde nel deserto, come se fosse il verso del potente felino. Il Vangelo di Giovanni, dal canto suo, inizia evocando subito la potenza divina in tutto il suo accecante splendore, e si ricollega cosí all’immagine dell’aquila, che può fissare lo sguardo sulla luce del sole anche quando la stella è nel pieno del suo fulgore. Il culmine della riflessione sulla simbologia dei Viventi si raggiunge poi nel XII secolo. A quel punto i quattro esseri finiscono anche per evocare la figura stessa del Redentore. L’uomo fa riferimento all’incarnazione, il toro (animale sacrificale) alla passione, il leone alla resurrezione, l’aquila all’ascensione. Il ruolo

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Un caleidoscopio di simboli

Ma non finisce qui, perché i Viventi possono anche essere il simbolo delle virtú degli eletti, di coloro cioè che sono ammessi in paradiso: l’uomo, in questo senso, fa riferimento alla ragione, il toro richiama il senso del sacrificio e della rinuncia ai beni terreni, il leone è immagine di coraggio, mentre l’aquila allude alla contemplazione delle vette celesti. Tanta profusione di concetti si lega perfettamente al momento culminante di un’iconografia di lunghissima fortuna. Proprio nel XII secolo si vedono le ultime grandi espressioni del tema dei Viventi, soprattutto febbraio

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nelle lunette dei portali, come nel maestoso esemplare di Moissac (1115-35 circa). Quando si impone lo stile gotico, i quattro esseri contornano ancora l’immagine del Redentore nell’ingresso centrale della Porta dei Re di Chartres (1145-55 circa), ma già in Notre-Dame di Parigi, nel Portale del Giudizio Universale (1210-40 circa) risultano declassati, finendo per mimetizzarsi alla base delle strombature, sotto la schiera delle statue. Il Tetramorfo (cosí si chiama il complesso dei Viventi) era d’altronde in linea con una poderosa profusione di immagini simboliche cosí tipica dell’universo dell’arte romanica, vicina al gusto della scienza monastica di vecchio stampo, incentrata sull’analisi dei testi sacri. Nel mondo urbano delle nuove cattedrali, che è poi lo stesso sfondo delle università e della Scolastica, il razionalismo lasciava poco spazio all’allegoria. Tuttavia, pur perdendo il protagonismo di un tempo, i Viventi rimasero ben presenti e indiscussi simboli degli Evangelisti anche ben oltre la soglia del Medioevo, e il caso da cui siamo partiti, quello di Venezia, è un esempio eloquente di questa persistenza. Per comprendere le origini di questa simbologia, si

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deve risalire all’epoca della cattività babilonese, quando gli Ebrei subiscono la conquista e la deportazione da parte del potente impero della Mesopotamia. Il profeta Ezechiele è in mezzo agli esiliati, intorno al 595 a.C. Quando giungono nella terra del Tigri e dell’Eufrate, stabiliscono un accampamento presso il fiume Chebar, e lí il veggente si trova di fronte all’Eterno, come narra nel I capitolo del suo libro. «Io guardai, ed ecco venire dal settentrione un vento tempestoso, una grossa nuvola con un fuoco folgorante e uno splendore intorno a essa».

Congiunti dalle ali

Nel baluginare delle folgori, in mezzo a una gloria di luce appaiono quattro esseri viventi. Sembrano uomini, ma ciascuno di essi è dotato di quattro facce e di quattro ali. Hanno piedi di vitello e sfoggiano «il bagliore del bronzo lucente». Hanno tutti una faccia d’uomo, ma a questa si abbinano una faccia leonina a destra, una faccia bovina a sinistra e una faccia d’aquila (che si intende forse retrostante). Sono congiunti l’un l’altro dalle due ali superiori, mentre le due ali inferiori coprono a ciascuno il proprio corpo.

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oltre lo sguardo/11 Simboli

La ruota di Ezechiele La curiosa immagine della ruota con una ruota al suo interno (Ezechiele, 1:15-18) potrebbe avere un significato cosmico. Infatti, come nota Chiara Frugoni, si poteva intendere all’origine una grande sfera, e gli occhi che si affastellano lungo i profili avrebbero potuto alludere alle stelle, come propongono De Champeaux e Sterckx. Questo curioso elemento fu comunque preso in considerazione dall’iconografia dei cherubini, variamente citati nelle Scritture (per esempio come guardiani dell’Arca dell’Alleanza) ma senza alcuna descrizione. Per renderli figurativamente ai fianchi del Signore si fece cosí ricorso al Libro di Ezechiele, come si vede per esempio nelle colonne marmoree del ciborio di S. Marco a Venezia, di datazione controversa (secolo VI o XIII?). Hanno le teste tetramorfe e vi si nota persino il dettaglio della ruota inserito all’interno della ruota, con un riferimento letterale al testo biblico. D’altra parte, si può cogliere un’allusione al libro profetico anche nei rosoni di facciata, molto diffusi in Umbria tra XII e XIII secolo, nei quali i Viventi inquadrano la finestra, in funzione di simboli evangelici. Il fatto che questo genere di apertura fosse noto proprio come «ruota» (rota), poteva favorire un’associazione di concetti con il piú antico dettato biblico, con tutte le sue suggestioni cosmologiche. In alto i cherubini con teste tetramorfe ai lati del Signore, particolare di una colonna del ciborio della basilica di S. Marco a Venezia. L’opera ha una datazione controversa (VI o XIII sec.). A sinistra Visione di San Giovanni a Patmos, pannello centrale del Polittico dell’Apocalisse, tempera e oro su tavola di Jacobello Alberegno. 1390 circa. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Avviene poi un mutamento nella loro apparenza metallica e statuaria. «L’aspetto di quegli esseri viventi era come di carboni incandescenti, come di fiaccole; quel fuoco circolava in mezzo agli esseri viventi, era un fuoco scintillante, e dal fuoco uscivano dei lampi». Dapprima i Viventi sembrano incedere davanti a sé in modo tetragono, senza mai voltarsi indietro, sotto la guida dello spirito divino. Ma dopo si dice che «correvano in tutte le direzioni, simili al fulmine». C’è per giunta uno strano attributo che rende la visione ancor piú complessa e surreale. Ognuno dei Viventi possiede una ruota situata di fianco a sé, ai suoi piedi. Queste ruote sono simili tra loro ed emettono «il bagliore del crisòlito» (una pietra preziosa, di colore verde-giallo). Sono enormi e fatte a incastro, come se in ogni ruota ci sia un’altra ruota, e lungo i loro bordi si addensa un folto numero di occhi. Ovunque i Viventi vadano, le ruote li seguono, anche se si sollevano in aria. Sopra le loro teste si distende poi una volta celestiale, che sembra fatta di cristallo. Le ali, muovendosi nell’aria, emettono un rumore potente, che dà la sensazione di una immensa cascata d’acqua o di un tumulto di uomini in guerra. Sembra cosí di ascoltare la voce dell’Onnipotente. Ed ecco apparire sopra la volta una

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Il rosone centrale della cattedrale di S. Maria Assunta a Spoleto. Fine del XII sec. L’opera è inserita in una cornice quadrata, dove sono scolpiti i simboli dei quattro evangelisti.

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oltre lo sguardo/11 Il mosaico absidale della basilica di S. Pudenziana a Roma, realizzato negli anni 410-417, ma ampiamente ricomposto nel XIX sec. Cristo in trono, al centro del consesso apostolico è sovrastato dalle immagini dei quattro Viventi, resi come protomi alate. L’intera scena è inserita in una esedra, che allude alla Gerusalemme dei tempi che verranno.

grande pietra preziosa, come lo zaffiro, e questa pietra sembra un trono, e su questo trono appare insediata la figura di un uomo, contornata da bagliori di fuoco. Ma poi tutt’intorno a lui si forma un arcobaleno. «Era un’apparizione dell’immagine della gloria del Signore». A quella vista, il profeta cade di faccia dallo sgomento e ode una voce. Uno spirito lo pervade, rimettendolo in piedi d’incanto, e inizia cosí un lungo dialogo con il Signore. Il filo del discorso corre sulla condotta perversa del popolo eletto e sulla necessità di un profondo rinnovamento. Solo cosí si può aspirare al ritorno in patria e alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme. L’apparizione del Signore in Mesopotamia ha proprio la funzione di rendere presente la potenza divina anche quando il popolo di Dio è lontano dalla propria terra. Ed è un’apparizione che sembra saccheggiare antichissime tradizioni del luogo straniero. L’immagine di un dio troneggiante rimanda persino all’Osiride degli Egizi. Come notano gli studiosi De Champeaux e Sterckx, egli si fece raffigurare analogamente sopra uno specchio d’acqua (in allusione alle forze rigeneratrici della vita), avendo davanti a sé gli dèi dei quattro punti cardinali. Vicina alla tradizione assiro-babilonese è, invece, proprio la concezione dei Viventi, la cui strana configurazione a quattro facce è il risultato di una travisazione. Nel testo originale, infatti, «faccia» stava a intendere «aspetto», e si trattava quindi di creature che condividevano complessivamente vari aspetti dei quattro esseri, esattamente come avveniva nei tori androcefali delle residenze regali (vedi box a p. 64).

I vegliardi vestiti di bianco

I quattro esseri misteriosi di Ezechiele vengono riproposti nel Nuovo Testamento, al momento della prima grande visione dell’abbacinante Apocalisse di Giovanni (libri IV e V). L’evangelista, mentre è in estasi, si trova nell’isola egea di Patmos, e i Viventi si spostano cosí dalla Mesopotamia al Mediterraneo ellenico (vedi foto a p. 68, in basso). Questa volta la descrizione comincia con il trono contornato dall’arcobaleno. Ci sono 24 vegliardi vestiti di bianco, 7 lampade che ardono davanti al trono (sono gli spiriti di Dio), e infine i nostri 4 esseri, ciascuno con la propria fisionomia. Non sono cioè uomini con facce tetramorfe, bensí un leone, un vitello, un uomo e un’aquila. Hanno 6 ali ciascuno e sono rivestiti di occhi. Fra il trono, gli animali e i ve-

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gliardi appare poi un agnello che sembra immolato ma è in grado comunque di stare ritto in piedi, in chiara allusione al sacrificio e alla resurrezione di Cristo. A lui spetta il privilegio di rompere i sette sigilli di un libro, tenuto in mano da colui che è seduto in trono. L’apertura del libro è l’azione che prelude alla fine dei tempi e alla discesa della Gerusalemme celeste in terra. Prima che l’azione si compia, i vegliardi e i Viventi si gettano a terra e rendono grazie all’a-

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gnello, e giungono innumerevoli schiere di angeli che cantano lodi al Signore. La fortuna iconografica del Tetramorfo è molto precoce, sia in ambito monumentale che nelle miniature o nelle opere di arte suntuaria. Anche se la proibizione di raffigurare la divinità, presente nel Vecchio Testamento, poteva creare problemi, proprio l’aderenza di queste figure al testo biblico ha trasformato le Scritture in una fonte di ispirazione per ogni genere di artista. febbraio

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Da leggere Gerard de Champeaux, Sébastien Sterckx, I simboli del Medioevo, Jaca Book, Milano 1981. Emile Mâle, Le origini del gotico. L’iconografia medioevale e le sue fonti, Jaca Book, Milano 1986. William Melczer, Evangelisti, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1995; anche on line su treccani.it Chiara Frugoni, Ezechiele, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1995; anche on line su treccani.it Il mosaico che orna il soffitto del cosiddetto Mausoleo di Galla Placidia. 425-450 circa. Al centro di un grande cielo stellato, si staglia una croce latina dorata, simbolo di Cristo come Sole Nascente, attorniato dai quattro Esseri dell’Apocalisse.

L’Apocalisse, in sostanza, con la sua essenza visionaria, ha costituito un autentico e prezioso canovaccio per gli ideatori delle scene sacre, lasciandoli oltremodo liberi nelle scelte compositive. Era cosí possibile concepire teofanie di ogni genere, ossia immagini in cui comparisse il Signore, proprio in riferimento alla seconda venuta di Cristo, nei tempi futuri. Un solenne esempio è costituito dal mosaico absidale di S. Pudenziana a Roma (vedi foto alle pp. 70/71),

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realizzato negli anni 410-417, ma ampiamente ricomposto nel XIX secolo. Sullo sfondo del cielo, i quattro Viventi si limitano a delle protomi alate, ma hanno una presenza piuttosto robusta. Sovrastano l’immagine di Cristo che si trova al centro del consesso apostolico, entro una quinta scenica (un’esedra) che allude alla Gerusalemme dei tempi che verranno. Una collocazione di grande fortuna dei Viventi è poi alla base delle cupole, in funzione della raffigurazione culminante, che può anche limitarsi a una semplice croce, qualora non si voglia dare un’immagine dell’Eterno. Nel celebre apparato a mosaico del cosiddetto Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna (425-50 circa), la funzione delle cupole stesse come immagini del cielo è resa eclatante dai ricorsi concentrici di stelle intorno alla croce centrale. I Viventi rientrano cosí nel pieno di una trasparente cosmologia sacra. In tutto l’arco dell’età romanica la situazione compositiva piú ricorrente è comunque costituita dalle teofanie che si dispongono sulle absidi o sugli apparati scultorei dei portali. Il Redentore benedicente appare sull’asse centrale della lunetta o della conca absidale racchiuso entro una mandorla, un alone di luce che raccoglie la suggestione dell’arcobaleno biblico. I Viventi si dispongono spesse volte agli angoli, e in genere l’uomo e l’aquila si trovano nei settori superiori, perché connessi all’eminenza della ragione e all’ascensione in cielo. In ogni caso, quando si trovano a «fortificare» l’immagine del Redentore nella lunetta di un portale, i Viventi tornano a rivestire in pieno il loro antichissimo ruolo di sacri custodi.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Il serpente di bronzo

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Roma barbarica STRANIERI NEL CUORE DELL’ IMPERO di Umberto Roberto

IN EDICOLA

La nuova Monografia di «Archeo» illustra uno degli aspetti che piú hanno caratterizzato la storia di Roma, vale a dire l’incontro/scontro con le genti straniere e con il vasto mosaico di popoli tradizionalmente etichettati come «barbari». L’obiettivo è puntato sui secoli dell’impero e della tarda antichità, nel corso dei quali il fenomeno fu particolarmente rilevante, ma non mancano riferimenti anche a fasi precedenti, come quelli che del resto si ritrovano in un celebre discorso tenuto dall’imperatore Claudio in senato, che a tutt’oggi è uno dei piú efficaci manifesti della politica estera romana. Al di là dei molti stereotipi negativi dettati dall’idea che il crollo dell’impero abbia avuto come unica causa la violenta irruzione sulla scena di popolazioni non romane, esiste una realtà – documentata dalle fonti e dall’archeologia – ben diversa e assai piú sfaccettata, in seno alla quale la pacifica convivenza ha a lungo costituito la cifra dominante del fenomeno. Poi, certo, ci furono anche momenti tragici, come in occasione dei ripetuti saccheggi di cui l’Urbe fu vittima, ma si tratta di eventi da collocare in un contesto di respiro ben piú ampio. Ed è questa l’operazione compiuta da Umberto Roberto, autore della Monografia, il quale ripercorre una fase storica cruciale avendo sempre come filo conduttore il tema del confronto fra culture diverse. Una trattazione di straordinario interesse, capace anche di cogliere quelli che dovettero essere i sentimenti dei protagonisti alle prese con un mondo che stava velocemente cambiando.


di Arnaldo Casali

VALENTINO, UNO, NESSUNO O CENTOMILA? Nacque tra il 269 e il 273, divenne vescovo di Terni a soli 27 anni e amava regalare rose ai fidanzati. Sono pochissime le notizie certe sull’identità del santo, celebrato – laicamente – il 14 febbraio, giorno in cui morí ultranovantenne. Eppure, il suo raggio d’azione è enorme: dalla città umbra si estende all’Europa e oltre, scomodando il padre della letteratura inglese, Geoffrey Chaucer, e lo stesso William Shakespeare…

Particolare della statua raffigurante san Valentino nella basilica a lui intitolata a Terni.


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elebrato in tutto il mondo e sconosciuto anche ai suoi devoti: è il singolare paradosso di Valentino, il santo piú invocato e al tempo stesso il piú misterioso. Venerato sia dai cattolici che dagli ortodossi e dagli anglicani come martire, taumaturgo e, in qualche caso, protettore degli animali, degli agrumeti e persino degli epilettici, come laicissimo patrono degli innamorati ha ispirato poesie, canzoni, tradizioni folkloristiche, cartoline, cicli pittorici, festival e milioni di lettere d’amore. E poi un numero incalcolabile di cioccolatini, fiori e cene a lume di candela. Eppure di lui si sa poco e nul-

Miniatura raffigurante la decapitazione del vescovo Valentino, da un manoscritto francese del XIII sec. Parigi, Bibliohtèque Sainte-Geneviève.

Le leggende

Una lunga catena di equivoci Nato intorno al 175, Valentino, sarebbe stato il rampollo di un’importante famiglia di Interamna (l’odierna Terni): forse i Tacito, a cui apparteneva secondo la tradizione lo storico Cornelio, e sicuramente l’imperatore Marco Claudio (salito al trono nel 275, due anni dopo la morte del santo). Trasferitosi a Roma per studiare retorica, Valentino aveva sposato Silvia Claudia, figlia di un prefetto, e si era convertito al cristianesimo. Eletto vescovo di Terni a soli 27 anni, si sarebbe fatto conoscere come «protettore degli innamorati» dopo aver regalato una rosa a una coppia di innamorati che stavano litigando.

La piú celebre delle leggende lo vede celebrare il matrimonio tra il soldato romano Sabino e la giovane cristiana ternana Serapia, mediando tra le rispettive famiglie. Il matrimonio si conclude però con una tragedia – la morte di Serapia per tisi – e con un singolare miracolo: Sabino chiede di andarsene insieme alla sua amata e viene esaudito, morendo abbracciato a Serapia. Secondo una recente aggiunta – circolata soprattutto in rete – Valentino sarebbe stato martirizzato proprio per aver celebrato questo matrimonio «proibito». Qualcuno, per attualizzare l’episodio, ha fatto addirittura di Sabino un musulmano, considerando anche che la festa è proibita in alcuni Paesi islamici. La leggenda viene fatta risalire al ritrovamento, nel 1909 nella necropoli delle Acciaierie di Terni, di una sepoltura bisoma, con due scheletri affiancati, oggi esposti al Museo Archeologico di Terni. In realtà, il racconto si è sviluppato soprattutto nel corso della seconda metà del Novecento a opera dell’eroe di guerra ed ex podestà Elia Rossi Passavanti, e mescola elementi di Romeo e Giulietta e Quo Vadis? con i nomi presenti su un’iscrizione sepolcrale conservata ai Musei Vaticani, che fa riferimento a santa Sabina e alla sua ancella Serapia, martirizzate nel 106. Che cosa c’entrano con il patrono di Terni? Nulla, si tratta solo di un equivoco generato ancora una volta da un’omonimia: il marito di Sabina era infatti un senatore chiamato Valentino. Nella pagina accanto san Valentino in una xilografia di produzione tedesca. 1470-1480 circa. Washington, National Gallery of Art.

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Dossier la: poco tra i gelosissimi devoti che lo rivendicano come patrono, nulla tra chi si limita a celebrarne la festa. D’altra parte, una volta spogliato da leggende e pie tradizioni, del Valentino storico rimane assai poco. E non è strano: in fondo, il nostro deve la sua popolarità solo alla coincidenza con la festa degli innamorati, totalmente laica. Potremmo dire quindi che Valentino condivida, in qualche modo, il destino di san Silvestro, santo Stefano e san Lorenzo, figure senza dubbio ignote a chi festeggia il giorno a loro dedicato. Tuttavia, a differenza di san Lorenzo, che non è mai stato patrono delle stelle cadenti, o di Silvestro, che certo non viene invocato come protettore dei giocatori di tombola, ogni anno Valentino raccoglie attorno alla sua tomba a

Terni centinaia di coppie di fidanzati e le chiese che vantano le sue reliquie vedono arrivare in continuazione lettere che raccomandano al santo il proprio amore.

Una lunga vita

Di fatto l’unica certezza che abbiamo su san Valentino sta nel suo nome e nella data che lo ricorda. Tutto della sua vita – l’elezione a vescovo a soli 27 anni, la morte a 98, fino all’abitudine di regalare rose ai fidanzati – viene tramandato da leggende successive al 1600, nate negli ambienti piú disparati e senza alcuna attendibilità storica. Ciò che sappiamo di sicuro, di questo santo, è infatti solo che si chiamava Valentino e che è morto il 14 febbraio, mentre l’anno – a seconda delle tradizioni – oscilla tra il 269 e il 273.

La testimonianza piú antica è contenuta nel Martirologio geronimiano: una sorta di calendario della Chiesa universale attribuito a san Girolamo e scritto nel V secolo, quindi circa 200 anni dopo la morte di Valentino. Tutto ciò che riporta è la memoria del 14 febbraio presso la comunità cristiana di Terni, con la dicitura: Interamne in Flamminia natale Valentini. Quel che è certo, quindi, è che il culto di san Valentino a Terni è antichissimo: sulla sua tomba, già nel IV secolo, era stata costruita una chiesa, distrutta dai Goti nel VI e ricostruita nel VII secolo. Distrutta ancora dagli Ungari, poi dai Normanni e infine dai Saraceni, la basilica viene ricostruita ancora una volta e affidata ai monaci benedettini. Poi viene abbandonata a un progressivo degrado, fi-


In alto incisione ottocentesca raffigurante san Valentino in carcere, dov’era stato rinchiuso perché reo di avere unito in matrimonio la giovane cristiana Serapia e il legionario romano Sabino. Sulle due pagine particolare della raffigurazione di san Valentino nell’altare della basilica di Terni.

no a quando, nel 1605, il vescovo Giovanni Antonio Onorati non promuove un’avventurosa campagna di scavi per riportare alla luce la tomba e ordina la costruzione di una nuova basilica affidata poi ai frati carmelitani. Nel frattempo, un secolo dopo la primissima citazione di Valentino del Martirologio, nella Passione di Maris, Marta, Audiface e Abacuc viene citato un santo chiamato Valentino, prete di Roma, che guarisce dalla cecità la figlia del principe Asterio e battezza lei, il padre e tutti i membri della famiglia, trovando la morte il 14 febbraio sulla via Flaminia, durante l’impero di Claudio II, vale a dire tra il 268 e il 270.

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Il martire viene sepolto in quella quella che divenne poi la catacomba di S. Valentino, al II miglio della Flaminia. Sulla tomba papa Giulio I fece edificare la basilica di S. Valentino, che fu amplia-

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ta nel corso dei secoli e arricchita di un monastero benedettino. Tuttavia, le ossa del santo vennero traslate nel IX secolo nella basilica di S. Prassede, e chiesa e cimitero furono progressivamente

abbandonati per tornare alla luce nell’Ottocento ed essere distrutti da un alluvione nel 1986. Il testo piú importante sulla vita di san Valentino arriva invece intorno al 725 ed è la Passio Sancti febbraio

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i lupercali

Una festa «sospetta»

Valentini, che racconta la storia di tre giovani ateniesi che studiano a Roma la lingua latina presso l’oratore Cratone. Il figlio di Cratone ha una gravissima malattia, e un amico gli riferisce che un morbo

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Feste lupercali, olio su tela di Andrea Camassei. 1365 circa. Madrid, Museo del Prado.

Quella di San Valentino, come il Natale, sarebbe una festa «solstiziale», legata al risveglio della natura e a quella «promessa di primavera» che comincia a farsi sentire a febbraio, ultimo mese dell’inverno. Pur privo di un legame diretto, c’è quindi sicuramente un rapporto tra i Lupercali romani – che si celebravano dal 13 al 15 febbraio – e l’odierna festa degli innamorati. Luperco era un’antica divinità rurale, invocata a protezione della fertilità. Inizialmente identificato come il lupo sacro a Marte, viene successivamente considerato un epiteto di Fauno, per essere infine assimilato al dio Pan. Secondo la tradizione proteggeva il bestiame dall’attacco dei lupi. Durante i Lupercali venivano iniziati due giovani, che, vestiti solo con pelli di capre che formavano anche una sorta di fruste, con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia, venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre. Dopo aver asciugato il sangue, i due ragazzi dovevano ridere e correre saltando e colpendo con le fruste sia il suolo per favorirne la fertilità, sia chiunque incontrassero e in particolare le donne, le quali offrivano volontariamente il proprio ventre alla frusta per ottenere la fecondità. Naturale che la Chiesa guardasse con forte sospetto questi rituali pagani dal valore ancestrale, e non era la sola a mostrarsi ostile, visto che Cicerone giudicò «selvagge» queste riunioni e Valerio Massimo scrisse che si trattava di «feste promosse dall’ilarità e dall’eccesso di vino». Divenuto papa nel 492, Gelasio abolisce i Lupercali senza sostituirli con un’altra festa, anche se in molti gli attribuiscono l’istituzione della Candelora. Di certo, quella con il giorno di San Valentino è solo una coincidenza di date, mentre le tradizioni dei Lupercali finiranno per essere recuperate, almeno in parte, nel Carnevale.

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Dossier A sinistra il reliquiario contenente il teschio di un vescovo di nome Valentino, custodito nella chiesa di S. Maria in Cosmedin a Roma. Nella pagina accanto una delle raffigurazioni di san Valentino negli affreschi con storie della sua vita realizzati nella chiesa a lui intitolata a Bussolengo (Verona). XV sec.

simile aveva colpito anche suo fratello, guarito dopo essersi recato da un certo Valentino, cittadino e vescovo di Terni. Giunto a Roma, Valentino guarisce il ragazzo e converte al cristianesimo Cratone e tutti i suoi allievi, tra i quali figura anche il figlio del prefetto Furioso Placido, il quale – furioso di nome e di fatto – fa decapitare Valentino il 14 febbraio, al 68° miglio della via Flaminia. Il corpo viene recuperato dai tre discepoli e sepolto in un cimitero fuori le mura di Terni, dove poco piú tardi sorse la basilica a lui intitolata. La doppia tomba – quella romana e quella ternana – dà origine a un duplice culto e a un dibattito sulla reale identità del santo, mai risolto definitivamente. Gli storici hanno formulato ipotesi diverse per risolvere l’enigma: tra le molte teorie elaborate, quella piú comunemente accettata ritiene che si

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tratti dello stesso personaggio il cui culto si è sviluppato in modo diverso nelle due città alle quali il santo era, per qualche motivo, legato. Valentino sarebbe stato dunque un prete romano divenuto vescovo di Terni oppure un prete ternano martirizzato a Roma.

Una nuova datazione

Piú recentemente Edoardo D’Angelo ed Emore Paoli, analizzando il testo della Passio e comparandolo con documenti storici, hanno ipotizzato uno spostamento della data di morte del vescovo di Terni di almeno un secolo, intorno al 346. Il problema principale della Passio, oltre all’attendibilità storica, è infatti la totale mancanza di riferimento all’epoca dei fatti narrati. La tradizionale datazione del martirio al 273 deriva infatti dal san Valentino «romano», e non da quello ternano. Secondo la nuova datazione,

quindi, il Valentino di Terni non sarebbe stato giustiziato, ma ucciso in un agguato in un’epoca – quella tra l’editto di Costantino e quello di Teodosio – in cui il cristianesimo era già stato legalizzato ma non era ancora religione di Stato. A testimoniare un legame con Terni anche del Valentino romano, però, oltre alla comunanza di nome, giorno e luogo del martirio, c’è anche la collocazione, nelle catacombe romane, della sepoltura di una bambina ternana: Venerosia, nata nel 355 e morta nel 359. Ricostruire con certezza l’identità del santo, quindi, è quasi impossibile, tanto piú che a creare maggior confusione c’è l’ampia diffusione del nome Valentino tra la tarda antichità e l’Alto Medioevo. Basti pensare che Valentino è anche il nome di un eretico contro cui Tertulliano (contemporaneo del nostro santo) scrive un libro, di altri cinque marfebbraio

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Dossier Bussolengo, «Città dell’amore»

Rose e panchine Un vero e proprio rilancio della figura di san Valentino è iniziato a Bussolengo, in provincia di Verona, a partire dal 2016. Il progetto «La Rosa di San Valentino» avviato dal sindaco Paola Boscaini ha fatto guadagnare al Comune veneto la definizione di «Città dell’amore» da parte del Corriere della Sera. Attraverso un bando pubblico, infatti, il Comune ha creato un logo, che è stato affidato poi a tutti gli imprenditori e gli artigiani del territorio per creare prodotti commerciali a tema: in appena due anni, sono nati una rosa ibridata per riprodurre filologicamente quella che, secondo la leggenda, Valentino donava agli innamorati, monete da collezione, il profumo Serapia, il dolce «Bacio di San Valentino», e ancora tortellini, tovaglie e grembiuli, pochette, asciugamani, pantofofole e scarpe da ginnastica, anelli d’oro, portachiavi e magliette... Il progetto ha visto anche la realizzazione di panchine degli innamorati a forma di rosa che hanno trovato posto non solo a Bussolengo, ma anche nel parco Sigurtà di Valeggio sul Mincio (dove panchina e roseto sono stati visitati anche dalla cantante israeliana Noa con il marito). Il marchio è stato utilizzato anche per tutte le manifestazioni incentrate sulla valorizzazione delle eccellenze del territorio, oltre che per le celebrazioni della festa di San Valentino, coinvolgendo artisti come Bruno Prosdocimi e Milo Manara. tiri tutti morti nel 305 – di cui due a Ravenna! – di un altro martire, di un vescovo di Genova, di un altro vescovo in Germania e di un altro ancora il cui teschio è custodito nella basilica di S. Maria in Cosmedin a Roma. Ci sono poi almeno altri cinque santi con questo nome, tra martiri e vescovi vissuti tra il IV e il XVIII secolo e un papa – il centesimo della storia della Chiesa – che ha regnato tra l’800 e l’827.

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In basso un fascio di rose, fiori simbolo di san Valentino.

Vale la pena di segnalare anche la presenza – nella cronotassi dei vescovi di Terni – di Valentino II, anch’egli santo, impegnato nella lotta contro l’eresia ariana tra il 520 e il 533. Come il predecessore anche Valentino II è stato ucciso e, come il primo, ha avuto quale successore un vescovo chiamato Procolo, coincidenza che lascia pensare a un vero e proprio «duplicato», la cui creazione non può essere né smentita, né confermata, vista la totale assenza di documenti riguardanti la Chiesa ternana dei primi secoli. Potremmo allora anche ipotizzare che il Valentino di Terni sia stato vittima della lotta tra cattolici e ariani: la scomunica di Ario era avvenuta

A destra e nella pagina accanto altri particolari del ciclo affrescato con storie di san Valentino nella chiesa a lui dedicata a Bussolengo. XV sec.

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nel 325 durante il Concilio di Nicea e negli anni del martirio (secondo la nuova datazione) era al culmine. La confusione e la successiva assimilazione del Valentino di Terni, vittima dell’arianesimo, al prete romano, martirizzato dai pagani, avrebbe finito per «retrodatare» la morte del vescovo ternano all’anno 273. Di certo la piú antica delle leggende romantiche che vedono protagonista Valentino – quella della storia d’amore con la figlia cieca del suo carceriere – fa riferimento al prete romano e non al vescovo ternano. Tra i due litiganti, comunque, chi non gode è di sicuro il terzo, e cioè il san Valentino di Genova: il vero convitato di pietra alla festa degli innamorati.

Origini discusse

Il luogo comune riconduce le origini del Valentine’s Day ai Lupercali romani, rituali animaleschi e promiscui dedicati alla fertilità, che si celebravano tra il 13 e il 15 febbraio e che papa Gelasio avrebbe cristianizzato nel 496 istituendo la

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Dossier in poesia

Liriche e canzoni «È di San Valentino oggi la data / e per trovare l’altra lor metà / gli uccelli son tutti all’adunata». È Geoffrey Chaucer, con Il parlamento degli uccelli, a inaugurare nel XIV secolo le innumerevoli poesie «valentiniane». Nel 1401 John Lydgate è il primo ad associare san Valentino non solo all’accoppiamento degli uccelli, ma a sposi e fidanzati: «In questo giorno felice – scrive in The Floure of Curtesye – in tutta fretta c’è un’osservanza da rispettare: quella di rinnovare sinceramente la scelta e di confermare sempre la vostra fedeltà». Al Medioevo risale anche una misteriosa ballata polacca in cui Valentino è ritratto come un giovane bello che rifiuta la corte delle donne per farsi prete. Nella ballata non vengono menzionati gli innamorati mentre il protagonista, durante la consacrazione, ha un attacco che sembrerebbe richiamare l’epilessia. Nel 1613 John Donne si rivolge invece apertamente al vescovo Valentino nell’Epithalamion: «L’aria intera è la tua diocesi, tutti i coristi cinguettanti e gli altri uccelli sono i tuoi parrocchiani, ogni anno tu unisci in matrimonio la squillante allodola e la colomba dal grave sussurro. / Questo giorno risplende piú allegramente che mai / e infiammerebbe persino te, vecchio Valentino / Il loro amore e coraggio non tramonteranno mai / ma faranno di tutto l’anno il tuo giorno, o Valentino». Tra i poeti che celebrano il patrono dell’amore nel XVII secolo, oltre a William Shakespeare, figurano anche William Fowler e Michael Drayton. Piú recentemente, la festa di San Valentino ha ispirato schiere di cantautori, da Tom Waits (Blue Valentines, 1978) a Carmen Consoli (San Valentino, 2015) passando per James Taylor, Bruce Springsteen, David Bowie e Linkin Park (tutti con brani chiamati Valentine’s Day), per non parlare di My Funny Valentine, scritta nel 1937 e diventata uno degli standard jazz piú celebri, cantata – tra gli altri – da Frank Sinatra ed Ella Fitzgerald, che tuttavia non fa riferimento alla festa di San Valentino, ma a un personaggio chiamato Valentine. Vinicio Capossela, che ogni anno tiene un concerto il giorno di San Valentino, ha tradotto la canzone di Tom Waits con il titolo Lettere d’amore blu e dedicato alla festa il suo ultimo album Bestiario d’amore, uscito nel 2020. La cantautrice ternana Marialuna Cipolla, invece, è tra i pochi ad aver scritto una canzone non sulla ricorrenza, ma proprio sul personaggio Valentino: Flower of Midnight. David Riondino ha dedicato infine al vescovo di Terni il nuovo capitolo del suo progetto TgSuite–la notizia cantata, che andrà in scena con il sostegno della Fondazione Carit di Terni nella prossima primavera. In alto e nella pagina accanto cartoline augurali per la ricorrenza del 14 febbraio, realizzate negli Stati Uniti d’America tra la fine del XIX e gli inizi del XX sec.

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In letteratura

Saggi, melodrammi e «giullarate» A dispetto delle leggende che circolano in rete, la letteratura su san Valentino è molto scarsa, ed è composta quasi unicamente da opuscoli devozionali e saggi storici: tra questi vanno ricordati almeno Il santo patrono nella città medievale: il culto di San Valentino nella storia (pubblicato da Goliarda nel 1982), San Valentino patrono di Terni (Thyrus, 2009) e San Valentino e il suo culto tra medioevo ed età contemporanea: uno Status questionis (Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2012). febbraio

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festa di San Valentino (vedi box a p. 81). La verità, però, è che Gelasio – rimasto l’unica autorità a Roma dopo la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augustolo nel 476 – ha sí abolito definitivamente i Lupercali, giudicati profondamente immorali, ma non li ha affatto sostituiti con una solennità cristiana: nessun pontefice fino a pochi anni fa si è mai sognato di celebrare il giorno di San Valentino, ricorrenza squisitamente laica, che niente ha a che fare con le solennità liturgiche. È stato infatti Francesco il primo papa a incontrare, il 14 febbraio 2014, le coppie di futuri sposi nel corso di una cerimonia organizzata da Vincenzo Paglia, successore di Valentino come vescovo di Terni e allora presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, che aveva portato in Vaticano una tradizione nata a Terni negli anni Novanta. Quello che resta curioso, però, è che a collocare l’abolizione dei Lupercali nel 496 sia Cesare Baronio, maestro di Giovanni Antonio Onorati, il quale, nel 1605 – come ve-

Quanto alla narrativa, al 1699 risale il melodramma San Valentino, vescovo martire, cittadino e principal protettore della città di Terni, scritto da Antonio Checchi e musicato da Quirino Colombani, che racconta la guarigione miracolosa del figlio di Cratone e il successivo martirio. L’opera viene ancora oggi utilizzata come base per la rievocazione messa in scena ogni anno nella basilica di S. Valentino a Terni, mentre Valentine’s Secret è il titolo del musical norvegese scritto da Odd Grjotheim e Peter Haltorp e adattato in italiano nel 2015 da Matteo Corrado e Gianni Neri. Una vera e propria «giullarata» medievale è invece il poemetto in tre atti Il

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scovo di Terni –, promuove la campagna di scavi che riporta alla luce la tomba di san Valentino. E se di certo nulla c’entra con San Valentino, in molti attribuiscono a papa Gelasio l’istituzione – in opposizione ai Lupercali – della Candelora, che nei secoli successivi venne fissata al 2 febbraio. La festa di San Valentino, d’altra parte, non è mai stata – e non lo è nemmeno oggi – una solennità della Chiesa, e viene celebrata in chiave religiosa solo nelle città di cui il santo è patrono.

La versione di Chaucer

L’origine piú probabile della festa degli innamorati ha invece radici letterarie piú che religiose: il primo ad associare il santo all’amore romantico è infatti Geoffrey Chaucer, vissuto tra il 1343 e il 1400, che cita in tre sue opere la festa di San Valentino come il giorno in cui gli uccelli si accoppiano. Attenzione, però: l’accoppiamento degli uccelli avviene in primavera e non certo in pieno inverno, e il san Valentino a cui il padre della letteratura inglese fa riferimento è il

vescovo di Genova, la cui memoria viene celebrata il 2 maggio. Passano solo pochi decenni, però, e già nel 1391 John Clanwowe anticipa la festa degli innamorati al 14 febbraio. La confusione delle date nasce, probabilmente, dal fatto che il san Valentino di Terni è molto piú importante e venerato di quello di Genova (morto nel 325, ma di cui non si sa praticamente nulla) e proprio grazie alla sua celebrità riesce a strappare al collega ligure il titolo che lo renderà ben piú famoso, ma assai sfuggente. Non a caso, nel corso del Medioevo decine di città in tutto il mondo hanno iniziato a rivendicare le reliquie di san Valentino: tra queste Sassocorvaro in provincia di Urbino, Sadali in Sardegna, Belvedere Marittimo in Calabria, Vico del Gargano in Puglia, Ozieri vicino Sassari, Rocchetta di Bergamo, Bassano del Grappa, Chiasiellis in provincia di Udine, Zoppola in provincia di Pordenone, Torre d’Arese e Abriola in provincia di Potenza,

giardino di Valentino, scritto dal cantastorie francese Alban Guillon. Se il settimanale Il Giornalino gli ha dedicato una biografia a fumetti pubblicata nel 2004, a oggi non esiste alcun film su san Valentino e l’unico romanzo interamente dedicato al patrono degli innamorati è Valentino. Il segreto del Santo innamorato, scritto dall’autore di questo Dossier e pubblicato da Dalia Edizioni nel 2014, da cui sono stati tratti lo spettacolo teatrale Valentino e il demone dell’eco di Cecilia Di Giuli e l’opera multimediale Valentino con ghiaccio di Paolo Consorti, che comprende un cortometraggio interpretato da Stefano Sala, un quadro e una statua attualmente esposta al Cenacolo S. Marco di Terni.

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Dossier

Dublino in Irlanda, Glasgow in Scozia e Birmingham in Inghilterra, e ancora Mosca in Russia e Roquemaure in Francia. Il culto di Valentino è poi particolarmente presente in Polonia, dove troviamo una suggestiva ballata medievale e reliquie in molte città, tra cui Lublino e Cracovia, oltre che nel celebre santuario di Czestochowa. A Barcellona è venerato invece un san Valentino martire, vescovo di Interamna, che sarebbe però Teramo e non Terni. In Germania e Austria il culto di san Valentino è particolarmente diffuso, ma anche in questo caso siamo in presenza di un equivoco: la figura del martire ternano si è confusa infatti con quella di un vescovo fiammingo, patrono di Passavia, nato nel 435, morto nel 475 e celebrato il 7 gennaio. La confusione dei due santi ha finito per far venerare il Valentino tedesco come patrono degli innamorati e trasformare il Valentino italiano nel patrono degli epilettici, soprattutto nel Nord Italia.

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Particolarmente interessante è il caso di Bussolengo, in provincia di Verona: qui si trovano infatti le piú antiche raffigurazioni di san Valentino, al quale è dedicata una chiesa edificata nel Medioevo, e che è patrono della città. Nella chiesa di Bussolengo sono presenti ben tre cicli di affreschi sulla vita di Valentino, oltre che un busto in legno e numerosi dipinti, di cui molti medievali. Sembra che il culto del santo sia stato portato – nel XIV secolo – dalla confraternita dei Disciplinati, arrivata proprio dall’Umbria. Grazie poi a un miracolo avvenuto nel XVIII secolo, nella cittadina veneta Valentino è diventato anche il patrono del bestiame.

Venerato in tutta Europa

Proprio gli affreschi di Bussolengo testimoniano il fatto che nel Medioevo il san Valentino vescovo di Terni è già conosciuto e venerato in tutta Europa, ma non ha ancora alcun legame con gli innamorati: i tre cicli presenti nella chiesa, infatti, ne raccontano la passione e il

martirio senza alcun riferimento a matrimoni celebrati dal vescovo. Riferimenti di cui avremo tracce, invece, a partire dal XVII secolo e in ambiente anglosassone. Parte quindi dall’Inghilterra la fama di san Valentino come patrono degli innamorati, tanto che William Shakespeare cita la festa dell’amore già nel 1595 in Sogno di una notte di mezza estate, mentre nel 1602, nell’Amleto, fa recitare a Ofelia una filastrocca: «Sarà domani San Valentino / ci leveremo di buon mattino / alla finestra tua busserò / la Valentina tua diventerò / Allora egli si alzò / dalle sue robe tutto si vestí / la porta della camera le aprí / ed ella non piú vergine ne uscí». Quanto alle leggende, si formano negli ambienti e nelle epoche piú disparate: quella che lo vuole appartenente a una famiglia aristocratica ternana nasce quando, alla metà del Seicento, Valentino diventa il vessillo della nobiltà laica contrapposto a sant’Anastasio, patrono sostenuto dalla Curia; quella secondo cui avrebbe donato una febbraio

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curiosità

Bello come un albero d’olivo Ecco il testo della ballata medievale polacca dedicata a san Valentino: «A proposito di questo santo Valentino che ha tanta fama da essere famoso. Come era bello san Valentino come un albero d’olivo rigoglioso Sin da bambino tutte le donne lo riempivano di regali ma lui voleva volare con altre ali e dei regali non gliene importava niente se ne stava solo con il Vangelo e chiese a Dio Onnipotente di portare la sua bellezza verso altre mete e il Signore Gesú stesso ascoltò questo e presto San Valentino divenne prete. Quando celebrò la prima messa fu colpito da un dolore cosí forte che corse per la chiesa e le navate come un ossesso convinto che in fondo ci fosse la morte. Le donne meravigliate dicevano: “Questo non è Santo Valentino non è un’anima perfetta Questa è una fiaba una fiaba maledetta!”. Le parole pronunciate in pietra trasformate divennero preghiera divennero sorriso Amen, Amen, Dio ce l’ha donato e adesso ce ne andremo in paradiso adesso abbiamo un eterno mattino da passare in cielo guardando il viso di Santo Valentino».

Nella pagina accanto il sacello che custodisce le reliquie di un vescovo di nome Valentino nella chiesa omonima a Hiltensweiler, in Germania. A destra altare nel quale è inserito un reliquiario con resti attribuiti a san Valentino nella chiesa dell’Assunzione della Vergine Maria a Chełmno (Polonia).

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I «Valentini»

Una tradizione anglo-americana Il primo biglietto d’amore nella storia della letteratura viene considerato la poesia scritta nel 1400 da Carlo d’Orléans durante la sua lunghissima prigionia nella Torre di Londra. «Je Suis desja d’amour tanné – scrive Carlo alla moglie – ma trés doulce Valentinéee» («Sono già malato d’amore, mia dolcissima Valentina»). I cosiddetti biglietti «valentini» diventano una tradizione in Inghilterra e negli Stati Uniti a partire dal 1800, trasformandosi in un fenomeno commerciale nel XX secolo, tanto che in inglese il A destra, in alto un «valentino» inglese della metà del XIX sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la Torre di Londra. 1500 circa. Londra, British Library. A destra, in basso scambio di cioccolatini fra due giovani giapponesi in occasione della festa di San Valentino.

rosa a una coppia di fidanzati che litigavano riconciliandoli viene creata in Inghilterra nel Seicento (e immortalata negli anni Novanta anche nella vetrata della basilica ternana), mentre la tragica vicenda dell’amore tra il soldato pagano Sabino e la cristiana Serapia nasce nel Novecento, dopo il ritrovamento di due scheletri abbracciati nella necropoli delle Acciaierie di Terni. La Greeting Card Association ha stimato che ogni anno, il 14 febbraio, vengano spediti circa un miliardo di biglietti di auguri, numero che colloca la ricorrenza al secondo posto, dopo il Natale, per biglietti acquistati e spediti. Un aspetto particolarmente interessante è che Terni, a differenza di Bussolengo e delle altre città che venerano Valentino, ha riscoperto (segue a p. 95)

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nome proprio «Valentine» finisce per indicare la cartolina d’amore e diventare – al tempo stesso – un aggettivo che indica l’amante. Non a caso, quindi, nascono proprio in America e in Inghilterra quasi tutte le leggende romantiche di cui san Valentino è protagonista. D’altra parte, il suo principale fascino è quello di essere una sorta di Robin Hood della Chiesa: come quella dell’eroe inglese, infatti, la sua vita ha una base storica su cui si sono innestate leggende in continuo sviluppo.

in asia

Al sapor di cioccolata San Valentino, in Giappone, si festeggia nel segno del cioccolato. Introdotta dagli anni Trenta del Novecento, a Kobe, con una campagna pubblicitaria della ditta Korozoff, la festa si è imposta nel 1958, diventando sempre piú popolare e assumendo caratteristiche uniche rispetto al resto del mondo. Non ci sono infatti cene romantiche o scambio di regali o di fiori tra gli innamorati: tutto è legato unicamente alla cioccolata, regalata dalle ragazze ai ragazzi e non necessariamente al proprio fidanzato. Come tutti i rapporti sociali, anche la festa di San Valentino è regolamentata dettagliatamente ed esistono ben tre diversi tipi di cioccolata da regalare: la giri-choco («cioccolata dell’obbligo»), offerta dalle ragazze ai compagni di classe o ai colleghi di lavoro; la tomo («cioccolata dell’amico») è invece un regalo che viene fatto a persone a cui si è piú legati. La honmeichoco («cioccolata del prediletto»), infine, è quella regalata al proprio amato. Di fatto, il giorno di San Valentino in Giappone gira cosí tanto cioccolato da essere venduto anche in stand temporanei. Si stima che circa la metà delle vendite di cioccolato in Giappone in un anno avvenga in questa occasione. Alla festa di San Valentino i Giapponesi hanno poi affiancato (sempre per iniziativa delle industrie dolciarie) il «White Day», che si celebra esattamente un mese dopo, e vede i ragazzi ricambiare regalando alle ragazze cioccolato bianco. La consuetudine è stata ripresa, con alcune varianti, in Corea del Sud e a Taiwan, mentre in Cina la festa di San Valentino non si è ancora diffusa, anche se il governo organizza in agosto una giornata dedicata ai giovani e finalizzata alla creazione di nuove coppie.

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Dossier Il cammino di San Valentino

Il Comune di Terni ha varato un percorso urbano sulle orme di san Valentino, che raccoglie tutti i luoghi legati alla vita e alle leggende sul santo e i siti archeologici di epoca romana: dalla basilica di S. Valentino alla chiesa di S. Salvatore (detta «Tempio del Sole», dove si trova il giardino in cui il vescovo coltivava le sue rose) passando per il Museo archeologico e l’anfiteatro romano. Un Comitato di cittadini e associazioni come l’Istess e Tribú in Movimento si prepara invece a varare un Cammino di 12 tappe e 170 km che collega le eccellenze naturalistiche, ambientali, archeologiche e i borghi del Ternano, da quelli legati al santo patrono come Casteldilago, Collescipoli e la Cascata delle Marmore. Un percorso attrezzato con mappe, gadget e strutture di accoglienza, che si propone di unire natura, paesaggio, benessere, sport, spiritualità e cultura.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto l’esterno dell’anfiteatro di Interamna Nahars (la Terni di età romana), costruito a ridosso delle mura urbane, vicino alla porta d’ingresso della via Flaminia in città.

A destra l’esterno della chiesa di S. Salvatore, detta «Tempio del Sole». Qui si trova il giardino nel quale Valentino coltivava le sue rose.

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La Cascata delle Marmore Con i suoi 165 m di altezza la Cascata delle Marmore vanta il primato della piú alta d’Europa e da oltre 2000 anni affascina visitatori con il suo spettacolo di immensa potenza. A 7,5 chilometri da Terni, si trova nel bel mezzo della Valnerina, sotto il lago di Piediluco e a pochi passi dagli studi cinematografici di Papigno, dove Roberto Benigni ha girato La vita è bella e Pinocchio. Secondo la leggenda, nasce da una maledizione lanciata dalla gelosia di Giunone contro la ninfa Nera e il pastore Velino, trasformati in fiumi mentre erano abbracciati. La vera storia è meno romantica ma altrettanto affascinante: nel 271 a.C. il console romano Manio Curio Dentato, con l’obiettivo di bonificare la palude formata dal fiume Velino, aveva ordinato la costruzione di un canale per far defluire le acque, facendole cosí precipitare nel fiume Nera. Il risultato è lo spettacolo

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descritto già da Virgilio, che nell’Eneide la paragona all’ingresso del Regno dei Morti, e cantato – tra gli altri – da Lord Byron e Hans Christian Andersen. Molte sono le leggende che legano san Valentino alla Cascata: una vuole che il vescovo, per dimostrare la purezza della bella Nerina messa in dubbio dal compagno, abbia colpito la rupe col bastone pastorale, facendo scaturire l’acqua capace di formare un grandioso e liquido velo da sposa; secondo un’altra il giovane Valentino avrebbe risalito la Cascata fuggendo dal demonio, che avrebbe infine affrontato e sconfitto sul Lago di Piediluco. La Cascata delle Marmore, alla quale piú di una leggenda lega la figura di san Valentino. Lo spettacolare salto è frutto dell’intervento promosso nel 271 a.C. dal console Manio Curio Dentato, al fine di bonificare la palude formata dal Velino.

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Dossier Silvia Claudia, donna venerabile San Valentino era single è il titolo di un libro umoristico scritto da Francesco Salvi nel 2007. Effettivamente la tradizione ci consegna l’immagine dell’anziano vescovo che benedice le giovani coppie di innamorati. In realtà, però, il celibato ecclesiastico si è affermato relativamente tardi, cristallizzandosi, di fatto, solo con il Concilio di Trento. Fino al VI secolo i vescovi cattolici erano regolarmente sposati, e se la figura di Silvia Claudia (celebrata nel romanzo Il segreto del Santo innamorato e nelle panchine degli innamorati di Bussolengo) è squisitamente letteraria, non ci sono dubbi sul fatto che san Valentino sia stato egli stesso innamorato e sposato. Un indizio è contenuto nella cripta della basilica ternana, dove un’iscrizione ricordava la tomba di una «venerabile donna, vescova», ovvero moglie del vescovo.

A sinistra la facciata della basilica ternana di S. Valentino. Nella pagina accanto affresco raffigurante san Valentino. XV sec. Terni, S. Maria del Monumento. In basso l’altare maggiore della basilica di S. Valentino, a Terni.

Nella città natale Nella basilica di Terni si svolge ogni anno, la domenica precedente il giorno di San Valentino, la «Festa della promessa», che vede le coppie di fidanzati che si sposeranno entro l’anno scambiarsi la promessa d’amore e ricevere una rosa rossa dal vescovo della città. Da tre decenni sulla tomba del santo arrivano lettere d’amore da tutto il mondo: di queste il 75% sono scritte da donne, il 10% da uomini e il 15% da coppie. Il 59% arrivano dall’Europa (con in testa l’Italia, seguita dalla Germania), mentre il 38% scrive dall’Asia, in particolare dal Giappone, ma anche dai Paesi arabi e dall’Iran. In Italia il maggior numero di devoti del santo si registra in Campania, seguita da Sicilia, Toscana e Lazio. Nel 1989 Comune e Diocesi hanno promosso la Fondazione San Valentino che, soprattutto negli anni 2000, ha dato un forte impulso agli eventi organizzati per celebrare la festa. Tra questi l’istituzione del premio «San Valentino. Un anno d’amore», la donazione alla città da parte di Raymond Peynet di alcuni suoi disegni originali, lo spettacolo di Roberto Benigni dedicato al Cantico dei Cantici e l’incontro con Alessandro D’Alatri per la presentazione del film Casomai e della versione teatrale di Scene da un matrimonio.

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il suo patrono proprio quando è diventato protettore degli innamorati. È singolare come la tomba di san Valentino sia stata scoperta a Terni appena due anni dopo la pubblicazione dell’Amleto. Fino al 1605, infatti, il vescovo era praticamente dimenticato e, fino al 1646, contendeva la protezione di Terni a san Procolo (suo successore) e sant’Anastasio (vescovo di Narni e Terni dal 649 al 653). Solo il 3 luglio 1647 Valentino veniva proclamato ufficialmente patrono principale di Terni, dopo una votazione che lo aveva visto sostenuto dai laici e osteggiato dal clero. Nei secoli successivi, per influsso del mondo anglosassone, anche a Terni si diffonde il culto di Valentino come protettore degli innamorati, tanto che ai piedi dell’altare che ha custodito l’urna fino al 2003 era indicato proprio come «San Valentino, patrono dell’amore». A partire dal 1989 la Chiesa ternana ha cercato di elevare Valentino a custode non solo delle coppie di innamorati, ma dell’amore nell’accezione piú ampia, quindi anche della solidarietà e della pace, istituendo un premio a suo nome assegnato, tra gli altri, a Madre Teresa di Calcutta, Michail Gorbaciov, David Grossman e Ibrahim Faltas. Una forzatura? Non si direbbe, considerato che già nel 1415 il libro La ricomposizione della città di Norwich narrava la pacificazione delle discordie interne alla città per intercessione di san Valentino. Sin dal Quattrocento, quindi, il raggio d’azione del patrono di Terni era passato dal mero accoppiamento di uccelli e innamorati a un vero e proprio messaggio di pace e di amore universale. D’altra parte, l’unica certezza che la storia ci consegna, del vero san Valentino, è che ha versato il sangue per la fede e per gli altri. E quindi, per dirla con le parole di un suo successore, ha letteralmente perso la testa per amore.

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Nella terra dei gigli

di Giovanni Antonio Baragliu, Carlo Casi e Luciano Frazzoni

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Meno noto rispetto alle città del tufo della vicina Toscana, il borgo di Farnese vanta origini antichissime e una storia di tutto rispetto. Parte della Tuscia Langobardorum e poi passato sotto il dominio dei Franchi, a partire dall’XI secolo l’insediamento si trasforma in castrum Farneti. Legando il suo nome, da allora in poi, a una delle piú antiche dinastie medievali d’Italia. Un invito alla visita…

In alto, sulle due pagine una veduta di Farnese (Viterbo). Il borgo, il cui nome è attestato per la prima volta in un documento del 1210 conserva, ben visibile, l’assetto acquisito nel Medioevo.

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l pianoro tufaceo sul quale sorge oggi il borgo medievale di Farnese fu abitato già dall’età del Bronzo Finale (XII-X secolo a.C.). Qui, infatti, sono stati trovati resti di un esteso villaggio di capanne e frammenti ceramici, riferibili a questo periodo, oggi conservati nel Museo Civico «Ferrante Rittatore Vonwiller» (vedi box alle pp. 106-107). Alla fine dell’età del Bronzo questo insediamento, come altri abitati vicini (Sorgenti della Nova, Sovana, le Sparne di Poggio Buco), fu abbandonato dai suoi abitanti, che preferirono spostarsi verso il mare, occupando il vasto pianoro lungo il corso del fiume Fiora, sul quale in seguito sorse la potente città etrusca di Vulci. Quest’ultima acquisí il controllo del territorio di Farnese e, lungo il corso del fiume Olpeta, uno dei principali affluenti del Fiora, che funge da confine naturale del versante meridionale della Selva del Lamone (vedi box a p. 104), sono stati individuati molti siti etruschi; tra questi, la tomba monumentale del Gottimo, e l’insediamento fortificato di Rofalco, posto a controllo della valle dell’Olpeta. Dopo la conquista romana di Vulci nel 280 a.C., anche il territorio di Farnese passa sotto il controllo di Roma. Dall’età repubblicana e per tutto il periodo imperiale si insediano numerose villae rusticae, collefebbraio

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gate tra loro da un capillare sistema di strade basolate, diverticoli della via Clodia, di cui restano tracce all’interno della Selva del Lamone, e almeno quattro pagi (villaggi), situati rispettivamente a Rofalco, Valderico, Stenzano, Semonte, che probabilmente gravitavano attorno ai centri maggiori, forse la praefectura di Saturnia o il municipium di Visentium-Bisenzio, presso il lago di Bolsena. In epoca altomedievale sembra certa la presenza nel territorio di genti longobarde, come testimoniano i numerosi toponimi (Valderico, Santa Maria di Sala, Salabrone, ecc.) e la vasta necropoli longobarda della Selvicciola, nel territorio di Ischia di Castro. Frutto di rinvenimenti sporadici sono alcuni ornamenti ageminati di cintura (in località Bottinello e presso il castello di Castiglione) e una tomba con corredo comprendente un sax (un tipo di spada corta) in località Chiusa del Belli. Dopo l’817 il territorio di Farnese entrò a far parte della Tuscia Langobardorum, all’epoca di Ludovico il Pio, passando cosí sotto il diretto dominio degli imperatori franchi. A partire dall’XI secolo, quando tutta l’area conosce il fenomeno dell’incastellamento nasce anche il castrum Farneti, nel luogo naturalmente difeso dove era l’antico villaggio di capanne dell’età del Bronzo. È pro-

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babile che il nome «Farnese» o «Farneto», derivi dalla presenza di boschi di farnie (Quercus robur), un tipo di quercia ora pressoché scomparsa. La scarsità di documenti per questo periodo non fornisce però altri dati.

La prima menzione

Il nome di Farnese è documentato per la prima volta in un diploma d’infeudazione del 1210, rilasciato dall’imperatore Ottone IV a Ildebrandino Ildebrandeschi sulle terre precedentemente appartenute al conte Ranieri di Bartolomeo, e che costituivano la cosiddetta «Terra Guiniccesca», un grande feudo tra la bassa Toscana e l’Alto Lazio, compreso tra le sedi vescovili di Castro e Sovana e del quale facevano parte: Pitigliano, Sorano, Vitozza, Sala, Ischia, Farnese, Castiglione (Sorgenti della Nova), Petrella, Morrano, Castellarso, Latera, Iuliano e Mezzano. Per tutto il XIII e almeno fino alla metà del XIV secolo Farnese è sottomessa al comune di Orvieto. Nel 1347, infatti, i signori di Farnese e Ischia pagavano ancora a questa città il tributo per i due castelli. Il castro di Farnese compare anche nell’elenco delle decime della diocesi di Castro per gli anni 1274-1280 («presbitero Gorgio de Franneto X sol. Cort»). Il documento è im-

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Grosseto Sorano

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Porto Santo Stefano

Farnese

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Capalbio

Tuscania Viterbo

Montalto di Castro Tarquinia

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portante, in quanto ci informa che in questo periodo vi era un presbitero, cioè una chiesa parrocchiale con prete officiante, forse da identificare nella chiesetta di S. Maria della Neve, nel centro del paese. È probabile che in quest’epoca l’abitato consistesse soltanto in un borgo fortificato con una rocca e una piccola chiesa. Solo nei secoli successivi il borgo si sviluppa con il tipico aspetto degli insediamenti medievali, con l’intrico di vicoli e case basse, spesso con loggette ad arcate realizzate con blocchi di tufo squadrati, che oggi offrono al visitatore squarci suggestivi. A Farnese, come nei castelli di Sala e Castiglione, risiedevano come gastaldi degli Aldobrandeschi, forse i primi rappresentanti della famiglia omonima, che, probabilmente a partire dalla metà del XIV secolo, subentrano agli Aldobrandeschi come possessori del feudo. Nel 1416 infatti Ranuccio Farnese, per conto anche di suo padre Pietro e dello zio Pietro Bertoldo sottomette a Siena i castelli di Sala, Castiglione, Valen-

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tano, Latera, Farnese, Capodimonte, Mezzano, Cellere e Pianiano. Con l’ascesa al soglio pontificio di papa Paolo III Farnese, viene creato il ducato di Castro, mentre Farnese e il vicino centro di Latera, che non rientravano nei confini del ducato, entrarono a far parte dei possedimenti del ramo cadetto della famiglia.

Due nuclei urbani

Dal punto di vista urbanistico Farnese si presenta oggi diviso in due parti: il borgo medievale, sviluppatosi con espansione di tipo «centripeta» sulla rupe tufacea tra due fossi – percorso da una strada che gira tutt’intorno a esso –, e il borgo rinascimentale, formato da tre assi stradali disposti a tridente sulla direttiva che collega Farnese a Ischia di Castro, e che portano alla piazza su cui s’affaccia Palazzo Chigi, oggi sede del Municipio. Questa seconda parte del paese fu edificata nel Cinquecento dai Farnese per ospitare i propri sudditi. Qui si trovano, tra l’altro, il monastero delle Clarisse, con febbraio

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A sinistra, sulle due pagine mappa e veduta aerea del centro storico di Farnese con l’indicazione dei monumenti piú importanti: 1. Palazzo Farnese o Rocca. 2. Porta Nuova. 3. Viadotto o Corridore. 4. Chiesa del SS. Salvatore. 5. Chiesa di S. Maria della Neve. 6. Butti a Tralipozza. 7. Fontana monumentale. 8. Edifici della Galeazza. 9. P alazzo Ceccarini Chigi (Municipio). 10. Borgo. 11. Palazzo Platoni. 12. M onastero di S. Maria delle Grazie. 13. Convento di S. Rocco. 14. C onvento di S. Francesco (o dei Cappuccini). 15. C hiesa di S. Anna (o S. Maria della Cavarella). 16. Santuario della Madonna delle Grazie. 17. M useo Civico «Ferrante Rittatore Vonwiller».

In basso il Viadotto o Corridore: un camminamento realizzato nel Seicento per volere di Mario Farnese per collegare la Rocca con il giardino all’italiana detto della «Selva», oggi non piú esistente.

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l’annessa chiesa di S.Maria delle Grazie, e il bel palazzo detto «Casa del Platonio», realizzato nel corso del XVI secolo da un certo mastro Sallustio, senese, con il portale che riproduce in scala ridotta quello superiore del Palazzo Farnese di Caprarola. Fa da cerniera tra i due nuclei dell’abitato la Porta Nuova, realizzata nel 1613 dall’architetto Ettore Smeraldi sulle strutture di una porta precedente, e sulla quale si imposta il viadotto che collegava la Rocca con il giardino all’italiana detto della «Selva» (oggi non piú esistente). Già al servizio di Mario Farnese nella fortezza di Ferrara, Smeraldi realizzò nei primi anni del Seicento molte opere a Farnese, come riporta un documento del 1615 dell’Archivio Comunale: un’altra porta di accesso al paese in direzione di Castro, detta Porta Sant’Angelo, ora sostituita da un piacevole belvedere; il recinto delle mura, del quale resta parte di un bastione in località Cortinaro; la risistemazione delle strade e diverse case di abitazione private.

Da fortezza a palazzo

Entrati dalla Porta Nuova si incontra la Rocca, residenza dei Farnese, che da edificio fortificato medievale, fu trasformato in un’elegante dimora signorile. Anche l’ampliamento della Rocca in forma di palazzo, realizzato negli anni 1615-1617, è opera dello Smeraldi, al quale si deve la facciata con l’imponente portale con colonne in peperino e bugnature in travertino, erroneamente attribuito precedentemente al Vignola. L’interno della Rocca, ora suddivisa in diversi appartamenti privati, si articola in una serie di corridoi e cortili. In uno di questi è un pozzo, sul quale è visibile uno stemma della famiglia Anguillara, imparentata con i Farnese attraverso i matrimoni tra Pier Bertol-

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do e Battistina Anguillara, e Galeazzo e Isabella. Sul fianco del palazzo è murato il piú antico stemma della famiglia Farnese, raffigurante un unicorno rampante e uno scudo con sei gigli (altri due stemmi con l’immagine dell’unicorno si trovano uno in un cortile interno della rocca, un altro murato in un angolo di fronte alla chiesa del SS. Salvatore). Il palazzo, purtroppo molto rimaneggiato, disponeva anche di un piccolo teatro di corte, ora perduto insieme ai dipinti che decoravano alcune stanze, realizzati dal pittore bolognese Antonio Maria Panico e forse da Annibale Carracci.

Dipinti e affreschi di pregio

Di fronte alla Rocca si trova la chiesa parrocchiale del SS. Salvatore, risalente almeno al XV secolo, con una facciata moderna realizzata nel 1954 dall’architetto Vincenzo Fasolo. La chiesa è a due navate; in quella laterale destra sono pregevoli dipinti del Panico: nella cappella del Rosario sono gli affreschi raffiguranti le Storie di Cristo e della Vergine eseguiti intorno al 1596, i dipinti su tela raffiguranti San Giacomo Maggiore, San Giovanni Battista e San Sebastiano, tutti eseguiti nel 1603-1605; nella cappella di fondo si trova il grande quadro raffigurante la Messa di Paolo III o Miracolo eucaristico, opera realizzata dal Panico negli stessi anni, e il bellissimo San Michele Arcangelo di Orazio Gentileschi, datato al 1608. Notevole, inoltre, il tabernacolo del 1603, dono del vescovo di Parma Ferrante Farnese. La chiesa di S. Maria della Neve è situata nel centro storico, nell’odierna piazza del Plebiscito. Tradi-

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A destra l’interno della chiesa di S. Anna. Nella pagina accanto, in alto la Rocca dei Farnese, che, da edificio fortificato, venne progressivamente trasformata in un elegante palazzo signorile. Nella pagina accanto, in basso dipinto raffigurante, dall’alto, l’Immacolata fra due angeli, l’incontro tra Gioacchino e sant’Anna sotto la Porta d’Oro di Gerusalemme e vari membri della famiglia Farnese. XVI-XVII sec. Monastero delle Clarisse.

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medioevo nascosto lazio A sinistra affresco raffigurante il matrimonio di Galeazzo Farnese e Isabella degli Anguillara, celebrato tra il 1514 e il 1518. Prima metà del XVI sec. Chiesa di S. Maria delle Grazie annessa al monastero delle Clarisse.

zionalmente è considerata il piú antico luogo di culto di Farnese, dal momento che risale forse al X secolo, quantunque tale tesi non sia suffragata da adeguata documentazione storica; fu la prima sede parrocchiale del paese fino al XV secolo, quando fu sostituita dalla chiesa del SS. Salvatore. Subito fuori l’abitato di Farnese, in località «Le Piagge», si trova invece la piccola chiesa di S. Anna, conosciuta anche come S. Maria della Cavarella. La sua costruzione, su progetto del già citato mastro Sallustio, fu decisa dal Consiglio Comunale di Farnese, in seguito a un ex voto alla Madonna della Cavarella dopo un’invasione di cavallette il 27 maggio 1577, e terminata nel 1584. La tradizione vuole però che la chiesetta sia stata edificata dalla famiglia Farnese come ringraziamento per il felice parto di Camilla Lupi, moglie del duca Mario Farnese. È probabile che, per dare maggior prestigio all’edificio, la famiglia Farnese si sia appropriata della «paternità» della costruzione della chiesa, dedicandola a sant’Anna, protettrice

delle partorienti. All’interno presenta una ricca decorazione a stucchi – forse opera di Pompeo Pazzichelli – e pitture realizzate da Antonio Maria Panico. Sull’altare, diviso in tre arcate riccamente decorate da stucchi, è l’immagine della Madonna della Cavarella, opera di un artista viterbese sconosciuto; ai lati sono raffigurati San Giovanni Battista e San Francesco, opera del Panico. Al di sopra, due piccoli riquadri rappresentano il Battesimo di Cristo e San Francesco che riceve le stimmate. Le vele della cupola presentano una ricca e complessa decorazione: vi sono rappresentati episodi della vita della Vergine, figure allegoriche (la Fortezza, la Fede, la Giustizia, la Carità), putti, animali, esseri fantastici e decorazioni vegetali, tra i quali è il giglio, simbolo della famiglia Farnese. Tale apparato decorativo nasconde, negli episodi narrati, simboli esoterici legati alla scienza alchemica, i cui significati erano comprensibili solo a un ristretto nucleo di iniziati, tanto che la chiesa stessa sembra costituire un vero e proprio Mutus Liber alchemico.

Fra alchimia e massoneria

Simbologie alchemiche sono presenti anche nella tela, raffigurante l’Immacolata Concezione, in cui sono anche rappresentati l’Incontro tra Gioacchino e Sant’Anna sotto la Porta d’Oro di Gerusalemme, conservata nel convento delle Clarisse (vedi foto a p. 100, in basso), e in un piatto, conservato nel Museo Civico, nel quale è raffigurata una mano guantata che tiene in pugno una fiamma, che sembra sprigionarsi da una catasta di legna (vedi foto a p. 106, in basso). Il guanto d’amianto (la «salamandra» che resiste al fuoco) in questo caso rappresenta l’alchimista A sinistra Crocifissione, pala d’altare di Agostino Masucci. 1750. Chiesa di S. Maria delle Grazie, monastero delle Clarisse. A destra Annunciazione, affresco (staccato), dalla chiesa di S. Maria di Sala. Prima metà del XV sec. Palazzo Comunale.

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La tomba fatta costruire da Mario Farnese per sé e sua moglie Camilla Lupi, nella chiesa annessa al convento di S. Francesco (o dei Cappuccini).

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La Selva del Lamone

Un paradiso della biodiversità Istituita nel 1994, la Riserva Naturale Regionale Selva del Lamone occupa 2030 ettari nel territorio del Comune di Farnese, in Provincia di Viterbo, al confine con la Toscana. Fa parte del Sistema dei Parchi e delle Riserve della Regione Lazio. Ente Gestore è il Comune di Farnese. Il territorio della Riserva è interessato dalla ZPS (Zona di Protezione Speciale per gli uccelli selvatici) Selva del Lamone-Monti di Castro e dai SIC (Siti d’Importanza Comunitaria) Selva del Lamone e Sistema Fluviale Fiora-Olpeta. Molte sono le specie rare e protette che vegetano nel Lamone, il quale spesso rappresenta una delle poche, se non l’unica stazione del Lazio per alcune di esse: asplenio settentrionale, ofioglosso delle Azzorre, cardamine parviflora, clipeola, lupino greco, veccia di Loiseleur, gamberaja calabrese. Anche la fauna è ricca e interessante, spesso per la sua rarità: gatto selvatico, martora, biancone, albanella minore, bigia grossa, tritoni, ecc. Tra le specie di importanza comunitaria vengono citate il lupo per i mammiferi; il falco pecchiaiolo, il nibbio bruno, il biancone, il succiacapre, l’averla piccola, l’occhione, la ghiandaia marina, l’albanella minore, la calandrella, il calandro e la bigia grossa, tra gli uccelli; la testuggine comune e il cervone, tra i rettili; il tritone crestato, la salamandrina dagli occhiali e l’ululone dal ventre giallo, tra gli anfibi. Info Riserva Naturale Regionale Selva del Lamone tel. 0761 458861; e-mail: rnselvalamone@regione.lazio.it; www.parchilazio.it che con la sua conoscenza riesce a dominare la fiamma (cioè il processo alchemico); la catasta di legna infine, a ben guardare, risulta essere formata da due squadre, simbolo della massoneria. Sopra l’immagine allegorica è un cartiglio con la scritta «Per Celare», a significare che la scienza alchemica non può essere rivelata a tutti, ma è destinata solo a pochi adepti. Nel 1560 Giulia Acquaviva, moglie di Pier Bertoldo Farnese, fece edificare a sue spese una chiesa con annesso convento, dedicata a san Rocco. Dopo soli 57 an-

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In alto un tipico paesaggio della Riserva Naturale della Selva del Lamone. Nella pagina accanto un’altra veduta di Farnese.

ni Mario Farnese, figlio di Pier Bertoldo, chiese ai frati che vi risiedevano di utilizzare il convento e la chiesa per la figlia, suor Maria Francesca, monaca dell’Ordine di Santa Chiara, che intendeva fondare un monastero di clausura nel quale venissero applicate le sue regole, ispirate a un rigido misticismo. Il duca si impegnava con i frati a costruire per loro un altro convento. Il 9 maggio 1618 le Clarisse poterono prendere possesso della nuova dimora. La chiesa annessa al convento fu dedicata a S. Maria delle Grazie. febbraio

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Qui, grazie a lavori di restauro, sono stati scoperti due affreschi databili alla prima metà del XVI secolo, forse opera di uno sconosciuto mastro Nicola. Uno di questi raffigura il matrimonio di Galeazzo Farnese e Isabella degli Anguillara, avvenuto negli anni tra il 1514 e il 1518 (vedi foto a p. 102, in alto). Oltre alle figure di personaggi della famiglia Farnese, interessante è quella del celebrante le nozze, nel quale è chiaramente riconoscibile il cardinale Alessandro Farnese, prima di essere eletto papa con il nome di Paolo III. Al di sopra della scena è dipinto lo stemma bipartito della famiglia Farnese con i sei gigli e quello degli Anguillara, caratterizzato da due anguille incrociate. Lo stesso stemma bipartito è presente su un piatto, ora conservato nel Museo Civico, realizzato per il servizio di questo matrimonio. L’altro dipinto rappresenta la Visitazione della Madonna a santa Elisabetta, episodio ambientato probabilmente presso la Porta di Farnese, prima del suo rifacimento seicentesco. Altri pregevoli dipinti conservati nella chiesa e nel convento delle Clarisse sono la pala d’altare del pittore romano Agostino Masucci del 1750, raffigurante la Crocifissione, e il già menzionato Incontro tra Gioacchino e Sant’Anna sotto la Porta d’Oro di Gerusalemme, opera variamente attribuita ad Antonio Maria Panico, alla sua scuola o a Lavinia Fontana, databile negli ultimi anni del XVI o nei primi del XVII secolo. Anche in questo dipinto sono presenti numerosi riferimenti alla scienza alchemica. Insieme all’immagine dell’Immacolata tra due angeli, è raffigurato al centro appunto l’Incontro tra Gioacchino e Sant’Anna sotto la

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Porta d’Oro di Gerusalemme; piú in basso sono ritratti anche Mario Farnese, la moglie Camilla Lupi e altri rappresentanti maschili e femminili della famiglia Farnese. Sullo sfondo è rappresentata una città cinta da mura, probabilmente Gerusalemme, con torri (l’athanor, cioè il forno dell’alchimista), campanili e un giardino recintato (l’hortus conclusus degli alchimisti, il cui accesso è precluso ai non iniziati), un tempietto circolare e una fontana poligonale. È inoltre raffigurata l’Idra a sette teste (le sette fasi dell’opera alchemica) e un cespo di gigli bianchi e rose rosse entro uno scudo (vedi foto a p. 100, in basso).

I frati fanno da soli

Morto il duca Mario Farnese nel 1619, senza che, come promesso, fosse stato costruito il nuovo convento per i frati, questi decisero di edificarlo da soli con i proventi delle elemosine, accanto alla chiesa esistente in località Sant’Umano, posta fuori del paese sulla strada che conduce a Pitigliano e Manciano. Il nuovo edificio fu consacrato nel 1733 e dedicato nuovamente a S. Rocco. All’interno della chiesa, a una sola navata, sono conservate pregevoli opere. Nell’altare maggiore è l’immagine del Crocifisso, realizzato in legno da Fra Vincenzo da Bassiano nel 1684. L’autore, appartenente forse all’ordine dei Frati Minori, è noto proprio per i suoi crocifissi lignei a grandezza naturale, presenti in alcuni conventi francescani laziali; la storia vuole che egli lavorasse alle sue sculture solo di venerdí, dopo aver digiunato a pane e acqua e essersi flagellato. Nella cappella di S. Francesco, sulla sini-

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medioevo nascosto lazio il museo civico «ferrante rittatore vonwiller»

Dalle capanne preistoriche ai butti medievali Il Museo civico di Farnese, dedicato all’archeologo Ferrante Rittatore Vonwiller (1919-1976), al quale si devono i primi studi sul popolamento preistorico della media valle del Fiora, raccoglie testimonianze materiali che permettono di cogliere i vari aspetti dell’evoluzione storico-culturale del territorio, attraverso un percorso di tipo cronologico e topografico. La sezione di Preistoria e Protostoria presenta testimonianze della frequentazione umana durante il Paleolitico, il Neolitico e l’Eneolitico con materiali di corredo appartenenti alla facies culturale di Rinaldone rinvenuti nelle necropoli di Palombaro e Fontanile del Raim. La sezione dedicata all’insediamento di Sorgenti della Nova consente al visitatore di ricostruire la vita stra della navata, è la pala d’altare con la raffigurazione delle Sacre Stimmate, opera di Giuseppe Duprà (metà del XVIII secolo). La cappella di S. Antonio, sulla destra, presenta l’Estasi di sant’Antonio, pregevole dipinto di Giovanni Lanfranco (XVII secolo). Situato all’ingresso del paese venendo da Ischia di Castro, il convento di S. Francesco (o dei Cappuccini) fu edificato nel 1585 da Mario Farnese. I frati cappuccini vi rimasero fino al 1926, quando il complesso fu ceduto alle suore Mercedarie, che ancora oggi vi risiedono. Nella chiesa annessa al convento si trova la tomba fatta costruire da Mario Farnese per sé e sua moglie Camilla Lupi, marchesa di Soragna (Parma). L’iscrizione al centro del pavimento ricorda che Camilla è vissuta 42 anni, ma stranamente non riporta quanti anni è vissuto Mario (vedi foto a p. 103).

Echi della presenza longobarda

A pochi chilometri da Farnese, in prossimità del fiume Olpeta, al margine della Selva del Lamone sorge la chiesa, risalente al XII secolo, di S. Maria di Sala (o S. Marisala). Il toponimo denota l’origine longobarda del sito, il termine «Sala» indica infatti la struttura politico-amministrativa longobarda della piccola proprietà terriera, dove si raccoglievano i tributi. Nei pressi si trovano anche i resti di un castello, un ponte e una necropoli medievale. Il Castello di Sala, insieme a Farnese, faceva parte dei territori, posseduti originariamente dal conte Ranieri di Bartolomeo, e divenuti, tra il 1172 e il 1203, proprietà dei conti Ildebrandeschi. Sul finire del XV secolo nella chiesa

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Piatti in ceramica policroma, uno dei quali reca i gigli dei Farnese, mentre sull’altro sono presenti allegorie alchemiche e massoniche. Primo quarto-metà del XVI sec.

viveva un eremita, Tommaso, dell’Ordine degli Agostiniani, il che suggerisce che non esistessero piú centri abitati nelle immediate vicinanze. Recentemente restaurata, la chiesa è a pianta rettangolare con una sola navata e un’abside semicircolare. L’edificio sorge nei pressi di una sorgente che sgorga dalla roccia, alla quale si accede da una piccola porta posta sul lato destro, con evidente funzione rituale legata al culto delle acque. Degli affreschi che decoravano le pareti laterali e l’abside, si conservano soltanto l’Annunciazione (prima metà XV secolo; vedi foto a p. 102, in basso, a destra), la Maestà (prima metà XVII secolo) e San Sebastiano e la Madonna col Bambino (XV secolo), staccati e restaurati nel 1979 e ora collocati nel Palazzo Comunale di Farnese.

Immondizie da... museo

Una caratteristica dei centri storici che sorgono su speroni tufacei, come nel caso di Farnese, è la presenza diffusa di «pozzi da butto». Si tratta di grandi cavità di forma cilindrica o a fiasco, scavate direttamente nel banco di tufo e utilizzate in origine come silos per la conservazione del grano o come cisterne per la raccolta dell’acqua e, in un secondo momento, per gettarvi i rifiuti. Infatti, in molti statuti medievali di città come Orvieto, Todi, Viterbo, si vietava di gettare le «immondizie» per le strade. Da questo deriva l’uso di gettare tutto ciò che non serfebbraio

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quotidiana di un villaggio dell’età del Bronzo Finale. La storia del territorio in epoca etrusca è illustrata dai reperti provenienti dalla necropoli di Naviglione, con vasi in bucchero legati al rito del banchetto funerario, dalla Tomba del Gottimo e, soprattutto, dall’abitato fortificato di Rofalco. Gli oggetti esposti costituiscono importanti testimonianze della vita sociale e religiosa degli Etruschi dal VI agli inizi del III secolo a.C., prima della conquista romana del territorio nel 280 a.C. Le fasi medievali e rinascimentali di Farnese, centro dal quale probabilmente ha avuto origine la potente omonima famiglia a cui appartenne papa Paolo III (1534-1549), sono documentate dai manufatti rinvenuti nei «pozzi da butto» usati come discariche. Il museo è uno dei poli del Sistema Museale del Lago di Bolsena (SiMuLaBo).

INFO Museo Civico «Ferrante Rittatore Vonwiller» tel. 0761 458849; e-mail: museofarnese@simulabo.it; www.simulabo.it: Comune di Farnese tel. 0761 458381

Rosario di corallo mediterraneo lavorato a bullino. Fine del XVI sec. La medaglietta all’estremità mostra da un lato san Francesco che riceve le stimmate e dall’altro l’Immacolata.

Pianta di Farnese con l’indicazione dei butti medievali e rinascimentali: A. Pozzo Genoria. B. Pozzo Fornaretta I. C. Pozzo Fornaretta II. D. Pozzo Santa Maria I. E. Pozzo Santa Maria II. F. Pozzo Peppetti. H. Pozzo Vinicio. I. Pozzo Tedescucci. L. Pozzo L. M. Pozzo Zimbo. R. Pozzo Gentili. S. Pozzo Scala. T. Pozzo Tubo.

viva piú (resti di pasto, oggetti di uso quotidiano rotti o non piú utilizzabili, ecc.) nei «butti» situati nelle piazze e nelle strade degli abitati, spesso anche nelle cantine delle case private. A Farnese sono stati individuati e scavati molti di questi pozzi. Il materiale rinvenuto al loro interno, costituito in prevalenza da ceramiche, è ora conservato nel Museo Civico, e permette di ricostruire uno spaccato della vita quotidiana degli abitanti del borgo in un periodo che va almeno dalla metà del XIV agli inizi del XVII secolo. Tra il materiale recuperato, sono da segnalare alcune ceramiche che presentano lo stemma Farnese, realizzate su committenza della

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famiglia; oltre a queste, un boccale databile alla metà del XV secolo, rinvenuto pressoché integro, gettato forse in seguito a qualche epidemia per rischio di infezione; ancora, un prezioso rosario in corallo con medaglietta in bronzo su cui è l’immagine dell’Immacolata e di San Francesco, riconducibile dunque ad ambito francescano e databile al XVI secolo (vedi foto in questa pagina); infine, un raro nettapipe o pressa-tabacco in osso del XVI secolo, con figura di offerente, riferibile alla cultura dei nativi americani, giunto a Farnese al seguito di qualche missionario francescano di ritorno dalle colonie, da poco scoperte, del Nord America.

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Quel difetto di un imperatore «cattolicissimo» di Sergio G. Grasso

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arlo d’Asburgo nacque nel 1500 a Gand, nelle Fiandre, primo erede maschio di Filippo d’Asburgo (detto il Bello) e Giovanna di Aragona e Castiglia (detta la Pazza). A sei anni, in seguito alla morte del padre e all’infermità mentale della madre, ereditò il titolo di duca di Borgogna e di principe dei Paesi Bassi col nome di Carlo V. A sedici ottenne la corona di re di Spagna e delle Indie (Florida, Venezuela Colombia, Perú e l’intera costa occidentale dell’America del Sud), re di Sardegna, di Napoli e di Sicilia oltre ai titoli di arciduca d’Austria e duca di Borgogna. A 19 anni, grazie alla fantastica somma di 850 000 fiorini elargita dai banchieri Fugger per corrompere i sette principi elettori di Germania, riuscí a farsi proclamare ad Aquisgrana imperatore del Sacro Romano Impero, prevalendo sugli altri candidati al trono: Enrico VIII Tudor, Francesco I Valois e Federico III di Sassonia. Geneticamente egemone e ambizioso, Carlo V fu strenuo difensore della Chiesa di Roma nel suo scontro con i sovrani tedeschi che appoggiavano lo scisma luterano. Per trent’anni si oppose in armi all’egemonia francese sul Nord Italia e, nel 1525, re Francesco I di Valois fu addirittura catturato, condotto a Madrid e obbligato a cedere agli Asburgo Milano e la Borgogna. Promosse e incoraggiò le attività di «conquista» del Nuovo Mondo pur vietando (con

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A sinistra L’imperatore Carlo V a Mühlberg, olio su tela di Tiziano Vecellio. 1548. Madrid, Museo del Prado.

scarsissimo successo) la schiavitú dei nativi americani e imponendo ai conquistadores di considerare il benessere degli indigeni. Combatté, con minor fortuna, contro i Turchi di Solimano il Magnifico nell’Europa orientale e nel Mediterraneo.

Il papa prigioniero Ebbe rapporti tesissimi e ostili con sei pontefici, dei quali uno, Clemente VII, durante il sacco di Roma del 1527, fu tenuto prigioniero dai suoi «lanzichenecchi» per sette mesi

in Castel Sant’Angelo, poi liberato dietro un riscatto di 70 000 ducati d’oro. A dimostrazione delle abilità diplomatiche di Carlo V, tre anni dopo, quello stesso papa, visibilmente umiliato, lo incoronò re d’Italia e ratificò la sua precedente elezione a imperatore del Sacro Romano Impero. Sulla sua genialità, determinazione, spregiudicatezza, equilibrio politico e abilità militare sono state scritte milioni di pagine di storia. Meno noti al grande pubblico sono alcuni aspetti, anche sorprendenti, della febbraio

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A destra miniatura facente parte di una serie che celebra le vittorie militari di Carlo V, qui raffigurato in trono, mentre riceve l’omaggio di un nobile. XVI sec. Londra, British Library.

sua persona, tendenzialmente poco loquace e riflessiva. Era di indole puritana, lavoratore instancabile, cortese con gli interlocutori e difficilmente soggetto a scatti d’ira. Leggeva Giulio Cesare e sant’Agostino, era appassionato di giardinaggio, di musica e d’arte, godeva nel circondarsi di dipinti e oggetti preziosi e ospitava grandi artisti come lo scultore Alfonso Lombardi, il pittore Antoon Van Dyck o il sommo Tiziano Vecellio, che nominò pittore di corte. Per quanto i suoi ritratti ufficiali ce lo presentino superbo e marziale, la figura di Carlo V era poco avvenente e ben lontana da quella del suo rivale Francesco I di Francia. Un diplomatico del tempo lo descrisse cosí: «Ha occhi azzurri, capelli castani striati d’argento e il naso sottile alquanto storto: di statura media, il suo abituale contegno è austero ed energico, sebbene sappia anche ridere. La sporgenza della mandibola impedisce che i denti, piccoli e in cattivo stato, combacino fra di loro, ciò che rende difficile a chi lo ascolta l’afferrare la fine delle frasi». In effetti, il suo volto era deturpato

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da un evidente prognatismo, ossia da un mento esageratamente lungo, una mascella sporgente e una lingua molto larga. Noto come «mento asburgico», questo difetto lo obbligava a tenere sempre la bocca semiaperta, ne rendeva difficile e spesso incomprensibile la parola e lo obbligava a inghiottire i bocconi di cibo quasi interi. Non ancora trentacinquenne, aveva una dentatura orribile, sproporzionata e guasta, soprattutto all’arcata superiore.

Una tara genetica Dalla Vita dell’invittissimo, e sacratissimo Imperator Carlo V di Alfonso Ulloa (1575) si apprende anche delle numerose notti passate in dolorosa veglia dall’imperatore a causa di insopportabili mal di denti, aggravati dalla sua smodata passione per i dolci. Il suo prognatismo era il risultato genetico dei numerosi matrimoni fra consanguinei (ben nove su undici) con cui gli Asburgo tutelavano la salvaguardia e l’integrità dei loro territori. In sette secoli, due terzi dei membri della

dinastia presentarono in forma piú o meno accentuata questa tara ereditaria, che si diffuse anche in altre famiglie reali europee, quasi sempre imparentate fra loro. Il prognatismo non causava a Carlo V solo problemi di fonazione, masticazione e digestione ma influiva negativamente sulla sua postura, sull’allineamento della colonna vertebrale, sul bacino e sulla deambulazione. Convisse per almeno trent’anni con lancinanti dolori artritici, aggravati dalla sua passione per l’equitazione, al punto che, in età matura, per spostarsi necessitava di una sedia speciale. Anche la sua scrittura rivela una certa difficoltà nell’impugnare la penna, dovuta quasi certamente all’artrosi. L’esame di un suo dito mignolo, rinvenuto mummificato in una cassettina di velluto dopo cinque secoli, ha evidenziato tracce di cristalli di acido urico nelle giunture che permettono di diagnosticare una patologia gottosa che, com’è oggi noto, è quasi sempre riferibile a un’alimentazione scorretta ed eccessiva, ricca di carni

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CALEIDO SCOPIO e povera di vegetali. In effetti, il pragmatico, rigoroso e cattolicissimo Carlo V ostentò sempre insofferenza verso il piú veniale dei peccati capitali: la gola. Riuscí a ottenere una speciale dispensa papale che lo esimeva dai giorni di astinenza e digiuno che nel XVI secolo, per un cristiano, arrivavano a ben 170. La sua cucina personale lavorava ininterrottamente anche in quaresima per soddisfare la sua sviscerata e incontrollabile passione per il cibo, soprattutto per le carni speziate e arrostite e per la selvaggina allo spiedo, che ingurgitava in quantità impressionanti, bevendo grandi sorsate di birra gelata o di vini del Reno a ogni boccone «non respirando mai fino ad lacrimas». Dormiva fino a tardi, poi prendeva una prima colazione con «una scodella di pesto di capponi con latte e zucche et altre spezierie», assisteva a una messa privata in camera e

a un’altra nella cappella di corte, quindi si dedicava al pranzo: carni in abbondanza, salumi affumicati e salsicce, ma anche trote, pasticci di anguilla, acciughe di Andalusia e ogni varietà di dolci, concludendo spesso con i suoi amati meloni.

Pasti in solitudine Quando non doveva presenziare a banchetti ufficiali – una vera tortura per un uomo la cui masticazione sembrava quasi una smorfia e che doveva continuamente chiudersi la bocca con una salvietta per non far uscire i bocconi – preferiva mangiare da solo nei suoi appartamenti. Prima dell’ora del vespro si ritemprava con una robusta merenda e un paio d’ore dopo si dedicava con avidità alla cena, seguita talvolta da un dopocena musicale durante il quale i valletti gli servivano timballi, polpettine, dolciumi e amuse-gueules che Carlo V ingeriva quasi interi. Molti di questi particolari sugli stravizi dell’imperatore – unico difetto visibile e documentabile di un uomo rigorosissimo con se stesso e con gli altri – li dobbiamo ai pettegoli ambasciatori della Serenissima (Contarini, Navagero, In alto, sulle due pagine Filippo II di Spagna a banchetto con la famiglia e la corte (o Festa reale), olio su tela di Alonso Sánchez Coello. 1579. Varsavia, Museo Nazionale. Nel dipinto compare anche Carlo V, primo, a destra (a cui un paggio versa del vino). A sinistra busto in alabastro di Carlo V. 1530-1535 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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Da Ponte, Mocenigo, ecc.), interessati frequentatori della sua corte, che, di volta in volta, si spostava dalla Spagna alla Germania e nelle Fiandre. Dagli stessi sappiamo della sua grande passione per la caccia, di come la sua vista limitata lo inducesse a sparare a qualsiasi cosa si muovesse alla sua portata e di come esigesse che le prede abbattute fossero portate al piú presto nelle cucine per essere servite la sera stessa, senza la benché minima frollatura. Altri dettagli li troviamo nelle cronache dei banchetti offerti in suo onore nel corso dei numerosi viaggi di cui fu costellata la sua vita. Come quello registrato in occasione del suo soggiorno in terra vicentina, a Montecchio, il 3 novembre 1532 febbraio

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che consisteva di: «nove botti di ottimo vino, nove grandi ceste di pane candido e fresco, sei buoi grassissimi e dodici vitelli già macellati, cento paia di pernici, altrettante di capponi e di galline, quattordici paia di pavoni, altrettanti fagiani e due galli selvatici; il tutto adorno di bandiere e festoni intrecciati». Inutile precisare che i suggerimenti del suo consigliere spirituale, il cardinale Loyasa, che gli scriveva di astenersi «dal mangiare cibi contrari alla sua salute», e ancor piú gli avvertimenti dietetici dei suoi medici («la gotta si cura sbarrando la bocca»), risultavano men che vani. Tutto ciò che poteva fare il suo entourage era alleviare le conseguenze di questa incontrollabile bulimia con quanto la scienza medica del Cinquecento metteva a disposizione per risolvere

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le sue continue infezioni dentarie, le indigestioni, le ulcere gastriche, le diarree, le emorroidi, gli attacchi di gotta, il diabete e, non ancora cinquantenne, l’asma che lo obbligava a passare le notti insonni «appoggiato ad una tavola col capo ritto per poter respirare».

L’abdicazione Carlo V trascorse cinquantadue dei suoi cinquantotto anni di vita su un trono, ma non riuscí a realizzare il suo disegno di unire l’Europa intera sotto un’unica bandiera, cattolica e soprattutto asburgica. Logorato nel fisico e nel morale, ma, soprattutto, afflitto da numerosi malanni, nel 1556, due anni prima di morire, dopo aver riconosciuto il diritto ai protestanti di professare la loro fede,

abdicò dividendo il suo immenso regno (quattro milioni di chilometri quadrati) fra il figlio Filippo e il fratello Ferdinando. Il suo volontario crepuscolo si consumò nel monastero spagnolo di Yuste, dove giunse il 3 febbraio 1557 con un seguito di cinquanta servitori e dodici cuochi. Lungo il percorso non riuscí a trattenersi da una solenne scorpacciata di frutti di mare che obbligò il corteo imperiale a una «sosta di sollievo». Il giorno dopo, tuttavia, Carlo ebbe il coraggio di affrontare un copioso pranzo a base di selvaggina e vino. Fu stroncato dagli esiti di un’insufficienza renale di natura gottosa il 21 settembre del 1558, stringendo al petto, o forse sullo stomaco, l’immancabile crocifisso.

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Lo scaffale Laurent Feller, Paolo Grillo e Maddalena Moglia (a cura di) Donne e povertà nell’Europa mediterranea medievale Viella, Roma, 254 pp.

28,00 euro ISBN 9788833138541 www.viella.it

Frutto di un convegno organizzato dall’Università degli Studi di Milano, il volume affronta i molteplici aspetti della povertà femminile a partire dall’età

carolingia, epoca per la quale le fonti normative offrono le prime informazioni sull’argomento, tutelando i poveri e le donne in difficoltà, la cui difesa veniva percepita come uno dei doveri precipui dell’autorità regia. La vedovanza rappresentava una delle cause di povertà se non c’erano altre entrate derivanti da attività intraprese dalle donne in prima

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persona: recuperare la dote era difficile e spesso non bastava. Ciononostante, le vedove erano animate da una notevole conoscenza dei propri diritti e da una strenua capacità di difendersi dai soprusi (Catalogna, XIV secolo). D’altra parte, quando il nucleo familiare era oppresso dall’indigenza, e il capofamiglia non era in grado di sostentare moglie e figli perché anziano o disabile, non raramente era la consorte a subentrare, lavorando o mendicando, per racimolare il necessario alla sopravvivenza. Altre volte le madri mantenevano figli adulti e malati, o le figlie ospitavano e sostentavano le madri anziane (Macerata, XV secolo). Orfane e donne sole, continuamente oggetto di abuso fisico, economico o psicologico, pur nella loro vulnerabilità, mantenevano una eccezionale coscienza dei propri diritti, unita alla capacità di farli valere, intraprendendo cause o indirizzando suppliche al signore per ottenere giustizia (Bologna, XIV secolo). La condizione delle schiave era talvolta

migliore di quella delle donne libere, perché i proprietari facevano di tutto per tutelare l’ingente investimento affrontato acquistandole. Non raramente si schiudevano loro possibilità di ascesa sociale impensate, grazie ai vincoli affettivi instaurati con le famiglie per cui lavoravano (Firenze, XV secolo). Già fra Duecento e Trecento era previsto il riconoscimento della paternità e la corresponsione degli alimenti alle donne sole con prole illegittima (Genova). Se dunque non mancavano le situazioni di indigenza estrema, non mancava neppure la capacità di reagire, mentre le reti di parentela, amicizia, conoscenza potevano rivelarsi fondamentali per la carriera della prole di vedove di modesta condizione (Treviso, XV secolo). Le fonti normative, le suppliche di argomento fiscale e giudiziario (XIV e XV secolo, Macerata, Bologna, Siena), gli estimi con le dichiarazioni fiscali fatte dai contribuenti (Treviso, XV secolo), gli atti notarili, costituiscono la documentazione

utilizzata per far luce su un argomento assai difficile da indagare. Maria Paola Zanoboni Francesco Barbaro De re uxoria

a cura di Claudio Griggio e Chiara Kravina, Leo S.

Olschki Editore, Firenze, 426 pp., 8 tavv. col.

55,00 euro ISBN 978-88-222-6728-3 www.olschki.it

Esponente di una illustre famiglia del patriziato veneziano, l’umanista Francesco Barbaro (1390-1454) è a Firenze nel 1415 e, rientrato da quel soggiorno, compone il De re uxoria a cui è ora dedicato il volume curato da Claudio Griggio e Chiara

Kravina. L’opera gli fu ispirata dalle nozze fra Lorenzo di Giovanni de’ Medici e Ginevra Cavalcanti e, nelle intenzioni del suo autore, voleva appunto porsi come una riflessione sul matrimonio, sui rapporti personali

e patrimoniali fra i coniugi, con un’attenzione particolare per lo status giuridico della donna. Questa sua nuova edizione è accompagnata da un poderoso apparato critico, che traccia i caratteri e, soprattutto, evidenzia il notevole portato ideologico e filosofico del De re uxoria, che, come scrivono i curatori del volume, «rappresenta un vero e proprio unicum nella produzione letteraria del primo Quattrocento italiano». Il testo di Barbaro, del quale viene proposta la versione originale in latino affiancata dalla traduzione in italiano, è dunque preceduto dall’ampia analisi sul suo siginficato e sulla sua ricezione e seguito dalle pagine dedicate al commento dei vari capitoli in cui il trattato si articola. Stefano Mammini Duccio Balestracci, Marilena Caciorgna, Enzo Mecacci (a cura di) Sguardi su Dante Conferenze tenute in occasione del VII centenario della morte Accademia Senese degli Intronati, Siena, 144 pp., 20 ill. col.

10,00 euro ISBN 978-88-89073-47-6 www.accademiaintronati.it

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Sono pressoché infiniti gli spunti che la vicenda personale e l’opera letteraria di Dante Alighieri sono ancora oggi in grado di offrire e una significativa conferma viene, fra le tante, dalla pubblicazione delle conferenze organizzate dall’Accademia Senese degli Intronati per celebrare il settimo centenario della morte del poeta. Grazie ai contributi presentati dagli autorevoli

della Commedia ebbe con Siena e con i suoi abitanti. Fino a interrogarsi sulle ragioni per le quali la lezione dantesca sia stata fatta propria da molti dei piú grandi poeti italiani del Novecento. S. M. La Divina Commedia

raccontata da Arianna Punzi, illustrata da Desideria

Guicciardini, Edizioni Lapis, Roma, 257 pp. , ill. col.

14,90 euro ISBN 978-88-7874-821-7 www.edizionilapis.it

Nell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle, il settecentenario dantesco ha riportato alla ribalta la Divina Commedia: ma, al di là di ricordi scolastici piú o meno labili, quanto studiosi invitati dalla prestigiosa istituzione è stato possibile comporre un’antologia variegata e di grande interesse, nella quale alle riflessioni di carattere letterario si affiancano considerazioni di taglio piú storico, come nel caso delle analisi sulla situazione politica in cui si inserirono, nel 1921, i festeggiamenti per il sesto centenario della morte di Dante o sul rapporto che l’autore

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volume ideato da Arianna Punzi e assai ben illustrato da Desideria Guicciardini. Si tratta, infatti, di un riassunto in prosa dell’intero poema, che permette di ripercorrere il viaggio immaginario del poeta dall’Inferno al Paradiso. L’opera è stata pensata soprattutto a beneficio dei ragazzi, ma, in realtà, è in grado di soddisfare anche il pubblico degli adulti: l’efficacia delle sintesi e la chiarezza dello stile ne fanno una lettura davvero godibile. S. M. Hugo Brandenburg Le prime chiese di Roma IV-VII secolo

Editoriale Jaca Book, Milano, 368 pp., ill. col. e b/n

50,00 euro ISBN 978-8816-60646-3 www.jacabook.it

è effettivamente conosciuto questo autentico monumento della letteratura italiana? Ed ecco allora che può tornare davvero utile questo

Torna in libreria un’opera fondamentale per conoscere la storia e l’architettura delle prime chiese di Roma, monumenti che costituiscono un tassello di eccezionale importanza nel patrimonio storicoartistico dell’Urbe. Brandenburg, fra i piú autorevoli studiosi della materia,

Luca Nannipieri Il destino di un amore Tiziano Vecellio e Cecilia

Skira Editore, Milano, 121 pp.

15,00 euro ISBN 978-88-572-4704-5 www.skira.net

articola la sua rassegna secondo un criterio cronologico e la trattazione si apre perciò con le fondazioni a cui si mise mano in età costantiniana, all’indomani dell’editto promulgato dall’imperatore nel 313. Accompagnato da un ricco corredo iconografico il viaggio, si snoda nel centro della città – dove si concentra il numero piú consistente di attestazioni –, ma non soltanto, come nel caso delle basiliche sorte al di là delle mura (per esempio, S. Lorenzo o S. Paolo) o lungo le strade consolari, come la basilica a deambulatorio della via Ardeatina. Chiude il volume un utile apparato documentario, che mette a disposizione del lettore piante, rilievi, assonometrie e foto di dettaglio dei complessi descritti. S. M.

Pubblicato in occasione della mostra dedicata a Tiziano che si apre in questo mese a Milano, in Palazzo Reale, il volume ricostruisce, in forma di romanzo, la storia di uno dei

piú celebri dipinti del maestro veneto: la Venere di Urbino, realizzata nel 1538 e oggi custodita agli Uffizi di Firenze. La giovane ritratta nella tela andrebbe infatti identificata con Cecilia Soldani, moglie del pittore, che morí di parto nel dare alla luce il loro terzo figlio: esito tragico della vicenda che costituisce l’ossatura del libro. S. M. febbraio

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