Medioevo n. 300, Gennaio 2022

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MEDIOEVO n. 300 GENNAIO 2022

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SOMMARIO

Gennaio 2022 ANTEPRIMA AMORI MEDIEVALI Un «dolcissimo incantesimo»

62

di Federico Canaccini

5

ITINERARI Quel «campo colonico» scolpito nella pietra

8

di Marco Ambrogi

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

14

STORIE

COSTUME E SOCIETÀ

ARCHEOLOGIA Scoperte a Sidone I crociati di re Luigi di Elena Percivaldi

24

VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/1 Buffalmacco pittore goliardico

PERSONAGGI

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Un Olandese sul soglio di Pietro 34

OLTRE LO SGUARDO/10

Adriano VI

di Aart Heering

34

La Ruota della Fortuna Come un grande occhio di Furio Cappelli

62

74

74 LUOGHI

CALEIDOSCOPIO

GENOVA

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Il fatale proselitismo di Sebastiano 108

Palazzo San Giorgio

Quando Genova dominava il mondo

di Giacomo Montanari

50

di Paolo Pinti

LIBRI Lo Scaffale

Dossier GRAAL. ALLE ORIGINI DELLA LEGGENDA

a cura di Roberto Roveda

112

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D

VIV E DI ER CAM BO E A E CC L T RO AC EM N CIO PO

MEDIOEVO n. 300 GENNAIO 2022

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Hanno collaborato a questo numero: Marco Ambrogi è Direttore dei Musei della Diocesi di TeggianoPolicastro. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Aart Heering è giornalista. Giacomo Montanari è ricercatore di storia dell’arte moderna all’Università di Genova. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Roberto Roveda è cultore della materia in storia medievale all’Università di Bergamo. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

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MEDIOEVO Anno XXVI, n. 300 - gennaio 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI)

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Album/ Prisma: copertina; Erich Lessing/Album: pp. 31, 104-105; Mithra-Index/Heritage Images: p. 33; AKG Images: pp. 40, 42, 46, 53, 100/101, 102; Zuma Press: p. 41; Fototeca Gilardi: pp. 64-65, 72, 98/99, 103, 106 – Doc. red.: pp. 5, 32, 34/35, 36 (alto e centro), 37, 38-39, 44-45, 62/63, 66-71, 80-81, 82, 84/85, 87, 88, 90-97, 101, 109, 111 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 8-12, 29 (alto), 36 (basso), 83, 108, 110 (alto), 111 (basso) – Shutterstock: pp. 24/25, 43, 74-79, 99 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 25 – Cortesia Plos One: pp. 26-27, 28 – The Morgan Library & Museum, New York: p. 29 (basso) – Cortesia Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale, Genova: pp. 51, 52, 54-61 – Diocesi di Gubbio: p. 110 (basso).

Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

Impaginazione Alessia Pozzato

In copertina miniatura raffigurante una scena d’amore nella pagina del Codice Manesse dedicata al poeta lirico Konrad von Altstetten. 1310-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Prossimamente al tempo del decameron

Giudici, medici e notai

oltre lo sguardo

dossier

Gli «esseri viventi» dell’Apocalisse

San Valentino


amori medievali di Federico Canaccini

Un «dolcissimo incantesimo» Con questo primo numero del Nuovo Anno «Medioevo» compie il suo trecentesimo mese. Un traguardo che desideriamo festeggiare nel modo piú «sentito» possibile, offrendo a voi lettori la prima di una serie di dodici storie d’amore – vere o di fantasia – ambientate nell’età di Mezzo: incontreremo sovrani che perdono la testa per cortigiane o serve, leggeremo di amori proibiti finiti in tragedia e di altri che si risolvono in un lieto fine. Questi racconti ci accompagneranno per tutto l’anno per ricordarci che, in fondo, anche nel Medioevo l’amore era... trionfante!

U

na delle storie d’amore piú incredibili del Medioevo è quella fra Giustiniano e Teodora. La scintilla scoccò nel 526, quando lui aveva 42 anni e Teodora era una ventenne che si esibiva in locali animati da musica, in cui le belle donne facevano certamente la loro parte. La carriera di Teodora era in realtà iniziata al circo. Suo padre, addetto agli orsi, era stato licenziato e cosí la giovane iniziò a esibirsi in spettacoli in cui compariva quasi completamente nuda: lo storico greco Procopio ne celebra bellezza, la carnagione chiara e gli occhi vivaci. Le maldicenze su di lei non si contavano, ma la sua bellezza, la sua intelligenza e la sua ambizione l’avrebbero portata via da quella che lei stessa considerava una vita inadeguata: godeva di una fama pessima, tanto che a Costantinopoli si vociferava che incontrare Teodora all’alba avrebbe portato sfortuna per il resto della giornata. A salvarla da una vita dissoluta fu un certo Ecebolo, uomo ricco, ma molto piú anziano di lei, che la condusse in Cirenaica, regione di cui era governatore. Il rapporto durò poco e Teodora fu cacciata di nuovo a Bisanzio, dove, nel frattempo, era giunto Giustiniano, nipote dell’imperatore Giustino. Dopo alcuni incontri, sembra che il futuro imperatore si fosse innamorato della cortigiana, che rispose con slancio al sentimento del potente personaggio: a dispetto di Ecebolo, Giustiniano era prestante, gioviale e rivestiva ruoli di comando a corte. Procopio scrive che il suo carattere spesso violento e autoritario, si trasformò in una sudditanza psicologica

MEDIOEVO

gennaio

In alto miniatura raffigurante una scena d’amore nella pagina del Codice Manesse dedicata al poeta lirico Konrad von Altstetten. 1310-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria. In basso i ritratti di Giustiniano e Teodora nei mosaici della basilica ravennate di S. Vitale. 540-547. pressoché totale verso Teodora: un connubio fatto forse di grande passione, da parte di Giustiniano, e dell’amore di una donna dipinta come affascinante, ma anche calcolatrice. Celebrato nel 523, il matrimonio fu osteggiato dalla madre e dalla zia di Giustiniano, l’imperatrice Eufemia, che si appellò perfino a una legge che impediva a un senatore di contrarre nozze con attrici o cortigiane. La legge fu abrogata alla morte di Eufemia e i due poterono sposarsi: Teodora, la modesta danzatrice, divenne imperatrice nel 527 e governò al fianco del marito per 22 anni, intervenendo anche in ambito giuridico, per esempio su leggi che riguardavano le donne, il divorzio, l’adulterio o la prostituzione. L’intenso amore che uní la coppia traspare dagli incipit delle leggi promulgate, che iniziavano sempre con la formula «Io Giustiniano, con la onoratissima moglie che Dio mi ha dato» e nella quale l’imperatore ricordava che le scelte operate durante il suo governo erano state suggerite dal suo «dolcissimo incantesimo». Scampata a una prima ondata di peste, l’imperatrice morí nel 548, forse di cancro al seno, e Giustiniano non si risposò, celebrando con processioni in suo onore il ricordo della sua donna fatale fino al 565, anno in cui, ormai vedovo, cadde vittima di una nuova pestilenza.

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ANTE PRIMA

Quel «campo colonico» scolpito nella pietra ITINERARI • Memore di

una lunga storia connessa alla vita contadina medievale del Vallo di Diano, un inedito Ciclo dei Mesi conservato a Teggiano, nel Salernitano, sorprende per l’arcaicità e l’iconografia

T

eggiano (Salerno), città che meraviglia a ogni angolo del suo reticolo urbano medievale, per la ricchezza delle testimonianze artistiche e monumentali e per l’ampio e variegato atlante di spolia, diffuso in tutto il centro antico (vedi box a p. 11), riserva la sorpresa iconografica che presentiamo in queste pagine: un frammentario Ciclo dei Mesi poco noto alla critica. I rilievi medievali appaiono al visitatore che si avventuri per le strade del centro cittadino nei pressi della chiesa di S. Benedetto, inseriti in un paramento murario d’età moderna; già nell’Ottocento

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lo storico Stefano Macchiaroli li aveva individuati come un «campo colonico scolpito nel marmo». Una prima segnalazione scientifica fu opera di Biagio Cappelli, in un saggio apparso sulla Rassegna Storica Salernitana, nel quale l’autore trattava di temi medievali in vari frammenti, già

In questa pagina Teggiano (Salerno). Due immagini delle lastre che compongono il Ciclo dei Mesi oggi inglobate nella muratura di casa Matina-Bruno. Nella pagina accanto, a sinistra la lastra con l’immagine di Maggio, impersonato da un cavaliere che tiene un falco. Nella pagina accanto, in alto la scultura nota come Cavaspina o Spinario. gennaio

MEDIOEVO


L’abnegazione di un corriere Un misterioso personaggio si presenta incastonato nel muro esterno della chiesa cattedrale, il cosiddetto Cavaspina o Spinario, raffigurato in posizione seduta con la gamba destra piegata e appoggiata sull’altra coscia. La scultura rappresenta nell’iconografia medievale il primo mese di primavera ed è un personaggio maschile seduto, raffigurato nell’atto di prendersi cura del proprio piede. Il critico periodo di passaggio che va da febbraio a marzo, dall’inverno alla primavera, sembrerebbe dunque rappresentato non solo dal piede che necessita cure, ma anche dai capelli scomposti e arruffati. Il significato allegorico è dunque particolare: pulirsi i piedi, estrarne una spina, può significare liberarsi da vecchie scorie, prepararsi a un contatto rinnovato con la natura e la madre terra. Predisporsi insomma, anche fisicamente, ad accogliere il nuovo anno e a entrare nel ciclico ritmo agreste della primavera. È verosimile che la scultura esterna della cattedrale di Teggiano possa legarsi in modo specifico ai rilievi dei mesi del palazzo Matina-Bruno, del cui assetto compositivo forse faceva parte, prima che i Dianesi la collocassero in bella vista, per fargli assumere la leggendaria connotazione di Marzio. Questi fu per secoli al centro di una leggenda del corriere locale, inviato a Roma da Teggiano; essendosi conficcata una spina nel viaggio di ritorno verso la terra natia, riuscí ad arrivare comunque a destinazione, per poi morire esausto, rappresentando cosí la determinazione nel portare a termine il compito assegnatogli. stilistico ipotetico appare lontano anche dalla scultura del magister Melchiorre, che nel 1271 compí l’ambone della chiesa cattedrale di S. Maria Maggiore, per cui è plausibile una realizzazione del Ciclo dei Mesi almeno agli inizi del XII secolo, in ambito culturale normanno-svevo.

Interpretazione per confronto

facenti parte di un grande portale con le rappresentazioni dei Mesi, che dovevano ricordare il fluire ininterrotto del tempo e, in una società essenzialmente agricola, la necessità del lavoro dei campi. Al di là del contenuto, non frequente nell’Italia meridionale, l’interesse dei frammenti è

MEDIOEVO

gennaio

dato dalla forma sia umana che bestiale, salda e potente, oltre che realisticamente condotta, come nella primitiva arte romanica, ma che richiama nei grandi occhi tagliati sulle tempie e nel naso puntuto fisionomie vicine a quelle usate dagli scultori ionici dell’arcaismo greco. Un raffronto

È oggi impossibile proporre una completa e dettagliata descrizione iconografica delle lastre, soprattutto perché la mancanza di alcuni mesi – sono solo sette figure – rispetto a quelli parzialmente celati dall’intonaco, non permette una collocazione attendibile in sequenza delle figurazioni. In area padana questo ciclo scultoreo offre una sequenza delle illustrazioni con decifrazioni simboliche, che permette di stabilirne un’interpretazione attendibile anche per il ciclo di Teggiano, forse un tempo classificato in forma di portale, con le decorazioni collocate sugli

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ANTE PRIMA

stipiti e sull’architrave, oppure in una trabeazione longitudinale o quantomeno rettilinea.

Riposo e tempo di guerra Alquanto enigmatica, ma curiosa, è la scena in cui sono raffigurati due personaggi, l’uno giovane a sinistra, l’altro vecchio a destra; il primo è nudo, in piedi e mostra le pudende ben in evidenza, mentre con la mano destra sorregge un paniere con frutti, quasi a volerlo riversare in un altro recipiente, piú grosso, al quale attinge il personaggio anziano, che a differenza del primo è vestito e seduto. La scolpitura del volto del canuto personaggio è confusa nel tratto in cui la barba dell’uomo si mischia al frutto di

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cui si ciba e che sembra differente da quello contenuto nel paniere del giovane. I tratti scultorei sono indefiniti in alcuni punti della lastra, mentre lasciano posto a marcature in rilievo di particolari, ben delineate, come il risvolto dei pantaloni e le scarpe dell’anziano. Il frutto al quale attingono i due segna il tempo del riposo, ma anche del passaggio e il mese potrebbe essere Gennaio, il tempo sacro a Giano bifronte, in cui l’anno vecchio (vestito e maturo), cede il passo al nuovo (giovane, nudo e virile) e la mediazione avviene tramite il cibo a cui tendono entrambi. Gennaio è il mese del riposo, dei banchetti in ricordo delle feste pagane, per cui nessuna attività è prevista nel

soggetto, a differenza delle altre sculture, in cui ogni figura è intenta a svolgere un ruolo lavorativo. Nelle raffigurazioni tipiche del mese compare spesso un uomo ben vestito, quasi un re, seduto a tavola, altre volte è lo stesso Giano a manifestarsi in celebri sculture, con la doppia testa, che guarda al vecchio e al nuovo anno; a Teggiano, questa immagine è risolta con le due forme, un volto guardava al passato, l’altro all’avvenire. Il piú bel rilievo incastonato nella parete esterna di casa MatinaBruno è indubbiamente il cavaliere con astanti in secondo piano, inequivocabilmente associato a Maggio, il mese dei gentiluomini, in analogia con le rappresentazioni gennaio

MEDIOEVO


I segni del reimpiego Un breve giro per le strade e i vicoli della città permette di cogliere un aspetto storico molto importante per Teggiano, una consistente pratica di reimpiego di materiali e di sculture del periodo romano, medievale e moderno, nelle mura di chiese e palazzi. Dalla parete in palinsesto della chiesa di S. Andrea, alle edicole funerarie della cattedrale di S. Maria Maggiore, passando per l’imprevedibile ripartizione della chiesa di S. Pietro, è tutto un susseguirsi di materiali di spoglio, che enumerano a oltre settanta singoli pezzi. Molti, se si considera la grandezza di un centro storico di provincia, quasi a evocare l’importanza della città in ogni epoca storica. Anche le dimore gentilizie e il castello dei Sanseverino, conservano spolia ed elementi di reimpiego, tra cui primeggiano le edicole funerarie (altre sono raccolte nel Museo Lapidario) e le tabule lusoriæ, di forma e tipologia differente. Numerosi anche i fregi funerari romani, di cui alcuni presenti nella frazione rurale di San Marco, nella quale si può ammirare anche lo stupendo mosaico romano, collocato al di sotto della torre campanaria della chiesa omonima.

Sulle due pagine, da sinistra i mesi di Agosto (brocca per il mosto), Giugno (raccolta della frutta o forse dell’uva) e Ottobre (la semina) e due edicole funerarie di epoca romana inserite nella muratura di un piú moderno edificio. celebri d’area padana. La lastra è svolta con dettagli realistici degni di nota; il cavaliere nudo, rivolto all’indietro verso la teoria di personaggi sulla sinistra, sostiene un falco nella mano destra e una palma nell’altra, mentre allunga il collo quasi a voler dare ascolto o voce alle altre figure. Il cavallo è provvisto dei finimenti necessari alla cavalcatura e si colloca in un campo con alte felci; le due figure sulla sinistra, con corta tunica e pantaloni, sembrano offrire qualcosa al cavaliere, in forma di omaggio, segno di un rango sociale elevato del personaggio. Maggio è il momento della raccolta del foraggio per gli animali, ma nel Medioevo era anche il periodo di preparazione per

MEDIOEVO

gennaio

le campagne primaverili di guerra, tempo in cui i migliori cavalieri si addestravano e si attrezzavano per le loro avventure in battaglia.

Il duro lavoro nei campi La raccolta dei frutti di Giugno caratterizza uno dei rilievi piú grandi e completi dell’apparato iconologico di casa Matina-Bruno. Un uomo vestito e con alti stivali tiene un cesto sulle spalle e un altro nella mano destra, in cui si intravedono frutti o forse dell’uva

(?), rimandando cosí al mese di settembre. La particolarità della lastra è nella differente forma dei panieri: tondo, corposo e con frutti, quello nella mano, a forma di secchio e piú allungato, l’altro sulla spalla. Anche qui il raffronto con temi celebri rimanda al mese di giugno, in cui era frequente raccogliere frutti dagli alberi; in altre raffigurazioni è la mietitura a tenere banco, con personaggi accompagnati dalla falce. Una grande brocca ansata, con

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ANTE PRIMA Da leggere Stefano Macchiaroli, Diano e l’omonima sua Valle, Gabriele Rondinella Editore, Napoli 1868 Biagio Cappelli, Note su alcuni monumenti medievali di Tegiano, in Rassegna Storica Salernitana, XIX-1958, pp. 97-98 Arturo Didier, Teggiano medioevale. Ricerche Storiche, Cantelmi, Salerno 1965 Marco Ambrogi, Il Museo e la Città. Itinerari storico-artistici alla scoperta del Museo Diocesano e del suo rapporto con Teggiano, Quaderni del Museo Diocesano, Teggiano (Sa) 2016 Rilievo raffigurante il magister Melchiorre, al quale si deve l’ambone della cattedrale di Teggiano, intitolata a santa Maria Maggiore. 1271. marcature lineari al centro e beccuccio di versatura sulla sinistra, viene sostenuta da una figura alta quanto lo stesso contenitore, la cui visibilità è occlusa dal canale di gronda dell’abitazione. L’iconografia pare rimandare al mese di Agosto, tempo in cui i contadini preparavano le botti per la prossima vendemmia. La brocca dovrebbe quindi alludere al contenitore per il mosto, sebbene palesemente sproporzionato rispetto alla figura contigua, che compare nuda e in posizione defilata, con un fisico asciutto, dalle vertebre pronunciate e dalle gambe lunghe. Una particolarità della scolpitura riguarda l’attacco superiore dell’ansa alla brocca, con una terminazione a bocca aperta di serpente e con richiamo metaforico alla presenza dei rettili nel mese estivo. L’uomo nudo nella lastra ruotata, con uno strumento nella mano destra e con l’altra sollevata, rimanda alla pratica della semina. Difatti, mentre il braccio alzato è

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spinto a lanciare i semi sul terreno, la mano sostiene quello che nel dialetto locale è individuato come il «chiantaturo», un bastone corto in legno con l’estremità orizzontale in forma di tau. Qui la pratica seminatoria ha duplice significato e anche doppia interpretazione, perché se la semina di grano e di cereali rimanda al mese di Ottobre, la piantatura di ortaggi, tuberi, ecc., rinvia sia al mese di Marzo, che allo stesso periodo ottobrino.

Frammenti inediti Il rilievo con l’animale accovacciato è quello di piú complicata identificazione, perché la testa non è visibile e per la completa mancanza di attributi. La particolare robustezza della bestia e le zampe posteriori tozze e corte sembrano appartenere al corpo di un suino, rinviando cosí l’allegoria della lastra al mese della macellazione del maiale, ossia Novembre, come accadeva nel periodo medievale. Il mese di Dicembre potrebbe esser

rappresentato dal frammento dell’uomo con l’ascia, di cui si intravedono la sola testa e lo strumento di lavoro, in alto rispetto alle altre sculture. La fase lavorativa, associata all’ultimo mese dell’anno, riporta al taglio dei boschi. È probabile che la lastra scolpita possa avere dimensione maggiore di quella visibile, celata sotto l’intonaco di casa Matina-Bruno. A completare il quadro di spolia del palazzo teggianese è la base modanata di un’ara romana, simile ad altre rinvenibili nel centro storico e forse elemento originario del ciclo dei mesi nella sua configurazione primigenia. Nel Museo Lapidario Dianense è poi conservato un inedito altorilievo su lastra in pietra di Teggiano, che ripropone una figura di un contadino che pare sostenga qualcosa sulle spalle, un fascio di foglie, di fiori o di spighe, oppure un agnello, come pastore crioforo, di rimando forse al mese di Aprile. Marco Ambrogi gennaio

MEDIOEVO



AGENDA DEL MESE

Mostre FIRENZE «…PER FARE NOTOMIA». IL CRISTO ANATOMICO DI RAFFAELLO NELLA BIBLIOTECA MARUCELLIANA DI FIRENZE Biblioteca Marucelliana fino al 7 gennaio

Protagonista del progetto espositivo è uno straordinario disegno giovanile di Raffaello mai indagato compiutamente fino a oggi. Tra i piú precoci approdi noti della personalità di Raffaello disegnatore, il foglio è databile agli anni piú avanzati del periodo fiorentino (1504-1508) e rappresenta un raro esempio di Cristo crocifisso in écorché, ovvero in dissezione superficiale. Trascendendo i confini delle

indagini storico-artistiche di orizzonte raffaellesco, il foglio dichiara indiscutibili elementi di trasversalità e ragioni di dialogo con l’ambito teologico, ma soprattutto con la storia della medicina e la tradizione degli studi anatomici. L’opera è inserita in un percorso articolato cronologicamente dal XV al XVII secolo. Incunaboli, cinquecentine, trattati di celebri anatomisti, oltre a stampe e disegni, narrano, sotto molteplici punti di vista, il legame nella pratica dissettiva tra medicina e arte, tra scienza, filosofia e storia dell’arte. info www.maru.firenze.sbn.it

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MODENA DANTE ILLUSTRATO NEI SECOLI. TESTIMONIANZE FIGURATE NELLE RACCOLTE DELLA BIBLIOTECA ESTENSE UNIVERSITARIA Biblioteca Estense Universitaria, Sala Campori, Gallerie Estensi fino all’8 gennaio

La Biblioteca Estense presenta una mostra unica per la ricchezza del suo fondo dantesco, tra i piú prestigiosi esistenti in Italia e forse nel mondo, attingendo allo straordinario patrimonio relativo al poeta. Allestita nella sala Campori, la rassegna presenta cimeli di estrema rarità, dai manoscritti alle opere a stampa, documenti dalle caratteristiche preziose e diversissime che permettono di ripercorrere l’intera storia del «Dante figurato», compreso un video realizzato ad hoc dall’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dalla sequenza quasi cinematografica di acquarelli papyrus style nel margine superiore di tutti i fogli del celebre Dante Estense, alle xilografie delle prime edizioni a stampa, alle rappresentazioni di Gustave Doré, Francesco Scaramuzza, William Blake, fino ai recenti Salvator Dalí e Renato Guttuso, passando per le «imagini» di Amos Nattini, il materiale custodito presso la

a cura di Stefano Mammini illustrando un capitolo della storia secolare del commento e della «fortuna» di Dante Alighieri, oltre che della storia del libro e, piú in generale, dell’arte figurativa. info www.gallerie-estensi. beniculturali.it PAVIA IMMAGINI IN CANTO. I CORALI DELLA CERTOSA DI PAVIA Biblioteca della Certosa fino al 9 gennaio

Un doppio, eccezionale appuntamento alla Certosa di Pavia. Si tratta dell’esposizione di uno dei tesori meno noti del Museo statale della Certosa, i sontuosi graduali miniati cinquecenteschi. Altro evento nell’evento è l’apertura, per l’occasione, del locale della Biblioteca, un ambiente tuttora di pertinenza del monastero e che, per questo particolare evento, la comunità monastica ha messo a disposizione per accogliere il pubblico davanti ai corali che per secoli vi sono stati conservati. Questi ultimi non erano libri a uso personale, ma collettivo: il codice veniva aperto, e via via sfogliato, su un alto leggio al centro del coro, in modo che tutti monaci potessero, dai loro stalli, seguirne i testi e le annotazioni musicali, ammirandone anche gli

dicembre 1782, al momento della sua soppressione. Da quel momento iniziò la diaspora di uno dei grandi giacimenti librari lombardi. La Biblioteca della Certosa riuniva, infatti, piú di 10mila volumi, tra codici miniati, manoscritti e incunaboli. Un insieme unico che prese in parte la via della biblioteca Braidense di Milano, in parte di quella Universitaria di Pavia disperdendosi poi lungo rivoli ancora in parte ignoti. Era un patrimonio di grande ricchezza anche in termini di qualità, poiché sui volumi piú antichi furono al lavoro i maggiori artisti e miniatori attivi per la corte dei Visconti prima e degli Sforza poi, grandi protettori del monastero pavese. info www.musei.lombardia. beniculturali.it BELLUNO ACQUA FERRO FUOCO. ARTE DELLE SPADE NEL BELLUNESE Museo Civico fino al 9 gennaio

Biblioteca Estense, rappresentativo – nella sua ricchezza – dell’immensa produzione dantesca, riesce a documentare i diversi modi di leggere la Divina Commedia,

sfavillanti decori. Di questi colossali codici la ricca Certosa pavese ne vantava almeno 39, come ricorda l’inventario dei beni del monastero redatto il 16

Nel 1578, a Belluno, il mercante inglese Lancillotto Rolanzon, residente a Venezia, e il gentiluomo Giovanni Brone, suo conterraneo, stipularono un contratto con i maestri spadai Andrea e Zandonà Ferrara per la fornitura di 7200 spade all’anno, per i successivi dieci anni. Il gennaio

MEDIOEVO


documento attesta l’esistenza, alla fine del Cinquecento, di un’attività molto importante, per il volume di spade che una sola fucina era in grado di assicurare e per il mercato di riferimento di questa attività, che, varcando i confini della Serenissima e aprendosi all’Europa, poteva competere con i piú famosi centri spagnoli e tedeschi. Una realtà protagonista della

mostra allestita nel Museo Civico bellunese, il cui percorso segue la filiera produttiva dall’estrazione del minerale di ferro nelle miniere, alla prima lavorazione nei forni e nelle fusine grosse, alla produzione delle lame nelle fucine da spade, per gettare uno sguardo alla commercializzazione e all’uso delle armi nella società del tempo. info tel. 0437 956305 TORINO IL RINASCIMENTO EUROPEO DI ANTOINE DE LONHY Torino, Palazzo Madama, Sala Senato fino al 9 gennaio

L’esposizione punta a ricomporre la figura di Antoine de Lonhy, un artista poliedrico – era pittore, miniatore, maestro di vetrate, scultore e autore di disegni per ricami – che ebbe un impatto straordinariamente importante per il rinnovamento del

MEDIOEVO

gennaio

panorama figurativo del territorio del Piemonte nella seconda metà del Quattrocento. Venuto a contatto con la cultura fiamminga, mediterranea e savoiarda, fu portatore di una concezione europea del Rinascimento, caratterizzata dalla capacità di sintesi di diversi linguaggi figurativi. Lonhy visse e lavorò in tre Paesi diversi. Originario di Autun, in Borgogna, si formò sui testi della pittura fiamminga, tra Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. Prima del 1450 era già in contatto con uno dei piú straordinari mecenati di ogni tempo, il cancelliere del duca di Borgogna Nicolas Rolin, per il quale eseguí alcune vetrate istoriate, purtroppo perdute. Si conoscono poi le tappe del suo percorso attraverso l’Europa, che si concluse nel ducato di Savoia, dove lavorò per la corte e per numerose chiese e monasteri del territorio e dove si spense, probabilmente, prima della fine del secolo. Il percorso espositivo mette in evidenza i viaggi, gli spostamenti e la carriera itinerante attraverso l’Europa di un artista che nelle sue opere riuní insieme elementi e influssi dalla Borgogna, dalla Provenza, dalla

Catalogna e dalla Savoia. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it GUBBIO OTTAVIANO NELLI E IL ‘400 A GUBBIO. ORO E COLORE NEL CUORE DELL’APPENNINO Palazzo Ducale e Palazzo dei Consoli fino al 9 gennaio

L’arte caleidoscopica di Ottaviano Nelli è protagonista della mostra ospitata nei due luoghi espositivi piú emblematici di Gubbio, il Palazzo Ducale e il Palazzo dei Consoli. Per l’occasione sono state riunite le opere piú importanti del pittore eugubino, quali polittici, anconette e affreschi strappati e al contempo viene proposta una lettura del legame profondo dell’artista con la città e il territorio di cui fu espressione massima nel suo tempo. Formatosi nell’ambito della cultura tardo-gotica, Ottaviano di Martino Nelli (1375 circa-1444 circa) seppe fondere la tradizione locale con elementi desunti dalla pittura lombarda e dalla miniatura francese, sviluppando un linguaggio personale vicino alle soluzioni di Lorenzo Salimbeni e di Gentile da Fabriano. A Gubbio, dove venne ripetutamente nominato console della città, fu a capo di un’attivissima bottega che esercitò una certa influenza in Umbria e nelle Marche. Tematica centrale della mostra, pertanto, è quel Quattrocento eugubino di cui Nelli fu protagonista indiscusso. info www.mostranelligubbio.it FIRENZE LA MIRABILE VISIONE. DANTE E LA COMMEDIA

NELL’IMMAGINARIO SIMBOLISTA Museo Nazionale del Bargello fino al 9 gennaio

Negli spazi del Bargello è stata riunita una selezione di opere che, dalle correnti naturaliste agli influssi europei del simbolismo, illustrano lo straordinario catalogo di immagini che il poema dantesco era in grado di offrire al mondo dell’arte. La mostra è concepita come una narrazione tematica e interdisciplinare, all’interno della quale le opere formano una stringente sequenza che collega fra loro dipinti, sculture e rimandi concettuali e letterari impliciti nella vicenda biografica e poetica di Dante. L’esposizione, che nel titolo – «La mirabile visione» – rimanda agli studi danteschi di Giovanni Pascoli, è articolata in varie sezioni, dedicate alla scoperta del piú antico ritratto di Dante, opera di Giotto, nella cappella del Bargello (1840), alle suggestioni della Vita Nova nella seconda metà dell’Ottocento, ai grandi e tragici personaggi della Commedia rappresentati nell’ambito artistico internazionale, alle opere presentate al Concorso Alinari del 1901 e alle illustrazioni piú

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AGENDA DEL MESE motivo del suo riscatto che l’avrebbe risollevato dall’ignominia dell’esilio, iniziato nel 1302. Ed è probabile che in queste circostanze abbia scelto proprio Bologna come possibile nuova meta, atta a garantirgli le necessarie risorse per vivere e anche per studiare e scrivere. Una affini alla sensibilità simbolista, ma anche alla risonanza della Commedia nella produzione letteraria di Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio. info tel. 055 0649440; www.bargellomusei. beniculturali.it ROMA INFERNO Scuderie del Quirinale fino al 9 gennaio

Prima grande rassegna d’arte dedicata a questo tema, Inferno racconta la persistenza dell’iconografia del mondo dei dannati dal Medioevo ai nostri giorni. Accompagnati dalla parola dantesca, i visitatori attraverseranno i luoghi terrifici e le visioni laceranti dell’Inferno cosí come sono stati rappresentati dagli artisti di tutte le epoche, dalle schematiche scene medievali alle sublimi invenzioni rinascimentali e barocche, dalle tormentate visioni romantiche fino alle spietate interpretazioni psicoanalitiche del Novecento. Un’intera sezione sarà dedicata alle varie traslitterazioni dell’esperienza dell’Inferno in terra: la follia, l’alienazione, la guerra, lo sterminio. Oltrepassato il culmine del Male, la mostra troverà la sua conclusione con l’evocazione dell’idea di salvezza, affidata da Dante all’ultimo verso della cantica: e quindi uscimmo a

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riveder le stelle. Grazie al supporto straordinario della Biblioteca Apostolica Vaticana, per le prime settimane della mostra sarà concesso in prestito il capolavoro piú celebre ed emblematico di tale iconografia, la Voragine infernale di Sandro Botticelli. info www.scuderiequirinale.it BOLOGNA DANTE E LA MINIATURA A BOLOGNA AL TEMPO DI ODERISI DA GUBBIO E FRANCO BOLOGNESE Museo Civico Medievale fino al 9 gennaio

Richiamandosi al rapporto, intenso e fecondo, che Dante Alighieri ebbe in vita con la città di Bologna, le ragioni della mostra muovono dallo sguardo curioso e dalla attenta sensibilità critica che egli dovette rivolgere verso le arti figurative, di cui dimostrò di essere a conoscenza nei piú importanti sviluppi coevi al suo tempo. Il sommo poeta soggiornò a Bologna in piú occasioni: una prima volta probabilmente intorno al 1286-87, quando forse frequentò, come studente «fuori corso», l’Università. Piú prolungato dovette essere invece il secondo soggiorno, che lo vide trattenersi in città per almeno due anni, dal 1304 al 1306. Dopo aver lasciato Verona, e poi Arezzo, Dante ricercava ora nella scrittura e nello studio il

presenza che dovette consentirgli di entrare in contatto con alcuni di quei luoghi deputati alla produzione e alla vendita dei libri, dove probabilmente aveva avuto notizia dello stesso miniatore Oderisi da Gubbio di cui racconta l’incontro, tra i superbi, nell’XI canto del Purgatorio: ««Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi, / l’onor d’ Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’ all uminar chiamata è in Parisi?» / «Frate», diss’elli, «piú ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte»». info tel. 051 21939.16-30; e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; facebook: Musei Civici d’Arte Antica; twitter: @MuseiCiviciBolo; www.museibologna. it; instagram: @bolognamusei

MAR-Museo d’Arte della città di Ravenna fino al 9 gennaio

Dopo «Inclusa est flamma» e «Le Arti al tempo dell’esilio», «Un’Epopea POP» conclude il ciclo espositivo «Dante. Gli occhi e la mente» e mostra come la fortuna popolare di Dante cominci già nel Trecento per arrivare fino a quell’universo culturale che chiamiamo genericamente «pop». I suoi versi piú celebri, entrati nel linguaggio comune degli italiani, sono stati riprodotti in tutto il mondo negli almanacchi e nei calendari, nei poster e nelle magliette; li vediamo scritti nei muri; li riconosciamo nelle pubblicità e nelle canzoni. L’immagine del poeta è divenuta un’icona internazionale, dai monumenti nelle piazze, alla miriade di oggetti che la riproducono. Le storie e i personaggi del poema, soprattutto le atmosfere infernali, hanno generato le piú svariate manifestazioni creative. E la Commedia, tradotta in un centinaio di lingue, si è diffusa attraverso migliaia di edizioni popolari illustrate, commenti e riassunti, riduzioni cinematografiche e parodie televisive, album di figurine, giochi da tavolo, storie a fumetti e cartoni animati. Intrecciato all’intero progetto espositivo, si

RAVENNA DANTE. GLI OCCHI E LA MENTE UN’EPOPEA POP

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snoda inoltre un percorso d’arte contemporanea. info tel. 0544 482477; www.mar.ra.it CITTÀ DI CASTELLO RAFFAELLO GIOVANE A CITTÀ DI CASTELLO E IL SUO SGUARDO Pinacoteca Comunale fino al 9 gennaio

Raffaello nasce a Urbino nel 1483, al tempo in cui la città vive il suo massimo splendore grazie alla vivace attività culturale promossa dalla corte di Federico da Montefeltro. Rimasto orfano del padre a 11 anni, compare come maestro autonomo a Città di Castello nel dicembre del 1500, all’età di diciassette anni. Il 10 dicembre 1500 sottoscrive il contratto per la grande Incoronazione di San Nicola e, in soli quattro anni, riceverà la commissione per altre tre opere. In breve tempo, pendolare tra Città di Castello e Perugia, Raffaello compie un prodigioso processo di assimilazione e di acculturazione, mostrando da subito una straordinaria padronanza del disegno,

appresa in una sicura anche se elastica frequentazione della bottega di Pietro Perugino. Le prime opere di Città di Castello – l’Incoronazione di san Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Santissima Trinità, e la Crocifissione Gavari – sono dense di ricordi acerbi e riassuntivi della tradizione urbinate accanto a rielaborazioni della tradizione peruginesca e a novità della scena fiorentina. Alla fine del suo percorso umbro (1504), arriverà a traguardi di impressionante modernità nello Sposalizio della Vergine, magistrale nella fusione di una evoluta raffigurazione prospettica dello spazio con un naturalissimo racconto delle espressioni e del movimento delle figure. Un quadro di svolta che segnerà il compimento della sua giovinezza creativa, proiettando Raffaello verso le nuove sfide di Firenze e di Roma. info Poliedro Cultura: tel. 075 8554202; e-mail:cultura@ilpoliedro.org; www.cittadicastelloturismo.it

VENEZIA STELLE E VIAGGI 2. ESPLORAZIONI, ICONOGRAFIA, ASTRONOMIA A SAN MARCO NEL ‘200 Magazzino del Sale 3, Zattere fino al 15 gennaio

La mostra offre nuove e sorprendenti rivelazioni sul Ciclo dei Mesi e la cappella di S. Isidoro della basilica di S. Marco. L’eposizione si apre con la sezione I mercanti e il cielo: I «Quattro Mori» come non li avete mai visti. Le iconografie del secondo arcone del portale

FIRENZE maggiore di S. Marco, studiate con l’aiuto di nuove fotografie, modelli 3D, ricostruzioni video e ologrammi, offrono una visione approfondita e inedita: il Ciclo dei Mesi si rivela una sorprendente rappresentazione del cielo notturno ottica e calendariale, creata in accordo al cielo osservato, con gli astri e le costellazioni che si susseguono scandendo le ore e i tempi dell’anno. Le installazioni Policromia e possibili applicazioni metalliche, L’alba e il tramonto: effetti di luce, Il corso delle stagioni mettono in rilievo altri particolari del portale maggiore, come la preziosa policromia ora

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perduta, i supporti degli inserti metallici che tracciavano una mappa celeste, creando un effetto sontuoso. Segue la sezione Arcosolio Sant’Alipio. Sempre piú lontano: il viaggio delle Gemelle: in un bassorilievo della prima metà del Duecento, l’arcosolio della cappella di S. Isidoro, un sorprendente frammento ci parla della lontana Indonesia: una raffigurazione della costellazione dei Gemelli non all’occidentale, e cioè come due figure distinte di fratelli o di amanti, ma all’orientale, come una coppia di siamesi terminanti in una coda di pesce, accompagnati da due piccoli draghi-unicorno, ponendo i viaggiatori veneziani duecenteschi sull’orlo del Pacifico, piú lontano di quanto finora immaginato. Il percorso si conclude con Basilica di San Marco: col tempo sempre piú nuova, in cui domina un modello dell’esterno in fili di rame dove sono evidenziati i simboli astronomici. info www.accademiavenezia.it RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 16 gennaio

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti

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AGENDA DEL MESE consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it MILANO SCULTURE LIGNEE A CONFRONTO DALLE CITTÀ DUCALI DI VIGEVANO E MILANO Castello Sforzesco, Sala della Balla fino al 16 gennaio

L’iniziativa propone un duplice focus sul Compianto di San Dionigi e sull’Ancona di San Giuseppe provenienti da Vigevano, che, come Milano, ospitò un’importante corte sforzesca tra Quattro e Cinquecento. I due gruppi scultorei, posti a confronto con il cosiddetto Compianto di Casoretto, sono entrambi di imponenti dimensioni e presentano ancora tracce di una policromia antica.

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Il Compianto di San Dionigi è stato accostato negli anni passati all’opera del Maestro dei Compianti, un anonimo scultore di cultura artistica lombarda a cui sono state attribuite anche tre statue oggi conservate nel Castello Sforzesco, per l’occasione poste a confronto. L’Ancona di San Giuseppe, dalla chiesa della Madonna dei Sette Dolori di Vigevano era opera finora poco nota: le sue ingenti dimensioni e la collocazione in chiesa a notevole altezza da terra hanno fino a oggi impedito di apprezzare la qualità del modellato e di avanzare una ponderata valutazione stilistica e attributiva. Il recente restauro ha permesso di rilevare le notevoli finezze nell’intaglio e nella decorazione policromata con largo uso della tecnica del graffito su tempera e oro. L’ancona risulta essere il frutto del lavoro dei maggiori artisti dell’epoca: ai fratelli De Donati si attribuiscono le due statue di Giuseppe e Maria, mentre a Giovanni Angelo e Tiburzio del Maino e ai loro collaboratori si assegna l’esecuzione delle scene narrative e dei profeti, oltre alla carpenteria e quindi all’ideazione architettonica. info tel. 02 88463700; www.milanocastello.it

ROMA LA «BIBLIOTECA» DI DANTE Palazzo Corsini fino al 16 gennaio

Nell’opera dantesca, e nella Commedia in particolare, la tradizione della cultura classica, cristiana e medievale si ricapitola come in una summa: autori, libri, scuole di poeti e filosofi, enciclopedie, mitologie antiche e dogmi cristiani, scrittori canonici e autori piú eccentrici vengono tutti riattraversati dallo sguardo di Dante, che scrivendo il suo testo ne riscrive simultaneamente la tradizione

d’appartenenza. In tal senso sapere di quali letture, di quali libri, si siano materialmente nutrite la cultura e la fantasia poetica dell’Alighieri ha da sempre costituito un interrogativo profondo tanto per i critici che per i lettori per arrivare a una comprensione piú profonda della Commedia. Nella mostra sono dunque esposte per la prima volta tutte le opere da Dante esplicitamente citate e presumibilmente lette, quindi parte d’una sua «biblioteca», secondo i piú recenti accertamenti e secondo un percorso rappresentativo del suo iter intellettuale e poetico. Sono stati per lo piú selezionati codici dei secoli XIII e XIV,

ovvero libri che corrispondono alle tipologie manoscritte che Dante potrebbe aver praticato; e si possono inoltre ammirare codici provenienti dal fondo duecentesco della biblioteca di Santa Croce, il convento fiorentino che, secondo gli studi piú recenti, potrebbe aver ospitato la prima formazione del poeta. info www.lincei.it FABRIANO ALLEGRETTO NUZI E IL ‘300 A FABRIANO. ORO E COLORE NEL CUORE DELL’APPENNINO Pinacoteca civica Bruno Molajoli fino al 30 gennaio

Fabrianese d’origine e toscano di formazione, Allegretto Nuzi lavorò stabilmente a Fabriano dal 1347 fino alla morte nel 1373, creando un numero rilevante di opere diverse, dagli altaroli per il culto privato ai polittici di grandi dimensioni, a cicli affrescati. La qualità dei suoi fondi oro ebbe, da subito e ancora piú nei secoli successivi, uno straordinario successo e queste opere vennero contese da estimatori e collezionisti, finendo in musei e collezioni importanti non solo fuori da Fabriano ma anche dall’Italia, tanto che nel nostro Paese non restano dipinti di devozione individuale. E questa mostra riesce per la prima volta nella «impresa impossibile»: riportare a Fabriano una trentina di opere di Allegretto prestate per l’occasione, fra cui undici tavole da musei stranieri. Per dare contezza del singolare momento artistico fabrianese della seconda metà del Trecento, queste opere sono affiancate a sculture di altri artisti del territorio, sculture che nelle loro cromie, ma non solo, risentono in modo evidente dell’influenza di Nuzi e della sua scuola. gennaio

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info tel. 0732 250658; e-mail: oroecolore@comune.fabriano.an. it; www.pinacotecafabriano.it

PARMA UN SPLENDOR MI SQUARCIÒ ’L VELO. DANTE ILLUSTRATO DAL CODICE 3285 A SCARAMUZZA Complesso monumentale della Pilotta, Salone delle Scuderie fino al 13 febbraio

Voluto per valorizzare il patrimonio dantesco di 14 biblioteche e archivi storici in

conserva la magnifica raccolta di manoscritti, incunaboli ed edizioni rare dantesche, passione e vanto della ducea di Maria Luigia d’Asburgo. Questo prestigioso incarico diede spunto al pittore per una ulteriore impresa: illustrare l’intera Divina Commedia e già nell’anno del centenario, il 1865, a Firenze vennero esposte le sue tavole riguardanti l’Inferno. Nel 1876 Scaramuzza termina l’avvenutura titanica di illustrare l’intera Commedia, in tutto 243 cartoni a penna, che sono l’oggetto dell’esposizione a lui riservata alle Scuderie Ducali. info https://complessopilotta.it

ambito domestico, sono state ipotizzate delle altezze del tessuto abbastanza ridotte e compatibili con telai verticali, a pesi o a doppio subbio, utilizzati nel periodo di riferimento. L’altra metà degli abiti è stata realizzata

progetti per Piombino e i disegni riferiti ad architetture note come «la polita stalla» e la «città ideale»con risultati scientifici di sostanziale novità. Arricchiscono l’esposizione alcune riproduzioni dei manoscritti di Leonardo

CAMPELLO SUL CLITUNNO (PG)

impiegando una tela di cotone industriale proprio per sottolineare che il modello dell’abito riproposto è il frutto di contaminazioni scientifiche e di elaborazioni dei curatori. info e-mail ufficio. comunicazione@comune. campello.pg.it; www.longobardinitalia.it

provenienti dalla Biblioteca Leonardiana. Di grande fedeltà agli originali sono esposti i manoscritti B e L di Francia, i Codici di Madrid I e II e tre tavole tratte dal Codice Atlantico. info www.museoleonardiano.it

TRAME LONGOBARDE. TRA ARCHITETTURA E TESSUTI Palazzo Casagrande fino al 20 febbraio

cui l’autore della Commedia, dopo l’esilio, trovò la sua seconda patria, il progetto espositivo ha preso nome dal XXXII canto del Purgatorio e, nel sottotitolo, cita il contenuto dell’esposizione, vale a dire «il codice 3285» e il nome di Francesco Scaramuzza. Il codice è uno dei maggiori tesori della Biblioteca Palatina, capolavoro già appartenente ai Danti del Cento, ed è riconosciuto come una delle piú antiche trascrizioni della Commedia dantesca (risale ai primi del Trecento), dotato di uno straordinario apparato decorativo. Scaramuzza invece è l’artista parmense che eseguí i dipinti murali con tecnica a encausto a freddo tra il 1841 e il 1857, al fine di impreziosire con la sua opera la Sala Dante della Biblioteca Palatina, che

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Partendo da un lavoro che ha intrecciato insieme dati scientifici e ricostruzioni plausibili, la mostra-dossier propone un’accurata lettura delle tecniche antiche di tessitura attraverso la ricostruzione di tessuti, abiti e telai verosimilmente in uso tra VI e VIII secolo d.C. La ricostruzione dei tessuti e degli abiti, in particolare, rappresentano il filo conduttore che ci porta a conoscere piú da vicino il popolo longobardo partendo da quelli che erano gli oggetti e i manufatti che sono parte integrante della vita quotidiana. Tutti gli abiti sono stati realizzati per una metà con tessuti fatti rigorosamente a mano su telai orizzontali a licci riproducendo il numero dei fili di ordito e trama presenti al centimetro, nonché lo spessore degli stessi fili e le torsioni. Considerando che verosimilmente tali tessuti venivano realizzati da donne in

SPOLETO

LEONARDO E L’ARCHITETTURA Museo Leonardiano fino al 27 febbraio

TOCCAR CON MANO I LONGOBARDI Rocca Albornoz-Museo nazionale del ducato di Spoleto fino al 6 marzo

La mostra affronta alcune particolari tematiche legate agli interessi di Leonardo per l’architettura, documentati da numerosi disegni e annotazioni dispersi nei suoi manoscritti, talvolta sottovalutati o non compresi appieno. L’impiego delle più recenti tecnologie e di avanzate strumentazioni di rilevo e restituzione ha reso possibile gettare un nuovo sguardo su alcuni disegni e progetti leonardiani, consentendo la loro ricostruzione in forma fisica e tridimensionale. In particolare, sono state sottoposte a verifica le sue conoscenze di tecnica delle costruzioni, i suoi

Realizzata in collaborazione con il Museo Tattile Statale Omero di Ancona, la mostra offre la possibilità di ammirare contemporaneamente i sette monumenti del sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)», con l’obiettivo di far conoscere la straordinarietà e la complessità del sito Patrimonio UNESCO, attraverso un percorso tattile e una gamma differenziata di opzioni di fruizione che ne facilitano la comprensione, assicurando a tutti un’esperienza multisensoriale ottimale. Nelle sale sono esposti sette modellini tridimensionali in scala dei

VINCI

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AGENDA DEL MESE monumenti architettonici che rappresentano maggiormente il sito seriale longobardo e sette modellini relativi alle aree in cui sono situati i monumenti, per permettere l’esplorazione tattile dei loro contesti di provenienza. A rendere il percorso ancor piú accessibile sono le audio descrizioni (in italiano e inglese), registrate dagli attori della Compagnia #SIneNOmine della Casa di Reclusione di Maiano a Spoleto, da ascoltare tramite NFC e QR code, nonché un catalogo in Braille e uno in large print in libera consultazione. Infine, per consentire una fruizione dei modelli inclusiva, sono stati realizzati video con la tecnica del compositing nella LISLingua dei Segni Italiana, insieme a immagini e animazioni, sottotitoli e audio. info www.longobardinitalia.it ROMA DI MANO DI JACOPO DA PUNTORME. DISEGNI DI JACOPO PONTORMO NELLE COLLEZIONI DELL’ISTITUTO CENTRALE PER LA GRAFICA Istituto centrale per la grafica fino al 20 marzo

È esposto per la prima volta nella sua interezza il fondo di disegni di Jacopo Carucci (1494-1556) – meglio noto come Pontormo dal luogo di nascita – la cui fama al tempo rivaleggiò con quella dei grandissimi, da Raffaello ad Andrea del Sarto, da Bronzino a Vasari. Considerata l’intrinseca fragilità di questi manufatti, a tal punto da sconsigliarne il prestito, questo importantissimo nucleo di disegni quasi tutti bifaccia, è poco noto anche agli specialisti; ciononostante, si tratta di capolavori, in parte inediti, che riferiscono dell’attività creativa piú intima dell’artista. Soprattutto, si

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popolosa città della Grecia dopo Atene, uno dei pilastri di quello che fu l’Impero Bizantino. «Mura che uniscono. Salonicco a Cittadella» da un lato svela la storia e le vicende dell’ultramillenario sistema di

tratta di un nucleo di disegni fresco di operatività dell’artista al lavoro, una sorta di archivio personale di bottega la cui importanza in tutti questi anni era sfuggita agli esperti dell’arte del maestro. info www.grafica.beniculturali.it CITTADELLA (PD) MURA CHE UNISCONO. SALONICCO A CITTADELLA Palazzo Pretorio fino al 20 marzo

La mura di Cittadella – che vanta in Europa l’unico camminamento di ronda medievale di forma ellittica interamente percorribile – sono un elemento identitario indissolubile del borgo: racchiudono il centro storico come a tutelare uno scrigno prezioso e al tempo stesso consentono di alzare lo sguardo all’orizzonte e di guardare oltre. Con questo spirito si è scelto di concludere i festeggiamenti per gli ottocento anni di Cittadella (1220-2020), guardando lontano, relazionandosi con altre importanti città europee e confrontandosi su cosa significhi essere città murata. Quest’anno la prestigiosa relazione avviata è con Salonicco: la città che vanta probabilmente le mura e fortificazioni piú antiche in Europa – dichiarate patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 1988 – la piú importante e

fortificazioni di Salonicco, grazie a un ampio apparato documentario e didascalico e a originali testimonianze archeologiche e d’arte antica prestate eccezionalmente dall’Eforato alle Antichità della città e dal Monastero di Vlatadon, dall’altro mette in dialogo Cittadella e Salonicco attraverso i linguaggi contemporanei dell’arte e della fotografia. info tel. 049 9413449; e-mail: info@fondazionepretorio. it; www.fondazionepretorio.it/ VENEZIA VENETIA 1600. NASCITE E RINASCITE Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25 marzo

«L’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedí Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fú dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...»: il mito di Venezia sta anche nella

leggenda della sua fondazione, raccontata cosí nel Chronicon Altinate (XI-XII secolo) e coincidente con la posa della prima pietra della chiesa di S. Giacometo a Rivoalto il giorno dell’Annunciazione alla Madonna. Una leggenda che, tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise insieme racconti che si erano intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del valore di Venezia: città eletta da Dio. Che ora celebra i suoi 1600 anni anche con una mostra messa in scena nel luogo simbolo del potere e della gloria della Serenissima: il Palazzo dei Dogi in piazza San Marco. L’esposizione racconta – attraverso oltre 250 opere d’arte, manufatti antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno segnato la storia di Venezia, scegliendo un punto di vista inedito, cioè quello degli innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle altrettante rigenerazioni e rinnovamenti che hanno segnato la sua esistenza. info https://palazzoducale. visitmuve.it; facebook visitmuve ducalevenezia; twitter visitmuve_ it, visitmuve_en, ducalevenezia; instagram visitmuve ducalevenezia

MODENA DANTE E GLI ESTE. RIFLESSI DELLA COMMEDIA FRA MODENA E FERRARA Archivio di Stato fino al 25 marzo

Il percorso espositivo offre uno sguardo sull’influenza avuta dall’Alighieri sul territorio governato dagli Estensi, espresso attraverso le carte d’archivio. Fulcro della mostra sono alcuni frammenti trequattrocenteschi della Divina Commedia, manoscritti e a stampa, sopravvissuti ai secoli come lacerti di riuso e gennaio

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pervenuti a noi in forma di coperte di registri estensi. Attorno a essi, si snoda una rassegna di documentazione di varia natura, capace di restituire un quadro multiforme sulle influenze e sui rapporti di Dante con il mondo, cortese e urbano, stretto attorno alle capitali di Ferrara e Modena. È cosí possibile assistere alle vicende di diverse figure cantate nel poema, inscenate

culture islamiche, fiorite dalla Spagna all’India tra il VII e il XIX secolo, sottolineando l’importanza degli scambi, stretti e fecondi, che furono stabiliti nel tempo tra la Francia e l’Oriente. Sulla scia di questo approccio è nato il progetto espositivo che vede coinvolte 18 città francesi, ciascuna delle quali ospita un allestimento composto da una selezione di dieci opere provenienti dal museo parigino e da collezioni nazionali e regionali. Una selezione che documenta oltre 1300 anni di storia e che annovera oggetti di grande pregio, fra i quali possiamo ricordare una lampada da moschea dell’XI secolo proveniente da Gerusalemme, un candeliere dell’epoca di Saladino realizzato a Mosul sul quale è rappresentata la vita di

attraverso i loro documenti ufficiali, e valutare il peso e la rilevanza manifestate dalla Commedia nella società e nella letteratura dei secoli passati. E si può in tal modo comprendere quale fosse l’humus culturale in cui si era formato il poeta, attingendo indirettamente alla sua biblioteca ideale. info tel. 059 230549; e-mail: as-mo@beniculturali.it; www. asmo.beniculturali.it; Facebook: Archivio di Stato di Modena FRANCIA ARTI DELL’ISLAM. UN PASSATO PER UN PRESENTE Angoulême, Blois, ClermontFerrand, Digione, Figeac, Limoges, Mantes-La-Jolie, Marsiglia, Nancy, Nantes, Narbonne, Rennes, Rillieux-laPape, Rouen, Saint-Denis, Saint-Louis (La Réunion), Tolosa e Tourcoing fino al 27 marzo

Fin dalla sua creazione, nel 2012, il Dipartimento di Arti dell’Islam del Museo del Louvre offre l’opportunità di scoprire le

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Gesú o, ancora, cofanetti da toletta in avorio del XIII secolo che appartennero alla duchessa di Borgogna. info https://expo-arts-islam.fr VICENZA LA FABBRICA DEL RINASCIMENTO. PROCESSI CREATIVI, MERCATO E PRODUZIONE A VICENZA. PALLADIO, VERONESE, BASSANO, VITTORIA Basilica Palladiana fino al 18 aprile

Alla metà del Cinquecento Vicenza, fra le aree piú dinamiche in Europa per la produzione e il commercio della seta, conosce una sorprendente trasformazione, diventando una capitale della cultura grazie al progetto della cosmopolita nobiltà cittadina, che investe e scommette sulla visione di un gruppo di giovani artisti. Sono il genio dell’architettura Andrea Palladio, i pittori Paolo Veronese e Jacopo Bassano e il grande scultore Alessandro Vittoria. A legarli è la passione per l’arte nuova nutrita dall’antico, nata nella Roma di Michelangelo e Raffaello, quella che Giorgio Vasari definirà la «maniera moderna», la cui forza permetterà loro di scardinare i modelli tradizionali dominanti a Venezia, insieme alle suggestioni offerte da artisti quali Giulio Romano e Parmigianino. La rassegna ricostruisce dunque questo straordinario periodo, cinquant’anni di vita artistica nella Terraferma veneta, dal 1550 alla fine del secolo. E attraverso piú di 80 opere, il percorso indaga i meccanismi di produzione e i processi creativi che si celano dietro i capolavori, raccontando il loro «making of», la loro fase di realizzazione, individuando coordinate materiali e storiche entro cui sono stati concepiti. info www.mostreinbasilica.it; Facebook: @ mostreinbasilicapalladiana; Instagram: @mostreinbasilica #lafabbricadelrinascimento; #rinascimentoavicenza; #mostreinbasilica PISTOIA MEDIOEVO A PISTOIA. CROCEVIA DI ARTISTI FRA ROMANICO E GOTICO Antico Palazzo dei Vescovi e Museo Civico fino all’8 maggio

In occasione dell’anno Iacobeo, l’esposizione illustra, per la prima volta, lo straordinario panorama delle arti a Pistoia dal XII agli inizi del XV secolo e documenta il ruolo di primo piano assunto dalla città nel campo delle arti figurative. Pistoia godeva della presenza di committenti illuminati, in grado di attrarre figure quali Guglielmo (uno dei piú famosi scultori attivi nel duomo di Pisa) e Guido da Como, e poi Nicola e Giovanni Pisano, che lasciarono capolavori fondanti della storia dell’arte italiana. Fa da specchio a questi importanti episodi di scultura la piú imponente delle opere di oreficeria, ideale sigillo della mostra: l’altare di san Jacopo, che attesta Pistoia come snodo di ricezione per le arti suntuarie. Anche la miniatura visse un periodo di grande vivacità, testimoniata alla fine del Duecento dall’attività della bottega del Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, la piú importante in Toscana, e nel Quattrocento dalle eleganze lineari e dalla preziosità decorativa delle illustrazioni eseguite dal Maestro della Cappella Bracciolini nella Divina Commedia conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel Trecento Pistoia offre in campo pittorico un panorama variegato di personalità e tendenze culturali, e la presenza di artisti del calibro di Lippo di Benivieni, Taddeo Gaddi e Niccolò di Tommaso la colloca in una posizione di primo piano, ribadita dalla Maestà e angeli di Pietro Lorenzetti proveniente dagli Uffizi, uno dei prestiti piú prestigiosi della mostra, sottoposto a restauro per l’occasione. info tel. 0573 974267; e-mail: info@pistoiamusei.it; www.fondazionepistoiamusei.it

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

SANTO MEDIOEVO Storie di uomini, miracoli e reliquie

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a devozione religiosa e la pratica del culto sono elementi fortemente distintivi dell’età di Mezzo e il nuovo Dossier di «Medioevo» ne offre una ricca documentazione, cercando soprattutto di mettere in luce quanto sia spesso labile il confine fra realtà storica e tradizione leggendaria, alimentata, quest’ultima, dal fiorire delle agiografie di santi. Un confine lungo il quale occorre comunque muoversi con attenzione, poiché, come si legge nelle pagine introduttive, «un preconcetto eccesso di razionalismo può avere in questo ambito la medesima influenza deleteria di un cieco fideismo». Resta intatta la potenza di episodi comunque passati alla storia, quali l’incontro fra papa Leone I e Attila, in occasione del quale il pontefice fu capace di convincere il re unno ad astenersi dal mettere Roma a ferro e fuoco, o l’incrollabile tenacia di sant’Antonio Abate nel resistere alle tentazioni del diavoli. Fatti come questi furono peraltro alla base della diffusione delle reliquie, fenomeno che assunse contorni eccezionali, ma che, proprio per la sua portata, non fu esente, già allora, da critiche, anche molto aspre. Questo nuovo Dossier di «Medioevo» propone dunque un vasto repertorio di temi e, facendo luce sul rapporto con la religione, ne testimonia l’importanza e la centralità nella vita quotidiana del tempo. Un ruolo di cui sono figlie anche la nascita dei grandi luoghi di culto, prime fra tutti le cattedrali, e la ricca produzione artistica a carattere sacro. Le cui immagini compongono il ricco corredo iconografico del fascicolo.

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Giudizio Universale (particolare), tempera su tavola del Beato Angelico. 1431 circa. Firenze, Museo Nazionale di San Marco. Alle schiere di angeli e di santi che attorniano il Cristo, sono affiancate le rappresentazioni del Paradiso e dell’Inferno.

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archeologia crociati a sidone

I crociati di re Luigi

di Elena Percivaldi

Cumuli di ossa disordinate, gettate in due fosse comuni, una punta di freccia e qualche oggetto personale: questo lo scenario apparso agli archeologi impegnati negli scavi del castello di Sidone, roccaforte crociata in Libano. Il ritrovamento, unico nel suo genere, «fotografa» uno dei numerosi eccidi di massa perpetrati al tempo delle crociate. Da quando, nel 1096, dopo il concilio di Clermont, i primi eserciti cristiani partirono alla riconquista della Terra Santa, caduta in mano musulmana, fino al 1291, anno in cui si consumò la caduta di San Giovanni d’Acri...

Sulle due pagine il Castello del Mare (Qal’at al-bahr) di Sidone (Libano). Nella pagina accanto miniatura raffigurante Luigi IX che raccoglie i resti dei crociati per dare loro sepoltura, dal Libro d’ore di Jeanne d’Evreux, regina di Francia. 1324-1328 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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F F

in dall’antichità, grazie alla sua posizione sulle coste meridionali del Libano, a sud di Beirut e a nord di Tiro, Sidone fu uno dei principali porti del Mediterraneo. Caposaldo strategico per le comunicazioni tra l’Oriente e l’Occidente, durante le crociate fu a lungo conteso dalle forze cristiane e gli eserciti musulmani e, nel corso del XIII secolo, venne piú volte assediato. Le cronache coeve raccontano che Sidone, in mano crociata dal dicembre 1110, fu ripresa nel 1187 dal Saladino poco dopo la vittoria conseguita ad Hattin, un trionfo che aprí al condottiero curdo le porte di Gerusalemme. Durante l’assedio di Sidone, Saladino distrusse il Castello di Terra (Qal‘at al-Mu‘izz’), che si trovava sulle mura dell’acropoli e la città rimase appannaggio musulmano fino al 1193, quando Amalrico II di Gerusalemme la espugnò con l’aiuto dei crociati tedeschi guidati dall’arcivescovo di Magonza. Secondo Filippo da Novara, seguí nel 1227 la costruzione, a opera dei Cavalieri di San Giovanni dell’Ospedale di Gerusalemme, del nuovo castello «del Mare» (Qal’at al-bahr), collocato al di là del porto su un isolotto roccioso a un centinaio di metri dalla costa, proprio sopra le rovine di un del dio fenicio Melqart. Il Castello del Mare, con funzioni di vedetta sulla città, era munito di due torri unite tra loro da una cinta muraria e collegato alla terraferma da un ponte di legno. Nel 1253-1254, dopo una brevissima riconquista mamelucca (che tuttavia non riguardò il Castello, ri-

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archeologia crociati a sidone A

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castello del mare

area di scavo

castello di san luigi

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In questa pagina A-B. la regione libanese nel contesto vicinoorientale e foto satellitare di Sidone con l’indicazione dell’area in cui si è svolto lo scavo; C. ortofoto del cantiere di scavo con,

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evidenziate dal contorno azzurro, le fosse comuni; D. rilievo delle fosse comuni che evidenzia la giacitura delle ossa, quasi sempre prive di connessioni anatomiche. gennaio

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masto in mano crociata), re Luigi IX di Francia, all’epoca in Terra Santa per partecipare alla spedizione militare, deliberò la ristrutturazione del Castello di Terra, da allora chiamato anche di San Luigi. In seguito, dopo il 1260, Sidone passò ai Templari, i quali continuarono a presidiare la fortezza fino al suo abbandono definitivo, avvenuto nella notte del 13 luglio 1291 a seguito della caduta di Acri e di Tiro e della conseguente ritirata cristiana, che segnò la fine della lunga e sanguinosa stagione delle crociate.

Oltre alle ossa, solo poveri avanzi

Resti frammentati e disarticolati

Indagini archeologiche condotte nell’area nord/nordest del Castello del Mare, al margine della cittadella antica, hanno portato al ritrovamento di due fosse comuni, scavate nel fossato, nei pressi dell’ingresso fortificato e del ponte che si ergeva appena piú a sud. Lo scavo ha restituito i resti di 25 individui, tutti adulti (salvo due adolescenti) di sesso maschile, alcuni ancora in connessione anatomica, altri invece frammentati e disarticolati (un solo cranio si è conservato completo), segno che probabilmente le sepolture erano avvenute in tempi e con modalità diverse. Le analisi – condotte da Richard N.R. Mikulski, Holger Schutkowski e Martin J. Smith (Università di Bournemouth), Claude Doumet-Serhal, responsabile degli scavi, e Piers D. Mitchell (Università di Cambridge) – hanno rilevato la presenza, su un centinaio di frammenti ossei, di molteplici lesioni provocate da oggetti acuminati o contundenti, compatibili con le armi allora in uso. La maggior parte delle ferite non presentava tracce di cicatrizzazione, una circostanza che indica come fossero state inferte poco prima della morte (e ne furono, in molti casi, la causa). Non mancavano tracce di combustione, come se qualcuno avesse tentato di cremare i cadaveri senza tuttavia riuscirvi completamente. La combinazione tra i risultati delle analisi al C14 e la tipologia degli oggetti ritrovati insieme alle ossa – fibbie di cintura, chiodi di ferro, un anello d’argento, una punta di freccia, frammenti di ceramica e di vetro, fibre e una moneta d’argento coniata nel 1245 – consente di datare i resti alla metà del XIII secolo. Lo studio del DNA ha inoltre dimostrato come almeno tre degli individui sepolti nelle fosse avessero origini europee, altrettanti provenissero dal Vicino Oriente e due vantassero un retaggio misto (erano cioè frutto dell’unione tra individui di origine continentale e indigeni), a ulteriore conferma, dopo quanto già noto dalle fonti, di quanto la società degli Stati crociati in Terra Santa fosse etnicamente variegata e composita. Ma chi erano le vittime dell’eccidio? Con ogni probabilità non si trattava di civili, bensí di soldati o (segue a p. 30)

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In alto moneta in argento battuta al tempo di Federico II di Svevia. 1245-1250 circa. A sinistra anello in argento con apici sovrapposti.

Qui sopra punta di freccia in lega di rame.

In alto e a destra fibbie di cintura di varia tipologia.

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archeologia crociati a sidone A

Rilievo delle lesioni certamente (rosso) e probabilmente (giallo) perimortali osservate sugli scheletri.

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Profonda lesione da taglio Lesione da taglio orientata Lesione da taglio associata a una frattura Lesione da taglio Lesione piatta Ferita da colpo violento Ferita con penetrazione

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In alto, a destra esempi delle lesioni osservate: a-b. colpo su un parietale e sua direzione; c-d. colpi ricevuti dalle mandibole di due diversi individui; e-f-g. colpi ricevuti da vertebre cervicali e lombari; h-i. femori colpiti con violenza da armi da taglio. A sinistra a-b. immagini delle fosse comuni in corso di scavo; c. fotoelaborazione di una delle fosse, realizzata per evidenziare il maggior livello di articolazione di alcune delle ossa rinvenute. gennaio

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Archeologia delle crociate

Quella spada in fondo al mare... Già prima delle scoperte di Sidone, l’archeologia ha piú volte documentato episodi bellici legati alle crociate. In Israele, a nord del Mar di Galilea, sono stati trovati i resti di una guarnigione di crociati caduti per difendere il castello di Vadum Iacob (l’odierna Ateret) dalle truppe del Saladino, che l’assediarono nell’agosto del 1179. Secondo le fonti, i musulmani annientarono la guarnigione, distrussero il castello e si sbarazzarono dei cadaveri dei difensori uccisi gettandone alcuni in una cisterna e altri negli edifici in fiamme. A oggi, la cisterna non è stata localizzata, mentre sotto gli strati di cenere tra le rovine di un edificio crollato, confusi tra punte di freccia e ossa di cavalli, sono stati rinvenuti i resti di cinque uomini di età compresa tra i 20 e i 40 anni. L’esame dei reperti, condotto da studiosi inglesi e israeliani, ha dimostrato che si trattava, con ogni probabilità, proprio della guarnigione crociata. I ritrovamenti «crociati» si sono moltiplicati negli ultimi anni e alcuni hanno destato grande interesse, come la presunta

granata (un recipiente di terracotta a forma di ghianda che, riempito di «fuoco greco», veniva incendiato e poi scagliato sul naviglio nemico) resa pubblica nel 2006 in Israele. Piú rare sono le spade, come quella riemersa nello scorso ottobre, sempre in Israele, dalle acque di Haifa. L’arma, ha reso noto il Dipartimento israeliano per le Antichità, giaceva sul fondale, coperta da uno strato di sabbia, e, sebbene incrostata da organismi marini, si presentava completa di elsa, con la lama, lunga 1 m circa, quasi del tutto integra. «La spada è in condizioni perfette», ha confermato Nir Distelfeld, ispettore del Dipartimento delle Antichità israeliane, che l’ha definita «un reperto bello e raro, evidentemente appartenuto a un cavaliere crociato». Lo stesso dipartimento ha anche annunciato il ritrovamento dei resti di un possibile accampamento crociato nei pressi di Zippori, a una trentina di chilometri da Tiberiade, in Galilea. Qui, grazie a indagini preventive eseguite nel corso di lavori autostradali, sono tornati alla luce monete, punte di

freccia e chiodi a ferro di cavallo, oggetti personali e ornamenti. Secondo i ricercatori, il campo di Tzippori era un insediamento militare temporaneo «di servizio» durante le operazioni belliche e fu probabilmente abbandonato nel luglio 1187, in occasione dell’assedio di Tiberiade da parte del Saladino; la caduta della città aprí la strada alle truppe musulmane che trionfarono nella successiva battaglia di Hattin. In alto la spada rinvenuta nelle acque di Haifa e attribuita a un cavaliere crociato. A sinistra miniatura raffigurante Saul che combatte contro i Filistei al Monte Ghilboa, dalla cosiddetta Bibbia dei Crociati. 1244-1254. New York, The Morgan Library & Museum. Come si può osservare, l’episodio biblico è stato ambientato dall’artista all’epoca in cui ebbero luogo, fra gli altri, i fatti documentati dalla scoperta delle fosse comuni di Sidone.

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archeologia crociati a sidone comunque di uomini avvezzi alla guerra: lo suggeriscono le lesioni perimortali sulle ossa, ma anche la presenza di ferite pregresse e rimarginate, a indicare l’abitudine al combattimento e all’uso delle armi. Almeno nove individui presentavano ferite nella parte superiore del corpo, sulle spalle, sul busto e soprattutto sul cranio. Uno di essi era stato colpito in maniera «estremamente violenta» almeno dodici volte, in altri due i colpi erano concentrati sulle mani, sugli avambracci e sui polsi, come avviene quando si alzano le braccia nel disperato tentativo di difendersi. Secondo gli studiosi, il quadro è quindi compatibile con uno scontro armato o un assedio conclusosi con l’assalto da parte di forze montate a cavallo contro soldati appiedati; la concentrazione delle ferite sulla parte posteriore del corpo delle vittime, soprattutto alla schiena, sembra anche indicare che gli assaliti provarono a fuggire, ma vennero colpiti mentre tentavano di mettersi in salvo. La presenza di profonde lesioni da taglio oblique in corrispondenza della zona cervicale suggerisce infine che alcuni crociati non trovarono la morte sul campo, ma furono catturati e probabilmente decapitati in un secondo tempo: una forma di esecuzione ai danni del nemico vinto? La disposizione alla rinfusa dei resti nelle fosse, unitamente all’esame tafonomico delle ossa (cioè delle loro modalità di giacitura, n.d.r.), ha rivelato un particolare ancor piú macabro: i cadaveri non furono seppelliti immediatamente, ma rimasero esposti all’aria per parecchi giorni, almeno una settimana o forse piú. Non vennero attaccati dagli animali per via della vicinanza del centro abitato, ma, vista la totale assenza di armi (tranne una punta di freccia) e di oggetti personali di valore, furono sicuramente depredati. I corpi vennero raccolti nella fossa quando ormai erano in avanzato stato di decomposizione: a recuperarli sarebbero stati gli altri crociati dopo che l’esercito nemico si era allontanato, ma date le condizioni ormai pessime delle salme, provarono anche a cremarle, invano.

L’assedio dei Mamelucchi

Resta da stabilire in quale occasione avvenne il massacro. Sappiamo dalle fonti dell’epoca che Sidone subí, nel XIII secolo, due attacchi importanti: il primo nel 1253, quando le forze mamelucche provenienti da Damasco la assalirono mentre erano in corso i lavori di ricostruzione muraria promossi da Luigi IX (ne parla, fra gli altri, l’anonima Estoire de Eracles, traduzione e continuazione della piú nota Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro); il secondo nell’agosto 1260, quando la città venne invasa dai Mongoli del generale Kitbuqa per rappresaglia dopo che Giuliano de Grenier, signore di Sidone e Beaufort,

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aveva a sua volta assalito l’area della Beqa’, in territorio mongolo. In entrambi i casi i raid e i saccheggi provocarono la morte di centinaia di persone e la cattura di decine di prigionieri. Secondo i ricercatori, le fosse emerse durante gli scavi sarebbero da riferire proprio a uno di questi episodi, molto probabilmente al primo. Il cronista Jean de Joinville, autore intorno al 1309 della Vita di san

luigi ix

Una morte avvolta nel «mistero» Il re di Francia Luigi IX, detto il Santo, forse artefice della sepoltura dei crociati di Sidone, è, suo malgrado, al centro del dibattito scientifico sul «mistero» che circonda la sua fine. Il sovrano morí il 25 agosto 1270, durante l’assedio di Tunisi. Le fonti attribuiscono il decesso al diffondersi di un’epidemia di «peste» (in realtà, si trattò piú probabilmente di dissenteria o tifo) che risultò fatale a molti crociati, tra cui il principe Giovanni Tristano di Valois. La scomparsa del re indusse il fratello Carlo d’Angiò, giunto nel frattempo a Tunisi, a togliere l’assedio e ordinare il ritiro delle truppe cristiane. Circa il destino del corpo del sovrano, che non si voleva restasse in «terra infedele», si aprí un’aspra contesa tra lo stesso Carlo e suo nipote Filippo, divenuto nel frattempo re di Francia: se infatti Carlo, che era re di Sicilia, pretendeva che i resti del fratello fossero tumulati nella cattedrale di Monreale, Filippo III premeva perché la salma del padre fosse rimpatriata al piú presto. La vicenda si chiuse con un compromesso, dettato anche dall’esigenza di disporre in fretta del cadavere che, a causa del caldo, andava deteriorandosi: il corpo fu bollito e disossato more Teutonico, i visceri portati a Monreale e le ossa, scortate da un drappello di uomini armati, partirono da Tunisi l’11 novembre per raggiungere Parigi il 21 maggio 1271 e, dopo un giorno di esposizione in Notre-Dame, essere deposte nella basilica di Saint-Denis. Tuttavia, i resti del sovrano, canonizzato l’11 agosto 1297 da Bonifacio VIII, non riposarono in pace. Traslati dapprima in un reliquiario d’oro collocato dietro l’altare maggiore della basilica di SaintDenis, e in seguito nella «sua» Sainte-Chapelle dal nipote Filippo IV il Bello, furono scorporati e, nel tempo, affidati a diversi soggetti tra cui i monaci di Saint-Denis, la cattedrale Sulle due pagine miniatura del Maestro delle Ore del maresciallo Boucicaut raffigurante la partenza di Luigi IX per la crociata, dal Trésor des Histoires. XV sec. Parigi, Museo del Louvre. gennaio

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archeologia crociati a sidone e i canonici di Notre-Dame, re Haakon V di Norvegia, i Domenicani di Parigi e di Reims, le abbazie di Royaumont e di Pontoise, l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo e i duchi di Berry e Borgogna. La tesi «classica» della morte per tifo o dissenteria contratti durante l’assedio di Tunisi è stata di recente rimessa in discussione da Philippe Charlier, medico legale, antropologo e paleopatologo già noto per aver studiato la (presunta) testa mummificata di Enrico IV. Analizzando la mandibola tradizionalmente attribuita al «re santo» e conservata in Notre-Dame, Charlier e il suo team sono giunti alla conclusione che il sovrano sarebbe stato affetto da scorbuto, patologia causata da una grave e prolungata carenza di vitamina C, solitamente indotta da una dieta inadeguata. In passato la malattia colpiva soprattutto i marinai, che, durante le lunghe navigazioni, non disponevano di cibi freschi come frutta, agrumi e verdura. I sintomi comprendono anemia, spossatezza, edema, necrosi e ulcerazioni delle gengive con possibile perdita dei denti e complicanze che possono portare anche alla morte. La malattia avrebbe interessato prima le gengive e poi le ossa del re; fiaccato dall’immunodeficienza, Luigi IX avrebbe quindi sviluppato una o piú infezioni, che ne avrebbero indotto la morte. I risultati dello studio, hanno tuttavia incontrato il forte scetticismo di altri esperti, tra cui tra cui Anne Marie Sohler-Snoddy (Università di Otago, Nuova Zelanda), per via dei metodi utilizzati, considerati scientificamente opinabili. Ad attirare le critiche, in primis, le perplessità legate all’autenticità del reperto analizzato, tutt’altro che certa, date le vicissitudini subite nei secoli dai resti del sovrano; una questione «risolta» da Charlier affermando che la mandibola è «compatibile con quella di un uomo di

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A destra miniatura raffigurante la morte di Luigi IX, da un’edizione delle Grands Chroniques de France o de Saint-Denis. XIV sec. Nella pagina accanto busto reliquiario di Luigi IX il Santo realizzato da Alexandre Chertier su disegno di Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc. Seconda metà del XIX sec. Parigi, Notre-Dame.

56 anni» (l’età di Luigi IX al momento della morte) ed è raffrontabile con la forma del viso cosí come appare nei ritratti del tempo, in particolare in una nota statua conservata nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo a Mainneville, in Normandia. Lo studioso però sorvola sul fatto che la ritrattistica del tempo è, come noto, ben difficilmente realistica (il che rende irrilevante il raffronto); egli retrodata inoltre erroneamente la statua al XIII secolo, quando invece fu realizzata all’inizio del XIV, ossia circa quarant’anni dopo il decesso di Luigi. Le analisi al C14 del reperto indicano inoltre che il proprietario della mandibola visse tra il 1030 e il 1220, mezzo secolo prima rispetto a Luigi IX (che nacque nel 1214 e, come detto, morí nel 1270). La mancata corrispondenza sarebbe dettata, in questo caso, dalla particolare dieta del sovrano, composta secondo le fonti del tempo quasi esclusivamente da prodotti ittici: nelle acque marine la concentrazione di C14 è inferiore rispetto all’atmosfera, il che spiegherebbe il gap nel dato. A sollevare perplessità, infine, è anche la tipologia delle lesioni, ritenuta da Snoddy non necessariamente indicative di scorbuto. A Charlier viene insomma rimproverato il ricorso a una metodologia poco rigorosa per giungere a conclusioni sensazionalistiche, cavalcando la notorietà del personaggio e creando false aspettative nel pubblico.

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Luigi, scrive infatti che lo stesso sovrano francese si fece promotore del recupero e della sepoltura delle salme di alcuni crociati lasciate a marcire all’aria: «Abbiamo scoperto che il re aveva fatto in modo che i corpi dei cristiani uccisi dai saraceni fossero recuperati e seppelliti. Li portò di persona, ormai decomposti e maleodoranti, per deporli in trincee scavate nel terreno: al contrario degli altri, il re non si coprí il naso nemmeno una volta». La pietosa opera del sovrano dovette destare grande impressione tra i contemporanei, se è vero che il miniatore Jean Pucelle illustra l’episodio nel Libro d’Ore commissionatogli da re Carlo IV per la moglie, Giovanna d’Evreux, realizzato tra il 1324 e il 1328, parecchi decenni dopo l’evento (vedi foto a p. 25, in basso). E proprio la possibile partecipazione del re, morto a sua volta nel 1270 durante l’assedio di Tunisi (vedi box alle pp. 30-33), alle operazioni di recupero dei caduti rende il ritrovamento unico e speciale, confermando quell’indole pia e profondamente religiosa del sovrano che gli avrebbe fatto meritare venerazione in vita e, dopo la scomparsa, la gloria degli altari. «Dalle cronache del tempo si ricava che re Luigi IX si trovava senza dubbio in Terra Santa all’epoca dell’attacco del 1253», spiega Piers Mitchell, bioantropologo dell’Università di Cambridge. «Sappiamo che si recò in città dopo l’assedio per recuperare e seppellire le salme dei crociati caduti in fosse comuni come queste. Sarebbe davvero straordinario se egli stesso avesse partecipato, in prima persona, alla pietosa sepoltura di questi corpi».

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personaggi adriano VI

Un Olandese sul soglio di

Pietro

di Aart Heering

Il 9 gennaio del 1522, il conclave convocato dopo la morte di Leone X elegge a sorpresa il cardinale Adriaan Boeyens, teologo all’università di Lovanio, tutore di Carlo V e governatore della Spagna. Il nuovo papa, che prende il nome di Adriano VI, a Roma è pressoché sconosciuto. Nel suo breve regno impone un regime di austerità, tentando di riformare la Chiesa dal profondo. Non avrà successo e il suo pontificato, da allora, è stato visto come un’infelice parentesi nordica tra due grandiosi papi rinascimentali. Ma fu veramente cosí? Roma, chiesa di S. Maria dell’Anima. Particolare del monumento funebre di Adriano VI, eseguito nel 1529 su disegno di Baldassarre Peruzzi. Il rilievo rappresenta l’entrata in città del papa, alla testa di un nutrito seguito: in realtà, l’ingresso del pontefice avvenne, con ogni probabilità, senza il clamore evocato dalla scena.

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personaggi adriano VI

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el marzo del 2013, pochi giorni dopo essere stato eletto, papa Francesco raccontò al quotidiano olandese De Volkskrant come, consultandosi subito dopo il Conclave con alcuni suoi sostenitori sul nome da scegliere, avesse per un attimo pensato ad Adriano. In onore di papa Adriano VI, il quale, come gli suggerí un cardinale, «è stato un riformatore e la Chiesa va riformata anche adesso». Alla fine, il nuovo pontefice preferí il nome di san Francesco; l’episodio, tuttavia, riflette una certa rivalutazione di quel suo lontano predecessore. Papa Adriano VI, al secolo Adriaan Boeyens, ha goduto per secoli di una pessima fama, soprattutto a Roma e in Vaticano, dove an-

In alto Els agermanats, olio su tela di Josep Benlliure. 1872. Valencia, Museu d’història. Il dipinto mostra Adriano, in qualità di cardinale, inviato da Carlo I presso i nobili di Valencia. Qui sopra veduta di Malines,

città in cui Adriano soggiornò, presso i duchi di Brabante, dal Civitates Orbis Terrarum di Braun e Hogenberg. 1572-1617. In basso Ritratto di papa Adriano VI, olio su tela. Post 1520-1599. Amsterdam, Rijksmuseum.

Le origini

Olandese, tedesco o belga? De Nederlandse paus (Il papa olandese) è il titolo di una recente biografia di Adriano VI. Qualche anno fa un autore tedesco intitolò un libro simile Der deutsche Pabst (Il papa tedesco). E un collega fiammingo sostiene che, in fondo, Adriano fa parte della tradizione belga. Curiosamente, in un certo senso hanno ragione tutti e tre. Adriano era sí originario della città olandese di Utrecht, ma, all’epoca, i Paesi Bassi facevano parte del Sacro Romano Impero e, se si vuole vederne

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cora adesso c’è chi lo definisce «un barbaro che voleva imbiancare le Stanze di Raffaello». In effetti, il suo breve pontificato (1522-1523) non è stato un successo. Accolto con diffidenza a Roma, Adriano non riuscí a raggiungere nessuno dei tre obiettivi che si era posto: unire le forze cristiane per fermare l’avanzata musulmana; respingere la Riforma protestante; riformare la Chiesa, a cominciare dalla Curia romana.

Sette mesi di attesa

Non ebbe nemmeno il tempo necessario per avviare una vera politica riformatrice. Dopo la sua elezione al soglio di Pietro, gli ci vollero quasi sette mesi prima di arrivare in una Roma infestata dalla peste, dove dovette combattere contro la sfiducia della Curia e dei cittadini. Quando morí, dopo soli 600 giorni, il suo pontificato sembrava poter essere consegnato alla storia come un fallimento totale. Tuttavia, con il senno di poi, possiamo dire che Adriano VI aveva visto giusto in molte cose, in particolare rispetto alla necessità di riforma. La sua vicenda è anche emblematica per l’epoca in cui visse: allo spartiacque tra Medioevo e modernità; tra Chiesa e Riforma; tra Francesco I di Francia e l’imperatore Carlo V; tra sobrietà nordica e italica stravaganza. Adriaan Florensz, noto anche come Adriaan Boeyens, nacque il 2 marzo 1459 a Utrecht, all’epoca

Utrecht Malines

Madrid

la Germania attuale come l’erede, Adriano potrebbe essere considerato tedesco, sebbene non parlasse il tedesco e non avesse mai messo piede nell’odierna Germania. Trascorse poi gran parte della sua vita a Lovanio e Bruxelles, cioè in città belghe, o meglio fiamminghe (almeno allora), quindi anche il Belgio potrebbe far valere qualche diritto su Adriano. La faccenda si complica perché ai tempi di Adriano l’Olanda e il Belgio non esistevano ancora, se non come una congerie di ducati, contee e città libere, dal Lussemburgo fino alla Frisia, che i sovrani borgognoni stavano pazientemente riunendo tramite matrimoni, eredità e campagne militari. Solo nel 1543, il loro

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Lovanio

Roma

In alto cartina in cui sono indicati i luoghi nei quali Adriano VI visse e operò. A sinistra lo stemma pontificio creato per Adriano VI.

la principale città dei Paesi Bassi del Nord, l’attuale Olanda, e tuttora sede dell’unica arcidiocesi olandese. Il padre era un semplice artigiano, falegname o ebanista, il che tuttavia non impedí al giovane Adriaan di ricevere una prima formazione scolastica nella sua città, per poi proseguire con la scuola latina di Zwolle, nell’Olanda settentrionale. Qui entrò in contatto con la De-

erede Carlo V riuscí a porre tutte le 17 province dei Paesi Bassi sotto il proprio potere, ma sarebbe durato poco. Venticinque anni piú tardi scoppiò la rivolta contro suo figlio, Filippo II di Spagna, e solo verso la fine del Cinquecento si delinearono i contorni dei Paesi Bassi del Nord, protestanti e indipendenti, e di quelli del Sud, cattolici e asburgici. Ai tempi di Adriano la differenza ancora non esisteva, e quindi Olandesi e Belgi possono avvalersi della storia comune fino al XVI secolo. Ecco perché un ritratto di Adriano VI si trova nella residenza dell’ambasciatrice olandese presso la Santa Sede (vedi foto alla pagina accanto, in basso), e anche in quella del suo collega belga.

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personaggi adriano VI vozione Moderna, un movimento religioso nato in questa zona verso la fine del Trecento e che poneva una forte enfasi sulla religiosità interiore e la necessità di una vita personale umile e semplice (vedi «Medioevo» n. 245, giugno 2017; anche on line su issuu.com). Questi concetti, elaborati intorno al 1430 nel beststeller medievale De imitatione Christi attribuito allo scrittore e asceta Tommaso da Kempis (1380 circa-1471), caratterizzarono sia lo stile di vita di Adriano che le sue decisioni politiche e religiose. Anche altri grandi nomi del pensiero nordeuropeo subivano l’influenza di questa tradizione, come il pensatore Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536) e il teologo tedesco Martin Lutero (1483-1546), ma con esiti molto diversi. Tutti i tre erano fortemente critici verso gli eccessi della Chiesa di Roma e dei suoi massimi esponenti, spesso adagiati nell’opulenza e dediti a nepotismo, simonia, fornicazione, vendita di indulgenze. Tuttavia, se per Lutero l’unica soluzione accettabile era la rottura totale, Erasmo, pur feroce nei suoi attacchi al clero, cercò di mediare. Adriano, infine, aspirò a contrastare le tendenze riformiste attraverso una riforma della Chiesa stessa.

Da Lovanio a Carlo V

Come molte giovani promesse dei Paesi Bassi del Nord, per proseguire i suoi studi Adriano partí verso sud, e, il 1° giugno 1476, Adrianus Florencii de Trajecto Inferiori (Utrecht) si iscrisse all’Università di Lovanio, nell’allora ducato di Brabante. Grazie all’aiuto di alcuni benefattori, tra cui Margherita di York, vedova del duca di Brabante (il borgognone Carlo il Temerario), Adriano poté dedicarsi a tempo pieno allo studio e all’insegnamento, e divenne presto il rappresentante

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piú accreditato della sua Università. Fra i suoi studenti vi era Erasmo, di dieci anni piú giovane di lui, ma che già incarnava una nuova epoca. Il filosofo umanista di Rotterdam stava per diventare una celebrità europea grazie agli studi biblici basati sulla lettura critica di fonti in lingua greca e ebraica, da poco riscoperte. Adriano, invece, pubblicò studi scolastici sulle Sententiae del teologo Pietro Lombardo († 1160), il piú autorevole vademecum alle Sacre Scritture del tardo Medioevo. Allo

stesso tempo, tuttavia, non esitò a mettere in discussione l’autorità assoluta del papa («Ci sono stati anche papi eretici») e a esortare i credenti a obbedire solo ai «chierici che rispettano la legge di Dio». Egli stesso, come diacono del capitolo di S. Pietro di Lovanio, cercò di imporre il rispetto del voto di castità al clero locale, che non gradiva.

Arsenico nel piatto

Tale iniziativa gli costò quasi la vita: una sua prima biografia, redatta nel 1536, racconta di come, fermatosi a colazione da uno dei suoi canonici, l’amante di questi avesse tentato di avvelenarlo servendogli un piatto di verza all’arsenico. Adriano sopravvisse a malapena, grazie a un altro canonico, di professione medico, che gli somministrò un antidoto. Negli anni seguenti, Adriano rammentò sovente i suoi anni di Lovanio come i piú belli della sua vita, ma capricci dinastici lo portavano sempre piú lontano dalla città. Prima a Malines, a metà strada tra Bruxelles e Anversa, alla corte dei duchi di Brabante, dove il giovane principe Carlo d’Asburgo, dopo la morte di suo padre, Filippo il Bello, era diventato signore dei Paesi Bassi all’età di sei anni. Allo stesso Carlo, nato a Gand nel 1500, spettava inoltre l’immensa eredità dei nonni Ferdinando e Massimiliano. Il primo era re d’Aragona e tutore della figlia Giovanna di Castiglia, la triste vedova del Bello, meglio nota come Juana la Loca (Giovanna la Pazza). Il secondo era arciduca d’Austria e (dal 1508) imperatore del Sacro Romano Impero. Il piccolo Carlo doveva quindi essere preparato a governare un im-

In questa pagina giulio (moneta papale) battuto al tempo di Adriano VI. Nella pagina accanto Ritratto di papa Adriano VI come sacerdote, olio su tela di Francesco Ubertini, detto il Bachiacca. 1525 circa. Kassel, Museumslandschaft Hessen. gennaio

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personaggi adriano VI pero «sul quale il sole non tramontava mai»: Spagna, America, mezza Italia, Franca Contea, Paesi Bassi, Austria e Germania. Per educarlo in maniera adeguata, il suo tutore, l’imperatore Massimiliano, assunse l’uomo che era ormai divenuto l’intellettuale piú famoso del Brabante. Cosí, Adriano traslocò alla corte ducale, dove era già conosciuto come consigliere della governatrice dei Paesi Bassi, Margherita d’Austria, figlia di Massimiliano e zia di Carlo. Per otto anni, dal 1507 al 1515, «mastro Adriano» fu responsabile della formazione intellettuale e spirituale del futuro Carlo V. Nel frattempo continuava a occuparsi della vita politica e sociale della sua terra d’origine. La sua ultima azione pubblica prima di partire per la Spagna nel 1515 fu l’istituzione di una dijkaflaat, un’indulgenza per le dighe: un terzo dei proventi sarebbe andato a Roma per la costruzione della nuova basilica di S. Pietro, mentre il resto era destinato alla manutenzione delle dighe olandesi.

Il dramma spagnolo

Fu Carlo a imprimere un’ulteriore svolta alla carriera di Adriano. Appena dichiarato maggiorenne, a soli 15 anni, il rampollo reale lo inviò in Spagna, dove Ferdinando d’Aragona non aveva indicato come suo erede Carlo, bensí suo fratello minore Ferdinando, che aveva passato la sua gioventú in Spagna con il nonno omonimo. Dopo lunghe trattative, Adriano riuscí a far valere gli interessi del suo datore di lavoro. Pochi giorni prima di morire, nel gennaio del 1516, il vecchio Ferdinando cambiò testamento, lasciando a Carlo d’Asburgo il regno di Aragona. In pratica il giovane re ottenne anche la Castiglia, dove solo formalmente regnava ancora sua madre Giovanna la Pazza, che Ferdinando aveva fatto dichiarare incapace di intendere e volere.

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In alto miniatura raffigurante l’assedio di Rodi da parte di un drappello di giannizzeri dell’esercito ottomano. XVI sec. Adriano VI tentò invano di convincere Carlo V e il re di Francia a intervenire in difesa dell’isola, che era sede dei Cavalieri Ospitalieri. A sinistra Ritratto di Adriano VI, olio su tela di anonimo, dall’originale di Jan van Scorel. XVII sec. Utrecht, Centraal Museum.

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Invece di andare a visitare subito i suoi nuovi possedimenti, Carlo si fece rappresentare dal suo vecchio maestro, che cosí, del tutto impreparato, si ritrovò governatore della Spagna. Cercò di fare del suo meglio e, soprattutto, di non inimicarsi il potente primate del Paese, il cardinale Ximenes de Cisneros, con il quale divise il potere. La figura dell’inflessibile e ascetico vegliardo, che negli anni precedenti aveva istituito una disciplina ferrea nella Chiesa spagnola, sarebbe rimasta un esempio importante per Adriano che, nel frattempo, era salito anche nella gerarchia ecclesiastica. Nel 1516 fu nominato vescovo della città di Tortosa sulla costa spagnola orientale e l’anno successivo papa Leone X, accogliendo le sollecitazioni di Carlo d’Asburgo, lo nominò cardinale. Carlo arrivò in Spagna per essere investito come Rey Carlos Primero solo verso la fine del 1517. Per piú di un anno girò per il Pa-

ese, fino alla primavera del 1519, quando tornò precipitosamente in Germania per difendere i propri interessi asburgici. Nel gennaio di quell’anno era morto Massimiliano I e, in giugno, i grandi elettori tedeschi elessero Carlo come il nuovo Re dei Romani, ossia sovrano del Sacro Romano Impero. Fu incoronato il 20 ottobre 1520, nel Duomo di Aquisgrana, e, negli anni che seguirono, gli eventi succedutisi in altre parti del suo impero – la Riforma e la Guerra dei Contadini in Germania, la guerra con la Francia in Italia, l’assedio turco di Vienna – lo avrebbero tenuto lontano dalla Spagna. Partito Carlo e morto Cisneros (già nel 1517), Adriano si trovò praticamente solo ad affrontare l’avversione crescente verso i rappresentanti della Corona manifestata dalle città e dalla nobiltà spagnole, riluttanti a diventare la colonia di un imperatore lontano. Nel frattempo, Adriano si vide co-

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personaggi adriano VI Utrecht. La Paushuize (Casa del papa), la dimora che Adriano VI si fece costruire, ma nella quale non abitò mai. L’edificio funziona oggi come centro polifunzionale.

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i luoghi di adriano vi

Sulle orme del papa olandese La sua terra d’origine conserva scarsi ricordi di Adriano VI e anche nella sua città natale, Utrecht, l’unico papa olandese della storia cadde nell’oblio dopo l’avvento della Riforma nel 1580. Da allora, anche il Duomo gotico, dove nel 1495 Adriano fu nominato canonico, è una chiesa protestante. Resta la bella e spaziosa casa, che il futuro papa si fece costruire nel 1517. Sebbene non abbia mai potuto mettervi piede, fu subito ribattezzata Paushuize (Casa del papa) e con quel

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nome esiste ancora come centro polifunzionale. Sulla piazza antistante, nel 2005 è stata eretta una statua di Adriano, modellata da un suo ritratto di Jan van Scorel. A Lovanio, la casa in cui ha vissuto è stata trasformata, grazie a una sua donazione, in un istituto per studenti di teologia, tuttora in attività, il Pauscollege (Collegio del papa). A Roma merita una visita S. Maria dell’Anima, la chiesa in cui Adriano VI riposa. È stata costruita intorno al 1350 come ospedale per pellegrini, inizialmente gestito da una coppia originaria della città olandese di Dordrecht. Divenne la chiesa dei pellegrini del Sacro Romano Impero e, dalla metà del secolo XIX, è il tempio ufficiale dei Tedeschi di Roma (i cattolici olandesi stretto a riscuotere tasse sempre piú alte per finanziare le guerre di Carlo e le tangenti da questi versate al fine di acquisire (o meglio acquistare) la corona imperiale. Il re, non fidandosi del personale locale, si era circondato di un piccolo esercito di funzionari fiamminghi e olandesi, spesso meno seri di lui e non di rado visti come stranieri profittatori, «servi di Venere e Bacco».

La rivolta domata

Con risorse umane cosí scarse e il re assente, Adriano non poté evitare lo scoppio della Rivolta dei Comuneros, una lotta contro il potere centrale, che, nel 1520-21, mise a ferro e fuoco la Spagna. Con l’aiuto di dignitari autoctoni e ricorrendo a concessioni politiche ma anche all’uso della forza militare, Adriano riuscí ad avere la meglio. I rivoltosi furono battuti nella Battaglia di Villalar del 23 aprile 1521 e i loro capi decapitati. «Una grandissima jornada», commentò Adriano nel suo diario. Era riuscito a difendere l’autorità del suo re, al prezzo della propria popolarità e credibilità. Ma presto fu chiamato a un altro compito, non meno arduo. «Canaglia brutta e ria / ch’ha fatto un papa senza saper come / fiam-

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e belgi a Roma ormai dispongono di chiese proprie). Il monumento funebre di Adriano è stato disegnato da Baldassare Peruzzi su incarico del cardinale Willem van Enckevoirt, già segretario di Adriano, e poi eseguito da Michelangelo da Siena e Niccolò Tribolo. È un’opera davvero monumentale, con un bassorilievo che rappresenta un’entrata del papa a Roma gloriosa, ma fittizia, arricchita dalla celebrazione del defunto e delle sue opere. Viene da chiedersi se Adriano, che era avverso a ogni tipo di trionfalismo, l’avrebbe apprezzato. Si tratta comunque di un’opera notevole, restaurata nel 1999, che attira regolarmente gruppi di turisti olandesi (vedi foto in apertura dell’articolo e alle pp. 44-45).

mingo, mai non visto e senza nome». Il commento di Pietro Aretino sul conclave di 39 cardinali – 36 italiani, due spagnoli e uno svizzero – che il 9 gennaio 1522 elesse l’outsider Adriano, fa capire che per il popolo romano si trattò di una brutta sorpresa. Ma lo fu anche per lo stesso neopapa, che mai aveva creduto e meno ancora desiderato di essere chiamato alla piú alta carica della Chiesa cattolica romana. L’elezione di un papa straniero, l’ultimo prima di papa Wojtyla nel 1978, fu infatti il risultato di un Utrecht. Particolare del monumento in onore di Adriano VI, ispirato al ritratto eseguito da Jan van Scorel e inaugurato nel 2005.

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personaggi adriano VI difficile compromesso tra cardinali filofrancesi e filotedeschi. Adriano non era mai stato a Roma, ma la sua fama di studioso pio, incorruttibile ed estraneo alle manovre della Curia romana, insieme all’età avanzata e la salute fragile, lo rendevano accettabile come candidato di compromesso. La notizia della sua nomina raggiunse prima la corte di Bruxelles, dove il 18 gennaio l’imperatore Carlo annunciò ai suoi collaboratori: «Maître Adrien est devenu pape!». Quattro giorni piú tardi un corriere informò lo stesso Adriano, che in quel momento si trovava nella città basca di Vitoria. Ma la notifica ufficiale arrivò soltanto tre settimane piú tardi e per mettere piede in Italia ci sarebbero voluti altri sei mesi. La comitiva incaricata di andare ad accogliere Adriano ritardava la partenza per la Spagna, probabilmente perché la situazione di sede vacante non dispiaceva affatto ai cardinali. Anche il viaggio verso Roma non era privo di rischi. La via di terra portava in territorio francese, dove il giovane re Francesco I era andato su tutte le furie per l’elezione dell’educatore del suo peggior nemico, Carlo V. E sul mare si rischiava l’aggressione da parte di pirati musulmani. Infine, partito il 15 agosto da Tarragona, Adriano arrivò il 29 a Ostia, per essere finalmente intronizzato il 31 agosto 1522 in S. Pietro. Scelse di mantenere il proprio nome, per dimostrare che continuava a considerarsi un semplice cittadino. A Roma, Adriano trovò una situazione disastrosa. Il suo predecessore, Leone X, morto all’improvviso – forse avvelenato – il 1° dicembre 1521, dopo otto anni di fasti, processioni, imprese culturali e campa-

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Sulle due pagine una veduta d’insieme e un particolare del monumento funebre di Adriano VI. 1529. Roma, S. Maria dell’Anima. Il papa vi fu traslato a dieci anni dalla morte, dopo essere stato inizialmente sepolto in S. Pietro.

gne militari, aveva lasciato le casse dello Stato della Chiesa vuote, con un debito di 800 000 ducati. Il nuovo papa che, secondo fonti contemporanee, impressionò i Romani con il suo aspetto ascetico e severo, dimostrò subito la volontà di far ordine e pulizia. Nel suo primo decreto vietò il porto d’armi in città, emanò misure contro le oscenità in pubblico e mandò in esilio tutti i personaggi ritenuti «dissoluti». In seguito rifiutò prebende e favori a numerosi que-

stuanti e negò ai cardinali l’antico diritto di dare asilo a criminali: «È nostra intenzione di far valere sempre la giustizia, anche se ciò dovesse distruggere il mondo».

Solo una domestica

Ridimensionò anche il suo staff personale, rimpiazzando i cuochi, camerieri, valletti e intrattenitori di Leone X con una sola donna di servizio olandese, addetta a lavare i suoi panni e preparargli pranzi semplici («solo birra e baccalà», fu il commento sprezzante dei Romani). Come misura di risparmio licenziò lo stuolo di artisti, letterati, studiosi, attori, musici, adulatori e cortigiane che avevano popolato i palazzi dei papi rinascimentali, fermando anche a metà il costoso progetto delle Stanze di Raffaello in Vaticano, che sarebbero poi state ultimate sotto il suo successore Clemente VII (va però considerata un’esagerazione la leggenda, riportata da Giorgio Vasari, secondo cui avrebbe voluto imbiancare le Stanze già dipinte). Molti reagirono indignati, in primo luogo l’Aretino. Il poeta protetto da Leone X aveva tifato intensamente per l’elezione del di lui nipote, il cardinale Giulio de’ Medici. Con Adriano invece si trovò senza entrate e si lasciò andare a epigrafi velenose contro il nuovo pontefice, che definí «la tigna tedesca». Allo stesso tempo, sulla famosa statua di Pasquino vicino piazza Navona, cittadini piú e meno noti appiccarono filippiche come questa, firmata da un certo Marius de Melinis Romanus, quasi certamente uno pseudonimo: «Roma cave, vigila, portas firmato (…) non levis hostis adest Gallus, non perfidus ille Poenus, non Gothus barbarus atque gennaio

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ferox, sed Trajectus duplex, male fidus, avarus»(«Roma, sta’ attenta, rafforza le porte (…) davanti non sta un nemico gallo insignificante, non un perfido punico, non un goto barbaro e feroce, ma uno di Utrecht, ambiguo, in malafede, avaro»). Barbaro o meno, Adriano sicuramente non condivideva l’amore per l’arte antica degli studiosi e dei religiosi italiani. Trovava le statue greco-romane poco interessanti, in quanto espressione di un’arte pagana, e nascose alla vista la collezione riunita dai suoi predecessori, che affidò alle cure del suo giovane connazionale Jan van Scorel, asse-

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gnandogli il compito che in precedenza era stato di Raffaello. In Vaticano, Van Scorel dipinse due ritratti del papa, ma non ebbe il tempo per incarichi di piú ampia portata. Dopo la morte di Adriano tornò in Olanda, dove per primo introdusse lo stile rinascimentale italiano. Possiamo quindi affremare che, indirettamente, il pontefice olandese ha contribuito al rinnovamento artistico del suo Paese.

Fermare il sultano

Il primo progetto di papa Adriano era ambizioso: riunire le potenze cristiane contro l’avanzata turca.

L’anno precedente, il sultano Solimano il Magnifico aveva conquistato Belgrado e continuava a minacciare le terre asburgiche, dove la sua avanzata si sarebbe fermata solo davanti alle porte di Vienna nel 1529. Tuttavia, a correre i rischi maggiori era Rodi, baluardo dei Cavalieri Ospedalieri dopo la loro cacciata dalla Terra Santa. L’isola era sotto assedio già dal giugno del 1522 e Adriano fece di tutto per convincere i due giovani sovrani che si contendevano l’egemonia europea – l’imperatore Carlo V e il re francese Francesco I – a deporre le armi in favore di un’alleanza

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personaggi adriano VI Commemorazioni

L’anno di Adriano Nel 2022 vi saranno molte iniziative per commemorare Adriano VI. Qui di seguito, segnaliamo alcune di quelle già programmate. In Vaticano, il 14 gennaio, si terrà un simposio sul papa olandese e, in primavera, le Poste Vaticane emetteranno un francobollo a lui dedicato. Il 24 aprile, nella chiesa romana di S. Maria dell’Anima, dove Adriano è sepolto, verrà celebrata una messa in suo onore, mentre il 31 agosto, nel Duomo di Utrecht, sarà ricordata la sua intronizzazione in S. Pietro. Il Museo Catherijne Convent di Utrecht sta progettando una mostra per l’autunno. La radio e televisione olandesi manderanno in onda un documentario e una serie di programmi e podcast. Infine, Covid permettendo, ci si attende un aumento del flusso, leggerro ma costante, di pellegrini olandesi verso la tomba di Paus Adriaan. comune per la liberazione di Rodi. Ma con scarsi risultati. Francesco guardava con sospetto all’ex tutore di Carlo V, il quale, a sua volta, era stato deluso dal rifiuto del papa di schierarsi apertamente come suo alleato. I tentativi di conciliazione caddero nel vuoto e, invece di unirsi contro il sultano, i due rivali si confrontarono nell’ennesima guerra in terra italiana. La crociata per Rodi non si fece mai e, nel dicembre 1522, l’isola cadde nelle mani dei Turchi. L’anno successivo fu scoperta in Vaticano una congiura ordita da cardinali filofrancesi, il che costrinse Adriano ad abbandonare la sua politica di neutralità e pacificazione e ad associarsi, poco prima di morire, all’alleanza antifrancese

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guidata da Carlo V. La sua politica internazionale era fallita.

Le tesi di Lutero

L’altro nemico da combattere era Martin Lutero. Erano passati solo cinque anni da quando il teologo tedesco aveva pubblicato le sue tesi contro il mercato delle indulgenze e contro il potere della gerarchia ecclesiastica, ma già una fetta consistente della popolazione nordeuropea, compresi numerosi principi tedeschi, era passata dalla sua parte (vedi «Medioevo» n. 249, ottobre 2017; anche on line su issuu.com). Il predecessore di Adriano, Leone X, perso nei giochi di potere vaticani e italiani, aveva sottovalutato la minaccia lontana della Riforma, illudendosi di poter zittire il «piccolo

Medaglione in bronzo con l’effigie di Adriano VI. 1522-1523. Washington, National Gallery of Art.

monaco tedesco», scomunicandolo. Il papa olandese, invece, conosceva bene il background culturale e sociale dei protestanti, condividendo con loro anche una parte delle critiche. Tuttavia, già nel 1519 aveva condannato le tesi di Lutero come eretiche e si era espresso contro qualsiasi tendenza scissionistica, in difesa della Chiesa unica e sacra. Da papa, fece arrivare a Roma alcuni teologi olandesi e tedeschi ortodossi, conosciuti negli anni trascorsi a Lovanio, per confutare le tesi dissidenti. Dal suo vecchio amico Erasmo, invece, ricevette un rifiuto cortese, ma deciso. Il famogennaio

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so umanista, che per la sua politica moderata era inviso sia ai cattolici che ai protestanti, si limitò a consigliare il papa di non essere troppo severo nei confronti dei protestanti. Adriano si rese conto che una replica dottrinale non sarebbe bastata a fermare l’ondata protestante. E scelse perciò una mossa insolita: chiese scusa per la corruzione che allignava nella Chiesa stessa. Nell’autunno del 1522 inviò un legato, Francesco Chierigati, alla Dieta tedesca a Norimberga, dove erano riuniti i príncipi cattolici e riformati. Nella lettera di istruzioni che gli diede e che Chierigati lesse ad alta voce davanti alla platea, Adriano riconobbe che negli anni passati la Santa Sede era stata fonte di atti spregevoli, abuso di potere spirituale e di un eccesso di nomine. Una malattia che, secondo Adriano, dalla testa della Chiesa si era estesa agli arti, cioè al clero alto e basso, e infine ai credenti comuni, mentre nessuno aveva fatto niente per impedirlo.

Un mea culpa a sorpresa

«Per obbedire alla volontà di Dio e per riformare la Sua sposa deformata, la Chiesa Cattolica», il papa promise di fare di tutto per riformare la Curia, fonte di gran parte del male, in modo che in seguito si facesse pulizia anche nei ranghi piú bassi. Secondo il pontefice questa era la strada obbligata, «perché vediamo quanto forte l’intero mondo desidera ardentemente una tale riforma». Il mea culpa di Adriano fu senz’altro una sorpresa, paragonabile solo a quello riferito agli abusi sessuali nella Chiesa pronunciato da un altro papa straniero, Benedetto XVI, quasi cinque secoli piú tardi. La mossa di Adriano, però, non ottenne l’effetto desiderato. Anzi, per i protestanti, già fortemente antipapisti, era una conferma delle loro ragioni, mentre i prelati cattolici, poco propensi a cambiare

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le proprie abitudini, lo interpretarono come un gesto di debolezza. Con questi presupposti, non deve sorprendere che la riforma della Curia non avesse nemmeno avuto inizio. Già la situazione a Roma era compromessa dalla peste, che tenne sotto scacco la città per piú di quattro mesi, durante i quali la maggior parte dei cardinali era fuggita. Inoltre, le vicende internazionali tenevano Adriano talmente occupato che gli restava poco tempo per entrare nei gangli della politica interna vaticana. Infine, non parlando l’italiano (comunicava in latino) e circondato da collaboratori olandesi e spagnoli poco amati dallo staff romano, rimase sempre uno straniero in una città che non comprendeva e che, a sua volta, non lo capiva, né voleva capirlo.

La fine

Nell’estate del 1523, in una Roma bollente e malsana, dove si ostinava a restare contro il parere dei suoi consiglieri, Adriano si ammalò. Morí il 14 settembre, circondato da quattro stretti collaboratori originari del Brabante. Da subito si sparse la voce che fosse stato avvelenato, ma specialisti contemporanei optano, in base ai rapporti del medico di Adriano, per un’infezione renale o da streptococco. Altro veleno fu sparso sulla statua di Pasquino, alla quale qualcuno affidò un ultimo saluto per il papa olandese: «Perfido come il mare, Adriano / Ipocrite, crudel, invido, avaro / Odioso a ciascun, a nessuno caro…» e cosí via. Il giorno dopo la morte, fu sepolto in S. Pietro. Dieci anni piú tardi fu traslato in S. Maria dell’Anima, l’attuale chiesa dei pellegrini tedeschi, dove tuttora riposa nella sontuosa tomba fatta costruire dal suo segretario Willem van Enckenvoirt. Fu la fine di un papato fatto di molte buone intenzioni e altrettante delusioni. Dopo cinquanta giorni, il successivo conclave elesse papa il car-

dinale Giulio de’ Medici, che scelse il nome Clemente VII. La restaurazione medicea venne salutata con grande gioia dai Romani. Dopo uno sgradevole intermezzo di austerità nordica erano tornati i fasti, i pittori, i poeti, i nipoti e le meretrici. Roma si sentí rivivere, almeno fino al Sacco del 1527: era tornata anche la guerra. Nel frattempo, la Riforma stava guadagnando terreno. La risposta cattolica si fece attendere fino al 1545, quando il successore di Clemente, Paolo III, convocò il Concilio di Trento. In quella città lontana da Roma fu almeno in parte rispolverata la tanto agognata riforma di Adriano. Ma lo scisma era ormai irreparabile. Le moderne teorie di comunicazione insegnano che, per combattere con successo una narrativa, occorre intervenire quando è ancora in statu nascendi, altrimenti è troppo tardi. La reazione della Chiesa cattolica alla nascita del protestantesimo ne è un bell’esempio. Questo fatto porta a chiedersi se Adriano, con piú tempo a disposizione, avrebbe potuto fermare la Riforma. La risposta sembra comunque negativa: secondo Twan Geurts, il biografo piú recente di Adriano, il pensiero protestante nell’Europa del Nord si era diffuso cosí velocemente, che ormai il dado era tratto. Su tutto pesò anche l’assoluta estraneità del papa rispetto al mondo romano: il suo essere un Olandese non fu certamente d’aiuto. Dall’analisi della storica Catrien Santing, che ha analizzato cinque secoli di commenti sulla figura di Adriano VI, emerge «la personificazione dell’olandese, con i suoi lati buoni e cattivi. Egli è semplice, onesto, parco e pio, ma allo stesso tempo rozzo e avaro e gli manca la cortesia e la civiltà». Leggendo queste righe, vengono in mente i recenti giudizi su alcuni politici olandesi etichettati come «frugali»; e la somiglianza senza dubbio colpisce...

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genova palazzo san giorgio

Quando Genova dominava il

mondo

di Giacomo Montanari

Frutto di ripetute trasformazioni e delle «ricostruzioni» neomedievali di Alfredo D’Andrade, le forme attuali di Palazzo San Giorgio non devono trarre in inganno: la sua storia è, infatti, molto antica e prende le mosse alla metà del Duecento, quando il Comune del capoluogo ligure volle darsi una nuova sede. L’esperimento fu di breve durata, ma non per questo il magnifico edificio perse d’importanza. Anzi, divenne uno dei centri nevralgici dell’economia di una città capace di imporsi a lungo come potenza egemone della regione mediterranea e non solo

L L

a linea mediana su cui oscilla l’identità di una città unica e straordinaria come Genova è sempre stata quella sub ripa maris, ancora oggi chiamata Sottoripa: là dove finisce il mare e comincia la città. Proprio qui, nel 1260, non nel fitto dedalo dei caruggi o nelle anguste e consortili piazze del centro storico, il capitano del popolo Guglielmo Boccanegra fece costruire al cistercense Frate Olivero la sede del Comune di Genova, che – prima d’allora – aveva tenuto le sue sedute in luoghi di pertinenza pubblica e privata, come la Cattedrale o alcuni palazzi aristocratici. Il palazzo del mare, come venne chiamato in prima battuta, avanzava direttamente le sue propaggini nel bacino del Mandraccio, diventando quindi simbolicamente il trait d’union tra la città e il suo reale dominio, che certo non era rappresentato dalla terraferma, bensí dalla vasta distesa liquida di cui Genova – soprattutto nel XIII secolo – poteva ritenersi signora quasi incontrastata. Di quel palazzo, oggi, non esiste quasi piú alcuna traccia, se non la loggia dalle arcate gotiche che affronta – in un emblematico dialogo – quelle analoghe della palazzata della Ripa. Ma se le forme del palazzo vengono profondamente modificate – come si vedrà

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– nel Cinquecento e poi, assai piú radicalmente, ripensate dalla passione medievalistica dell’architetto Alfredo D’Andrade (1839-1915) alla fine del XIX secolo, immutate ed eloquenti permangono le memorie figurative di quello che – in ogni tempo – è stato uno degli edifici monumentali pubblici piú rappresentativi dell’identità della Superba.

Per controllare le finanze e i traffici

Nato, come detto, per ospitare la sede del Comune, il palazzo, in realtà, non funzionò a lungo come punto di incontro delle magistrature di governo. Alla fine del XIII secolo, venne infatti completato quello che, a partire dal 1339, prese il nome di Palazzo Ducale e che, dalle sue origini sino al 1797 – anno di termine della Repubblica di Genova – assunse i principali compiti di controllo politico della città. In breve tempo il palazzo di Sottoripa si trovò quindi a essere l’edificio utilizzato per un’altra fondamentale mansione, quella del controllo delle finanze e dei traffici mercantili. Già nel 1340 in questo sito vennero infatti inseriti gli uffici doganali che dovevano controllare i contenziosi sulle gabelle, le esenzioni dai dazi e le quantità di merci provenienti dalle colonie. In quegli anni Genova stagennaio

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Salvo diversa indicazione, le foto che corredano l’articolo documentano l’architettura e le opere d’arte di Palazzo San Giorgio a Genova.

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L’affresco di Lazzaro Tavarone raffigurante san Giorgio che trafigge il drago, dipinto sulla facciata del palazzo. 1606-1608.

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genova palazzo san giorgio A sinistra una veduta dall’alto del palazzo. Nella pagina accanto mappa a volo d’uccello della città di Genova realizzata sulla base di uno dei cartoni del geografo Ignazio Danti. 1580-1585. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Galleria delle Carte Geografiche. In basso mascherone che, secondo la tradizione, proverrebbe dal Palazzo dei Veneziani di Costantinopoli.

va del resto vivendo un’espansione commerciale senza precedenti, che l’aveva portata a essere la vera e propria regina del Mediterraneo. Tra il XIII e il XIV secolo, i Genovesi espansero i propri domini sino alle isole greche e alla Crimea, costruendo reti commerciali con gli imperi affacciati sul Mar Nero, ma anche con le ricche Fiandre, grazie allo sfruttamento delle nascenti rotte atlantiche. Ma se, da un lato, questa crescita determinò uno sviluppo importantissimo, dall’altro il Comune vide lievitare le ingenti spese di gestione di un territorio coloniale molto vasto. E proprio per far fronte alle difficoltà di gestione delle risorse economiche, è nel contesto del Palazzo del Mare che, nel 1407, nacque la Casa del Banco di San Giorgio. La neonata istituzione basava la sua attività sul sistema delle Compere con le quali i privati riuscivano a coprire il debito pubblico generato dalle continue uscite monetarie utilizzate per finanziare la campagna di espansione territoriale. La Compera era un’innovativa associazione di creditori dello Stato, che riuniva tutti i prestatori e permetteva al Comune di garantire agli associati il versamento di un interesse annuale bloccato inizialmente al 7% e il successivo rimborso del debito attraverso il diritto alla riscossione di un’imposta pubblica indiretta.

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In questo modo il debito pubblico del Comune venne a essere amministrato quasi totalmente da un’istituzione privata come la Casa di San Giorgio, che, per tutto il Quattrocento, continuò a prestare denaro allo Stato attraverso il sistema delle Compere, accaparrandosi la possibilità di riscuotere le tasse pubbliche sui beni di prima necessità e i beni di lusso, oltre che sulle tariffe degli atti amministrativi e notarili. Presto il Comune divenne talmente dipendente dal Banco per la sua sussistenza finanziaria, che, alla metà del XV secolo, fu sostanzialmente costretto a cedere a San Giorgio l’amministrazione diretta di alcune colonie, come Cipro e la Corsica. Attraverso questo sistema, il Banco di San Giorgio riuscí a creare un equilibrio finanziario stabile e duraturo, che permise l’immediato affiancamento di un vero e proprio sistema di credito moderno, tale da garantire la possibilità ai soggetti privati che ne facevano parte di formare attività di deposito, prestito e giro bancario. Le ricchezze amministrate dal Banco erano quindi sia le quote di capitale statale acquisite direttamente dal debito pubblico, sia i patrimoni privati delle famiglie aristocratiche che in quel periodo si stavano arricchendo con i commerci coloniali e che, nel giro dei due secoli succesgennaio

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In alto la traduzione in italiano della lapide in latino che ricorda la fondazione del palazzo per iniziativa di Guglielmo Boccanegra. A sinistra frontespizio di un’opera di Carlo Cuneo dedicata all’attività del Banco di San Giorgio. Genova, 1842.

sivi, rivoluzionarono la situazione urbanistica cittadina con la creazione del sistema dei Palazzi dei Rolli. A partire dall’inizio del XV secolo, tutte le principali attività finanziarie passarono quindi attraverso gli uffici del Palazzo del Mare. Questa struttura venne in breve presa come modello di studio per altre città europee tanto che addirittura Niccolò Machiavelli, nelle sue Istorie Fiorentine, affermò: «E s’egli avvenisse, che col tempo in ogni modo avverrà, che S. Giorgio tutta quella città occupasse, sarebbe quella una Repubblica piú che la Vineziana memorabile».

Per la gloria dei benefattori

Un’istituzione tanto importante da suscitare addirittura l’interesse di Machiavelli non poteva non dotarsi di una decorazione artistica di un certo livello. Cosí, durante il XV e il XVI secolo, Palazzo San Giorgio divenne un vero e proprio cantiere per i principali pittori e scultori attivi a Genova. Le statue, in particolare, vennero pensate dal Banco per celebrare i piú importanti benefattori dell’istituzione e sono conservate nei principali ambienti del palazzo, la Sala del Capitano e la Sala delle Compere. La prima è la stanza dedicata a Guglielmo Boccanegra, fondatore del Palazzo nel 1289, ed è qui che si trovano le opere piú antiche. Infatti, le sculture vennero realizzate a partire dal

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sala della scrittura

sala antica delle lapidi atrio

1444

ufficio del

cortile

sala antica delle congreghe

ufficio del sale

sala delle congreghe

sala e ufficio dei protettori

Rilievo planimetrico del pianterreno del palazzo prima del restauro di Alfredo D’Andrade.

Rilievo planimetrico del primo piano del palazzo prima del restauro di Alfredo D’Andrade.

vestibolo

cortile

loggetta

manica lunga

sala del capitano del popolo

cortile

loggia

porticato

ingresso

salone delle compere

Rilievo planimetrico del pianterreno del palazzo dopo il restauro di Alfredo D’Andrade.

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sala dei protettori ufficio del presidente

Rilievo planimetrico del primo piano del palazzo dopo il restauro di Alfredo D’Andrade.

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La Sala del Capitano del Popolo, dedicata a Guglielmo Boccanegra. Originariamente divisa in tre spazi separati, si presenta oggi nell’aspetto conferitole da Alfredo D’Andrade.

1466 con le prime commissioni affidate allo scultore lombardo Michele d’Aria, che scolpí i ritratti di Francesco Vivaldi – precursore del sistema delle Compere nel corso del XIV secolo –, Domenico Pastine, Luciano Spinola – benefattore che aveva lasciato un importante lascito per alleggerire la gabella sul grano – e Ambrogio Di Negro, la cui statua fu la prima dedicata a un benefattore ancora in vita essendo stata realizzata intorno al 1490, nel momento in cui l’uomo era Commissario del Banco per la Corsica. In questi ritratti l’artista imposta le figure intere con busti ben definiti e linee nitide facendo scendere le vesti sino ai piedi in panneggi delicati, che smorzano la rigidità delle posture, andando a costruire composizioni che risentono dell’influenza della nuova scuola toscana, senza tuttavia trascurare la matrice tardo-gotica, cifra stilistica tipica delle scuole dei magistri lombardi e in questo caso particolarmente evidente nella statua del primo benefattore, raffigurato seduto sul suo imponente trono. Ai lavori di Michele D’Aria seguirono, all’inizio del secolo successivo, altri ritratti di uomini illustri, come Francesco Lomellini – raffigurato da Pace Gagini –, Ansaldo Grimaldi – scolpito da Nicolò da Corte – e, soprat-

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tutto, Eliano Spinola, il cui ritratto venne realizzato nel 1533 da Alessandro Scala da Carona. Proprio Eliano Spinola è una figura molto interessante, che aiuta a comprendere come la maggior parte dei benefattori del Banco fossero uomini dalla straordinaria ricchezza, ma anche dall’eccezionale cultura. Nato all’inizio del Quattrocento dal potente ramo della famiglia originario del quartiere di Luccoli, Eliano fu infatti un importante commerciante, attivo tra le colonie genovesi di Chio in Grecia e le Fiandre, oltre che abile diplomatico presso il re di Sicilia Alfonso d’Aragona e papa Pio II. Queste attività gli permisero di accumulare un patrimonio ingente e di tessere amicizie importanti, che lo fecero avvicinare al mondo dell’arte. In breve tempo, come dimostrano i suoi inventari, Spinola divenne proprietario di mobili di pregio, tappeti, arazzi, dipinti e libri, che divennero parte di una biblioteca privata: dalle sue mani transitò anche il piú grande cameo dell’antichità, la cosiddetta Tazza Farnese (una coppa in agata sardonica realizzata per la corte alessandrina, su commissione di un sovrano tolemaico, nel III secolo a.C., n.d.r.), che fece parte delle raccolte di Lorenzo il Magnifico e oggi è conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Conoscitore non solo del latino, ma – probabilmente – della lingua greca, Eliano Spinola si può dunque considerare tra gli iniziatori di una nuova tendenza gennaio

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che portò i ricchi aristocratici genovesi ad affiancare agli interessi economici lo sviluppo delle conoscenze personali sull’arte e la cultura, un interesse che, a partire dal 1587, sfociò nella fondazione dell’Accademia degli Addormentati, un vero e proprio circolo nel quale gli uomini di cultura della Repubblica si potevano riunire per studiare i testi classici e prendere a modello la storia e i suoi personaggi per un’amministrazione efficace della città. Ma Eliano Spinola fu anche un grande benefattore per la popolazione genovese. Tra le disposizioni del suo testamento si possono infatti notare i lasciti affidati ad alcuni monasteri genovesi come quello di S. Maria di Castello o di S. Nicolò del Boschetto, e gli ingenti finanziamenti per i poveri e per l’Ospedale Pammatone. E proprio grazie alla sua magnanimità la sua statua venne inserita all’interno della Sala del Capitano di Palazzo San Giorgio.

Una tradizione duratura

La scelta di commissionare ai principali scultori genovesi, e non solo, ritratti degli uomini illustri attivi a supporto del Banco di San Giorgio proseguí per tutto il Cinquecento e buona parte del Seicento, con le statue inserite anche all’interno della Sala delle Compere, il salone principale del Palazzo del Mare, e del vestibolo, denominato Manica Corta. Da Ansaldo

In questa pagina due dei ritratti dei piú importanti benefattori di Genova collocati nella Sala del Capitano del Popolo. In alto, la statua che ritrae Luciano Grimaldi, opera di Antonio Della Porta, detto il Tamagnino (1479); a sinistra, la statua raffigurante Eliano Spinola, realizzata da Alessandro Scala da Carona (1533).

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Grimaldi – scolpito da Giovanni Battista della Porta nel 1539 – ad Angelo Chioccia – ritratto da Tommaso Orsolino nel 1671 –, passando per la statua del 1602 di Taddeo Carlone raffigurante Manfredo Centurione, sulle pareti laterali della stanza si susseguono le figure dei finanzieri della Repubblica, in uno spazio che aveva la funzione principale di ospitare le assemblee degli associati del Banco. Come tutti gli altri ambienti dell’edificio, anche il salone si mostra oggi con un aspetto ben diverso da quello originale a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, che causarono il crollo di buona parte del soffitto e il danneggiamento di molte delle sculture dei benefattori, che si presentano quindi mutile e in molti casi non ben leggibili. Tuttavia, a differenza di altri spazi riallestiti da D’Andrade, nella Sala delle Compere le statue cinquecentesche sono ancora oggi affiancate da alcune decorazioni pittoriche che non sono state compromesse dai danni provocati dalla guerra. Si tratta di due opere su tavola quattrocentesche raffiguranti lo Stemma di Genova con le allegorie di Pace, Giustizia e Fortezza e il

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Combattimento di San Giorgio e il Drago, realizzate rispettivamente da Francesco De Ferrari e Luchino da Milano, e di una grande tela di Domenico Piola, dipinta nel 1671 su incarico dei Protettori del Banco. Proprio quest’opera è molto significativa, in quanto raffigura un tema iconografico particolarmente importante per la città: la Madonna Regina di Genova. Il 25 marzo del 1637 la Repubblica di Genova adottò l’originale soluzione di trasformare il proprio ordinamento politico in una monarchia, salvo poi intestare a Maria Vergine la corona e, dunque, non dover rendere conto del proprio operato ad alcun monarca, che non fosse il Doge. In concreto, però, l’escamotage doveva permettere alla Repubblica di passare da pari rispetto alle altre teste coronate nel cerimoniale internazionale. La Madonna Regina di Genova divenne immediatamente un’iconografia di propaganda, da trasmettere il piú possibile e da evidenziare negli spazi pubblici di particolare importanza. Cosí, anche nel Palazzo in cui si amministravano le finanze dello Stato il tema venne ripreso e inserito all’interno di un dipinto. E, per farlo, venne chiamato Domenico Piola, il pittore piú in voga gennaio

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Nella pagina accanto la lapide che riguarda la cessione di varie gabelle (XVIII sec.) e le cassette per le «lettere orbe», cioè per segnalazioni anonime di disservizi del Banco di San Giorgio. In basso un rilievo in marmo, collocato nel loggiato del palazzo, con san Giorgio che sconfigge il drago. XVI sec.

del momento, il quale, con l’abilità che gli era propria, riuscí a creare una composizione fluida, in cui la Vergine, incoronata dal Bambino, rivolge lo sguardo a Giorgio che mostra la sconfitta del drago, presentando lo stretto rapporto presente a Genova tra la Regina e il suo santo piú simbolico.

Secoli di oblio e poi la rinascita

Ma il piú organico ciclo decorativo inteso a dimostrare lo straordinario rapporto tra la città, il palazzo e il ruolo dello stesso nel costituirne uno dei luoghi di rappresentanza si trova ancora oggi sulla facciata a mare, quasi a presentarsi nei confronti di tutti coloro che da lí arrivavano. Il grande affresco, realizzato dal pittore genovese Lazzaro Tavarone – forse il piú illustre allievo di Luca Cambiaso – all’inizio del Seicento, è stato interamente ricostruito con lo stile imitativo straordinario di Ludovico Pogliaghi all’inizio del Novecento, quando il palazzo – dopo secoli di terribile decadenza – aveva vissuto un totale ripristino, come detto, a opera dell’architetto D’Andrade. Risorgevano, dunque, sulla base della memoria pittorica lasciataci da Giovan Battista Paggi in un’opera ancora conservata presso il palazzo, i Viri Illustres della città, che avevano rappresentato il glorioso Comune e – poi – la potentissima Repubblica di Genova. Evocati in monumentali trompe-l’oeil, a fingere altrettante sculture in bronzo dorato, si stagliano sull’antico porto Guglielmo Embriaco, Caffaro da Caschifellone, Simone Boccanegra, Biagio Assereto, Cristoforo Colombo, Andrea Doria. Embriaco «Testa di Maglio» tende al cielo il Sacro Catino, la reliquia piú straordinaria da lui riportata in città dalla conquistata Cesarea, insieme alle ceneri del Battista, e vero oggetto di pellegrinaggi: non rinunceranno a vederlo né Ciriaco d’Ancona, l’intellettuale e protoarcheologo venuto in visita nel 1434, né Pietro Paolo Rubens, il rivoluzionario pittore barocco che stette a piú riprese in città tra il 1604

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e il 1607. Caffaro impersona la «storia Urbis», con i suoi Annales stretti sotto il braccio a rappresentare – se ve ne fosse bisogno – la vetustà della Superba, incarnata – neppure a dirlo – dall’autorevolezza del primo Doge, Simon Boccanegra, per l’occasione rivestito (senz’altro da Pogliaghi) dell’ermellino regale, che i Dogi porteranno solo a partire dal 1637. Biagio Assereto e Colombo, rappresentano poi due categorie di vincitori marittimi: Assereto è il vincitore militare della battaglia di Ponza (1435) da cui Alfonso d’Aragona tornò in catene, alla quale il sopra ricordato Ciriaco d’Ancona dedicò la sua Naumachia Regia; Cristoforo Colombo, lo sappiamo bene, è il vincitore dell’Oceano, che schiuse all’Occidente quella rotta nuova che tanti destini cambiò – in maniera, ahimè, ambivalente – per i popoli di qua e di là del mare. E poi Andrea Doria, il gigante novantenne, Pater patriae, politico, ammiraglio, spregiudicato «gambler» nella fluida trasformazione dell’Europa del Cinquecento e autore di quel capolavoro di mediazione che fu l’autonomia di Genova e la creazione del nuovo sistema amministrativo repubblicano, capaci – entrambi – di fare la fortuna di Genova per oltre due secoli. Al centro della facciata, si staglia la figura di san Giorgio nell’atto di trafiggere il drago, uno dei piú ri-

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A sinistra la Sala delle Compere, anche detta «delle Congreghe», la cui costruzione fu commissionata dal Banco di San Giorgio nel XV sec. per ospitare il Gran Consiglio, composto da circa 400 membri. In basso Madonna Regina di Genova con il Bambino e San Giorgio, olio su tela di Domenico Piola. 1671. Il dipinto è collocato nella Sala delle Compere, sopra la statua di Battista Grimaldi.

correnti motivi figurativi del tessuto territoriale genovese, a partire dall’incredibile e meraviglioso patrimonio diffuso dei bassorilievi in pietra nera di promontorio a sormontare le porte delle case aristocratiche del XV secolo, fino a giungere – e certo nella remota influenza levantina, ma con la qualità piú alta possibile – alla pala di Pier Francesco Sacchi conservata presso il convento francescano di Levanto.

Una facciata dai molti volti

Eppure, la continuità rappresentata da questi affreschi non è riferibile esclusivamente alla tangenza con un’iconografia assai praticata nella sfera d’influenza genovese, quanto anche alla meravigliosa e sorprendente sovrapposizione di epoche e linguaggi che li videro reinterpretati in almeno tre occasioni nei loro quattro secoli di vita. Dal linguaggio della tarda maniera praticato da Tavarone, al neo-rinascimento di Pogliaghi, fino alla tecnica ibrida e di letterale ponte tra l’antico e il contemporaneo di Raimondo Sirotti, che li riprese magistralmente nel 1992. Una facciata dai molti volti, che con la sua proiezione nello specchio del porto vecchio, fu anche testimone della riapertura di quell’area alla città, con la risistemazione visionaria e vincente operata da Renzo Piano. Ma se la facciata mantenne la sua fisionomia – quasi insensibile al trascorrere inesorabile del tempo – il palazzo non visse la medesima vicenda: l’intervento massiccio e ideologico di Alfredo D’Andrade, alla fine

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In basso bozzetto per l’affresco della facciata ovest del palazzo, olio su tela di Ludovico Pogliaghi. Inizi del XX sec.

Capitani coraggiosi

Il mare e le sue storie

Palazzo San Giorgio, simbolo a Genova del mare e dell’economia, apre per la prima volta le sue porte alla cultura. Fino al 7 aprile la Sala del Capitano – che ha visto passare i grandi navigatori e i potenti genovesi del passato – ospita infatti la rassegna «Capitani coraggiosi a Palazzo San Giorgio», ideata da Teatro Pubblico Ligure con la direzione artistica di Sergio Maifredi, a cui è stato affidato il compito di realizzarla dall’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale, con il patrocinio dell’Accademia Italiana della Marina Mercantile. Obiettivo degli incontri è quello di raccontare la cultura del mare e la letteratura che esso ha prodotto, affidando il compito ad alcuni cantori di oggi tra cui Paolo Rossi, Andrea Nicolini e Alberto Giusta, Giuseppe Cederna, Moni Ovadia e Corrado D’Elia.

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È come se fosse Genova stessa a parlare, prendendo in mano una storia che l’ha resa grande, con un potere riconosciuto in tutto il Mediterraneo e anche oltre, per avvicinare il suo passato illustre a un presente in cui lo sviluppo non può piú fare a meno della conoscenza e della cultura. L’avventura, l’epica, la solitudine, il fascino esercitato dalle creature marine femminili, le leggende, la scoperta, la caccia, l’esplorazione degli abissi, il naufragio, i viaggi sono fra i temi di alcuni dei libri piú belli della letteratura del mare, a cui la rassegna dà voce. Per informazioni www. teatropubblicoligure.it Tutti gli spettacoli iniziano alle 17,00, sono a ingresso libero con prenotazione obbligatoria (tel. 348 2624922 o e-mail info@ teatropubblicoligure.it) e sono preceduti da una visita guidata al palazzo.

del XIX secolo, portò infatti a un recupero della struttura – che i secoli avevano, effettivamente, gravemente compromesso – in chiave neo-medievale e – di fatto – piú immaginaria che reale. La grande maestria di D’Andrade, la sua profonda conoscenza del tessuto medievale italiano ed europeo e la sua raffinata sensibilità di uomo di cultura conferí, però, a Palazzo San Giorgio una facies di strepitosa unitarietà e – sebbene non si sia certamente trattato di un restauro filologico – la struttura recuperò la perduta vetustà e guadagnò una eccezionale qualità nell’acquisizione di alcuni spazi, inventati con sapienza dall’architetto e soprintendente, come l’attuale Sala del Capitano. Qui D’Andrade arrivò a replicare con maniacale attenzione artigiana i laggioni d’antica fattura, caratterizzandone la decorazione anche a scapito delle originarie modalità secondo cui questi elementi venivano utilizzati in antico. Palazzo San Giorgio rappresenta, quindi, un elemento architettonico e artistico dalle caratteristiche straordinarie, testimoni di secoli di storia genovese e uniche al mondo. Una realtà stratificata eppur perfettamente leggibile nei suoi livelli sovrapposti, cosí come è la città stessa di Genova: una eccezionale «sezione» degli ultimi mille anni di storia, sedimentatisi qui, in riva al Mediterraneo, a raccontare alcune delle vicende piú stupefacenti del mondo.

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vivere al tempo del decameron/1

Buffalmacco pittore

di Corrado Occhipinti Confalonieri

goliardico I I

l Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375) è considerato il primo romanzo in lingua volgare della letteratura italiana e il suo valore letterario è immenso e indiscutibile. Lo spunto dell’opera è noto: durante l’epidemia di peste del 1348, tre ragazzi e sette ragazze della nobiltà cittadina decidono di fuggire da Firenze e di isolarsi in campagna. Nell’introduzione lo scrittore certaldese racconta non solo le conseguenze fisiche della malattia sulle persone, ma anche gli aspetti psicologici: la dilagante paura della morte che porta caos e crudeltà nei rapporti. I dieci giovani non sono mossi solo dal bisogno di preservare la propria salute, ma anche da quello di custodire la loro moralità. Si rifugiano cosí a Fiesole, nelle loro ville: in quei piccoli paradisi terrestri vogliono rifondare una società nuova, basata sull’ordine e sull’umanità. Sulla base di un principio di democrazia, ogni giorno fra i dieci viene eletto a turno un re o nominata una regina, che fissano le regole del vivere quotidiano. Fulcro delle dieci giornate è la novella, a tema libero oppure su un argomento prestabilito, raccontata da ciascuno, fra banchetti, canti e balliAl termine dell’isolamento, i giovani rientrano in città sani e salvi, consapevoli delle certezze assimilate dal vivere in armonia tutti insieme. È opinione corrente che una possibile fonte di ispirazione del Decameron sia un particolare del Trionfo della Morte (vedi foto alle pp. 66/67) dipinto ad affresco nel Camposanto di Pisa da Buonamico Buffalmacco, su commissione dai frati domenicani, fra il 1336 e il 1341. L’episodio in questione compare sulla destra del dipinto: una brigata di dieci giovani, tre uomini e sette donne – come nel Decameron – si mostrano in un verziere, intenti a conversare e a fare musica. Non si sono accorti che a volo sta per giungere la Morte per mietere con una grande falce le loro vite. Con questa rappresentazione i frati domenicani volevano lanciare agli osservatori un messaggio in grado di spaventarli, come a dire: «Pentitevi, la morte raggiunge tutti, anche chi si dedica a una vita di piaceri». Boccaccio però riserva una fine diversa ai dieci novellatori, perché, se nell’affresco di Pisa la Morte li raggiunge, nel suo libro riescono a sfuggirle. La comitiva di Fiesole porta con sé i princípi che le consentono di sopravvivere: pietà, concordia e onestà. Alcuni temi trattati nelle novelle possono sembrare di sboccata crudezza, ma l’ilarità suscitata dagli errori, dalle debolezze e dalle goffaggini altrui serve ai giovani fuggitivi per esorcizzare la paura e restare saldi nei loro valori davanti alle incognite del futuro. Proveremo dunque a leggere il Decameron secondo una chiave particolare, soffermandoci sui tanti particolari che ci consentono di conoscere aspetti meno noti ma assai interessanti della realtà medievale. Un percorso al termine del quale ne avremo una conoscenza piú approfondita, perché sarà stata descritta dai protagonisti stessi delle novelle, con le loro parole e i loro modi di pensare e di agire. 62

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Il Decameron, olio su tela di John William Waterhouse. 1916. Liverpool, National Museum. Boccaccio si dedicò alla sua opera maggiore tra il 1349 e il 1351; nella scena il gruppo di donne ascolta rapito il racconto di un giovane narratore.

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lle beffe, nel Decameron, sono dedicate la settima e l’ottava giornata, ma, in realtà, se ne trovano molte altre disseminate nel libro. Buonamico Buffalmacco è il protagonista, in due giornate, di ben cinque novelle (VIII 3, 6, 9; IX 3, 5): può dunque essere considerato, a buon diritto, il re delle beffe. Sono racconti in cui si scherza sui soldi, sul cibo e sul corpo, tutti argomenti ben lontani dalla tragedia in atto a Firenze. Buffalmacco non è un personaggio letterario. Vissuto nella prima metà del Trecento, fu davvero un pittore molto stimato – seguace di Giotto – e, come accennato nell’introduzione, dipinse a Pisa un vasto ciclo, fonte molto probabile per il tema della vita serena nel giardino, di ispirazione per il Decameron. Nell’opera di Boccaccio i suoi compagni d’avventura sono i colleghi pittori, anch’essi realmente vissuti, Bruno (Bruno di Giovanni d’Olivieri) e Calandrino (Nozzo o Giannozzo di Pierino) che però non possiedono lo stesso suo talento. Dei tre amici, Buffalmacco e Bruno sono i furbi beffatori: «uomini sollazzevoli molto ma per altro avveduti e sagaci» (giornata VIII, novella 3), mentre Calandrino è lo sciocco beffato che gli amici «de‘ modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano» (VIII, 3).

La favolosa Elitropia

I tre pittori fiorentini compaiono per la prima volta nella novella (VIII, 3) in cui Calandrino crede alla fandonia di Maso del Saggio «giovane di maravigliosa piacevolezza in ciascuna cosa che far voleva, astuto e avvenevole»: nel fiume Mugnone si troverebbe una pietra con la capacità di rendere invisibile chi la possiede, l’Elitropia. Calandrino gli chiede come sia fatta questa pietra: «Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è piú alcuna meno [meno grossa], ma tutte sono di colore quasi come nero». Calandrino vuole coinvolgere

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nella ricerca anche gli amici Buffalmacco e Bruno «li quali spezialissimamente amava» e racconta loro il suo piano: «Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i piú ricchi uomini di Firenze: per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la quale chi la porta sopra [addosso] non è veduto da niuna altra persona; per che a me parrebbe [sembrerebbe ben fatto] che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andasse, v’andassimo a cercar. Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scar-

sella [borsetta di cuoio attaccata alla cintura] e andare alle tavole di cambiatori [ai banchi dei cambiavalute e dei banchieri], le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi [piccole monete d’argento] e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremmo? Niuno ci vedrà; e cosí potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dí a schiccherare [imbrattare, sgorbiare] le mura a modo che fa la lumaca». Bruno e Buffalmacco sembrano entusiasti dell’idea, gli chiedono come si chiama la pietra, ma Calandrino «di grossa pasta» si ricorda solo che è di colore nero; secondo lui basta andare subito a raccoglierle gennaio

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In questa pagina Giovanni Boccaccio nell’affresco di Andrea del Castagno, da Villa Carducci. 1450 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nella pagina accanto frontespizio di un’edizione a stampa del Decamerone pubblicata a Venezia nel 1542.

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Un gruppo di giovani donne, in un giardino, impegnate in una serena conversazione, allietata dalla musica, particolare del Trionfo della Morte, affresco realizzato da Buonamico Buffalmacco per il Camposanto di Pisa. 1336-1341. La scena potrebbe aver costituito una delle fonti di ispirazione del Decameron.

tutte per trovare quella giusta. Bruno frena l’entusiasmo dell’amico, dicendogli che, con il sole cosí alto e caldo, le pietre sembrano tutte bianche: meglio aspettare la domenica mattina, anche per non incontrare gente che lavora nei pressi del fiume, i quali «vedendoci si potrebbero indovinare quello che noi andassimo faccendo e forse farlo essi altressí».

Carico come un somaro

Il giorno prestabilito, Buffalmacco e Bruno raccolgono sul greto qualche pietra qua e là mentre Calandrino «non fu guari di via andato, che egli il seno se n’ebbe pieno [riempito di pietre]; per che, alzandosi i gheroni della gonnella [lembi della veste lunga], che alla analda non era [cioè non era stretta e corta come andava allora di moda], e faccendo di quegli ampio grembo, bene avendogli alla correggia [cintura di cuoio] attaccati d’ogni parte, non dopo molto gli empié; e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo [cioè prese in mano le falde del mantello in modo da potervi riporre le pietre], quello di pietre empié». Vedendo che Calandrino è carico come un somaro, Bruno e Buffalmacco secondo il piano prestabilito fingono di non vederlo: «Deh come egli ha ben fatto» dice allora Buffalmacco «d’averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo sí sciocchi, che noi gli credemmo». Convinto d’essere diventato invisibile, ad apparente loro insaputa, Calandrino decide di tornarsene a casa. Gli amici lo seguono e fingono di essere arrabbiati con lui: lo prendono di mira con alcuni

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Sulle due pagine miniature da un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. In alto, Bruno consegna a Calandrino una pergamena per la pozione d’amore; la moglie di Calandrino sorprende il marito con Niccolosa. Nella pagina accanto, Calandrino e i suoi amici cercano l’Elitropia nel Mugnone; Calandrino bastona sua moglie.

ciottoli, sapendo che Calandrino, per evitare di essere scoperto, non può lamentarsi. Poi lo precedono e avvisano «le guardie de’ gabellieri [dazieri]» di porta San Gallo della burla e questi «faccendo vista di non vedere lasciarono andar [passare] Calandrino con le maggior risa del mondo». L’ingenuo pittore ricorda invece quanto di solito sono solerti: «niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli [sec-

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canti] e noiosi que’ guardiani a voler ogni cosa vedere». La fortuna è «piacevole [propizia]» alla beffa, perché né al fiume né in città nessuno riconosce Calandrino e cosí carico di pietre entra in casa sua. Ma la moglie Tessa, «bella e valente donna (…) alquanto turbata della sua lunga dimora [assenza] lo accoglie inveendo: «Mai, frate, il diavol ti ci reca! [Finalmente, una buona volta il diavolo ti porta a casa, fratello!]». Sentendo queste parole, Calandrino capisce di essere scoperto: «Oimè malvagia femina, o eri tu costí? Tu m’hai diserto [mi hai rovinato], ma in fé di Dio io te ne pagherò!».

L’ira di Calandrino

Scaricate le pietre, rabbioso comincia a picchiare la moglie, accusandola di essere una diavola per aver fatto svanire l’incantesimo che lo rendeva invisibile, fino a quando

non si sente chiamare da Buffalmacco e da Bruno. Vedendo Tessa pesta e scarmigliata, Buffalmacco chiede a Calandrino cosa sia successo, ma l’amico è talmente furibondo che non riesce neppure a parlare: «Calandrino, se tu avevi altra ira [se avevi altro motivo di collera], tu non ci dovevi perciò straziare [dileggiare] come fatto hai; ché, poi sodotti [lusingati] ci avesti a cercar teco [con te] della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo a guisa di due becconi [bestioni] nel Mugnon ci lasciasti e venistitene, il che noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia [l’ultima] che tu ci farai mai». A queste parole Calandrino sforzandosi risponde: «Compagni non vi turbate l’opera [la faccenda] sta altrimenti che voi non pensate. Io, sventurato!, aveva quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me dogennaio

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mandaste l’un l’altro, io v’era presso a men di diece braccia e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate v’entrai innanzi [camminai avanti a voi] e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto». Per dimostrarlo, gli mostra come i ciottoli gli avevano ridotto le calcagna e la schiena. Poi incolpa nuovamente la moglie, «questo diavolo di questa femina maledetta mi si parò dinanzi e ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perdere la vertú a ogni cosa di che io, che mi poteva dire il piú avventurato uom di Firenze, sono rimaso il piú sventurato; e per questo l’ho tanto battuta quanto io ho potuto menar le mani». Bruno e Buffalmacco stanno scoppiando a ridere, ma poiché l’amico vuole picchiare un’altra volta la moglie lo fermano, sostenendo che Tessa non ha alcuna colpa, se Calandrino sapeva che le donne hanno il potere di far perdere

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«vertú» a ogni cosa, doveva evitare di apparirle davanti quel giorno. Questa precauzione Iddio non gli aveva permesso di avere, perché «la ventura non doveva essere sua» o perché «egli aveva in animo di ingannare i suoi compagni»: non appena trovata l’Elitropia, doveva avvisarli. «E dopo molte parole, non senza gran fatica la dolente donna riconciliata con essolui e lasciandol malinconoso con la casa piena di pietre, si partirono».

Un intreccio perfetto

In questa novella cosí ben congegnata, con battute e colpi di scena che si susseguono con un meccanismo perfetto, è possibile, giunti alla conclusione, fare alcune riflessioni. Calandrino spera di trovare l’eliotropia e con quella, diventato invisibile, insieme agli amici crede di potersi impadronire del denaro sparso sulla tavola dei cambiava-

lute. Sogna di rubare. Propone agli amici di diventare ladri perché evidentemente la professione del pittore, quando non si trattava di artisti sommi e famosi, era assai poco remunerativa. Egli ha una grande disistima delle proprie capacità e il suo affrescare gli pare faticoso e interminabile, quasi non vedesse l’ora di chiudere la giornata: «senza avere tutto dí a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca». I suoi propositi e le sue considerazioni sono condivisi dai compagni, certo perché la burla riesca, ma, nel contempo, paiono del tutto verosimili al lettore di allora. Dunque noi ammiriamo come un’opera d’arte gli affreschi pisani di Buffalmacco, che al suo tempo erano stimati invece come impegno di artigiano. E, infatti, non è un caso che solo Giotto firmasse le proprie opere.

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Un altro particolare del Trionfo della Morte di Buonamico Buffalmacco raffigurante due falconieri che partecipano a una battuta di caccia. 1336-1341. Pisa, Camposanto.

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Calandrino crede che sia stata la moglie, con il suo semplice comparirgli innanzi a privare le pietre del loro potere magico: «per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perdere la vertú a ogni cosa». Un attacco misogino che Calandrino può esporre senza tema di essere contraddetto dai compagni e senza suscitare in chi legge alcun disaccordo. Calan-

drino picchia violentemente la moglie innocente, ma quando sopraggiungono gli amici, questi non hanno una parola di pietà per la sventurata né rimproverano l’amico per la sua brutalità, badando invece a continuare la beffa e intervengono solo, sempre ridendo, quando vedono che Calandrino vuole di nuovo malmenare la moglie. gennaio

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risponde e «il cominciò a guatare piú perché Calandrino le pareva un nuovo uomo [sempliciotto] che per altra vaghezza. Calandrino cominciò a guatar lei, e parendogli bella cominciò a trovar sue cagioni [a trovar pretesti per trattenersi] e non tornava a compagni con l’acqua: ma non conoscendola, gnuna cosa ardiva di dirle. Ella, che avveduta s’era del guatar di costui, per uccellarlo [beffarlo], alcuna volta guardava lui, alcun sospiretto gittando; per la qualcosa Calandrino subitamente di lei s’imbardò [si invaghí] né prima si partí della corte che ella fu da Filippo nella camera richiamata».

Piú bella d’una fata

La povera Tessa avrà modo di prendersi la sua rivincita alla quinta novella della nona giornata (IX, 5). Buffalmacco e Bruno stanno dipingendo le pareti di una villa a Camerata, la collina sotto Fiesole, ma siccome il lavoro è assai impegnativo coinvolgono anche Calandrino e Nello, un parente di Tessa. Il figlio del proprietario della villa,

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Filippo, «sí come giovane e senza moglie» è abituato «di menar talvolta alcuna femina a suo diletto e tenervela un dí o due e poscia mandarla via». Un pomeriggio di lavoro, Calandrino si reca al pozzo: qui incrocia la Niccolosa, una bellissima ragazza «assai costumata e ben parlante», che, in realtà, è una prostituta. Il pittore la saluta, lei gli

Quando torna dagli amici, Bruno si accorge che Calandrino continua a sospirare e gli chiede il motivo. «Sozio [amico], se io avessi chi m’aiutasse starei bene» e aggiunge di non rivelarlo a nessuno, neppure a Buffalmacco: «una giovane qua giú, che è piú bella che una lammia [fata], la quale è sí forte innamorata di me, che ti parrebbe un gran fatto: io me ne avvidi testé quando io andai per l’acqua». Bruno capisce subito chi in realtà sia la donna, ma gli dice essere la moglie di Filippo. Si offre di aiutarlo nella conquista, poi rivela a Buffalmacco e a Nello la faccenda. Calandrino si dice preoccupato soprattutto di Nello perché è parente di Tessa e potrebbe rivelarle la tresca. Ovviamente Bruno spiffera tutto a Buffalmacco e a Nello e coinvolge nella burla anche Filippo e la Niccolosa. All’ora di cena tutti i protagonisti si incontrano nella corte e «Calandrino cominciò a guardare la Niccolosa e a fare i piú nuovi [strani] atti del mondo, tali e tanti, che se ne sarebbe avveduto un cieco. Ella, d’altra parte, ogni cosa faceva per la quale credesse bene accenderlo e secondo la informazione avuto da Bruno, il miglior tempo del mondo prendendo de’ modi di Calandrino. Filippo con Buffalmacco e con gli altri faceva vista di ragionare e di non avvedersi di questo fatto».

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’interno di una «casa di piacere», da un manoscritto del XV sec. Uomini e donne banchettano in abiti adamitici e sono loro concessi solo copricapi con veli o monili, per aumentare il potere seduttivo. A lato del banchetto si trovano i separé per le coppie che si vogliono appartare: una coppia è già a letto, un’altra si sta appartando.

L’indomani, sulla via del ritorno a Firenze, Bruno stuzzica l’amico invaghito: «Ben ti dico che tu la fai struggere come ghiaccio al sole: per lo corpo di Dio, se tu ci rechi la ribeba tua [strumento a tre corde] e canti un poco con essa di quelle tue canzoni innamorate, tu la farai gittare a terra dalle finestre per venire da te». Per due mesi, Calandrino continua a corteggiare la Niccolosa, suonando e cantando, ma quando i lavori di pittura stanno per giungere al termine e i pittori devono tornare definitivamente a Firenze, scatta la trappola. In quel periodo, la Niccolosa aveva promesso a Calandrino di concedersi senza però arrivare al dunque. Bruno propone all’amico innamorato di fare un incantesimo e lui di buon grado acconsente: «Fa che tu mi rechi un poco di carta non nata [carta fatta con pelle di animale tratto dal ventre della madre prima che nasca, quindi sottilissima], e un vispitrello [pipistrello] vivo e tre granella d’incenso e una candela benedetta e lascia fare a me». La sera seguente Calandrino cattura un pipistrello, si procura gli altri oggetti e li porta al complice, che sulla carta scrive «certe sue frasche con alquante cateratte [certe sue sciocchezze con alquanti caratteri magici]» e dice a Calandrino che se toccherà la Niccolosa con quel foglio lei farà tutto quello che lui vuole. Nel frattempo, il complice Nello si reca a Firenze dalla moglie di Calandrino e le dice: «Tessa, tu sai quante busse Calandrino ti diè senza

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ragione il dí che egli ci [a casa] tornò con le pietre di Mugnone, e perciò io intendo che tu te ne vendichi: e se tu nol fai, non m’aver mai né per parente né per amico. Egli sí s’è innamorato di una donna colassú, e ella è tanto trista [di malaffare] che ella si va rinchiudendo assai spesso con essolui e poco fa si dieder la posta [si diedero appuntamento] d’essere insieme via via [tra poco]; e perciò io voglio che tu vi venghi e vegghilo e gastighil bene». Tessa diventa furiosa col marito: «Oimé ladro piuvico [pubblico] faimi tu questo? Alla croce di Dio, ella [la faccenda] non andrà cosí, che io non te la paghi». Prende il mantello e accompagnata da una «femminetta» e da Nello corre alla villa. Da lassú Filippo li vede arrivare e dice ai tre pittori di doversi recare a Firenze per questioni urgenti e finge di andarsene.

Gli amanti nel pagliaio

Calandrino pensa che, in assenza del marito, sia finalmente arrivato il momento: tocca con la magica pergamena la Niccolosa che, complice dei burloni, lo segue nel pagliaio. «Deh! Anima mia dolce, lasciamiti basciare». La Niccolosa prende tempo, in attesa che arrivi la moglie di Calandrino: «O tu hai gran fretta! Lasciamiti prima vedere a mio senno: lasciami saziar gli occhi di questo tuo viso dolce!». Nello indica a Tessa dove si trova il fedifrago e sotto gli occhi divertiti degli altri, entra nel pagliaio e li scopre. La Niccolosa scappa: «Monna Tessa corse con le unghie nel viso a Calandrino (…) e tutto gliele graffiò e presolo per gli capelli e in qua e in là tirandolo cominciò a dire: “Sozzo can vituperato, dunque mi fai tu questo? Vecchio impazzato, che maledetto sia il bene che io ti ho voluto: dunque non ti pare aver tanto a fare a casa tua, che ti vai innamorando per l’altrui? Ecco bello innamorato! Ora non ti conosci tu tristo [uomo di malaffare]? Non ti conosci tu dolente?”».

Calandrino non osa neanche reagire, implora Tessa di non gridare, teme di essere fatto a pezzi dal padrone di casa per avergli preso la moglie: «Bruno e Buffalmacco, che con Filippo e con la Niccolosa avevan di questa cosa riso a lor senno, quasi al romor venendo [come se accorressero per il trambusto], colà trassero: e dopo molte novelle rappaceficata la donna, dieron per consiglio a Calandrino che a Firenze se ne andasse e piú non vi tornasse, acciò che Filippo, se niente di questa cosa sentisse, non gli facesse male». Al misero Calandrino non resta che tornare in città «il dí e la notte molestato e afflitto dai rimbotti della moglie» e pone cosí fine «a suo fervente amor». In questa seconda novella gli intrighi amorosi sono il soggetto della burla. Filippo è abituato a portare nella casa ancora disabitata «alcuna femina a suo diletto e tenervela un dí o due». La Niccolosa è una di queste, gestita da un protettore, il quale «a sua posta tenendola in una casa a Camaldoli, prestava a vettura». La dava a nolo, come fosse una giumenta: questo significa «prestare a vettura». Una espressione di grande svilimento, e il fatto che la novellatrice sia Fiammetta, ci mostra quanto profondamente fosse introiettato anche fra le donne il disprezzo per una loro sfortunata consimile. Calandrino crede che la Niccolosa sia la moglie di Filippo, ma non per questo ritiene che sia una cattiva azione indurla al tradimento. Tessa ha la sua rivincita su Calandrino, ma gli amici che le offrono il modo di vendicarsi non lo fanno perché pensano che sia giusto vederla risarcita del torto patito. La impiegano come pedina per prolungare il divertimento della loro lunghissima burla. Insomma, qui le donne si mostrano, senza che nessuno se ne dispiaccia, figuranti senza molta importanza.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Medici, giudici e notai

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Come un

grande occhio

di Furio Cappelli

Antico simbolo della fortuna, ma anche ammonimento dell’ineluttabile – e imprevedibile – ciclicità delle vicende umane: l’immagine della ruota quale la incontriamo nei rosoni delle grandi cattedrali, nelle miniature e perfino nei componimenti letterali, domina il paesaggio visivo dell’età di Mezzo. Tra evocazione della maestà di Cristo e raffigurazione della gloria del mondo, «volubile, incostante e sul punto di precipitare»...

«Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo». (Isaia, 40:6) Il rosone del Duomo di Orvieto, opera attribuita ad Andrea Pisano. 1347-1348. Un doppio giro di colonnine con archi intrecciati circonda il volto di Cristo Redentore, attorniato dai ritratti a mosaico dei quattro dottori della Chiesa: i santi Agostino, Gregorio Magno, Girolamo e Ambrogio. 1388, ricomposta nel 1786

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L

a ruota non è solo uno dei piú antichi e duraturi strumenti mai espressi dalla tecnologia, ma è anche un simbolo dall’ineccepibile forza Didascalia E il suo utilizzo pervasivo in ogni contesto attrattiva. aliquatur adi odismedievale, sia per i mezzi di traspordella società queche veroper ent qui to innumerevoli e disparati congegni (dagli doloreium fino conectu orologi agli argani e ai mulini), ha fatto sí che rehendebis eatur si prestasse egregiamente a raffigurare l’idea stessa tendamusam del movimento. La sua struttura centrica, imperniaconsent, ta su unperspiti punto attorno al quale si muovono i raggi, conseque nis esprime poi l’irradiazione di un principio focale che maxim eaquis in ogni direzione. si espande earuntia conesin quel modo un astro irraggia la proProprio apienda. pria luce, un po’ come la corolla dei petali forma una ghirlanda intorno al pistillo. E, non a caso, la ruota come congegno simbolico si intreccia sia alla dimensione cosmica del sole sia all’aura mistica della rosa – come nella candida rosa di Dante, quando, nell’Empireo, la schiera dei beati forma una corona celestiale, con gli sguardi tutti orientati verso la luce dell’unica stella (Paradiso, XXXI, 1-30). Alla struttura e alla simbologia della ruota si rifà il rosone, ossia la grande rosa, secondo una terminologia che si afferma però solo nel XVIII secolo. Si tratta di una finestra di forma circolare che campeggia sulla facciata o sulle facciate piú importanti di una chiesa, magari non solo sulla parete d’ingresso (quasi sempre a occidente), ma anche su uno o su entrambi i fronti del transetto, in linea con l’altare maggiore (quasi sempre a oriente). All’interno della ghiera circolare, si articola uno schermo di pietra che ripropone ovunque – soprattutto tra il XII e il XIII secolo – uno schema mutuato proprio dalla ruota, con una raggiera di colonnine impostate su un nodo o mozzo centrale. Si tratta di una lavorazione molto impegnativa, che conferisce un senso di preziosità e di ricercatezza, non solo nelle cattedrali o nelle importanti chiese monastiche, ma anche nel contesto di una qualsiasi chiesa parrocchiale. L’idea di partenza, d’altronde, è di trasparente semplicità. Questo è evidente già dal fatto che la documentazione del tempo definisce spesso queste finestre come rotae (ruote).

Dal successo alla rovina

Un sorprendente incontro tra la mitologia pagana e la simbologia cristiana ha trasformato il rosone in una immagine della Ruota della Fortuna. Non tutti i rosoni implicano questo tema, ma solo quelli in cui alcune figure a bassorilievo, disposte tutt’intorno alla ghiera, mostrano la vicenda di un individuo che intraprende un’ascesa, raggiunge l’apice del successo, ma poi precipita rovinosamente. L’immagine che (segue a p. 80)

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Verona. L’interno della basilica di S. Zeno Maggiore, rischiarato dalla luce che filtra attraverso il rosone.

nomenclatura

Quelle chiese dal «volto umano» Con il termine «òculo», mutuato dal latino oculus, si intende oggi un’apertura di forma circolare, ma nell’uso originario oculus significava l’occhio di una persona. Se applichiamo il termine al rosone, i due elementi sono accomunati dalla forma circolare concentrica dell’iride e della pupilla, che corrispondono alla ghiera e al mozzo della finestra. In questo senso il rosone illumina una chiesa allo stesso modo in cui l’apparato visivo trasmette la luce all’essere vivente. Questa associazione era familiare alla sensibilità medievale, a tal punto che si poteva descrivere la tipica facciata di una chiesa «umanizzando» le sue aperture, gennaio

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come se fosse il viso di una persona. Papa Urbano IV (12611264; al secolo, Jacques Pantaléon di Troyes), all’epoca in cui era canonico della cattedrale di Laon (Alta Francia), tenne un sermone che sviluppava proprio questo parallelo (1242). Trascorse poi larga parte del suo pontificato a Orvieto, e lí sorse una cattedrale progettata e intrapresa alla fine di quello stesso secolo XIII, culminante in un rosone di pieno Trecento, che accoglie al centro il volto di Cristo. Ma torniamo un attimo al sermone del futuro papa. Lo spunto è fornito dal testo biblico (I Libro dei Maccabei), quando si racconta la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme dopo che

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era stato profanato da Antioco IV Epifane, re di Siria (175-164 a.C.). «Abbellirono la facciata del tempio con corone d’oro... » (4:57). Secondo il canonico di Laon, proprio quella facciata può essere intesa anche in senso corporeo o umano. «È la nostra faccia, di cui si legge nel Genesi [2:7]: [Dio] soffiò sulla sua faccia [nelle narici di Adamo, n.d.a.] un alito di vita. La facciata del tempio si definisce bene come faccia del nostro corpo, dal momento che, come si accede al tempio attraverso la sua facciata, cosí qualsivoglia cosa accede al corpo umano attraverso la faccia, per mezzo degli occhi, delle narici o della bocca».

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Il rosone di S. Zeno a Verona

Nel tempio della luce Il rosone della basilica veronese di S. Zeno Maggiore, realizzato tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, si deve a Brioloto del Balneo, attestato per la prima volta nel 1189. Un’epigrafe frammentaria tramanda un vero e proprio carme celebrativo a lui dedicato. L’artefice merita l’appellativo di sublimis proprio per aver eseguito «questa ruota della Fortuna» in una chiesa cosí importante, che, per effetto del rosone stesso, diviene un «tempio della luce». E Brioloto doveva essere assai versatile, oltre che talentuoso, poiché l’appellativo «del Balneo» nasce da un suo memorabile impianto idraulico, con una vasca in cui ci si poteva immergere nell’acqua calda. In una fase di lavori successiva, la facciata trovò il definitivo completamento. Come mostrano le sagomeguida graffite sul marmo del timpano, coronava il tutto una rappresentazione pittorica del Giudizio Universale. In questo modo il rosone veronese si abbinava a un tema iconografico tipico delle pareti occidentali. Negli stessi anni, d’altronde, il Giudizio viene scelto a Chartres proprio per la vetrata del rosone frontale. Sebbene legata a un’antica consuetudine – il Giudizio era spesso situato in controfacciata –, tale scelta non era certo casuale. Come sottolinea lo storico dell’arte Otto von Simson, il rosone mette infatti in atto una metafisica della luce. Trasforma la luce terrena in una entità incorporea, «la luce del vero sole» (come afferma il cancelliere Pierre de Soissy, XIII secolo) che è l’emanazione stessa del «nuovo cosmo» che trionferà alla fine dei tempi. Sempre a Chartres, il concetto è rafforzato dalla vetrata del rosone sud del transetto, che mostra la seconda venuta di Cristo cosí come è evocata nell’Apocalisse di Giovanni.

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A sinistra veduta dall’esterno del rosone della basilica di S. Zeno Maggiore a Verona, opera di Brioloto del Balneo. Fine del XII-inizi del XIII sec. Nella pagina accanto una suggestiva immagine del rosone di facciata della cattedrale francese di Chartres, impreziosito dalle vetrate policrome del Giudizio Universale. 1215 circa. In basso il rosone di facciata della cattedrale di Notre-Dame, a Parigi, con vetrate policrome. 1220 circa.

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oltre lo sguardo/10 i carmina burana

Dallo scriptorium al grande schermo La Bayerische Staatsbibliothek di Monaco conserva il Codex Buranus (Clm 4660), cosí chiamato perché proveniente dalla Bura Sancti Benedicti, ossia dal monastero prealpino di Benediktbeuern, nell’Alta Baviera, ai confini con il Tirolo. Realizzato intorno al 1230, il manoscritto contiene un’antologia di canti del XII secolo, in latino e in tedesco antico, universalmente nota con il titolo di Carmina Burana. Vi sono liriche di tipo satirico e morale, come pure canti d’amore e di allegra convivialità. E, proprio all’inizio, la raccolta si fregia di una miniatura con la Ruota della Fortuna. La dea è assisa al centro, incoronata e impassibile, nell’atto di esibire due rotoli di pergamena dove non è scritto alcunché. Intorno

a lei si svolge la tipica parabola del sovrano, scandita nei diversi momenti dell’ascesa e della caduta dalle espressioni «regnerò, regno, regnavo, sono senza regno». La sontuosa immagine culminante del re in trono, con lo scettro a giglio e in calzamaglia rossa (colore purpureo della maestà sovrana o attributo del demonio?), ha fatto pensare a una velata allusione all’imperatore in carica, l’«eretico» Federico II di Svevia (1220-1250), in una sorta di astiosa premonizione della sua fine. D’altra parte, il tema è talmente convenzionale che è difficile riconoscere con sicurezza un nesso con un personaggio specifico in assenza di indicazioni esplicite. L’antologia si apre con la lirica Fas et nefas ambulant passu fere pari A sinistra miniatura raffigurante l’«augusto» Enrico VI attorniato dalle personificazioni delle Virtú cardinali e teologali e, sotto la Ruota della Fortuna (a destra, in basso), Tancredi di Lecce, re di Sicilia, caduto in disgrazia, dal De rebus Siculis carmen o Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli. 1195-1197. Berna, Burgerbibliothek.

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(Il bene e il male camminano quasi di pari passo). Segue, sulla stessa pagina, O Fortuna, velut luna: «O Fortuna, sei mutevole come il corso della luna e cresci e cali senza sosta (...) | Tu, sorte crudele e volubile, ruota che gira sempre...» (traduzione di Piervittorio Rossi). Questa lirica apre e chiude i Carmina Burana di Carl Orff (1935-36), un’opera musicale di grande fortuna, basata su una scelta degli antichi testi ai fini della rappresentazione scenica. Proprio il brano di apertura e chiusura, molto vibrante, ha avuto risonanza in varie pagine di cinema epico fantasy, come Excalibur di John Boorman (1981) o Conan il Barbaro di John Milius (1982), dove la musica di Orff è reinterpretata con ingegno da Basil Poledouris.

lo vede trionfante, al culmine, magari in vesti da re, fa cosí da contrappunto alla figura prostrata ed esanime di un povero qualunque, letteralmente schiacciato dal «cerchione» della ghiera. È quanto si vede nel rosone della basilica di S. Zeno Maggiore a Verona. Un’epigrafe di corredo incisa tutt’intorno al mozzo centrale, su entrambi i lati, commenta chiaramente la rappresentazione: «Ecco che io Fortuna governo sola i mortali. Elevo, depongo, do a tutti i beni o i mali | Vesto chi è nudo, spoglio chi è vestito; se qualcuno confida in me, se ne andrà deriso». Nello schema iconografico di riferimento, assai diffuso nelle miniature e nei pavimenti istoriati, la personificazione della Fortuna si trova proprio al centro della ruota, intenta a manovrarla secondo i suoi capricci. L’epigrafe sostituisce l’immagine con le parole che proprio la Fortuna avrebbe potuto pronunciare in un contesto scenico. Nel piú tardo rosone del duomo di Trento, invece, la dea ricompare al suo posto. Nel mondo greco-romano la dea Fortuna propiziava in genere la buona sorte, ma nella visione cristiana divenne l’emblema di una esistenza abbandonata alla voluttà del caso e all’insegna della vanità, come si vede soprattutto nel pensiero di sant’Agostino. Grazie a Boezio e al suo trattato De consolatione philosophiae (525), essa venne però ingegnosamengennaio

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Miniatura raffigurante un re in trono, con scettro a giglio e calzamaglia rossa (colore purpureo della maestà sovrana o attributo del demonio?), forse interpretabile come un’allusione all’«eretico» imperatore Federico II di Svevia, dal Codex Buranus (Clm 4660). 1230 circa. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. Il codice raccoglie l’antologia di canti nota con il titolo di Carmina Burana.

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Particolare del mosaico istoriato con la concezione del mondo secondo Isidoro di Siviglia, dalla (scomparsa) chiesa torinese di S. Salvatore. Seconda metà del XII sec. Torino, Museo Civico di Arte Antica.

te recuperata. Proprio mantenendo i caratteri fondamentali dell’incostanza e dell’imprevedibilità, la Fortuna sottopone l’individuo al gioco crudele della ruota, facendo emergere la brevità e l’inconsistenza della gloria terrena. «Sali se vuoi, ma solo a condizione che non ti sentirai maltrattato quando la Fortuna richiede che tu cada» (Libro II, prosa II). L’alternativa è fornita da una saggezza fondata sull’etica. In questa chiave l’antica dea bendata può cosí assumere un ruolo efficace in un contesto didattico e morale.

La vita è come un prato

La stessa immagine della ruota proviene dal mondo antico. Il poeta Tibullo (I secolo a.C.) ricorda infatti in una delle sue elegie (Libro I, 5, v. 70) che «La Fortuna si muove volubile col giro veloce della sua ruota» (traduzione di Piervittorio Rossi). Si giunge cosí ai Carmina Burana (XII secolo; vedi box in questa pagina), nei quali una raffinata cultura clericale dà vita ad amare riflessioni sul tema, unendo reminiscenze classiche e sapienza biblica. Gli echi del profeta Isaia, che paragona l’esistenza umana a un prato destinato a seccare, si uniscono cosí proprio all’immagine della ruota, che fa innalzare un nuovo re mentre fa soccombere la regina Ecuba

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di Troia (moglie di Priamo). Piú si sale piú si finisce per cadere terribilmente, e quanto conti poco la gloria lo mostra chiaramente il destino di Dario III di Persia, sconfitto da Alessandro Magno, o di Pompeo, sconfitto da Cesare. Emerge anche un pensiero di Seneca sulla Fortuna che trasforma il re in un servo e un servo in un re, secondo il suo desiderio. Per proteggersi da una tale forza, non rimane cosí che mantenersi nel «giusto mezzo» esaltato nei versi di Ovidio e di Orazio, per suggerire un’esistenza senza rischi e senza affanni. Può anche darsi che la Fortuna si proponga come consigliera del sovrano. In quel caso, però, è bene declinare l’offerta, perché già Boezio non vedeva alcuna possibilità di conciliazione tra saggezza e volubilità del destino. Cosí, in una miniatura del 1195-97 che correda il De rebus Siculis carmen o Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, la Fortuna esibisce nella sua ruota la rovina del normanno Tancredi di Lecce, re di Sicilia (1190-94), mentre sulla fascia superiore troneggia il successore (dopo la breve e tristissima reggenza di Sibilla, vedova di Tancredi), ossia l’«augusto» Enrico VI, salito sul trono di Palermo già investito del titolo di imperatore (1191-97). Ha il globo del potere universale in mano (vi si legge mundus, ossia «il mondo»), ed è attorniato dalle personificazioni di tutte le sette Virtú (cardinali e teologali). La dea Fortuna, con l’attributo classico della corona, fa capolino dalla sua ruota e si rivolge in modo supplice proprio alle Virtú. Come spiega una didascalia a fiangennaio

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il codice saibante-hamilton 390

Un’immagine del mondo La ruota del Codice Saibante-Hamilton 390 (foto qui accanto), con la sua raggiera di colonnine congiunte da archetti, sembra proprio un rosone. Agli angoli della riquadratura si vedono poi i simboli degli Evangelisti, che corredano allo stesso modo i rosoni che caratterizzano varie chiese umbre sin dalla fine del XII secolo. Nell’esemplare di S. Gregorio a Castel Ritaldi (oggi scomposto), databile intorno al 1180, i simboli non sono ancora impaginati nella riquadratura. Il mozzo mostra Cristo in forma di Agnus Dei, e un’epigrafe di corredo traspone il verso di un carme liturgico: «I quattro animali acclamano questo santo agnello». Esattamente come nella miniatura (dove si ritrova l’Agnus Dei al centro della ruota), il Tetramorfo (ossia il gruppo dei quattro simboli evangelici) si rifà cosí alla visione di Ezechiele (1:4-28) e all’Apocalisse, mettendo in scena la maestà divina (Maiestas Domini) alla fine dei tempi. Lo stesso profeta Ezechiele e Geremia sono presenti ai lati, di fianco a due diavoli in forma di mascheroni. La presenza degli Evangelisti si presta però a ulteriori piani di lettura, perché conferisce alla ruota un significato cosmico. Il numero quattro, e l’esperienza missionaria degli stessi Evangelisti nel mondo, implicano i punti cardinali, mentre i telamoni/ atlanti (sostenitori classici della Terra) sono talvolta intenti a «reggere» il rosone, – come si vede nel «duo» del duomo di Spoleto o nella singola figura rivolta di spalle nella pieve di S. Maria di Ponte in Valnerina –, e «trasformano» quindi la ruota stessa in una immagine del mondo. co, ella vuole rientrare in quell’illustre consesso, ma le viene opposto un netto rifiuto. Analogamente, un’altra miniatura ripropone la ruota che stritola Tancredi, a fianco di una pomposa rappresentazione di Enrico e del suo entourage. La Fortuna ha un aspetto dimesso (non ha piú la corona), ed è corrucciata, perché si sente esclusa. Infatti la Sapienza, che sovrasta il sovrano, si rivolge a lei duramente, e, nei versi corrispondenti del carme, rivendica il «possesso» di Enrico (meus Henricus), che siede infatti sul trono biblico di Salomone. La Fortuna, nell’ottica della Sapienza, si potrà semmai intestare la gloria effimera dello stesso Tancredi («un fanciullo per statura ma con una faccia da vecchio», frutto di un aborto, come si legge a commento di alcune sue caricature in un’altra pagina). La dea, in aggiunta, potrà pure vantarsi del «mostruoso» Andronico I Comneno (il suo volto sembra la maschera di una

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Gorgone). Questo sovrano di Bisanzio, salito al potere nel 1183 grazie all’assassinio dell’imperatore Alessio II, fu linciato a furor di popolo nel 1185 (le sue membra sono sparse sul margine della pagina).

La sconsolata visione di Bernardo

Ma la ruota può anche rapportare il destino di ogni individuo al movimento della terra e dell’intero cosmo. Il monaco Bernardo di Cluny – noto anche come Bernardo Morliacense perché originario di Morlay (Francia del Nord) – ha centrato proprio su questa immagine una sconsolata visione della realtà. Nel poema De contemptu mundi (Il disprezzo del mondo, 1150 circa) – da cui è tratta la citazione finale del romanzo di Umberto Eco Il Nome della Rosa – leggiamo infatti: «La gloria del mondo si corrompe, si dilegua e scorre via con il volgere dei giorni. Come una ruota gira su se stessa, e quindi come una ruota si raffigura il mondo, giacché è

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oltre lo sguardo/10 La mappa mundi su pergamena conservata nella cattedrale inglese di Hereford. 1283 circa.

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volubile, incostante e sul punto di precipitare». La Fortuna prende poi la parola, proprio in rapporto al mondo, in un’elegia latina del fiorentino Arrigo da Settimello, composta nel 1193-94: «E poi io, che sono una dea tale che nessuna nel mondo è piú potente, – quel mondo che l’Oceano cinge nella sua cerchia –, dovrei forse coltivare la mia arte secondo giustizia? O uomo stoltissimo! Insomma, è necessario che io ruoti, facendoti precipitare».

La concezione del mondo

Il nostro pianeta può essere raffigurato come un disco in balia dei venti e contornato dall’oceano, secondo gli schemi di Isidoro di Siviglia (che non implicano affatto che la terra sia piatta, beninteso). E la concezione del mondo espressa da questo dottore della Chiesa nel VII secolo si ripresenta limpidamente in un frammento di mosaico istoriato proveniente dalla scomparsa chiesa di S. Salvatore del complesso episcopale di Torino (seconda metà del XII secolo) e oggi conservato nel Museo Civico di Arte Antica. Nell’area presbiteriale, si delineava cosí la consueta immagine della Ruota della Fortuna, arricchita da mascheroni

Da leggere Otto von Simson, La cattedrale gotica. Il concetto medievale di ordine, il Mulino, Bologna 1988 Francesca Pomarici, Fortuna, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1995; disponibile anche on line su treccani.it Costanza Segre Montel, L’arte in città: il mosaico pavimentale del Duomo, in Giuseppe Sergi (a cura di), Storia di Torino, vol. I, Einaudi, Torino 1997; pp. 579-584 Francesco Gangemi, Santa Maria di Ponte. Studio su una pieve medievale in Valnerina, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2006 Maria Luisa Meneghetti, Roberto Tagliani (a cura di), Il Manoscritto Saibante-Hamilton 390, Edizione critica, Salerno Editrice, Roma 2020

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che mordono la ghiera, e inserita al centro di una vera e propria mappa mundi. Tutt’intorno la terra è evocata da clipei che racchiudono animali di ogni genere, compresi i grifoni. Segue il grande cerchio dell’oceano, in cui si riconoscono, nelle parti superstiti, varie isole del Nord Europa, compresa la mitica Thule. Agli angoli del quadrato che delimita il tutto, si vedono infine le allegorie dei quattro Venti principali, intenti a soffiare. In altri contesti la realtà terrena è direttamente sottoposta alla presenza imperiosa di Cristo. Una ben piú dettagliata rappresentazione del mondo, la mappa mundi su pergamena conservata nella cattedrale inglese di Hereford (1283 circa) – già destinata a una solenne esposizione sull’altare maggiore –, mostra infatti il disco terreno sormontato dal Cristo giudice, per evocare la fine dei tempi. Tutt’intorno, quattro lettere compongono la parola Mors («Morte»). Se la Fortuna può agire a capriccio sui fatti della vita, Cristo sconfigge la morte, e domina cosí su ogni destino al momento del giudizio finale.

Testi a uso pedagogico

Cristo stesso, d’altronde, si può «appropriare» della Ruota della Fortuna, inserendola in una «sua» Ruota del Giudizio. È quanto si vede in una deliziosa miniatura realizzata intorno al 1280 a Treviso, per il Codice Saibante-Hamilton 390, oggi a Berlino, una raccolta di testi a uso pedagogico probabilmente destinata al principe Andrea degli Arpadi, futuro re di Ungheria (Andrea III, 12901301; vedi box a p. 93). Cristo si trova naturalmente all’apice, con una spada che fuoriesce dalla bocca per asserire ancor piú il suo ruolo di eterno giudice. Lungo il bordo della ghiera, a sinistra, tre figure stanno per salire sulle vette del paradiso, mentre a destra altrettante anime scendono negli abissi dell’inferno. Il primo dei dannati, in alto, è infilzato da una spada «per sentenza di maledizione», come recita la sua didascalia. Il mozzo della ruota sta invece a raffigurare la realtà terrena, sottoposta ai dettami della Provvidenza divina. E si traspone cosí la classica sequenza della Fortuna: un giudice togato siede in trono al di sotto del Cristo, con il globo del potere in mano. Lungo il bordo vediamo un uomo prostrato a terra, un uomo che precipita e un altro che supplica. Il giudice allude probabilmente al principe Andrea (ancora senza corona). Non partecipa al ciclo, ma è una presenza fissa che domina l’aldiquà, spodestando la Fortuna grazie alle proprie virtú.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Il Tetramorfo

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Roma barbarica STRANIERI NEL CUORE DELL’ IMPERO di Umberto Roberto

IN EDICOLA

La nuova Monografia di «Archeo» illustra uno degli aspetti che piú hanno caratterizzato la storia di Roma, vale a dire l’incontro/scontro con le genti straniere e con il vasto mosaico di popoli tradizionalmente etichettati come «barbari». L’obiettivo è puntato sui secoli dell’impero e della tarda antichità, nel corso dei quali il fenomeno fu particolarmente rilevante, ma non mancano riferimenti anche a fasi precedenti, come quelli che del resto si ritrovano in un celebre discorso tenuto dall’imperatore Claudio in senato, che a tutt’oggi è uno dei piú efficaci manifesti della politica estera romana. Al di là dei molti stereotipi negativi dettati dall’idea che il crollo dell’impero abbia avuto come unica causa la violenta irruzione sulla scena di popolazioni non romane, esiste una realtà – documentata dalle fonti e dall’archeologia – ben diversa e assai piú sfaccettata, in seno alla quale la pacifica convivenza ha a lungo costituito la cifra dominante del fenomeno. Poi, certo, ci furono anche momenti tragici, come in occasione dei ripetuti saccheggi di cui l’Urbe fu vittima, ma si tratta di eventi da collocare in un contesto di respiro ben piú ampio. Ed è questa l’operazione compiuta da Umberto Roberto, autore della Monografia, il quale ripercorre una fase storica cruciale avendo sempre come filo conduttore il tema del confronto fra culture diverse. Una trattazione di straordinario interesse, capace anche di cogliere quelli che dovettero essere i sentimenti dei protagonisti alle prese con un mondo che stava velocemente cambiando.


a cura di Roberto Roveda

GRAAL

Alle origini della leggenda

Miniatura raffigurante Giuseppe d’Arimatea che raccoglie il sangue di Gesú Cristo, da un’edizione manoscritta de La Quête du Saint Graal (romanzo composto agli inizi del XIII sec.). Inizi del XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Mito medievale e allo stesso tempo universale, il Graal ha progressivamente cambiato forma e natura, fin quasi a perdere il contatto con le proprie origini e con l’epoca in cui si formò il racconto del quale è protagonista. Una nuova indagine ci conduce alle radici del mito, tra storia, leggenda e simboli


Dossier

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al Conte du Graal di Chrétien de Troyes al Parsifal di Richard Wagner, fino ad arrivare al Pendolo di Foucault di Umberto Eco, il tema del Graal non ha mai smesso di ispirare poeti, scrittori e musicisti: questo oggetto dalla natura sfuggente ha affascinato l’uomo fino a trasformarsi in una vera e propria leggenda. Possiamo cosí parlare di Graal cristiano e cavalleresco, Graal nordico ed orientale, Graal nobile e popolare, Graal gnostico e celtico, Graal germanico e romantico, Graal cortese, poetico-trovadorico, Graal cattolico-bizantino-liturgico, Graal quale ciclo epico-eroico, Graal romanzesco e fantastico. Le sue tante anime originarie,

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la fortuna del graal

«Continuazioni» e varianti: un successo senza tempo Non è sempre agevole districarsi tra i numerosi romanzi del Graal. Qui elenchiamo le opere fondamentali. In alcuni casi, peraltro, permangono incertezze sulla paternità e datazione dei singoli scritti. Perceval ou le Conte du Graal, composto tra il 1182 e il 1183 dal poeta della Champagne Chrétien de Troyes e lasciato incompiuto. In quest’opera compare per la prima volta il Graal, dai contorni abbastanza vaghi, anche se può ricondursi a un piatto o contenitore. Quattro continuazioni del romanzo di Chrétien, ossia: 1) Prima continuazione (1200 circa), attribuita a Wauchier de Denain e nota anche come Continuazione Galvano, in quanto il nipote di Artú

L’apparizione del Sacro Graal ai cavalieri della Tavola Rotonda in una miniatura da un’edizione del Lancelot du Lac compilata da Michel Gonnot. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


ha un ruolo preminente; in questo romanzo il Graal dispensa automaticamente cibo e non è recato in processione, ma si muove sospeso a mezz’aria; 2) Seconda continuazione (1200 circa), anonima e nota anche come Continuazione Perceval. Qui Perceval arriva al castello del Graal, dove vede sfilare la processione, e si legge che il recipiente contiene il sangue di Cristo; 3) Terza continuazione (1210-1220 circa), attribuita a Manessier; in questo caso la processione comprende una lancia, un piccolo vassoio e il Graal, che, invece di contenere sangue, torna a essere un recipiente che dispensa cibo; Perceval succede allo zio Re Pescatore e, quando muore, Graal, lancia e vassoio ascendono al cielo; 4) Quarta continuazione (1230 circa), attribuita a Gerbert de Montreuil. Peredur (1200 circa), opera anonima in prosa gallese facente parte di una raccolta di undici racconti (tramandati in due codici gallesi, il Libro Bianco di Rhydderch e il Libro Rosso di Hergest) denominata Mabinogion. In questo racconto, intriso di elementi celtici, il Graal si trasforma in un vassoio che contiene la testa mozzata di un uomo, il cugino dello stesso Peredur. L e Roman de l’Estoire dou Graal o Joseph d’Arimathie (1200 circa), romanzo in versi del piccardo Robert de Boron, nel quale si afferma per la prima volta che il Graal è il calice in cui Gesú celebrò il sacramento dell’Ultima Cena

intrecciate e stratificate, ma tutte intrinsecamente legate, vengono ora riprese ne Il racconto del Graal, libro che punta prima di tutto a riattualizzare l’importanza del tema del Graal, prima matrice del romanzo moderno e occidentale, unico mito rimasto dentro il cristianesimo, ritrovandone le radici e liberandolo dai cliché (vedi box a p. 107). Nel tempo, infatti, un ampio processo di riappropriazione e ricodificazione dell’immaginario graalico ha rischiato di far perdere di vista carismi, specifiche, dinamiche proprie dei romanzi graalici originari e dei loro contesti medievali. Vale allora la pena di provare prima di tutto a narrare come nasce il mito del Graal tenendo presente che poche volte è accaduto

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e in cui Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue stillato dalle ferite di Gesú crocifisso. Il Sacro Graal, in questo modo, diventa in maniera esplicita una reliquia cristiana. idot Perceval (inizio del XIII secolo), romanzo in prosa D francese che prende il nome dal libraio parigino che fu proprietario del manoscritto. È parte di una trilogia che dovrebbe essere la versione in prosa delle opere in versi di Robert de Boron, delle quali sono pervenute solo l’Estoire e pochi versi del Merlin. arzival (1205-1216 circa), del poeta tedesco Wolfram P von Eschenbach. Il Graal è descritto come una pietra dotata di facoltà vivificatrici e della capacità di elargire cibo, ed è custodito da un ordine di cavalieri, i Templesein. erlesvaus, Le Haut Livre du Graal (1191-1212 circa), P romanzo in prosa francese. Nel Perlesvaus il Graal è il recipiente in cui fu raccolto il sangue di Cristo in croce da «quelli che credevano in Lui». La particolarità risiede nel fatto che, quando il corteo con il Sacro Vaso passa davanti a Galvano, costui vede nella reliquia prima la forma di un bambino, poi un uomo crocifisso con una lancia conficcata nel costato. L ancelot-Graal o Ciclo Vulgato, redatto da autori anonimi tra il 1215 e il 1235, è il piú completo e importante resoconto della materia di Bretagna. Esso è formato da cinque rami: Estoire del Saint Graal, Merlin, Lancelot, Queste del Saint Graal e Mort Artu.

nella storia della cultura che un racconto fosse cosí multiformemente «cantato», cioè declinato e questo a fronte di testi originari al contrario rimasti cosí poco conosciuti nonostante il loro oggettivo e sorprendente fascino.

Nascono i romanzi

Ma quali sono questi testi originali? Come racconta Stefano Giuliano nel contributo dedicato alle epifaníe del Graal e contenuto appunto nel volume Il racconto del Graal: «Tra la fine del XII secolo e la prima metà del XIII è possibile individuare tutta una serie di romanzi di genere epico-cavalleresco il cui argomento centrale è il Graal. I piú importanti sono: Il Conte du Graal di Chrétien de Troyes, al

quale, solitamente, è ascritto il merito di aver introdotto il Graal nella letteratura cavalleresca, redatto tra il 1182 e il 1190; i quattro testi che vanno sotto il nome di Première, Seconde, Troisiéme e Quatrième Continuation du Perceval, redatte da autori poco noti o del tutto sconosciuti, nei quali si cerca di dare una prosecuzione al racconto di Chrétien e databili intorno ai primi trent’anni del Milleduecento; il Joseph d’Arimathie o Roman de l’Estoire dou Graal di Robert de Boron, che segnerà un passaggio essenziale nella formazione dell’immagine stessa del Graal, chiaramente trasformato in reliquia cristiana, e che risalirebbe ai primi del 1200; l’enigmatico Perlesvaus, il cui autore è ignoto, dove risaltano l’atmo-

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Dossier sfera guerriera e gli elementi di retaggio celtico, scritto forse tra 1200 e 1210 (ma alcuni posticipano al decennio 1230- 1240), probabilmente sotto l’influsso dell’abbazia di Glastonbury; la Queste del Saint Graal, facente parte del cosí detto Lancelot-Graal o Ciclo Vulgato, anch’essa anonima (anche se la paternità del Ciclo è attribuita a Walter Map), dove l’eroe Galaad sostituisce Perceval nella sua qualità di cavaliere atteso, accentuando i toni

mistici e religiosi, composto in un lasso temporale che intercorre fra 1215 e 1235; il celeberrimo Parzival di Wolfram von Eschenbach (che tanta importanza ebbe anche sulla cultura otto-novecentesca), in cui subentrano particolari influssi di tradizioni orientali di ardua interpretazione, stilato, approssimativamente, nel primo ventennio del Milleduecento». I limiti temporali entro cui vennero redatti i principali romanzi

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

dedicati al Graal – «tra la fine del XII secolo e la prima metà del XIII» scrive Giuliano – possono essere i nostri termini post e ante per provare a inquadrare questo mito universale nel suo tempo, nel suo spazio e tra le genti che lo immaginarono per prime. Il Perceval o Conte du Graal di Chrétien de Troyes è considerato il piú grande prodotto letterario del mondo feudale, la massima espressione di una società, quella dei cavalieri, in cui dovevano emergere doti peculiari. La principale era la disposizione a compiere gesti da prodi, cioè caratterizzati da quel valore militare di cui il guerriero a cavallo poteva dare prova portando a termine imGalaad, Bors e Perceval si accingono a imbarcare il Graal, da un’edizione del Roman du Chevalier Tristan et de la reine Yseult. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

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In letteratura

Il Conte du Graal: istruzioni per l’uso Ordinario di letterature comparate all’Università di Messina, Carlo Donà ci aiuta ad affrontare il tema del Graal da punto di vista letterario. «Il Graal è prima di ogni altra cosa un oggetto letterario, dal momento che la sua prima apparizione fuori dall’ambito quotidiano (graal vale piú o meno “piatto”, “scodella” o “coppa”), si ha in un romanzo arturiano, il Conte du Graal che Chrétien de Troyes scrisse tra 1180 e 1190, lasciandolo incompiuto. Possiamo dunque farci un’idea precisa della natura e dell’evoluzione di questa problematica coppa soltanto partendo da un’analisi dell’opera di Chrétien, compito arduo sia per l’incompiutezza del romanzo che per una poetica dell’oscurità fin troppo consapevolmente perseguita dall’autore, e che d’altronde ciascuno deve compiere per proprio conto, perché ogni romanzo, e questo piú di ogni altro, non esiste in vacuo, ma realmente diviene solo quando, nella lettura, si fa specchio di chi legge. In questa prospettiva, il modesto scopo di questo contributo è soltanto quello di fissare alcuni dati di fatto necessari per comprendere il romanzo, e di raccogliere, organizzandoli, una serie di indizi essenziali, che per varie ragioni oggi potremmo trascurare o fraintendere, ma furono abilmente disseminati dall’autore nel testo. Questa metodologia di lettura segue peraltro l’esempio dello stesso Chrétien, che piú volte ricapitola, con didascalica precisione e non senza un qualche ironico compiacimento, i molti insolubili nodi che il racconto presenta. Era evidentemente consapevole che il Conte du Graal rappresentava qualcosa di completamente nuovo, e presentiva, in qualche modo, che sarebbe stato l’antenato di una lunga progenie».

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Miniatura raffigurante la processione del Sacro Graal, da un’edizione della Prima continuazione del Conte du Graal. 1330 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Dossier chrétien de troyes

I legami con l’arte bizantina Nel suo contributo, lo storico dell’arte Aniello Sgambati pone l’accento sui legami tra arte bizantina e Chrétien de Troyes. «Per quanto concerne le fattezze, il Graal di Chrétien non rispecchia la tipologia dei calici utilizzati nelle celebrazioni liturgiche dell’epoca come confermano le testimonianze pervenuteci; rispetto a quelli dei secoli precedenti, i calici in uso nel XII secolo mostrano l’inventiva e la ricchezza

peculiari dell’età romanica anche se il loro aspetto converge infine su una certa uniformità tipologica, non meno caratteristica del periodo: nella maggior parte dei casi presentano una coppa pressoché emisferica, poggiante direttamente su un nodo globulare, piú o meno schiacciato, e un piede di altezza leggermente inferiore a quella della coppa che assume, quasi sempre, la forma di un tronco di cono concavo; talvolta sono dotati anche di anse a voluta, ma tale particolarità non determina una variazione rilevante. Le decorazioni cambiano, in base alla provenienza, dagli smalti champlevé e cloisonné alla filigrana, dal niello alle figure sbalzate, ma non sono presenti inserimenti di cabochons o pietre preziose, come invece accade inizialmente nei modelli di tradizione bizantina; la descrizione di Chrétien sembra quindi riferirsi alla tipologia di calici orientali che compaiono già nel VI secolo (...) e che saranno ampiamente utilizzati anche nei secoli seguenti». Uno dei calici identificati dalla tradizione con il Sacro Graal. Conservato nella Cattedrale di Valencia, consiste in una coppa in agata posta su un supporto medievale, con la base formata da una coppa rovesciata in calcedonio.

prese fuori dal comune, al servizio dei piú deboli, delle donne oppure di una causa piú alta, soprattutto di tipo religioso. I grandi romanzi legati al tema del Graal emergono però all’interno di un’Europa occidentale che è ancora feudale, ma non lo è piú del tutto o almeno sta apprestandosi ad affrontare una stagione nuova del feudalesimo. Tra il XII e il XIII secolo, infatti, l’universo feudale deve fare i conti con il potere della Chiesa di Roma e di un papato che, da almeno un secolo, è in prepotente ascesa in quanto a prestigio e autorità. Inoltre, i signori feudali si trovano ad assistere all’affermazione di nuovi soggetti sociali – i mercanti, i

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Galaad, Bors e Perceval (Parsifal) inginocchiati in preghiera davanti al Graal, illustrazione tratta da un’edizione manoscritta de La Quête du Saint Graal. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Dossier La committenza

Gli intrecci con la situazione politica Marina Montesano, docente di Storia Medievale all’Università di Messina, propone una riflessione sulla committenza che ispirò i grandi romanzi del Graal, ponendo attenzione in particolar modo al legame fra romanzi graalici e crociate. «Robert de Boron scrisse il Joseph d’Arimathe per Gautier de Montbéliard: questi era figlio di Amédée II de Montfaucon, conte di Montbéliard, e di Béatrice de Grandson-Joinville; non siamo certi della data di nascita, ma sappiamo che morí nel 1212. Fu reggente del regno di Cipro dal 1205 al 1210 e conestabile del regno di Gerusalemme dal 1205 al 1212 ed era presente al torneo di Ecry quando ebbe origine la spedizione che conosciamo come quarta crociata (...). Il suo legame con la Terrasanta, i Lusignano e, attraverso questi i Plantageneti in Inghilterra, può aiutarci a spiegare lo sfondo politico sul quale proiettare l’opera di Robert de Boron. Il suo Joseph parte dalla Terrasanta per chiudersi in Inghilterra con la fondazione della Tavola Rotonda intorno alla reliquia del Graal. Ci si può chiedere quale fosse l’interesse dell’autore nel costruire questa complessa impalcatura narrativa, e non mi pare improbabile che la risposta possa stare nel contesto politico: non diversamente da quanto concerne le origini del ciclo arturiano, nel quale la dinastia anglo-francese dei Plantageneti aveva situato un precedente tanto dei Celti insulari e degli Anglosassoni quanto dei Normanni capace di nobilitare e avvicinare entrambe le stirpi delle due sponde dell’Impero latino d’Oriente sorto dopo la presa di Costantinopoli del 1204. Insomma, l’intreccio fra la situazione politica del Vicino Oriente, fra la Terrasanta e Costantinopoli da una parte, e i romanzi del Graal dall’altra (...) sembra poter riservare ancora qualche sorpresa». banchieri, la cosiddetta borghesia attiva nelle città in rapida espansione economica – e di nuovi soggetti politici come potevano essere i comuni in Italia. I romanzi del Graal diventano quindi popolari in un momento ben preciso della vicenda storica dell’Europa occidentale, segnato da condizioni politiche, sociali e culturali di cui dobbiamo tenere ben conto.

La cristianità medievale

Per questa ragione occorre innanzi tutto fare un passo indietro rispetto all’epoca in cui Chrétien de Troyes elabora il suo romanzo del Graal. A cavallo dell’anno Mille, la civiltà dell’Occidente medievale cominciò ad assumere quelle caratteristiche peculiari che l’avrebbero accompagnata nei successivi tre secoli, fino

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Miniatura raffigurante una scena di battaglia dal De Universo (o De Rerum Naturis) di Rabano Mauro. 1022-1035. Montecassino, Archivio dell’abbazia di Montecassino.

alla fine del Duecento. Parliamo di un mondo in cui la società era fortemente incentrata sul cristianesimo e all’interno della quale la Chiesa di Roma svolgeva un ruolo determinante dal punto di vista politico, sociale e culturale. Già a partire dall’Alto Medioevo, il papato si era affermato come massima autorità spirituale dell’Occidente e, attraverso i vescovi nelle città, le pievi e i mona-


steri nelle campagne, svolgeva un rilevante ruolo politico e sociale all’interno delle comunità dell’epoca, grandi o piccole che fossero. La Chiesa del Medioevo era a volte assai poco spirituale: pontefici, vescovi e gli abati dei monasteri si comportavano come principi e gestivano le loro proprietà come facevano i signori laici. Era una Chiesa che, tra l’XI e il XIII secolo, si organizzò come una vera e propria mo-

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Dossier A destra mentre Lancillotto dorme, un cavaliere prega presso la cappella del Graal, da un’edizione della Queste del SaintGraal (La Quête du Saint Graal). 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Parsifal ed Ettore de Maris guariti dal Graal, da un’edizione della Terza continuazione del Conte du Graal. 1330 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

narchia incentrata sull’autorità del papa e si contrappose all’impero per l’egemonia in Europa. Soprattutto, la Chiesa costituiva un fattore di organizzazione e di stabilizza-

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zione in un Occidente dominato dalla frammentazione. Non erano ancora nate o ancora dovevano rafforzarsi le monarchie nazionali di Inghilterra, Francia e Spagna e

l’impero era minato dalle divisioni: in questo quadro rimaneva quindi la Chiesa di Roma come elemento in cui riconoscersi un po’ tutti. L’Europa dell’epoca era cristiagennaio

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na ma anche feudale. Era un grande territorio senza confini statali che andava dall’Atlantico alle pianure della Germania centrale e dal Mediterraneo al Mar Baltico, in cui

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l’organizzazione socio-economica dominante era il feudalesimo e il vincolo da tutti riconosciuto era il vassallaggio. Queste istituzioni, feudalesimo e vassallaggio, riassumono molto bene lo spirito del Medioevo. In un’epoca in cui le sole cose realmente di valore erano la terra, la levatura militare e la parola data, un’intera società, un’intera cultura scelse di fondarsi su questi tre elementi. Cosí un uomo potente dava terra in utilizzo a un altro uomo meno potente di lui in cambio di fedeltà e di aiuto in guerra. Uno era il signore, l’altro il vassallo, il loro legame era il vassallaggio. Moltiplichiamo questo particolare legame per migliaia di situazioni e allarghiamolo all’intero Occidente europeo e avremo ottenuto l’Europa feudale del pieno Medioevo, che corrisponde ai secoli XII e XIII in cui la leggenda del Graal troverà terreno fertile. Un terreno fertile legato al fatto che l’eroe del romanzo di Chrétien de Troyes e dei suoi epigoni è un cavaliere, ma

nello stesso tempo è un eroe che accantona le proprie ambizioni personali e istituzionalizza la violenza intrinsecamente legata al suo ruolo per mettersi al servizio di una causa piú alta.

La violenza dei cavalieri

Anche questa dinamica era il frutto della cultura, della politica e delle spinte sociali dell’epoca. Di fronte alla crescente e incessante aggressività dei milites nei secoli piú violenti dell’affermazione della società feudale, la Chiesa aveva ben presto reagito, tentando di disciplinare e, al contempo, indirizzare ideologicamente le forze instabili dell’aristocrazia laica in armi. In Francia, paese nel quale questi processi presero la loro forma piú tipica – e che fu, del resto, l’autentica patria della cavalleria medievale e l’ambito in cui andò formandosi la vicenda letteraria del Graal –, sin dalla fine del X secolo si erano riuniti grandi concili, nel corso dei quali i vescovi, davanti a

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Dossier un vasto concorso di popolo, appoggiati dagli stessi duchi e conti (anch’essi minacciati dal troppo impetuoso sviluppo dei piccoli signori feudali con le loro masnade di cavalieri), imposero la cosiddetta «pace di Dio», dichiarando intoccabili, sotto pena di dannazione eterna, i beni della Chiesa, i membri del clero e i monaci, e i pauperes, ovvero i deboli, gli inermi. L’aggressività dei milites veniva cosí frenata da una serie di divieti spirituali e, al tempo stesso, controllata con mezzi materiali. Non di rado, infatti, dalle assemblee di pace partiva una spedizione armata per ridurre a piú miti consigli signori e cavalieri riottosi. Era inoltre possibile intravedere una funzione positiva del guerriero – che in questo periodo era il guerriero a cavallo, il cavaliere – all’interno della società cristiana. Seguendo gli ordini spirituali

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della Chiesa, egli doveva far trionfare la pace e la giustizia, usando quella spada che il re non riusciva a reggere con efficacia. Il tutto avveniva in un’atmosfera in cui le istanze di riforma della Chiesa si sposavano a pulsioni sempre piú numerose verso il pellegrinaggio in direzione dell’antico Oriente cristiano, la Terra Santa.

L’appello del papa

Quando il concilio di Narbona del 1054 stabilí per i cavalieri il divieto totale di versare sangue cristiano, ai milites, in aggiunta ai compiti di protezione del popolo cristiano, fu additato allora implicitamente, come loro scopo autentico, quello di combattere i nemici di fede. Cosí, dopo un prologo nella Spagna della Reconquista, avvenuto nella seconda metà dell’XI secolo, sotto l’egida spirituale dei Cluniacensi, la crociata, bandita nel 1095 a Clermont

Ferrand da papa Urbano II, aprí alla cavalleria lo spazio piú autentico per la sua realizzazione. La prima crociata, quella che portò alla conquista di Gerusalemme nel 1099, fu un’autentica impresa cavalleresca, alla quale non prese parte alcun sovrano. I grandi principi della Francia, dell’Inghilterra e dell’Italia normanna in Terra Santa guidarono i loro milites, spinti dalla fame di terre, di gloria e di purificazione. Insieme essi compirono un’impresa la cui risonanza non ebbe pari, in quell’epoca, nell’intera Europa. Gli ideali della cavalleria e della cortesia raggiunsero una popolarità vastissima, che coinvolse – al di là della Francia e dell’Inghilterra anglo-normanna – tutto il resto d’Europa, dalla Germania imperiale degli Svevi alle stesse città italiane. Questo clima ideologico e culturale contribuí a fare da volano alla letteratura cavalleresca in genere e ai

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A destra particolare del monumento funebre di Eleonora d’Aquitania. Fontevrault, Abbazia. In basso, sulle due pagine miniatura raffigurante Filippo II di Francia che esorta i suoi baroni a battersi con onore nella battaglia di Bouvines (1214), da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1471. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

romanzi del Graal in particolare, romanzi questi ultimi cosí legati al mondo delle imprese crociate. Questi ideali e i romanzi connessi svolsero anche precise funzioni all’interno di un’Europa occidentale che, seppur fermamente cristiana e maggioritariamente feudale, stava conoscendo cambiamenti in grado di modificare gli assetti politici e sociali. Nella società dell’Europa medievale contavano la Chiesa e in misura minore l’impero, e una relazione gerarchica come il vassallaggio era certamente statica. Ma quando immaginiamo un Medioevo fermo, ripiegato su se stesso, chiuso rispetto al mondo di oggi, raccontiamo solo una parte della storia. Ancora di piú il Medioevo fu la vitalità dei comuni italiani del XII-XIII secolo, il dinamismo delle città di mare, la spinta che portò migliaia di uomini a costruire palazzi e cattedrali che avevano poco da invidiare ai corrispettivi classici. Furono i laboratores, infatti, la grande novità dei secoli tra

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l’XI e il XIII. Certo non tutti e non tutti allo stesso modo, ma furono i contadini a dissodare sempre nuove terre e a dare il via alla rinascita agricola del Basso Medioevo. Furono gli artigiani ad avviare sempre nuove botteghe e a rivitalizzare per primi le città. E furono i mercanti a portare di nuovo il Mediterraneo occidentale al centro delle relazioni tra Occidente e Oriente. In questo clima di cambiamento diventava fondamentale per i signori feudali riaffermare anche dal punto di vista culturale la loro centralità. Parallelamente, i romanzi cavallereschi erano anche l’espressione di una nostalgia per un bel tempo che già all’epoca in cui furono scritti sembrava aver superato il proprio apogeo e per questo andava celebrato in prosa e poesia. Il tempo dei cavalieri, delle nobili imprese andava cosí a contrapporsi alle grette ambizioni mercantili e monetarie dei protagonisti dell’ascesa delle città. E quale impresa era piú degna di essere ricordata

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Miniatura raffigurante Merlino che detta la sua storia a Biagio, suo maestro. 1280-1290. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

della ricerca del leggendario calice con cui Cristo avrebbe celebrato l’Ultima cena?

L’impero plantageneto

Infine, ed è il dato politico piú importante, i romanzi del Graal andarono a inserirsi in un’epoca in

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cui si stavano formando vasti organismi territoriali strutturati attorno alle istituzioni del feudalesimo. Parliamo delle cosiddette monarchie feudali, espressione che identifica il processo durante il quale l’ideologia, le istituzioni e le iniziative monarchiche dovettero scendere a compromessi con le strutture feudali della società. Tale sistema di organizzazione dei poteri è stato a lungo presentato, sulle orme dei racconti dei cronisti

medievali favorevoli al regime monarchico, come il risultato di due forze antagoniste: i signori, violenti e fautori di disordini, contro i re, arbitri dei conflitti e pacificatori. Tuttavia, tra i secoli XI e XIII, i regni d’Occidente subirono profonde trasformazioni: si affermò il gruppo sociale dominante dei signori, i poteri si radicarono su territori precisi superando nel contempo le vecchie distinzioni etniche e si sviluppò una mistica regale. gennaio

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la «materia bretone»

I rapporti con il mondo celtico Giulia Baldassari, studiosa di filologia medievale, delinea i legami tra il mondo del Graal e i cicli arturiani. «È indubbio che la storia del Ciclo del Graal affondi le proprie radici in quella che viene chiamata “Materia bretone”. Quest’ultima è nata nei decenni centrali del XII secolo grazie a un gruppo di scrittori latini e francesi che operavano alla corte dei Plantageneti. La “Materia bretone” è stata ideata principalmente per legittimare le aspirazioni politiche dei re anglonormanni in concorrenza con la monarchia capetingia (...) Per via della posizione geografica della corte anglonormanna, una delle fonti principali di questa materia è stata la mitologia celtica, adattata ai modelli politico-culturali di tale realtà. Siffatta creatura letteraria ha dato origine, in seguito, a uno sterminato ciclo romanzesco che ha avuto successo in tutta Europa. “Contrariamente a quanto in genere si crede, la tradizione celtica non è scomparsa al tempo dell’evangelizzazione della Gallia e della Bretagna insulare” (Pierre Ponsoye, L’Islam e il Graal). Si trovano tracce della sua attività non solo nel momento di rinnovamento celtico-cristiano dell’XI secolo, che è stato chiamato neo-druidismo, ma persino nel XIV secolo. (...) È questo lo sfondo tematico e religioso nel quale si innesta in forma embrionale la narrazione del Graal. (...) Per questo, l’inserimento della figura di Merlino nell’opera di Robert de Boron non stupisce affatto».

Il calderone di Gundestrup Sin dalla tarda età del Bronzo, nell’Europa pre-celtica, si usavano catini in metallo nell’ambito di riti connessi a festini e banchetti, forse per riscaldare bevande o cuocere la carne. Nella successiva età del Ferro, i calderoni sono collegati ritualmente all’acqua. Di notevoli dimensioni, essi venivano infatti deposti deliberatamente in laghi e paludi. Ne abbiamo esempi in territorio ceco, nell’antica Britannia, nonché in Danimarca. E, dal Paese scandinavo, proviene il piú famoso dei calderoni celtici, quello di Gundestrup (vedi foto), oggi conservato nel Museo Nazionale di Copenaghen.

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È composto al 96% di argento puro ed era originariamente dorato; alto circa 36 cm, ha un diametro di 65 e una capienza di 130 l circa. Consta di una placca di base, nonché di cinque placche interne e sette esterne, con scene mitologiche. Il calderone fu forgiato probabilmente tra il II e il I secolo a.C., in Romania o in Tracia, da artigiani che usarono simboli e immagini talvolta diversi da quelli tipici dell’Europa occidentale. Tuttavia, gli stilemi sono in larga parte celtici, cosí come la raffigurazione delle armi e le immagini cultuali appartengono alla cultura celtica o romano-celtica.

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Dossier Se in quell’epoca tutti i regni ebbero qualcosa a che fare con il feudalesimo, in Inghilterra e ancor di piú in Francia – terra d’elezione della letteratura cavalleresca – la monarchia feudale conobbe gli sviluppi piú compiuti. E proprio in questa fase i romanzi del Graal conobbero una vasta diffusione, il che induce a riflettere sui legami tra questo tema letterario e la politica del tempo, in particolare per quanto riguarda una dinastia, i Plantageneti, e i suoi possedimenti sui due lati della Manica. Nella se-

Dinastie e araldica

conda metà del XII secolo, gli anni in cui Chrétien de Troyes scrive i suoi romanzi, tra Francia e Inghilterra prende forma quello che gli storici chiamano impero angioino, meglio conosciuto in Italia come impero dei Plantageneti. Ma di che cosa si tratta esattamente? Occorre ancora una volta fare un passo indietro per contestualizzare gli eventi. A partire dalla prima metà del XII secolo vengono a delinearsi i grandi poli attorno ai quali si trovò a ruotare la politica del regno di Francia. Questi poli furono, da un lato, la concentrazione nelle mani di una sola dinastia – quella angioina, anche detta dei Plantageneti (denominazione derivata dal ramo di ginestra che compariva nelle armi

almeno Wolfram intendesse invece riferirsi con una certa precisione a una specifica casata, quella dei Vermandois, e che nessuno – salvo forse i suoi contemporanei – se ne sia mai accorto. (...) Non conosciamo le ragioni che hanno indotto Wolfram a scegliere proprio la dinastia dei Vermandois come modello per quella del Graal, ma non dobbiamo dimenticare che lo stesso Chrétien dedicò formalmente il Perceval a Filippo di Alsazia, marito di Elisabetta di Vermandois, cioè della nipote di Ugo il Grande. In un certo senso il romanzo di Wolfram si presenta come un omaggio tardivo alla famiglia committente del Perceval».

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A immagine delle grandi casate Lo storico Andrea Augello descrive le possibili relazioni tra la materia narrata nei romanzi del Graal e le dinastie aristocratiche del XII-XIII secolo. «Si è a lungo ritenuto – e tutt’oggi rimane nella critica l’ipotesi prevalente – che il Parzival di Wolfram Von Eschenbach – e prima ancora il Perceval di Chretién – narrino una storia del tutto fantastica, priva di sostanziali riferimenti a fatti e persone reali, senza alcuna allusione a dinastie o personaggi storici o, perlomeno, come nel caso di Artú, ritenuti tali nel XII secolo. (...) Tuttavia, raffrontando attentamente il testo del Parzival a quello del Perceval, si può giungere alla sorprendente conclusione che

araldiche del duca di Angiò) – di un immenso e complicato complesso di titoli e domini in terra inglese e francese; dall’altro, dai tentativi dei Capetingi – poi andati a buon fine nel corso del XIII secolo – di trasformare il titolo regio di cui si fregiavano fin dall’epoca post-carolingia in una effettiva egemonia su territori che anda-

vano al di là del mero patrimonio familiare. Capetingi e Plantageneti si ritrovarono cosí al centro di una rivalità per il predominio in Francia, che sfociò in conflitto aperto nei primi decenni del XIII secolo ed ebbe come evento principale la vittoria di Filippo II Augusto di Francia sul Plantageneto Giovanni Senza gennaio

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La pagina del Codice Manesse dedicata a Wolfram von Eschenbach, poeta ricordato per essere l’autore del Parzival. 1300-1340. Heidelberg, Biblioteca dell’Università. Nella pagina accanto miniature raffiguranti Perceval che si separa dall’Orgoglioso della Landa, da un’edizione del Conte du Graal di Chrétien de Troyes. 1330 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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i legami con l’oriente

La versione di Wolfram Lo storico delle religioni Nuccio d’Anna riflette sui legami tra i romanzi graalici e l’Oriente non solo cristiano. «L’indiscussa autorità goduta da Wolfram von Eschenbach fra gli scrittori che hanno esposto il ciclo del Graal è dovuta non solo al particolare impianto della sua opera principale, ma all’insolita dovizia di elementi dottrinali che ne sostanziano l’impianto narrativo. Il suo romanzo sul Graal, infatti, è interamente permeato da simboli sacri e da un sostrato spirituale molto articolato che sembra persino andare oltre la tradizione cristiana e spesso mostra relazioni solide col mondo sufi. Si tratta di un complesso dottrinale e simbolico di origine orientale che è sostanzialmente assente negli altri autori che si sono occupati della saga prima dell’apparizione del suo Parzival. La vita di Wolfram si è svolta completamente nell’ambito del milieu aristocratico e dottrinale che ha alimentato l’incoronazione dell’imperatore Federico I. Si tratta di aspettative che si andranno a precisare non solo nella formulazione della speciale “teologia politica” di derivazione vetero-testamentaria ancorata al simbolismo del misterioso Melkitsedek, “Re e Sacerdote dell’Altissimo”, ma anche nelle molte leggende che delineavano un orizzonte “parusiaco” fiorite attorno alla personalità straordinaria dell’imperatore Federico II».

Sulle due pagine formelle in smalto su rame dorato del dossale d’altare realizzato nel 1181 da Nicola di Verdun. Klosterneuburg (Austria), Abbazia. Nella pagina accanto, Melkitsedek, «Re e sacerdote dell’Altissimo», consacra il pane e il vino; in questa pagina, Abramo (che indossa un’armatura medievale), vincitore sui re, dona la decima parte del suo bottino a Melkitsedek.

Terra nella battaglia combattuta a Bouvines nel 1214. La sconfitta costò ai Plantageneti buona parte dei possedimenti francesi e il ridimensionamento definitivo della dinastia. Senza precorrere i tempi, è però possibile ravvisare proprio nelle ambizioni egemoniche e regie degli Angioini-Plantageneti una delle spinte che portarono a una vasta produzione di letteratura cavalleresca nell’ambito, appunto, delle corti legate al mondo angioino.

Domini separati

L’enorme potere territoriale dei Plantageneti era, infatti, il frutto di una serie di eventi piuttosto fortuiti, scaturiti dalla conquista del regno anglossassone d’Inghilterra da parte del duca di Normandia Guglielmo nel 1066. L’eredità del ducato normanno e del regno inglese venne raccolta nel 1106 dal figlio di Guglielmo, Enrico. Il nuovo sovrano – Enrico I per gli Inglesi – era però deciso a tenere separati i domini normanni da quelli in Inghilterra e organizzò la sua successione destinando al primogenito maschio, Guglielmo, la Normandia, e alla figlia Matilde – che aveva dato in sposa a Goffredo IV Plantageneto della dinastia dei duchi di Angiò – la corona inglese. Alla morte di Enrico seguí un periodo di anarchia legata alla prematura scomparsa di Guglielmo, che non aveva avuto eredi, e al fatto che non tutti in Inghilterra riconobbero l’autorità di Matilde, in quanto donna e sposata a un duca francese. La crisi dinastica, che ri-

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Dossier Miniatura raffigurante un torneo cavalleresco nel quale Tristano si cimenta in un duello, da un’edizione del Romanzo di Tristano e Isotta. XV sec. Chantilly, Musee Condé.

Tristano e Isotta

Chi è il miglior cavaliere? L’impatto del Graal sull’immaginario e sulla letteratura del Medioevo è ben evidenziato da Giulia Boitani, che racconta come il Graal stesso cambi di forma e valore simbolico nel tempo. «Attorno agli anni Trenta del tredicesimo secolo, all’epoca in cui, presumibilmente, l’autore del Tristan en prose si accingeva a compiler e accomplir la storia di Tristano e della sua amata Isotta inserendola nel complesso universo arturiano, la materia graaliana era diventata ormai inscindibile dalle vicende della Tavola Rotonda. Se dunque l’obbiettivo del Tristano in prosa – la sua grande innovazione rispetto alla tradizione in versi – è fare dell’eroe di Cornovaglia un membro dei cavalieri piú illustri di Re Artú, l’opera dovrà fare i conti con il santo Graal (...) Come dunque far convivere il Graal e Tristano in uno stesso romanzo, senza cambiare profondamente la natura del suo eroe? E quale significato dare, all’interno della storia di quest’ultimo, all’oggetto piú significativo del mondo arturiano? La critica ha già messo in luce le qualità che il vasello “perde” nella riscrittura tristaniana: la sua ricerca è piú profana e decisamente meno salvifica. Galaad, a tratti, sembra non essere piú l’eletto e il romanzo pare chiedersi se Tristano non sia, in fondo, miglior cavaliere. La stessa origine del calice (secondo il romanzo, infatti, il Graal era un calice appartenente a una donna cieca, e non l’escuele dell’Ultima Cena) lo allontana dal significato eucaristico a cui era legato».

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schiò di gettare l’Inghilterra e i territori normanni in Francia nel caos, venne risolta grazie alla designazione di Enrico, figlio di Matilde e di Goffredo Plantageneto, come unico erede dei domini angioini del padre e del regno d’Inghilterra. In assenza di eredi diretti dello zio Guglielmo, Enrico poté far propria anche la Normandia e, grazie al matrimonio celebrato nel 1152 con Eleonora di Aquitania, mettere le mani anche sul grande ducato aquitano. Incoronato re d’Inghilterra con il nome di Enrico II nel 1154, impose anche il suo protettorato sulla Bretagna (che ebbe come duca il fratello del re inglese) e si ritrovò nelle mani un colossale complesso di territori esteso sulle due coste della Manica e che andava praticamente dalla Scozia ai Pirenei.

Formalmente vassallo

Vi era però un aspetto paradossale nell’impero plantageneto: Enrico era ben piú potente del re di Francia e controllava la maggior parte del territorio francese, mentre i domini capetingi erano limitati alla zona attorno a Parigi e poco piú. Allo stesso tempo, Enrico era formalmente vassallo del re di Francia, dal quale gli derivavano come feudi il ducato di Normandia e altri domini francesi. In un’ottica feudale, che, come abbiamo visto, all’epoca aveva un peso notevole dal punto di vista istituzionale e politico, l’autorità plantageneta veniva in qualche modo limitata da questa subordinazione vassallatica. Contemporaneamente, in Inghilterra, Enrico doveva fare i conti con l’instabilità di un regno in cui l’elemento normanno faticava a gennaio

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trovare una sintesi virtuosa con quello anglosassone. È probabilmente in questo contesto che nelle corti legate alla dinastia angioina-plantageneta venne elaborato un progetto culturale volto a rintracciare e, se necessario, rielaborare e inventare di sana pianta elementi di coesione fra le etnie che componevano i domini plantageneti, elementi che trovarono fondamento in radici mitiche che potevano risultare accettabili per i Celti dell’antica Britannia, per gli Anglosassoni e i Normanni. Ma non solo: per risolvere la questione del prestigio regale da contrapporre a quello del monarca francese, i Plantageneti dovevano trovare radici che infondessero sacralità alla loro stirpe, al pari di quanto accadeva alla dinastia di Francia. La monarchia francese aveva i suoi centri sacri in Reims – dove si conservava l’ampolla con l’olio che, secondo la tradizione, gli angeli avevano donato per ungere i sovrani – e nell’abbazia di SaintDenis, in cui era custodito l’Orifiamma, il vessillo concesso direttamente da Dio a Carlo Magno. Inoltre, attorno ai sovrani della dinastia dei Capetingi andava diffondendosi il mito dei re taumaturghi, in quanto capaci con il loro semplice tocco di guarire i malati. Occorreva ai Plantageneti qualcosa in grado di competere con tanto prestigio: quel qualcosa venne individuato nelle gesta dei sovrani celti cristianizzati, che sono i protagonisti del ciclo di Artú a cui appartenevano le imprese di Percevel e la leggendaria ricerca del Graal. In questo senso, a nostro parere, non è certo un caso che Chrétien de Troyes abbia scritto i suoi capolavori in quel clima di cultura cortese sorto attorno alla corte di Eleonora di Aquitania e di sua figlia Maria, sposa di Enrico, conte di Champagne, nel pieno della fioritura del grande, variegato ed effimero impero dei Plantageneti.

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Il libro

Per scoprire (o riscoprire) il Graal Curato da Giacomo Maria Prati e Alessandro Coscia, Il racconto del Graal (Jouvence, 2021, pp. 558, Euro 28,00) offre una visione complessiva del dossier Graal con contributi di storici, filologi, antropologi, filosofi, storici dell’arte e delle religioni, archeologi, con un punto di vista scientifico e rigoroso: condurre il lettore in un viaggio nelle sfaccettature del mito del Graal è l’ambizione di questa raccolta di scritti multidisciplinari. Accurati nelle fonti e nella ricostruzione, i saggi si rivolgono non solo a un pubblico di studiosi specializzati, ma anche a curiosi e appassionati che vedono nella ricerca del Graal sia una sfida intellettuale, sia la storia di un’evoluzione interiore. Ecco dunque l’indice dei contributi riuniti nel volume. IL GRAAL PRIMA DEL GRAAL Sara Ferrari, Vasi e calici nella tradizione scritturale ebraica Francesco Benozzo, Il Graal nella Preistoria Alessandro Coscia, Back to the ritualists: dai cureti ai cavalieri del Graal. Recipienti sacri in epoca greco-romana Francesco Zambon, Il Graal prima del Graal Giacomo Maria Prati, Il Graal quale oggetto vangelico e reliquia cristica Aniello Sgambati, Ravenna e Chrétien de Troyes: iconografia bizantina e leggende arturiane I GRANDI ROMANZI MEDIEVALI DEL GRAAL Roberto Roveda, L’Europa del Graal Marina Montesano, I grandi romanzi del Graal. Committenza e politica Stefano Giuliano, Le epifaníe del Graal Alberto Castaldini, Il Graal reliquia metamorfica Giulia Baldassarri, Merlino, Artú e il Re pescatore Carlo Donà, Il Conte du Graal di Chrétien de Troyes: istruzioni per l’uso Nuccio D’Anna, Wolfram Von Eschenbach e il Graal tra regalità e Islam Andrea Augello, Il Parzival tra dinastie ed araldica Silvia De Laude, «Sopra eroi e tombe». Il Perlesvaus e i suoi misteri Richard Taschsler, Dalla trilogia di Robert de Boron al ciclo di Gualtier Map. Un nuovo eroe per un nuovo Graal LA CORTE CAVALLERESCA-GRAALICA: ALCUNI SUOI LINGUAGGI Giulia Boitani, Il Graal nel Tristan en prose Elisabetta Tortelli, Il magico e il ‘mirabile’ ne La Tavola Ritonda Nella Coletta, Il Graal e la pietra dei filosofi: la ricerca di una luce «sospesa» Francesca Cani, Le gemme e le loro virtú nei romanzi del Graal Monica Ruset Onca, The Search for Paradise IL GRAAL DOPO IL GRAAL. UN EPOS ERMENEUTICO Marco Bighin, Il Graal: il cratere trasformativo nel mito e nella gnosi Ezio Albrile e Umberto Bertolin, La riscrittura di un mito: Wewelsburg e il Graal Marco Eugenio di Giandomenico, Il nostro Graal Marco Candida, Perceval e Galvano: l’eroe ben nutrito e l’eroe digiuno Andrea Aromatico, La Fenice nella coppa, ovvero il mistero alchemico del Graal

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CALEIDO SCOPIO

Quando i santi prendevano le armi

Il fatale proselitismo di Sebastiano

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riundo di Narbona, in Francia, Sebastiano nacque nel 256 e fu un militare romano, martirizzato a Roma il 20 gennaio 288 (ma la data non è certa) per aver sostenuto la fede cristiana. Dal punto di vista iconografico, si tratta del santo piú facilmente riconoscibile, al pari di san Pietro (quest’ultimo per via delle chiavi), poiché viene quasi sempre raffigurato mentre subisce il martirio, trafitto da un numero incredibile di frecce, seminudo, con le fattezze di un bel giovane. La sua vicenda è nota: Sebastiano

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visse al tempo di Diocleziano, ostile alla religione cristiana, e da Narbona si trasferí a Milano, dove fu educato nella fede di Cristo, per poi trasferirsi a Roma: qui entrò nell’esercito imperiale, diventando, in breve, comandante della prima coorte pretoria, di stanza nella capitale a difesa del principe. In questo ruolo, gli riuscí di sostenere i cristiani incarcerati, provvedere alla sepoltura dei martiri e cercare di diffondere il cristianesimo tra i funzionari e i militari di corte. E quando Diocleziano scoprí che

A sinistra Martirio di San Sebastiano, olio su tela di Virgilio Nucci. Ultimo decennio del XVI sec. Gubbio, chiesa di S. Agostino. Il dipinto presenta varie curiosità: per esempio, il carnefice che arma l’arco occupa addirittura il centro della scena, mentre altri due stanno per scoccare le frecce, appoggiate però sulla destra dell’arma, diversamente dalla realtà. A destra Martirio di san Sebastiano (particolare), affresco del Perugino. 1505. Panicale (Perugia), chiesa di S. Sebastiano. Si vedono due arcieri, uno dei quali sta per scoccare la sua freccia, mentre l’altro si appresta ad armare l’arco. gennaio

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Sebastiano era cristiano, esclamò: «Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell’ombra contro di me» e lo condannò a morte. Venne legato a un palo in un sito del colle Palatino, denudato, e trafitto da numerose frecce in ogni parte del corpo. Soprattutto in alcuni dipinti quattrocenteschi, il numero di frecce appare francamente esagerato, cosí da far sembrare un istrice il giovane martire, peraltro sempre in atteggiamento di grande dignità e compostezza.

La «pia» Irene Vedendolo in quelle condizioni, i soldati lo credettero morto e lo abbandonarono sul luogo, lasciandolo in pasto agli animali selvatici; Sebastiano, però, era ancora vivo, e una matrona romana, Irene, andata a recuperarne il corpo per dargli sepoltura, lo fece trasportare nella sua dimora sul Palatino e lo curò dalle molte ferite con sincera dedizione, guadagnandosi l’appellativo di «pia» Irene. Prodigiosamente guarito, nonostante i suoi amici gli consigliassero di abbandonare l’Urbe, Sebastiano decise di proclamare la sua fede al cospetto dell’imperatore: giunse coraggiosamente davanti a Diocleziano e al suo associato Massimiano, mentre presiedevano alle funzioni in onore del Sole Invitto, e li rimproverò per le persecuzioni contro i cristiani. Pur sorpreso alla vista del suo soldato ancora vivo, Diocleziano non si perse in schermaglie dialettiche e ordinò che fosse flagellato a morte e, forse, finito a bastonate: la condanna fu eseguita nel 304 (per altre fonti, nel 287-288 circa) nell’ippodromo del Palatino e il corpo del martire fu poi gettato nella Cloaca Maxima; trasportato dalla corrente verso il Tevere, il cadavere si impigliò nei pressi della

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chiesa di S. Giorgio al Velabro, dove fu raccolto dalla matrona Lucina, che lo trasportò sino alle catacombe sulla via Appia, dove fu sepolto. Nel caso di san Sebastiano, i motivi d’interesse oplologico appaiono ovvi, data la costante presenza di frecce nelle sue raffigurazioni, ma a

San Sebastiano, olio su tavola del Perugino. Ultimo quarto del XV sec. Parigi, Museo del Louvre. ben vedere, c’è molto di piú. In moltissimi casi, le armi utilizzate per questa esecuzione (mal riuscita) sono due: l’arco e la balestra,

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CALEIDO SCOPIO San Sebastiano, dipinto su tavola attribuito non unanimemente ad Anthonis Mor van Dashorst. XVI sec. Monaco, Alte Pinakothek. Straordinaria e inconsueta rappresentazione del santo, anche dal punto di vista delle armi: Sebastiano impugna con la mano destra un arco «disarmato», cioè in condizione di riposo, mentre nella sinistra ha una freccia a triplice impennaggio. che scagliano i relativi strali, che sono frecce, se riferite all’arco, e verrette nel caso della balestra. Le prime hanno l’astina piú sottile e piú lunga, con un impennaggio colorato e vistoso: in particolare, è quasi sempre ben descritta la cocca, di varie tipologie, tanto da costituire una fonte preziosa e insostituibile per la conoscenza di tale elemento, che, essendo fatto di materiali deperibili, ha lasciato scarsissime tracce della sua morfologia. La balestra, invece, scaglia verrette piú corte e tozze, con impennaggio piú piccolo e punta a sezione quadra o triangolare, senza le cosiddette barbe o alette. È quasi superfluo precisare che la balestra non esisteva certo all’epoca dei fatti, ma viene utilizzata dagli artisti in quanto arma a loro contemporanea. In alcune rappresentazioni del martirio, risulta particolarmente interessante l’immagine di uno o piú

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In basso Madonna con Gesú Bambino in trono e santi, olio su tavola di Sinibaldo Ibi. 1057. Gubbio, Diocesi. Sulla destra, san Sebastiano che regge una freccia.

carnefici intenti ad «armare» l’arco o a caricare la balestra. Armare (o incordare) l’arco significa flettere il legno per tendere la corda e fissarne i capi alle estremità, in quanto, di norma, l’arma non veniva tenuta tesa per evitare la perdita dell’elasticità. In questi dipinti si vedono i soldati eseguire l’operazione con grande realismo, offrendo utilissime testimonianze sulle diverse tecniche. Ne è un esempio l’affresco del Perugino in S. Sebastiano a Panicale (Perugia), risalente al 1505, nel quale compaiono entrambe le azioni. Il solo armamento dell’arco si può osservare nel Martirio di san Sebastiano di Giacomo da Milano (secondo quarto del XVI secolo), conservato nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello, cosí come nella predella del polittico di Ludovico Urbani Madonna col Bambino, angeli e santi (1477), oggi nel Museo Diocesano di Recanati.

Scene di grande realismo Tuttavia, l’esempio piú famoso è forse il Martirio di San Sebastiano di Luca Signorelli (1498), anch’esso nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello: nel dipinto vediamo due arcieri sulla sinistra e tre balestrieri sulla destra, due dei quali intenti a ricaricare l’arma, avvalendosi uno di un’apposita leva e l’altro di un semplice gancio assicurato alla cinta, al quale andava inserita la corda che, rialzando il busto, si posizionava in tensione. La perfezione e il realismo della scena arrivano a comprendere il particolare delle frecce e delle verrette infisse sul terreno per agevolarne l’utilizzo, facendo cosí comprendere meglio di ogni descrizione la differenza morfologica tra le due. Se, come detto, Sebastiano risulta in genere facilmente identificabile, non mancano casi, piú rari, nei quali è gennaio

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A sinistra San Sebastiano, olio su tela del Perugino. 1494 circa. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. Sulla freccia che trafigge il collo del santo si legge la firma del pittore: PETRVS PERVSINVS PINXIT. In basso Martirio di san Sebastiano (particolare), affresco. XIV sec. Costacciaro (Perugia), S. Francesco. Vicino al martire e ai piedi dell’arciere compare un arco spezzato, circostanza abbastanza rara.

raffigurato il secondo supplizio di san Sebastiano (come nel dipinto di Paolo Veronese, del 1565, a Venezia, nella chiesa di S. Sebastiano), in cui il santo, disteso nudo su una tavola di legno, viene fustigato a morte. Le sue armi sono in terra, mentre ai lati i carnefici impugnano un flagello e lunghi bastoni. Talvolta Sebastiano non è visto nella fase del martirio, ma come un giovane che tiene in mano una freccia, una sola, come mero simbolo dello strumento utilizzato per la sua uccisione (peraltro non riuscita). In questi casi, può essere dotato di una spada al fianco, come allusione alla sua qualifica di ufficiale dell’esercito.

Arcieri mancini Risultano poi abbastanza frequenti le licenze che piú di un artista si è concesso – per ragioni di impostazione generale dell’opera o per semplice ignoranza – dipingendo l’arciere che impugna l’arco con la mano destra e tiene tesa la corda e impostata la freccia con la sinistra. Poiché nello stesso dipinto gli archi vengono impugnati anche correttamente, possiamo pensare alla presenza di mancini. Un riscontro poco noto ci è offerto da una predella quattrocentesca con il Martirio di San Sebastiano conservata nel Museo Civico di Camerino, risalente al 1590-1599: qui, gli arcieri mancini sono due su tre e solo quello in primo piano tiene l’arco con la mano sinistra. Troviamo anche un arco spezzato, ai piedi dell’arciere e vicino al martire, in un affresco quattrocentesco (forse del 1484 circa) nella chiesa di S. Francesco a Costacciaro (Perugia; vedi foto in questa pagina, in basso). Strumenti di tortura rotti miracolosamente non sono una novità, ma nella scena del martirio di Sebastiano sono rari e, in verità, anche difficilmente giustificabili, visto che tali armi, insieme alle balestre,

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dimostrarono di funzionare. Vale infine la pena di segnalare che nel San Sebastiano dipinto intorno al 1495 dal già citato Perugino (al secolo, Pietro Vannucci) e oggi conservato all’Ermitage di San Pietroburgo, l’astina della freccia infissa sul collo del martire reca la firma PETRUS PERVSINVS PINXIT (vedi foto in questa pagina, in alto). L’iconografia di san Sebastiano è, dunque, un esempio davvero notevole di quanto l’oplologia possa contribuire alla piena comprensione di un’opera d’arte e, per converso, quanto l’analisi di quest’ultima possa aiutare lo studio delle armi antiche: il personaggio che poteva sembrare solo un noto santo, sempre trafitto da frecce e senza spunti di riflessione al di fuori del campo artistico, si è infatti rivelato un vero e proprio catalizzatore di nozioni in materia di armi.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Gabriella Piccinni (a cura di) Alle origini del welfare Radici medievali e moderne della cultura europea dell’assistenza Viella, Roma, 660 pp.

58,00 euro ISBN 978-8833137346 www.edizionilavela.it

Il Medioevo e la prima età moderna rappresentano la fucina creativa per molte forme di assistenza e protezione sociale, che, di volta in volta, trovarono i principali ideatori, fautori, mecenati e organizzatori nei governi cittadini, nelle corporazioni e nei singoli individui. Luoghi pii caritativoassistenziali, ospedali per il ricovero di viandanti, bisognosi e pellegrini, forme di solidarietà e assistenza corporativa, ma anche vere e proprie forme previdenziali e pensionistiche (come gli aiuti alle vedove dei morti sul lavoro, o le indennità in caso di infortunio, previste già nel Trecento in alcuni cantieri e grandi complessi industriali, o le pensioni vere e proprie, concesse talvolta a chi era troppo anziano o non piú in grado di lavorare, sia uomo che donna) trovarono

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in quest’epoca uno sviluppo precoce ed eccezionale. Uno sviluppo che, con un salto di molti secoli, si sarebbe riprodotto soltanto nel mondo attuale. I poveri facevano parte di una società in cui attività economiche e carità erano strettamente legate, per cui gli enti assistenziali non fornivano loro soltanto un rifugio, ma agivano su molteplici fronti, garantendo sussidi, aiuti allo studio o all’avviamento della professione, possibilità di lavoro e di integrazione del reddito. L’espansione economica e demografica che dal XII secolo aveva caratterizzato le città italiane ed europee aveva infatti visto la contemporanea crescita del disagio sociale, nonché l’aumento esponenziale della povertà, inizialmente assistita dalle istituzioni religiose, poi affiancate da confraternite e organizzazioni laiche e dalle iniziative delle autorità municipali (agli inizi del XIII secolo). Gli ospedali passarono dalla gestione ecclesiastica a quella laica (XIV secolo), divenendo sempre piú reti

assistenziali potenti, nella cui gestione amministrativa erano coinvolti i ceti dirigenti cittadini, che facevano di queste istituzioni – oltre che di luoghi pii e confraternite –, uno straordinario trampolino di lancio per ampliare a dismisura la propria buona reputazione, e con essa i propri affari, le proprie clientele,

i propri rapporti di patronage (XIV e XV secolo). Scaturito da un convegno svoltosi a Siena nel 2020, il volume spazia dalle politiche per l’assistenza intraprese dai governi cittadini italiani ed europei mediante la creazione di ospedali e di modelli ospedalieri (sia dal punto di vista architettonico che da quello dell’organizzazione caritativo-assistenziale e amministrativa); al finanziamento e all’organizzazione amministrativa

dell’assistenza, che diede origine a vere e proprie aziende ospedaliere, dotate di complessi sistemi contabili e amministrativi gestiti da mercanti specialisti nel settore. Dalla protezione sociale ai «poveri laboriosi», alla loro tutela processuale, alle forme di credito concesse loro mediante la creazione dei Monti di Pietà e dei banchi pubblici degli ospedali (Siena, Napoli, Roma, Milano). Dall’assistenza alle donne (che ebbero spesso anche un ruolo attivo e importante sia come finanziatrici, sia nella medicina e nella chirurgia, affrontando percorsi formativi identici a quelli degli uomini e ottenendo regolari abilitazioni all’esercizio della professione), a quella a stranieri e migranti; dalla narrazione e rappresentazione dell’assistenza, ai «miracoli del welfare», ovvero all’importanza delle vite dei santi e dei processi di canonizzazione come fonte per la vita quotidiana degli indigenti, e per le loro strategie di sopravvivenza e mutuo soccorso, importanza messa in evidenza per la prima volta dal compianto

Giovanni Cherubini negli anni Settanta e recentemente dalla studiosa anglosassone Sharon Farmer. Concludono il volume le esperienze museali dell’assistenza (S. Maria della Scala a Siena, gli Innocenti a Firenze, il Ceppo a Pistoia, i musei di storia della medicina di Padova e Napoli). Maria Paola Zanoboni Carlo Tosco L’architettura italiana nel Duecento

il Mulino, 370 pp., ill. b/n

25,00 euro ISBN 978-88-15-29421-0 www.mulino.it

Carlo Tosco aggiunge un importante tassello alla sua rilettura dell’architettura medievale italiana e, dopo il volume dedicato al periodo compreso fra il 600 e il 1200, si concentra, questa volta sul solo XIII secolo. Una scelta del resto obbligata, poiché, come l’autore stesso

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale spiega nelle pagine introduttive, in quel torno di tempo prese forma «un’eccezionale quantità di edifici». E se l’Italia del Duecento costituiva una realtà politica, e dunque culturale, assai frammentata, è nondimeno possibile individuare alcuni importanti filoni, che finiscono con l’accomunare esperienze maturate anche in contesti geograficamente lontani. Particolare rilievo ebbe l’avvento del gotico – che secondo Jacob Burckhardt fu un «colpo del destino» per l’arte italiana –, ma assai piú vasto e variegato è il repertorio delle soluzioni adottate nelle grandi fabbriche civili e religiose. La trattazione si articola in ampie sezioni tematiche, che spaziano dagli interventi promossi dall’imperatore Federico II di Svevia a quelli che Tosco definisce i «Grandi cantieri di fine secolo», come quelli del duomo di Siena o del duomo di Orvieto. Costante, in un’opera davvero densa di notizie, è la sottolineatura delle implicazioni ideologiche sottese alle imprese

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architettoniche, da considerare non soltanto come espressioni di forme e di stili, ma come specchio dei contesti sociali in cui furono realizzate. Stefano Mammini Paolo Pinti Armi e arte nelle Marche

Andrea Livi Editore, Fermo, 272 pp., ill. col. e b/n

ISBN 88-7969-482-0 Armi e arte

Andrea Livi Editore, Fermo, 256 pp., ill. b/n

I lettori di «Medioevo» hanno ormai imparato a conoscere e apprezzare le

originali e stimolanti considerazioni di Paolo Pinti sulla

presenza delle armi nelle opere d’arte. L’oplologia, come emerge dai suoi scritti, può infatti costituire una preziosa risorsa sia per meglio inquadrare storicamente un determinato dipinto, sia per seguire, attraverso composizioni grandi e piccole, l’evoluzione tecnica degli strumenti da offesa e difesa. Ampia testimonianza del fenomeno si può trovare nel recente Armi e arte nelle Marche, che costituisce la naturale continuazione del precedente Armi e arte: in entrambi i volumi, Pinti ha raccolto l’eccezionale mole di notizie, spunti e scoperte scaturiti da ricerche condotte nell’arco di ormai oltre quarant’anni, presentate con un corredo fotografico ampio e puntuale e che, al di là dei limiti tecnici delle riprese piú datate, contribuisce a formare quello che potremmo definire un vero e proprio atlante oplologico. E il cui valore documentario, è doveroso segnalarlo, è in piú d’un caso accresciuto dal fatto che si riferisce a opere andate perdute

a causa del sisma che nel 2016 colpí il Centro Italia. Per l’acquisto dei volumi ci si può rivolgere direttamente all’autore, inviando una mail all’indirizzo pintipaolo@libero. it (ciascun titolo costa 25,00 euro, ma, se acquistati entrambi, il prezzo è di 40,00 euro, a cui vanno aggiunti 5,00 euro per le spese di spedizione). S. M. André Grabar Le origini dell’estetica medievale

Editoriale Jaca Book, 176 pp., ill. col.

50,00 euro ISBN 978-88-1660662-3 www.jacabook.org

Insigne studioso della cultura bizantina, André Grabar (1896-1990) ha firmato opere fondamentali e l’opera ora pubblicata in italiano per la prima volta nasce da un saggio, che di questo volume costituisce il corpo centrale, su

Plotino e l’estetica medievale scritto nel 1945 e ormai introvabile nella sua edizione originale. A questo si sono aggiunti il testo di una conferenza tenuta nel 1948 e un capitolo introduttivo dedicato ai messaggi di cui l’arte bizantina si fece portatrice, inserito in un catalogo dato alle stampe nel 1964. I molti decenni nel frattempo trascorsi non hanno scalfito il valore delle trattazioni e consentono di cogliere l’originalità e la pregnanza dell’approccio adottato dall’autore. Di particolare interesse risultano le considerazioni sulla rappresentazione dell’intellegibile nell’arte bizantina, che prendono le mosse dalla constatazione di un apparente contraddizione, vale a dire l’affermazione, ribadita da vari autori dell’epoca, che l’intelleggibile, poiché sfugge ai nostri sensi, non poteva trasformarsi nel soggetto di dipinti o mosaici. Riflessioni puntuali e stimolanti, che trovano un naturale corollario nell’eccellente apparato iconografico che correda il volume. S. M. gennaio

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