Medioevo n. 299, Dicembre 2021

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MEDIOEVO n. 299 DICEMBRE 2021

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Mens. Anno 25 numero 299 Dicembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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IN EDICOLA IL 3 DICEMBRE 2021



SOMMARIO

Dicembre 2021 ANTEPRIMA

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UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Lacrime per un uomo buono

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di Federico Canaccini

MOSTRE Le armi e le arti Tutte le stelle di Venezia

6 10

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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di Gloria Vallese

STORIE

MUSICA Oggi è nato il Cristo

CALEIDOSCOPIO

VITERBO CAPITALE/4 Un soggiorno foriero di ricchezza 40

SIMBOLI Un leone per Firenze

La lettera dei cardinali «cum clave»

STORIE, UOMINI E SAPORI Quando la carne fa(ceva) paura 104

di Alfio Cortonesi

di Attilio Bartoli Langeli, Anna Proietti e Centro studi Santa Rosa da Viterbo

46

di Carlo Canna

di Franco Bruni

100

di Sergio G. Grasso

40

COSTUME E SOCIETÀ PESTE Vivere in quarantena

di Maria Paola Zanoboni

28

MOSTRE Longobardi Tesori da una «terra di mezzo» 54 di Elena Percivaldi

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Con il libro e con la spada 108 di Paolo Pinti

LIBRI Lo Scaffale

recensioni di Alessandro Bedini e Maria Paola Zanoboni

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Dossier IL PRESEPIO DI GRECCIO E LA PREDICA NEGATA di Chiara Frugoni, con un contributo di Ileana Tozzi

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MEDIOEVO n. 299 DICEMBRE 2021

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16/11/21 09:04

MEDIOEVO Anno XXV, n. 299 - dicembre 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Attilio Bartoli Langeli ha insegnato paleografia e diplomatica nelle Università di Perugia, Venezia, Padova e Roma II. Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Carlo Canna è archeologo e giornalista. Francesco Colotta è giornalista. Alfio Cortonesi è professore ordinario di storia medievale all’Università della Tuscia di Viterbo. Chiara Frugoni è storica del Medioevo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Anna Proietti è membro del Centro studi Santa Rosa da Viterbo. Ileana Tozzi è ispettore onorario per la tutela del patrimonio storicoartistico ed etnoantropologico di Rieti e provincia. Gloria Vallese è professore di elementi di iconografia e iconologia e di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Cortesia Accademia di Belle Arti di Venezia: pp. 10-13; Pino Usicco: copertina; Lorenzo Peter Castelletto: p. 14 – Mondadori Portfolio: pp. 78, 108; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 5; Album/Fine Art Images: p. 38; Album/Prisma: pp. 42, 44-45, 105, 106; AKG Images: pp. 51, 68; Album/ Oronoz: pp. 65, 72/73, 109 (destra); Electa/Antonio Quattrone: pp. 78/79, 80; The Print Collector/Heritage Images: p. 101; Fine Art Images/Heritage Images: p. 104; Fototeca Gilardi: p. 107; Electa/Mauro Magliani: p. 109 (sinistra) – Museo della Battaglia e di Anghiari, Anghiari: pp. 6, 7 (alto), 9 (alto) – Su concessione del Ministero della Cultura-Le Gallerie degli Uffizi: pp. 7 (basso), 8, 9 (basso) – Doc. red.: pp. 28/29, 30, 31 (basso), 32-37, 50 (alto), 58/59, 66/67, 71, 74, 82/83, 86-87, 89, 97 – Shutterstock: pp. 40/41, 48, 70/71, 100 – The J. Paul Getty Trust: p. 43 – Biblioteca Consorziale di Viterbo: pp. 46/47 (e pp. 48/49, alto) – Cortesia MAAM-Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Grosseto: pp. 54-57, 60-63 – Cortesia Fortebraccio Veregrense: p. 58 – Cortesia degli autori: pp. 76-77, 88/89, 110-111 – Riccardo Garzarelli: pp. 81, 82, 84-85 – Consorzio Turistico Val Chiavenna: pp. 90/91, 93, 95 – Elena Percivaldi: pp. 94, 96, 98 – da: Il Villani illustrato, Firenze 2005: p. 102 – Cippigraphix: cartina a p. 31 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 70, 92. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina basilica di S. Marco (Venezia). Il mese di Dicembre, rappresentato da un uomo che uccide il maiale (secondo un’antica tradizione contadina), nell’intradosso dell’arcone mediano del portale maggiore. Metà del XIII sec. (foto Pino Usicco).

Errata corrige con riferimento all’articolo La visione di un sogno (vedi «Medioevo» n. 298, novembre 2021) desideriamo precisare che le immagini, oltre che dagli autori, Luca Villa e Valeria Valentini, sono state fornite dal Comune di Cividale del Friuli e dal Progetto Katatexilux.

Prossimamente il decameron

pistoia

dossier

Vivere al tempo di Boccaccio

Una città fra romanico e gotico

Il racconto del Graal


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

Lacrime per un uomo buono

S

iamo nel 1289, in un rigido dicembre fiorentino. Dante ha trascorso l’estate partecipando alle campagne militari contro Arezzo e Pisa, in occasione delle quali ha avuto modo di conoscere Cecco Angiolieri e Nino Visconti. Di ritorno dalla vittoria di Campaldino, il comandante francese, Amerigo di Narbona, era stato nominato capitano della parte guelfa e al suo fianco lavoravano alcuni consiglieri fiorentini, tra cui Simone dei Bardi, il marito di Beatrice Portinari. Alla fine del

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dicembre

In basso la facciata a capanna della chiesa fiorentina di S. Margherita dei Cerchi. Qui avvenne il secondo incontro fra Dante Alighieri e Beatrice Portinari. mese, il 31 dicembre 1289 muore Folco Portinari, padre di Beatrice: è una data significativa per lo sviluppo del pensiero poetico dell’Alighieri. Tornato dalla guerra, Dante riprese a poetare, giungendo al momento saliente della struttura narrativa della Vita nuova. L’episodio luttuoso e il conseguente dolore di Beatrice per la morte del padre segnano profondamente l’animo del poeta, come s’intuisce dai nuovi testi del suo libello poetico: «Sí come piacque al glorioso sire lo quale non negoe la morte a sé, colui che era stato genitore di tanta maraviglia (...), di questa vita uscendo, a la gloria etternale se ne gio veracemente». Il dolore dinnanzi alla morte del padre di Beatrice colpisce profondamente l’animo di Dante che aveva perso la madre ancora bambino, e il padre appena adolescente. Folco viene descritto come un uomo buono: fu lui, per esempio, a fondare l’ospedale di S. Maria Nuova, in centro città. «Secondo l’usanza de la sopraddetta cittade,(...) molte donne s’adunaro colà dove questa Beatrice piangea pietosamente». Dante non trattiene le lacrime dinnanzi al dolore di Beatrice: «Io rimasi in tanta tristizia, che alcuna lagrima talora bagnava la mia faccia, onde io mi ricopria con porre le mani spesso a li miei occhi». Dante è stralunato, al punto che alcune donne che lo incontrano non lo riconoscono neppure: «Vedi questi che non par esso, tal è divenuto!». Il dolore per la morte di Folco è quasi l’annuncio di tragedie maggiori: Dante cade in una «dolorosa infermitade (...) la quale mi condusse a tanta debolezza che me convenía stare come coloro li quali non si possono muovere». In questo stato di profonda tristezza il poeta si figura la morte di Beatrice e poi la propria: «Or non sai? La tua mirabile donna è partita di questo secolo» (...) Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tornassero in suso, ed avevano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima». Il 19 giugno del 1290 Beatrice Portinari moriva e, secondo la tradizione, sarebbe stata seppellita nella chiesa di S. Margherita dei Cerchi, luogo del suo secondo e fatale incontro con l’Alighieri.

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ANTE PRIMA

Le armi e le arti MOSTRE • Al Museo della Battaglia e di Anghiari

capolavori provenienti dalle Gallerie degli Uffizi raccontano come gli uomini d’arme della cittadina toscana fossero anche degni committenti d’arte

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ato con l’obiettivo di raccontare la battaglia combattuta nel 1440 sotto le mura di Anghiari (Arezzo) e le vicende del perduto dipinto che Leonardo da Vinci dedicò all’evento, il Museo della Battaglia e di Anghiari propone una mostra temporanea sulla storia degli uomini d’arme, ceto sociale che contraddistingue la cittadina toscana fra Quattro e Cinquecento. Il progetto espositivo si avvale di opere concesse in prestito dalle Gallerie degli Uffizi, scelte per raccontare quel periodo e per descrivere il successo dell’idea leonardesca nella rappresentazione delle battaglie di cavalleria. Gli uomini d’arme anghiaresi vissuti nel Quattrocento hanno avuto significativi contatti con gli ambienti italiani piú colti e all’avanguardia del periodo, palesando una situazione molto originale e dai tratti inattesi. Essi

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In alto e in basso due immagini dell’allestimento della mostra «La civiltà delle armi e le corti del Rinascimento», in corso al Museo della Battaglia e di Anghiari.

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Lotta di cavalieri dalla Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci, incisione di Gérard Edelinck. 1657-1666. Anghiari, Museo della Battaglia e di Anghiari.

investono nel proprio prestigio, al pari dei loro piú illustri omologhi, e divengono il mezzo attraverso il quale il paese si riscatta da centro rurale a piccolissima corte.

Spiriti illuminati Le notizie d’archivio ci conducono a riflettere sull’effettivo apporto culturale di questa gente in armi, i cui rappresentanti sembrano i pochi, al tempo, in grado di elevare lo status quo intellettuale del borgo fortificato. Sono aiutanti di importanti cantieri in edifici religiosi, patrocinano cappelle e sepolture per se stessi e le proprie famiglie, commissionano opere d’arte nella vicina Firenze, gli viene affidata la costruzione di opere fortificate ancora oggi visibili, e perseguono prestigiose politiche matrimoniali. La mostra si articola in quattro sezioni, nella prima delle quali,

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In basso Madonna con Bambino, tabernacolo di Lorenzo di Giovanni di Nofri, detto Maestro di San Miniato. Post 1466. Firenze, Le Gallerie degli Uffizi.

«Arte e società degli uomini d’armi anghiaresi», documenta il fenomeno della committenza, stimolata dalla necessità sociale di ottenere prestigio attraverso l’arte. Anche gli uomini d’armi anghiaresi se ne fanno protagonisti, rivolgendosi a Firenze, che rappresentava il riferimento sociale, economico e culturale. E cosí, per esempio, Giusto Giusti incarica Giovanni di Francesco del Cervelliera di dipingere una tavola con San Nicola Vescovo; Matteo Taglieschi fa scolpire un altare con Santa Maria Vergine e San Matteo al lapicida Santi da Settignano; Gregorio di Vanni fa realizzare un dipinto all’ignoto pittore fiorentino «alla greca» Piero di Lorenzo: opere purtroppo scomparse, ma le notizie che le riguardano testimoniano il fervore culturale di quegli uomini d’armi. I tabernacoli lignei presenti in

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ANTE PRIMA

A sinistra Vergine con Bambino, San Giovannino e angeli, tabernacolo dello Pseudo Pier Francesco Fiorentino. 1459. Firenze, Le Gallerie degli Uffizi. A destra Ritratto di Federico da Montefeltro, olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. 1556 circa. Firenze, Le Gallerie degli Uffizi. mostra, la piccola Madonna con Bambino del cosiddetto Maestro di San Miniato e il tabernacolo dello Pseudo Pier Francesco Fiorentino, sono straordinari esempi di opere devozionali, che rappresentano quel clima culturale diffuso nei notabili del tempo, i quali amavano arricchire gli ambienti domestici di manufatti à la page, ma a un costo sostenibile. Il percorso si sofferma quindi sulle

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visite ad Anghiari di Federico da Montefeltro, che soggiorna nella cittadina toscana in due momenti distinti, a distanza di sei anni: la prima volta nel settembre del 1468 e la seconda il 5 luglio 1474.

L’assedio di Volterra La presenza piú significativa appare comunque quella del 1468, quando il duca d’Urbino, con la seconda moglie Battista Sforza e la corte, è ospite di Mazzone di Gregorio e di Francesco Prospero, ambedue uomini d’armi anghiaresi che hanno combattuto con lui. Assai importante risulta in seguito la presenza di compagnie anghiaresi sotto il comando di Federico all’assedio di Volterra del 1472, azione voluta da Lorenzo

il Magnifico per una disputa fra Firenze e i Volterrani a causa di un contrasto sullo sfruttamento di una miniera. Con il duca d’Urbino ci sono almeno tre compagnie anghiaresi: quella di Matteo Taglieschi, l’altra dell’Anghiarino e infine una compagine di Iacopo Giusti (quest’ultimo figlio di Giusto Giusti, il notabile di Anghiari vicino a Cosimo il Vecchio de’ Medici). La città viene vinta ai patti, ma gli abitanti vennero condotti all’obbedienza dalla violenza dei soldati che la misero a sacco. Nel 1473, al termine delle ostilità, Iacopo Giusti viene nominato castellano di Volterra con un compenso elevato: 150 fiorini d’oro l’anno. Dodici mesi piú tardi Federico passò da Anghiari, nel tornarsene a Urbino. dicembre

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DOVE E QUANDO

«La civiltà delle armi e le corti del Rinascimento. Federico da Montefeltro ad Anghiari» Anghiari, Museo della Battaglia e di Anghiari fino al 6 gennaio 2022 Orario tutti i giorni, 9,30-13,00 e 14,30-17,30; chiuso il 25 dicembre Info tel. 0575 787023; e-mail: museobattaglia@anghiari.it; www.battaglia.anghiari.it La terza sezione, «Uomo d’armi e cortigiano», racconta come la vita militare del Quattrocento, legata alle commesse delle varie città, signorie e corti d’Italia, favorí lo sviluppo di un ceto di uomini d’armi che formavano un ambiente dinamico, legato da interessi comuni e in cui il «cambio di bandiera» era spesso concordato e licenziato dal committente. Questo, già inconcepibile per i cronisti del Seicento, viene però accettato con la ragione del «perché cosí portavano i tempi e gl’oblighi che per allora far si dovesse». Ciò non significa altresí che il sistema militare delle «commesse» quattrocentesche fosse esente dall’aspetto di fedeltà: lo dimostrano alcuni episodi dei

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In basso veduta di Anghiari (Arezzo).

capitani anghiaresi, fra di essi quello di Gregorio di Vanni, il cui procuratore Giusto Giusti, nel mandarlo al soldo con i Genovesi o con i Veneziani spesso chiede il permesso ai Fiorentini. Sempre nelle gesta di Gregorio di Vanni vi è il seme del declino del mestiere delle armi italiano.

Lo stendardo conteso L’epilogo, «La lotta tra cavalieri», è dedicato al fatto d’armi che si svolse il 29 giugno del 1440, quando, presso il ponte che attraversa la reglia dei mulini, sulla strada che corre sotto le mura di Anghiari e che conduce a Borgo Sansepolcro, cavalieri milanesi e fiorentini si batterono per lo stendardo

visconteo. Il fatto venne dipinto dalla bottega di Apollonio di Giovanni attorno al 1450 e fu poi raffigurato, nei suoi tratti storici, dalla Battaglia di Anghiari di Leonardo, ideata negli anni 1503-1506. Grazie all’opera del maestro vinciano questo fatto di guerra quattrocentesco fra cavalieri di ventura italiani è divenuto il riferimento di tutte le rappresentazioni di lotta fra cavalieri. La battaglia leonardesca diviene un archetipo, conosciuto sicuramente da Jacques Courtois, italianizzato in Giacomo Cortese, ex militare e pittore, che diviene uno degli specialisti delle opere di questo genere nella metà del Seicento. Nelle sue opere è lo sgomento o la paura il sentimento dominante che traspare dai volti dei cavalieri, non la leonardesca, bestialissima, ferocia. Perché la guerra si è fatta differente, non si addiviene quasi piú «ai patti» per risolvere un assedio, le spade cosiddette «storte» hanno lasciato il posto alle pistole, le paghe sono basse e la guerra, al contrario dei tempi delle compagnie quattrocentesche, viene condotta sempre piú spesso anche in inverno. (red.)

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ANTE PRIMA

Tutte le stelle di Venezia MOSTRE • Fra gli innumerevoli tesori della basilica

veneziana di S. Marco vi è il magnifico rilievo con il Ciclo dei Mesi sul portale maggiore. Una composizione che ora, grazie all’applicazione delle piú moderne tecnologie, svela particolari inaspettati... 10

Sulle due pagine il portale maggiore della basilica di S. Marco a Venezia, coronato dal Ciclo dei Mesi scolpito a bassorilievo nell’archivolto mediano. Metà del XIII sec.

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In basso il mese di Gennaio, raffigurato come un giovane contadino che porta sulla spalla destra un grande ramo di quercia, che servirà per accendere il fuoco.

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l portale maggiore della basilica di S. Marco, a Venezia, è ornato da tre archivolti concentrici magnificamente scolpiti a bassorilievo. Quello mediano, realizzato intorno alla metà del XIII secolo, presenta, all’intradosso, un ciclo dei Dodici Mesi con caratteristiche molto originali, che lo rendono unico nel quadro del romanico europeo. Le dodici personificazioni che si affaccendano nelle attività tipiche di ciascun

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mese, opera di un artefice molto vicino (o forse identico) al Maestro dei Mesi di Ferrara, sono le piú intensamente realistiche mai realizzate fino a quel momento; ma, nel contempo, concepite in modo da formare una descrizione sorprendentemente esatta del cielo da un punto di vista astronomico. A rivelarci questo aspetto finora sconosciuto sono gli strumenti di ricerca non disponibili fino a qualche decennio fa; uno di essi

è il planetario virtuale Stellarium (www.stellarium.org), per mezzo del quale è possibile vedere come si presentava il cielo notturno sopra Venezia nel Duecento. Si è cosí notato che nel Ciclo dei Mesi di S. Marco non si osservano solo le 12 costellazioni dell’eclittica, i cosiddetti «segni» dello Zodiaco, come era noto finora, ma quelle di tutto il firmamento, distribuite nelle figure minori che fanno da contorno a ciascuna formella

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ANTE PRIMA e nelle personificazioni stesse, in modo da creare una visione astronomica rigorosa, in accordo col cielo osservato. Un’operazione del tutto in tono con la civiltà di Venezia, focalizzata a quell’epoca sul tema del viaggio, del contatto con culture diverse e anche lontane: viaggio che aveva come strumento indispensabile la conoscenza delle stelle, usate per orientarsi. Cosí, per esempio, il Gennaio può ben apparire come un comune contadino che trasporta un ceppo d’albero, col quale piú tardi (nella formella successiva, il Febbraio), potrà riscaldarsi al fuoco; ma nello stesso tempo, la figura impersona Boötes, una costellazione che a gennaio affiorava all’orizzonte Nord con la mano, e si portava via nel corso della notte l’Orsa Maggiore/ ceppo d’albero.

L’inizio di un nuovo mese

In alto particolare dell’Harmonia Macrocosmica, l’atlante delle stelle realizzato dal cartografo Andrea Cellarius. 1660. A sinistra un’immagine tratta dal sito stellarium.org.

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Quando poi, nello stesso punto del cielo, affioravano il piede e il ginocchio di nuovo personaggio, la costellazione Hercules (il «Geniculatus» o Engonasin degli antichi), significava che gennaio era ormai trascorso, e iniziava un nuovo mese, febbraio; sul finire del quale (come il bassorilievo marciano mostra puntualmente), la testa del personaggio sfiorava le stelle dei Pesci. Il racconto del nostro sorprendente (e per ora anonimo) maestro, e del suo altrettanto ignoto consigliere astronomico, procede cosí, attualizzando talvolta, in modo affascinante, le figure di antichi miti. Nel suo Aprile, per esempio, rivive la figura classica dell’eroe che afferra il Ramo d’Oro (ovverosia le Pleiadi), nel tempo dell’anno in cui esse scintillano per un breve istante sopra il sole al tramonto; e accanto a esse, come in atto di afferrarle, appariva la mano della costellazione che secondo la tradizione classica era Perseo. Il ramo che il giovane dicembre

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Le raffigurazioni dei mesi di Agosto e Settembre. Per il primo è stata scelta l’immagine di un fanciullo che, sfinito dal caldo, siede su un trono; per il secondo compare invece una scena di vendemmia. afferra sorridendo brillava un tempo, in effetti, di foglia d’oro zecchino; poiché il bassorilievo, oggi di un uniforme color brunorosato, era in origine riccamente policromato e dorato. Le foto ad alta definizione presentate in mostra mettono in evidenza i cerchi di forellini e le zigrinature che costituivano il probabile aggrappo di elementi metallici: asterischi di varie dimensioni che indicavano le stelle, e anche altri dettagli, come gli zoccoli equini del Sagittario, o il diadema sulla fronte di Andromeda la principessa, e i legami che le cingevano il petto.

Per orientarsi nell’ombra Questa familiarità col cielo stellato, propria della civiltà del viaggio, non si manifestava solo in S. Marco, ma in tutta la Venezia duecentesca. Le facciate dell’epoca, sia religiose che civili, mostravano segnacoli astronomici, le cosiddette patere e formelle, atte a orientare il viaggiatore, particolarmente nei giorni coperti, quando venivano a mancare le indicazioni delle ombre sugli edifici. Per illustrare questo aspetto, una sezione della mostra ci porta a visitare l’antico insediamento dei «Mori» (i mercanti arabi) in un punto estremo della città. Sulle facciate delle loro case, le costellazioni scultoree sono denominate sia all’araba che alla latina, in atto di coabitazione e di cortesia. Di segnacoli simili, atti a suscitare un senso di familiarità nei visitatori provenienti da luoghi anche lontani, la S. Marco duecentesca è interamente ricoperta; e, al suo interno, conserva un artefatto fino

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ANTE PRIMA Una mostra nata in Accademia Presentata al Magazzino del Sale 3, uno degli antichi depositi della Serenissima nei pressi di Punta della Dogana, la mostra è stata creata da studenti e docenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, diretta dal critico d’arte Riccardo Caldura. Modelli in 3D presentano la ricostruzione ipotetica di due formelle del bassorilievo nella policromia originale (professori Giuseppe D’Angelo, Maurizio Tonini); un ologramma mostra l’effetto alba-tramonto sul rilievo, quando, nella semioscurità, le forme si cancellavano, ma lo scintillio dei punti metallici riproduceva il contorno delle costellazioni (studentessa Alessia Lorenzi). Un filmato d’animazione basato su Stellarium fa scorrere per un intero anno le formelle del bassorilievo sullo sfondo del cielo reale, mostrando le corrispondenze (studentessa Mallika Sottana). Sculture e installazioni in filo metallico (professoressa Resi Girardello e studenti) familiarizzano con il concetto di costellazione, presentando animali e piante fantastiche e un modello della basilica di S. Marco. La mostra si inserisce nel quadro delle celebrazioni per i 1600 anni dalla fondazione di Venezia.

Dicembre, rappresentato da un uomo che uccide il maiale (secondo un’antica tradizione contadina), nell’intradosso dell’arcone mediano del portale maggiore della basilica di S. Marco. Maestro anonimo, metà del XIII sec. La scena evoca le costellazioni Cefeo e Cassiopeia, come si potevano osservare in cielo a Venezia nel mese di dicembre, all’ora del crepuscolo (indicata dai due trampolieri in basso, le costellazioni Grus e Phoenix).

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a oggi mai studiato a fondo: si tratta dell’arcosolio sito nella cappella di S. Isidoro, in cui la costellazione Gemini, i Gemelli, è rappresentata non all’occidentale, ma con i tratti che essa ha in un Oriente molto lontano, addirittura nella remota Indonesia. Nella prima metà del Duecento, ai tempi in cui il padre e lo zio di Marco Polo affrontavano via terra il loro primo viaggio fino agli estremi confini del mondo allora conosciuto, opera a Venezia questo artefice dai forti tratti orientali; lui stesso forse, e non

soltanto i suoi motivi, importato da quei luoghi lontani. Gloria Vallese DOVE E QUANDO

«Stelle e viaggi 2. Esplorazioni, iconografia, astronomia a San Marco nel ’200» Venezia, Magazzino del Sale 3, Zattere fino al 15 gennaio 2022 Orario gio-sa, 11,00-17,00 Info www.accademiavenezia.it dicembre

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AGENDA DEL MESE

Mostre TRENTO ANNA, LA MADRE DI MARIA CULTO E ICONOGRAFIA NEL TIROLO STORICO Museo Diocesano Tridentino fino al 10 dicembre

Frutto di un progetto di ricerca dell’Università di Trento, l’esposizione illustra l’evoluzione del culto e dell’iconografia di sant’Anna fra il XV e il XVIII secolo, concentrandosi sul territorio che oggi va dall’Austria meridionale al Trentino. La figura di sant’Anna ha avuto uno spazio di grande rilievo nella storia del cristianesimo. Come madre della Vergine Maria e nonna di Gesú, è stata al centro di un culto diffuso in Oriente e in Occidente, che pur conoscendo alterne vicende, non è mai venuto meno e ha dato vita a una ricca e variegata produzione artistica. Questo fenomeno ha avuto il suo apice tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, soprattutto nei Paesi germanofoni, incluso il Tirolo storico. In queste terre di montagna, dove le Alpi non sono mai state un elemento divisorio tra realtà artistiche

differenti, bensí un luogo d’incontro e di congiunzione tra influenze diverse, si trovano ancor oggi opere d’arte di estremo interesse legate al culto di sant’Anna. Anche qui, infatti, la santa fu patrona delle famiglie dell’alta borghesia cosí come di orefici, tessitori, falegnami e minatori. La sua figura, inoltre, costituí un importante punto di riferimento per la popolazione femminile, soprattutto per le partorienti, le madri di famiglia e per le donne che faticavano a concepire. Dopo il concilio di Trento, in un clima di generale ridimensionamento del culto dei santi di origine piú o meno leggendaria, la venerazione per sant’Anna diminuí progressivamente in tutta Europa e la sua raffigurazione divenne oggetto di una serie di interessanti «correzioni», tese a eliminare qualsiasi sospetto di scarsa ortodossia. Al pari del suo sposo Gioacchino, infatti, Anna non è un personaggio biblico: nelle Sacre Scritture non si fa mai riferimento ai genitori di Maria e alla loro storia. Le scarne notizie della sua biografia si desumono dai racconti narrati nei Vangeli apocrifi, ritenuti cioè non autentici dalla Chiesa cattolica. Questa evoluzione teologica e cultuale si riflette in modo esemplare nelle modifiche che l’iconografia di sant’Anna subí dalla seconda metà del XV secolo al XVIII secolo, cioè nell’arco di tempo indagato dalla mostra. info tel. 0461 234419; e-mail: info@mdtn.it; www. museodiocesanotridentino.it

a cura di Stefano Mammini organizzate dall’Ateneo di Brescia-Accademia di Scienze Lettere e Arti con Fondazione Brescia Musei per celebrare due miti, a 700 anni dalla morte di Dante e, al contempo, a 200 da quella di Napoleone. Il progetto indaga valori, ideali e sentimenti che si addensarono intorno ai due personaggi, descrive un’epoca, i suoi protagonisti, il collezionismo, le tendenze, all’insegna di un comune denominatore: l’Europa. Per la mostra «Dante e Napoleone» sono state riunite oltre 80 opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e medaglie, provenienti da collezioni pubbliche e private, in dialogo con il percorso permanente della casa-museo di Paolo Tosio. Opere che documentano l’interesse largamente diffuso per i due grandi personaggi:

Alighieri in quanto riferimento delle aspirazioni civili e identitarie della nazione, della quale il poeta era considerato l’unificatore dal punto di vista linguistico; Bonaparte in quanto percepito come colui che, grazie alla costituzione della Repubblica prima e del Regno italico poi, aveva avviato un processo di formazione della coscienza nazionale che diede vita al Risorgimento e all’unificazione della Penisola. info www.ateneo.brescia.it, www.bresciamusei.com MILANO BAGLIORI GOTICI. DAL MAESTRO DEL 1310 A BARTOLOMEO VIVARINI Galleria Salamon fino al 17 dicembre

La mostra propone un suggestivo percorso attraverso due secoli di pittura italiana,

BRESCIA DANTE E NAPOLEONE Palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 15 dicembre

La mostra è compresa nel piú vasto programma di iniziative

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dalla fine del Duecento ai maestri del tardo gotico, e presenta 18 dipinti su tavola di eccezionale valore. Per buona parte si parla di «nuove acquisizioni agli studi», sebbene molte delle opere fossero già conosciute da Federico Zeri (1921 - 1998), che disponeva delle relative immagini nella sua fototeca. In alcuni casi – per esempio

l’incantevole Madonna col Bambino di Agnolo Gaddi, di certo uno dei vertici dell’esposizione –, le tavole sono state riconosciute meritevoli di dichiarazione d’interesse culturale (notificate) da parte del Ministero della Cultura. Il provvedimento di notifica equivale a dichiarare i dipinti «come degni di far parte delle maggiori collezioni museali italiane», e attribuisce loro la prerogativa di documenti imprescindibili del nostro patrimonio nazionale. info tel. 02 76024638; e-mail: info@salamongallery.com AREZZO OMAGGIO AL SOMMO POETA. PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI Palazzo della Fraternita dei Laici fino al 31 dicembre

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La mostra propone documenti d’archivio e testi a stampa che inseriscono a pieno titolo la città di Arezzo nell’itinerario delle vicende dantesche. Il percorso, volutamente circoscritto, ma scientificamente documentato, è organizzato nelle sale del prestigioso e antico palazzo di Fraternita (XIV-XV secolo). L’esposizione si apre con una sezione che, attraverso documenti notarili e autorevoli fonti, illustra il legame di Dante e della sua famiglia con Arezzo: il soggiorno del poeta tra il 1303 e il 1304 e la presenza del fratello Francesco in città per la stipula di un contratto. Nel nucleo centrale appare egemone il ruolo svolto in quegli anni dall’antica Fraternita dei Laici, che vive allora il passaggio da istituzione religiosa e assistenziale a organismo laico riconosciuto dal Comune. Sono quindi esposti gli antichi Statuti, l’elenco dei confratelli iscritti, le riforme e i lasciti testamentari. È poi la volta delle splendide edizioni a stampa della Commedia e di volumi un tempo appartenuti alla stessa Fraternita che, riccamente illustrati, testimoniano dal XV al XVI

secolo, l’enorme fortuna dell’opera dantesca. Tra queste, spicca la pregiata edizione della Commedia (1481), illustrata, secondo l’attribuzione di Giorgio Vasari, da Sandro Botticelli. L’esposizione si conclude con il ritratto a stampa di Dante proveniente dalla Collezione Bartolini ed eseguito da Angelo Volpini nel XIX secolo (stampa di Carlo Lasinio), icona e simbolo della mostra: l’immagine si distingue da altre effigi del poeta in virtú del cartiglio esplicativo, che ne ricorda la genesi da una maschera originale del poeta. info e-mail: info@ fraternitadeilaici.it; www.fraternitadeilaici.it; Fb: Fraternita dei Laici FIRENZE «…PER FARE NOTOMIA». IL CRISTO ANATOMICO DI RAFFAELLO NELLA BIBLIOTECA MARUCELLIANA DI FIRENZE Biblioteca Marucelliana fino al 7 gennaio 2022

Protagonista del progetto espositivo è uno straordinario disegno giovanile di Raffaello confluito alla fine del Settecento nell’istituzione fiorentina e mai sinora compiutamente indagato. Tra i piú precoci approdi noti della personalità di Raffaello disegnatore, il foglio è databile agli anni piú avanzati del periodo fiorentino (15041508) e rappresenta un raro esempio di Cristo crocifisso in écorché, ovvero in dissezione superficiale. Trascendendo i confini delle indagini storicoartistiche di orizzonte raffaellesco, il foglio dichiara indiscutibili elementi di trasversalità e ragioni di dialogo con l’ambito teologico, ma soprattutto con la storia della medicina e la tradizione

degli studi anatomici di primo Cinquecento. Ad accompagnare il foglio di Raffaello, un percorso articolato in dieci sezioni tematiche concepite in progressione cronologica dal XV al XVII secolo. Incunaboli, cinquecentine, trattati di celebri anatomisti, oltre a stampe e disegni, narrano, declinandolo da piú punti di vista, lo stretto legame nella pratica dissettiva tra medicina e arte, tra scienza, filosofia e storia dell’arte. info www.maru.firenze.sbn.it MODENA DANTE ILLUSTRATO NEI SECOLI. TESTIMONIANZE FIGURATE NELLE RACCOLTE DELLA BIBLIOTECA ESTENSE UNIVERSITARIA Biblioteca Estense Universitaria, Sala Campori, Gallerie Estensi fino all’8 gennaio 2022

La Biblioteca Estense presenta una mostra unica per la ricchezza del suo fondo dantesco, tra i piú prestigiosi esistenti in Italia e forse nel mondo, attingendo allo straordinario patrimonio relativo al poeta. Allestita nella sala Campori, la rassegna presenta cimeli di estrema rarità, dai manoscritti alle opere a stampa, documenti dalle caratteristiche preziose e diversissime che permettono di ripercorrere l’intera storia del «Dante figurato», compreso un video realizzato ad hoc dall’Accademia di Belle Arti di

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AGENDA DEL MESE

Bologna. Dalla sequenza quasi cinematografica di acquarelli papyrus style nel margine superiore di tutti i fogli del celebre Dante Estense, alle xilografie delle prime edizioni a stampa, alle rappresentazioni di Gustave Doré, Francesco Scaramuzza, William Blake, fino ai recenti Salvator Dalí e Renato Guttuso, passando per le «imagini» di Amos Nattini, il materiale custodito presso la Biblioteca Estense, rappresentativo – nella sua ricchezza – dell’immensa produzione dantesca, riesce a documentare i diversi modi di leggere la Divina Commedia, illustrando un capitolo della storia secolare del commento e della «fortuna» di Dante Alighieri, oltre che della storia del libro e, piú in generale, dell’arte figurativa. info www.gallerie-estensi. beniculturali.it PAVIA IMMAGINI IN CANTO. I CORALI DELLA CERTOSA DI PAVIA Biblioteca della Certosa fino al 9 gennaio 2022

Un doppio, eccezionale appuntamento alla Certosa di Pavia. Si tratta dell’esposizione di uno dei tesori meno noti del Museo statale della Certosa, i sontuosi graduali miniati cinquecenteschi. Altro evento nell’evento è l’apertura, per l’occasione, del locale della Biblioteca, un ambiente tuttora di pertinenza del

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monastero e che, per questo particolare evento, la comunità monastica ha messo a disposizione per accogliere il pubblico davanti ai corali che per secoli vi sono stati conservati. Questi ultimi non erano libri a uso personale, ma collettivo: il codice veniva aperto, e via via sfogliato, su un alto leggio al centro del coro, in modo che tutti monaci potessero, dai loro stalli, seguirne i testi e le annotazioni musicali, ammirandone anche gli sfavillanti decori. Di questi colossali codici la ricca Certosa pavese ne vantava almeno 39, come ricorda l’inventario dei beni del monastero redatto il 16 dicembre 1782, al momento della sua soppressione. Da quel momento iniziò la diaspora di uno dei grandi giacimenti librari lombardi. La Biblioteca della Certosa riuniva, infatti, piú di 10mila

volumi, tra codici miniati, manoscritti e incunaboli. Un insieme unico che prese in parte la via della biblioteca Braidense di Milano, in parte di quella Universitaria di Pavia disperdendosi poi lungo rivoli ancora in parte ignoti. Era un patrimonio di grande ricchezza anche in termini di qualità, poiché sui volumi piú antichi furono al lavoro i maggiori artisti e miniatori attivi per la corte dei Visconti prima e degli Sforza poi, grandi protettori del monastero pavese. info www.musei.lombardia. beniculturali.it

Serenissima e aprendosi all’Europa, poteva competere con i piú famosi centri spagnoli e tedeschi. Una realtà protagonista della mostra allestita nel Museo Civico bellunese, il cui percorso segue la filiera produttiva dall’estrazione del minerale di ferro nelle miniere, alla prima lavorazione nei forni e nelle fusine grosse, alla produzione delle lame nelle fucine da spade, per gettare uno sguardo alla commercializzazione

BELLUNO ACQUA FERRO FUOCO. ARTE DELLE SPADE NEL BELLUNESE Museo Civico fino al 9 gennaio 2022

Nel 1578, a Belluno, il mercante inglese Lancillotto Rolanzon, residente a Venezia, e il gentiluomo Giovanni Brone, suo conterraneo, stipularono un contratto con i maestri spadai Andrea e Zandonà Ferrara per la fornitura di 7200 spade all’anno, per i successivi dieci anni. Il documento attesta l’esistenza, alla fine del Cinquecento, di un’attività molto importante, per il volume di spade che una sola fucina era in grado di assicurare e per il mercato di riferimento di questa attività, che, varcando i confini della

e all’uso delle armi nella società del tempo. info tel. 0437 956305 TORINO IL RINASCIMENTO EUROPEO DI ANTOINE DE LONHY Torino, Palazzo Madama, Sala Senato fino al 9 gennaio 2022

L’esposizione punta a ricomporre la figura di Antoine de Lonhy, un artista poliedrico – era pittore, miniatore, maestro di vetrate, scultore e autore di disegni per ricami – che ebbe un impatto straordinariamente importante per il rinnovamento del panorama figurativo del territorio dell’attuale Piemonte dicembre

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nella seconda metà del Quattrocento. Venuto a contatto con la cultura fiamminga, mediterranea e savoiarda, fu portatore di una concezione europea del Rinascimento, caratterizzata dalla capacità di sintesi di diversi linguaggi figurativi. Lonhy visse e lavorò in tre Paesi diversi. Originario di Autun, in Borgogna, si formò sui testi della pittura fiamminga, tra Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. Prima del 1450 era già in contatto con uno dei piú straordinari mecenati di ogni tempo, il cancelliere del duca di Borgogna Nicolas Rolin, per il quale eseguí delle vetrate istoriate, purtroppo perdute. Si conoscono poi tutte le tappe del suo percorso attraverso l’Europa, che si concluse nel ducato di Savoia, dove lavorò per la corte e per numerose chiese e monasteri del territorio e dove si spense, probabilmente, prima della fine del secolo. Il percorso espositivo della mostra, articolato nelle due sedi di Palazzo Madama-Museo Civico

d’Arte Antica di Torino e del Museo Diocesano di Susa, vuole mettere in evidenza i viaggi, gli spostamenti e la carriera itinerante attraverso l’Europa di un artista che nelle sue opere riuní insieme elementi e influssi dalla Borgogna, dalla Provenza, dalla Catalogna e dalla Savoia. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it GUBBIO OTTAVIANO NELLI E IL ‘400 A GUBBIO. ORO E COLORE NEL CUORE DELL’APPENNINO Palazzo Ducale e Palazzo dei Consoli fino al 9 gennaio 2022

della cultura tardo-gotica, Ottaviano di Martino Nelli (1375 circa-1444 circa) seppe fondere la tradizione locale con elementi desunti dalla pittura lombarda e dalla miniatura francese, sviluppando un linguaggio personale vicino alle soluzioni di Lorenzo Salimbeni e di Gentile da Fabriano. A Gubbio, dove venne ripetutamente nominato console della città, fu a capo di un’attivissima bottega che esercitò una certa influenza in Umbria e nelle Marche. Tematica centrale della mostra, pertanto, è quel Quattrocento eugubino di cui Nelli fu protagonista indiscusso. info www.mostranelligubbio.it

interdisciplinare, all’interno della quale le opere formano una stringente sequenza che collega fra loro dipinti, sculture e rimandi concettuali e letterari impliciti nella vicenda biografica e poetica di Dante. L’esposizione, che nel titolo – «La mirabile visione» – rimanda agli studi danteschi di Giovanni Pascoli, è articolata in varie sezioni, dedicate alla scoperta del piú antico ritratto di Dante, opera di Giotto, nella cappella del Bargello (1840), alle suggestioni della Vita Nova nella seconda metà dell’Ottocento, ai grandi e tragici personaggi della Commedia rappresentati nell’ambito artistico internazionale, alle opere presentate al Concorso Alinari del 1901 e alle illustrazioni piú affini alla sensibilità simbolista, ma anche alla risonanza della Commedia nella produzione letteraria di Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio. info tel. 055 0649440; www.bargellomusei.beniculturali.it ROMA INFERNO Scuderie del Quirinale fino al 9 gennaio 2022

L’arte caleidoscopica di Ottaviano Nelli è protagonista della mostra ospitata nei due luoghi espositivi piú emblematici di Gubbio, il Palazzo Ducale e il Palazzo dei Consoli. Per l’occasione sono state riunite le opere piú importanti del pittore eugubino, quali polittici, anconette e affreschi strappati e al contempo viene proposta una lettura del legame profondo dell’artista con la città e il territorio di cui fu espressione massima nel suo tempo. Formatosi nell’ambito

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FIRENZE LA MIRABILE VISIONE. DANTE E LA COMMEDIA NELL’IMMAGINARIO SIMBOLISTA Museo Nazionale del Bargello fino al 9 gennaio 2022

Negli spazi del Bargello è stata riunita una selezione di opere che, dalle correnti naturaliste agli influssi europei del simbolismo, illustrano lo straordinario catalogo di immagini che il poema dantesco era in grado di offrire al mondo dell’arte. La mostra è concepita come una narrazione tematica e

Prima grande rassegna d’arte dedicata a questo tema, Inferno racconta la persistenza dell’iconografia del mondo dei dannati dal Medioevo ai nostri giorni. Accompagnati dalla parola dantesca, i visitatori attraverseranno i luoghi terrifici e le visioni laceranti dell’Inferno cosí come sono stati rappresentati dagli artisti di tutte le epoche, dalle schematiche scene medievali alle sublimi invenzioni rinascimentali e barocche, dalle tormentate visioni romantiche fino alle spietate interpretazioni psicoanalitiche

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AGENDA DEL MESE del Novecento. Un’intera sezione sarà dedicata alle varie traslitterazioni dell’esperienza dell’Inferno in terra: la follia, l’alienazione, la guerra, lo sterminio. Oltrepassato il culmine del Male, la mostra troverà la sua conclusione con l’evocazione dell’idea di salvezza, affidata da Dante all’ultimo verso della cantica: e quindi uscimmo a riveder le stelle. Grazie al supporto straordinario della Biblioteca Apostolica Vaticana,

intenso e fecondo, che Dante Alighieri ebbe in vita con la città di Bologna, le ragioni della mostra muovono dallo sguardo curioso e dalla attenta sensibilità critica che egli dovette rivolgere verso le arti figurative, di cui dimostrò di essere a conoscenza nei piú importanti sviluppi coevi al suo tempo. Il sommo poeta soggiornò a Bologna in piú occasioni: una prima volta probabilmente intorno al 1286-87, quando forse

per le prime settimane della mostra sarà concesso in prestito il capolavoro piú celebre ed emblematico di tale iconografia, la voragine infernale di Sandro Botticelli. info www.scuderiequirinale.it

frequentò, come studente «fuori corso», l’Università. Piú prolungato dovette essere invece il secondo soggiorno, che lo vide trattenersi in città per almeno due anni, dal 1304 al 1306. Dopo aver lasciato Verona, e poi Arezzo, Dante ricercava ora nella scrittura e nello studio il motivo del suo riscatto che l’avrebbe risollevato dall’ignominia dell’esilio, iniziato nel 1302. Ed è probabile che in queste circostanze abbia scelto

BOLOGNA DANTE E LA MINIATURA A BOLOGNA AL TEMPO DI ODERISI DA GUBBIO E FRANCO BOLOGNESE Museo Civico Medievale fino al 9 gennaio 2022

Richiamandosi al rapporto,

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proprio Bologna come possibile nuova meta, atta a garantirgli le necessarie risorse per vivere e anche per studiare e scrivere. Una presenza che dovette consentirgli di entrare in contatto con alcuni di quei luoghi deputati alla produzione e alla vendita dei libri, dove probabilmente aveva avuto notizia dello stesso miniatore Oderisi da Gubbio di cui racconta l’incontro, tra i superbi, nell’XI canto del Purgatorio: ««Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi, / l’onor d’ Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’ all uminar chiamata è in Parisi?» / «Frate», diss’elli, «piú ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte»». info tel. 051 21939.16-30; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it; www. museibologna.it; facebook: Musei Civici d’Arte Antica; twitter: @MuseiCiviciBolo; www.museibologna. it; instagram: @bolognamusei

«Le Arti al tempo dell’esilio», «Un’Epopea POP» conclude il ciclo espositivo «Dante. Gli occhi e la mente» e mostra come la fortuna popolare di Dante cominci già nel Trecento per arrivare fino a quell’universo culturale che chiamiamo genericamente «pop». I suoi versi piú celebri, entrati nel linguaggio comune degli italiani, sono stati riprodotti in tutto il mondo negli almanacchi e nei calendari, nei poster e nelle magliette; li vediamo scritti nei muri; li riconosciamo nelle pubblicità e nelle canzoni. L’immagine del poeta è divenuta un’icona internazionale, dai monumenti nelle piazze, alla miriade di oggetti che la riproducono. Le storie e i personaggi del poema, soprattutto le atmosfere infernali, hanno generato le piú svariate manifestazioni creative. E la Commedia, tradotta in un

RAVENNA DANTE. GLI OCCHI E LA MENTE UN’EPOPEA POP MAR-Museo d’Arte della città di Ravenna fino al 9 gennaio 2022

Dopo «Inclusa est flamma» e

centinaio di lingue, si è diffusa attraverso migliaia di edizioni popolari illustrate, commenti e riassunti, riduzioni cinematografiche e parodie televisive, album di figurine, dicembre

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giochi da tavolo, storie a fumetti e cartoni animati. Intrecciato all’intero progetto espositivo, si snoda inoltre un percorso d’arte contemporanea. info tel. 0544 482477; www.mar.ra.it

della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica

VENEZIA STELLE E VIAGGI 2. ESPLORAZIONI, ICONOGRAFIA, ASTRONOMIA A SAN MARCO NEL ‘200 Magazzino del Sale 3, Zattere fino al 15 gennaio 2022

La mostra offre nuove e sorprendenti rivelazioni che riguardano il Ciclo dei Mesi e la cappella di S. Isidoro della basilica di S. Marco. L’eposizione si apre con la sezione I mercanti e il cielo: I «Quattro Mori» come non li avete mai visti. Le iconografie del secondo arcone del portale maggiore di S. Marco, studiate con l’aiuto di nuove fotografie, modelli 3D, ricostruzioni video e ologrammi, offrono al pubblico una visione approfondita e inedita: il Ciclo dei Mesi si rivela una sorprendente rappresentazione del cielo notturno ottica e calendariale, creata in accordo al cielo osservato, con gli astri e le costellazioni che si susseguono scandendo le ore e i tempi dell’anno. Le installazioni Policromia e possibili applicazioni metalliche, L’alba e il tramonto: effetti di luce, Il corso delle stagioni mettono in rilievo altri particolari del portale maggiore, come la preziosa policromia ora perduta, i supporti degli inserti metallici che tracciavano una mappa celeste, creando un effetto sontuoso. Segue la sezione Arcosolio Sant’Alipio. Sempre piú lontano: il viaggio delle Gemelle: in un bassorilievo della prima metà

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del Duecento, l’arcosolio della cappella di S. Isidoro, un sorprendente frammento ci parla della lontana Indonesia: una raffigurazione della costellazione dei Gemelli non all’occidentale, e cioè come due figure distinte di fratelli o di amanti, ma all’orientale, come una coppia di siamesi terminanti in una coda di pesce, accompagnati da due piccoli draghi-unicorno. L’immagine è interessante per l’epoca a cui risale, ponendo i viaggiatori veneziani duecenteschi sull’orlo del Pacifico, piú lontano di quanto si fosse finora immaginato. Il percorso si conclude con Basilica di San Marco: col tempo sempre piú nuova, in cui domina un modello dell’esterno in fili di rame dove sono evidenziati i simboli astronomici. info www.accademiavenezia.it FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 16 gennaio 2022

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio

dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it MILANO SCULTURE LIGNEE A CONFRONTO DALLE CITTÀ DUCALI DI VIGEVANO E MILANO Castello Sforzesco, Sala della Balla fino al 16 gennaio 2022

L’iniziativa propone un duplice focus sul Compianto di San Dionigi e sull’Ancona di San Giuseppe provenienti da Vigevano, che, come Milano, ospitò un’importante corte sforzesca tra Quattro e Cinquecento. I due gruppi scultorei, posti a confronto con il cosiddetto Compianto di Casoretto, sono entrambi di imponenti dimensioni e presentano ancora tracce di una policromia antica. Il Compianto di San Dionigi è stato accostato negli anni passati all’opera del Maestro dei Compianti, un anonimo scultore di cultura artistica lombarda a cui sono state attribuite anche tre statue conservate oggi nella collezione del Castello Sforzesco, per l’occasione poste a confronto. L’Ancona di San Giuseppe, dalla chiesa della Madonna dei Sette Dolori di Vigevano era opera finora poco nota: le sue ingenti dimensioni e la collocazione in chiesa a notevole altezza da

terra hanno fino a oggi impedito di apprezzare la qualità del modellato e di avanzare una ponderata valutazione stilistica e attributiva. Il recente restauro, ha permesso di rilevare le notevoli finezze nell’intaglio e nella decorazione policromata con largo uso della tecnica del

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AGENDA DEL MESE MOSTRE • Arti dell’Islam. Un passato per un presente

graffito su tempera e oro. L’ancona risulta essere il frutto del lavoro dei maggiori artisti dell’epoca: ai fratelli De Donati si attribuiscono le due statue di Giuseppe e Maria, mentre a Giovanni Angelo e Tiburzio del Maino e ai loro collaboratori si assegna l’esecuzione delle scene narrative e dei profeti, oltre alla carpenteria e quindi all’ideazione architettonica. info tel. 02 88463700; www.milanocastello.it ROMA LA «BIBLIOTECA» DI DANTE Palazzo Corsini fino al 16 gennaio 2022

Angoulême, Blois, Clermont-Ferrand, Digione, Figeac, Limoges, Mantes-La-Jolie, Marsiglia, Nancy, Nantes, Narbonne, Rennes, Rillieux-la-Pape, Rouen, Saint-Denis, Saint-Louis (La Réunion), Tolosa e Tourcoing fino al 27 marzo 2022 info https://expo-arts-islam.fr

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in dalla sua creazione, nel 2012, il Dipartimento di Arti dell’Islam del Museo del Louvre offre l’opportunità di scoprire le culture islamiche, fiorite dalla Spagna all’India tra il VII e il XIX secolo, sottolineando l’importanza degli scambi, stretti e fecondi, che furono stabiliti nel tempo tra la Francia e l’Oriente. Sulla scia di questo approccio è nato il progetto espositivo che, fino al prossimo 27 marzo, vede coinvolte 18 città francesi, ciascuna delle qual ospita un allestimento composto da una selezione di dieci opere provenienti dal museo parigino e da collezioni nazionali e regionali. Una selezione che documenta oltre 1300 anni di storia e che annovera oggetti di grande pregio, fra i quali possiamo ricordare una lampada da moschea dell’XI secolo proveniente da Gerusalemme, un candeliere dell’epoca di Saladino realizzato a Mosul sul quale è rappresentata la vità di Gesú o, ancora, cofanetti da toletta in avorio del XIII secolo che appartennero alla duchessa di Borgogna. Nel progetto sono coinvolte le città di Angoulême, Blois, Clermont-Ferrand, Digione, Figeac, Limoges, Mantes-La-Jolie, Marsiglia, Nancy, Nantes, Narbonne, Rennes, Rillieux-la-Pape, Rouen, SaintDenis, Saint-Louis (La Réunion), Tolosa e Tourcoing. Le esposizioni sono allestite in musei, biblioteche, mediateche e centri culturali.

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Nell’opera dantesca, e nella Commedia in particolare, la tradizione della cultura classica, cristiana e medievale si ricapitola come in una summa: autori, libri, scuole di poeti e filosofi, enciclopedie, mitologie antiche e dogmi cristiani, scrittori canonici e autori piú eccentrici vengono tutti riattraversati dallo sguardo di Dante, che scrivendo il suo testo ne riscrive simultaneamente la tradizione d’appartenenza. In tal senso sapere di quali letture, di quali libri, si siano materialmente nutrite la cultura e la fantasia poetica dell’Alighieri ha da sempre

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costituito un interrogativo profondo tanto per i critici che per i lettori per arrivare a una comprensione piú profonda della Commedia. Nella mostra sono dunque esposte per la prima volta tutte le opere da Dante esplicitamente citate e presumibilmente lette, quindi parte d’una sua «biblioteca», secondo i piú recenti accertamenti e secondo un percorso rappresentativo del

1373, creando un numero rilevante di opere diverse, dagli altaroli per il culto privato ai polittici di grandi dimensioni, a cicli affrescati. La qualità dei suoi fondi oro ebbe, da subito e ancora piú nei secoli successivi, uno straordinario successo e queste opere vennero contese da estimatori e collezionisti, finendo in musei e collezioni importanti non solo fuori da Fabriano ma anche dall’Italia, tanto che nel nostro Paese non restano i dipinti di devozione individuale. E questa mostra riesce per la prima volta nella «impresa impossibile»: riportare a Fabriano una trentina di opere di Allegretto prestate per l’occasione, fra cui undici tavole da musei stranieri. Per dare contezza del singolare momento artistico fabrianese della seconda metà del Trecento, queste opere sono affiancate a sculture di

TRAME LONGOBARDE. TRA ARCHITETTURA E TESSUTI Palazzo Casagrande fino al 20 febbraio 2022

Partendo da un lavoro che ha intrecciato insieme dati scientifici e ricostruzioni plausibili, la mostra-dossier propone un’accurata lettura delle tecniche antiche di tessitura attraverso la ricostruzione di tessuti, abiti e telai verosimilmente in uso tra VI e VIII secolo d.C. La ricostruzione dei tessuti e degli abiti, in particolare,

suo iter intellettuale e poetico. Sono stati per lo piú selezionati codici dei secoli XIII e XIV, ovvero libri che corrispondono alle tipologie manoscritte che Dante potrebbe aver praticato; e si possono inoltre ammirare codici provenienti dal fondo duecentesco della biblioteca di Santa Croce, il convento fiorentino che, secondo gli studi piú recenti, potrebbe aver ospitato la prima formazione del poeta. info www.lincei.it FABRIANO ALLEGRETTO NUZI E IL ‘300 A FABRIANO. ORO E COLORE NEL CUORE DELL’APPENNINO Pinacoteca civica Bruno Molajoli fino al 30 gennaio 2022

Fabrianese d’origine e toscano di formazione, Allegretto Nuzi lavorò stabilmente a Fabriano dal 1347 fino alla morte nel

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licci riproducendo il numero dei fili di ordito e trama presenti al centimetro, nonché lo spessore degli stessi fili e le torsioni. Considerando che verosimilmente tali tessuti venivano realizzati da donne in ambito domestico sono state ipotizzate delle altezze del tessuto abbastanza ridotte e compatibili con telai verticali, a pesi o a doppio subbio, utilizzati nel periodo di riferimento. L’altra metà degli abiti è stata realizzata impiegando una tela di cotone industriale proprio per sottolineare che il modello dell’abito riproposto è il frutto di contaminazioni scientifiche e di elaborazioni dei curatori. info e-mail ufficio.comunicazione@ comune.campello.pg.it; www.longobardinitalia.it SPOLETO TOCCAR CON MANO I LONGOBARDI Rocca Albornoz-Museo nazionale del ducato di Spoleto fino al 6 marzo 2022

altri artisti del territorio, sculture che nelle loro cromie, ma non solo, risentono in modo evidente dell’influenza di Nuzi e della sua scuola. info tel. 0732 250658; e-mail: oroecolore@comune.fabriano.an.it; www.pinacotecafabriano.it CAMPELLO SUL CLITUNNO (PG)

rappresentano il filo conduttore che ci porta a conoscere piú da vicino il popolo longobardo partendo da quelli che erano gli oggetti e i manufatti che sono parte integrante della vita quotidiana. Tutti gli abiti sono stati realizzati per una metà con tessuti fatti rigorosamente a mano su telai orizzontali a

Realizzata in collaborazione con il Museo Tattile Statale Omero di Ancona, la mostra offre la possibilità di ammirare contemporaneamente i sette monumenti del sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)», con l’obiettivo di far conoscere la straordinarietà e la complessità del sito Patrimonio UNESCO, attraverso un percorso tattile e una

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AGENDA DEL MESE gamma differenziata di opzioni di fruizione che ne facilitano la comprensione, assicurando a tutti un’esperienza multisensoriale ottimale. Nelle sale sono esposti sette modellini tridimensionali in scala dei monumenti architettonici che rappresentano maggiormente il sito seriale longobardo e sette modellini relativi alle aree in cui sono situati i monumenti, per permettere l’esplorazione tattile dei loro contesti di provenienza. A rendere il percorso ancor piú

accessibile sono le audio descrizioni (in italiano e inglese), registrate dagli attori della Compagnia #SIneNOmine della Casa di Reclusione di Maiano a Spoleto, da ascoltare tramite NFC e QR code, nonché un catalogo in Braille e uno in large print in libera consultazione. Infine, per consentire una fruizione dei modelli inclusiva, sono stati realizzati video con la tecnica del compositing nella LISLingua dei Segni Italiana, insieme a immagini e animazioni, sottotitoli e audio. info www.longobardinitalia.it CITTADELLA (PD) MURA CHE UNISCONO. SALONICCO A CITTADELLA Palazzo Pretorio fino al 20 marzo 2022

La mura di Cittadella – che

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vanta in Europa l’unico camminamento di ronda medievale di forma ellittica interamente percorribile – sono un elemento identitario indissolubile del borgo: racchiudono il centro storico come a tutelare uno scrigno prezioso e al tempo stesso consentono di alzare lo sguardo all’orizzonte e di guardare oltre. Con questo spirito si è scelto di concludere i festeggiamenti per gli ottocento anni di Cittadella (1220-2020), guardando lontano, relazionandosi con altre importanti città europee e confrontandosi su cosa significhi essere città murata. Quest’anno la prestigiosa relazione avviata è con Salonicco: la città che vanta probabilmente le mura e fortificazioni piú antiche in Europa – dichiarate patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 1988 – la piú importante e popolosa città della Grecia dopo Atene, uno dei pilastri di quello che fu l’Impero Bizantino. «Mura che uniscono. Salonicco a Cittadella» da un lato svela la storia e le vicende dell’ultramillenario sistema di fortificazioni di Salonicco, grazie a un ampio apparato documentario e didascalico e a originali testimonianze archeologiche e d’arte antica

prestate eccezionalmente dall’Eforato alle Antichità della città e dal Monastero di Vlatadon, dall’altro mette in dialogo Cittadella e Salonicco attraverso i linguaggi contemporanei dell’arte e della fotografia. info tel. 049 9413449; e-mail: info@fondazionepretorio.it; www.fondazionepretorio.it/ VENEZIA VENETIA 1600. NASCITE E RINASCITE Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25 marzo 2022

«L’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedí Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fú dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...»: il

mito di Venezia sta anche nella leggenda della sua fondazione, raccontata cosí nel Chronicon Altinate (XI-XII secolo) e coincidente con la posa della prima pietra della chiesa di S. Giacometo a Rivoalto il giorno dell’Annunciazione alla Madonna. Una leggenda che, tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise insieme racconti che si erano intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del valore di Venezia: città eletta da Dio. Che ora celebra i suoi 1600 anni anche con una mostra messa in scena – è il caso di dire – nel luogo simbolo del potere e della gloria della Serenissima: il Palazzo dei Dogi in piazza San Marco. L’esposizione vuole raccontare – attraverso oltre 250 opere d’arte, manufatti antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno segnato la storia di Venezia, scegliendo un punto di vista inedito, cioè quello degli innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle altrettante rigenerazioni e rinnovamenti che hanno segnato la sua esistenza. «Nascite e rinascite»: tappe salienti della storia e dell’identità di Venezia piú volte chiamata a ridisegnare il suo futuro e ripensare il suo destino, dicembre

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testimoniate dalle opere e dai documenti dei massimi artisti che in laguna hanno operato nell’arco di quasi un millennio – Carpaccio, Bellini, Tiziano, Veronese, Tiepolo, Rosalba Carriera, Guardi e Canaletto, fino a Canova, Hayez, Appiani; e poi Pollock, Vedova, Tancredi, Santomaso – ma anche di tanti architetti, talentuosi uomini d’arte, letterati e musicisti che hanno accompagnato il suo divenire. info https://palazzoducale. visitmuve.it; facebook visitmuve ducalevenezia; twitter visitmuve_it, visitmuve_en, ducalevenezia; instagram visitmuve ducalevenezia

PISTOIA MEDIOEVO A PISTOIA. CROCEVIA DI ARTISTI FRA ROMANICO E GOTICO Antico Palazzo dei Vescovi e Museo Civico fino all’8 maggio 2022

In occasione dell’anno Iacobeo, l’esposizione illustra, per la prima volta, lo straordinario panorama delle arti a Pistoia dal XII agli inizi del XV secolo e documenta il ruolo di primo piano assunto dalla città nel campo delle arti figurative. La città godeva della presenza di committenti illuminati, in grado di attrarre figure quali Guglielmo (uno dei piú famosi scultori che operarono al duomo di Pisa) e Guido da Como, e poi Nicola e Giovanni Pisano, che a Pistoia lasciarono capolavori fondanti della storia dell’arte italiana. Fa da specchio a questi importanti episodi di scultura la piú imponente delle opere di oreficeria, ideale sigillo della mostra: l’altare di san Jacopo, che attesta Pistoia come snodo di ricezione per le arti suntuarie. Anche la miniatura visse un periodo di grande vivacità, testimoniata alla fine del Duecento dall’attività della

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bottega del Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, la piú importante in Toscana, e nel Quattrocento dalle eleganze lineari e dalla preziosità decorativa delle illustrazioni eseguite dal Maestro della Cappella Bracciolini nella Divina Commedia conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel Trecento Pistoia offre in campo pittorico un panorama variegato di personalità e tendenze culturali, e la presenza di artisti del calibro di Lippo di Benivieni, Taddeo Gaddi e Niccolò di Tommaso la colloca in una posizione di primo piano, ribadita dalla Maestà e angeli di Pietro Lorenzetti proveniente dagli Uffizi, uno dei prestiti piú prestigiosi della mostra, sottoposto a restauro per l’occasione. info tel. 0573 974267; e-mail: info@pistoiamusei.it; www.fondazionepistoiamusei.it

Appuntamenti ROMA DANTE PER TUTTI Teatro Flavio 16 dicembre, 13 gennaio

Continua la rassegna di letture dantesche che ha inaugurato la stagione del Teatro Flavio. Qui di seguito i prossimi appuntamenti in programma. 16 dicembre, ore 21,00: lettura con commento del canto XIII dell’Inferno (i suicidi, Pier delle Vigne), introdotto da una leggenda medievale che ha come tema le tentazioni

demoniache sugli uomini in punto di morte. 13 gennaio, ore 21,00: lettura con commento del canto XXVI dell’Inferno (Ulisse), introdotto da un testo sul primo patto col diavolo nella storia della cristianità. Tutte le leggende sono tratte da versioni originali in volgare italiano del XIV secolo. Le scenografie degli incontri sono inoltre curate dalla Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. info tel. 06 70497905 o 328 1720922; e-mail: info@ teatroflavio.it; www.teatroflavio.it

APPUNTAMENTI • Le Fiaccole Abbadia San Salvatore (Siena) 24 dicembre info tel 0577 770361; e-mail: info@cittadellefiaccole. it; www.cittadellefiaccole.it; Facebook: abbadia città delle fiaccole

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a città del Monte Amiata torna a rinnovare una tradizione millenaria, fatta di magia e riti ancestrali, grazie alle Fiaccole, una delle piú antiche feste del fuoco italiane. Un appuntamento che viene preparato già dall’autunno, quando i «fiaccolai» iniziano a cercare la materia con cui costruire le «fiaccole», tipiche cataste di legna a forma piramidale alte fino a sette metri che, costruite in ogni angolo del piccolo borgo medievale, si levano al cielo in attesa della vigilia quando poi verranno incendiate. Dopo giorni di lavoro, arriva il tanto atteso 24 dicembre con il suo rituale consolidato. Alle ore 18,00, in un momento spettacolare che riunisce centinaia di persone, si dà il via alla Cerimonia di Accensione con la «Benedizione del Fuoco», che segna l’inizio della festa. La filarmonica suona canti natalizi e la fiaccola davanti al Municipio viene accesa con il fuoco sacro. Questo è il segnale convenuto: da qui i Capi Fiaccola, con le loro torce divampanti, portano il fuoco che accenderà le altre decine di Fiaccole disseminate nel centro storico e in tutto il resto della cittadina. Uno spettacolo carico di magnetismo e suggestione.

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ANTE PRIMA

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DIALOGHI TRA MONDI LONTANI

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A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

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Amicizie, incomprensioni, viaggi e prove di diplomazia nell’età di Mezzo di Furio Cappelli

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DIALOGHI TRA

MONDI LONTANI Amicizie, incomprension e prove di diplomazia nell i, viaggi ’età di Mezzo di Furio

DIALOGHI TRA MONDI LONTANI

Cappelli

N°47 Novembre/Dicembre 2021 Rivista Bimestrale

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IN EDICOLA IL 16 NOVEMB RE 2021

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GLI ARGOMENTI

02/11/21 17:25

• Carlo Magno e Harun al-Rashid • Berta di Toscana e al-Muktafi • Liutprando a Bisanzio • Ranieri, il santo mercante • San Francesco in Terra Santa • Arghun, il mongolo crociato • I meravigliosi racconti di Josafat Barbaro • Ambrogio Contarini alla corte del duca Ivan

Il Ritorno a Pisa di san Ranieri e il Miracolo del vino in una delle incisioni realizzate, agli inizi del XIX sec., da Carlo Lasinio, conservatore del Camposanto di Pisa. Le riproduzioni furono pubblicate nell’opera Pitture a fresco del Campo Santo di Pisa, pubblicata nel 1812.

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€ 7,90

l nuovo Dossier di «Medioevo» ha come filo conduttore il confronto fra l’Occidente e l’Oriente, intesi, però, non soltanto come realtà geografiche, ma come sedi di civiltà e culture diverse tra loro. Ad animare la rassegna sono personaggi che hanno fatto la storia dell’età di Mezzo (e non solo): da Carlo Magno a san Francesco, da Liutprando al duca Ivan III il Grande, solo per citare alcuni dei piú noti. Le vicende di cui sono protagonisti furono dettate da motivazioni diverse, come scambi diplomatici, viaggi di esplorazione, ricerca di nuovi mercati, ma anche, piú semplicemente, desiderio di conoscere l’«altro». E, in piú di un caso, non mancarono risvolti gustosi, che, se non avessero il conforto delle fonti, sembrerebbero frutto della fantasia di un novelliere: come quando Carlo Magno si vide portare in dono un elefante, o quando Berta di Toscana scrisse al califfo al-Muktafi una lettera in cui millantò meriti e poteri ben superiori a quelli di cui era effettivamente titolare. Piú veritieri, e per noi preziosi, furono i resoconti di due ambasciatori inviati da Venezia in Oriente e in Russia, Josafat Barbaro e Ambrogio Contarini, che descrissero terre favolose, ma anche singolari usi e costumi dei popoli che le abitavano. Un quadro, dunque, vivace e poliedrico, che ci restituisce l’immagine di un Medioevo costantemente proteso verso il dialogo.

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costume e società

Vivere in quarantena di Maria Paola Zanoboni

Miniatura raffigurante i devastanti effetti della peste nera del 1348. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

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Le misure di prevenzione imposte dalla pandemia da Covid-19 hanno conosciuto precedenti significativi soprattutto nei secoli del Medioevo. Un’epoca in cui la peste fu un flagello ricorrente e che vide diffondersi gli antenati del Green Pass...

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all’antichità e fino ai primi decenni del XVIII secolo, le epidemie di peste coinvolsero tutti i possibili aspetti della vita economica, politica e sociale, con analogie impressionanti, comuni a tutte le epoche della storia: dalla psicosi collettiva, alla caccia ai potenziali untori, alla negazione delle prime avvisaglie del contagio per timore degli effetti economici che avrebbero innescato; dalle devastanti conseguenze sul commercio e sull’economia, dovute alle misure restrittive, ai tentativi dei governi di sanare il deficit con prestiti, emissione di titoli del debito pubblico, nuove tasse, e di soccorrere con sussidi i disoccupati; agli assalti ai forni per paura della quarantena. È sconcertante osservare come, nonostante i progressi nelle discipline mediche, gli strumenti di prevenzione disponibili ai nostri giorni siano gli stessi elaborati nel Trecento, a partire dal Nord della Penisola (Gian Galeazzo Visconti ne fu uno dei principali ideatori), recepiti tardi dal resto dell’Europa (tardissimo dall’Inghilterra, che li mise in pratica solo alla fine del Cinquecento, su consiglio dei

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costume e società medici padovani presenti a Londra), e adottati con successo fino al 1720, quando l’ultimo cordone sanitario (a Marsiglia) debellò quasi del tutto il morbo dal Vecchio Continente. Ecco dunque quali furono i provvedimenti messi in atto a partire dalla metà del Trecento per prevenire e limitare il contagio: divieto di accesso e di uscita dalle città colpite, stretta sorveglianza sui movimenti di merci e persone, cordoni sanitari, isolamento, quarantena e «quarantena generale» (un vero e proprio lockdown, con modalità identiche alle attuali); divieto di assembramento e di ritrovo, chiusura di attività commerciali, taverne, scuole, luoghi di pubblico intrattenimento; cancellazione delle manifestazioni di ogni tipo, comprese le fiere e i mercati; divieto di partecipare a cerimonie religiose, processioni, funerali; «bollette e fedi di sanità». L’isolamento coatto come provvedimento indispensabile a mantenere la salute pubblica fu, ovunque in Europa, sempre piú al centro delle prassi di intervento. Dalla seconda metà del Quattrocento, molte città dell’Italia centro-settentrionale adottarono norme e regolamenti divenuti modello per il resto dell’Europa. Il cardine di questo sistema fu lo stretto controllo sui movimenti delle merci e delle persone, unito al continuo monitoraggio sulle aree geografiche colpite di volta in volta dall’epidemia, cosa che richiedeva un sistema costante di informazione sui luoghi e i tempi in cui si era manifestata. Le relazioni diplomatiche divennero perciò una componente essenziale nel garantire un regolare e veritiero flusso di notizie. Al tempo stesso anche le grandi compagnie mercantili e bancarie richiedevano alle proprie filiali l’aggiornamento continuo su eventuali casi di peste. Fu poi istituita la quarantena per le navi e le merci provenienti da località infette.

Le «bollette di sanità»

Fra le misure restrittive e preventive adottate dalla metà del Trecento in poi e che risultano identiche a quelle attuali, vi era la «bolletta di sanità», antesignana dei nostri Green Pass. Si trattava di passaporti che consentivano la circolazione di persone e merci attestandone la provenienza da luoghi non contagia-

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ti, o l’avvenuta effettuazione della quarantena. Senza questo documento, che riguardava sia le persone, sia i prodotti trasportati, non si poteva circolare, né eseguire transazioni commerciali. Aspre sanzioni pecuniarie, unite alla confisca delle merci, venivano comminate a chi ne fosse stato trovato sprovvisto. Le bollette (o fedi) accompagnavano chi viaggiava via terra, le patenti le imbarcazioni, veicoli di contagio potenzialmente molto piú devastanti, soprattutto se provenienti dai Paesi musulmani, dove la peste era endemica . Nonostante i dubbi dei giuristi sulla liceità di interdire l’accesso a strade e spazi pubblici a chi non fosse infetto, ma solo sospettato di esserlo, all’inizio del Cinquecento il lasciapassare sanitario era ormai una prassi consolidata. Doveva essere emesso dall’autorità competente del luogo di partenza e indicare la data di rilascio, il luogo di provenienza e di destinazione, l’ora della partenza (che consentiva di determinare se fosse stata percorsa la via piú breve o piú sicura, o se il viaggiatore avesse sostato in luoghi infetti). Doveva poi contenere nome e cognome di tutti i beneficiari, per evitare il suo utilizzo da parte di chiunque. Il sigillo della comunità di partenza garantiva l’autenticità del documento, mentre le contestazioni sulla sua validità erano di competenza del giudice del luogo in cui veniva esibito. Le autorità cittadine avevano tutto l’interesse a garantirsi reciprocamente attestando la verità, dati gli effetti disastrosi che le dichiarazioni mendaci potevano avere sul commercio. Ciononostante le falsificazioni erano continue e fioriva un vero e proprio traffico di bollette stilate da funzionari compiacenti previo esborso adeguato. Come accennato, sull’argomento non mancavano le dispute tra i giuristi a proposito delle limitazioni alla libertà personale di individui sani, conseguente l’utilizzazione delle fedi di sanità. La liceità dell’adozione di simili provvedimenti venne perciò attribuita soltanto ai governi centrali, proibendo invece alle singole comunità locali di farvi ricorso. Molti testi di diritto comune a tutela della libera circolazione e del commercio suffragavano tale prospettiva. Nel 1386, a Milano, sotto il governo di Gian Galeazzo Visconti, esisteva già la magistratura degli «officiali delle bollette» deputata a controllare i movimenti dicembre

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A sinistra le città europee in cui dilagarono le piú importanti pestilenze. In basso il dottor Chicogneau, rettore dell’Università di Medicina di Montpellier, inviato a Marsiglia per l’epidemia di peste del 1720. L’abbigliamento, ideato nel XVI sec., è composto da una tunica cerata, guanti e una maschera con occhiali protettivi e un becco contenente sostanze aromatiche, che si credeva proteggessero dal contagio. Il bastone permetteva di sollevare coperte e indumenti dei malati, evitando il contatto diretto.

Mare del Nord

Oceano Atlantico

Mosca

Copenaghen Londra 1629 1665

Lubecca Amsterdam 1663-1664 Varsavia Francoforte

Rouen

Varsavia Magdeburgo Praga

Parigi

Caffa 1346-1347

Vienna Milano 1524 1576 1630 Barcellona Toledo

Marsiglia 1720-1721

Venezia 1349

Bucarest

Ravenna

Firenze 1348 1383 Roma 66 d.C. 590 Messina 1347

Ankara

Salonicco

Atene 430-429 a.C.

Mar Mediterraneo di uomini e merci, e incaricata, in caso di epidemia, di prendere le misure necessarie per isolare le zone contagiate. Era il primo nucleo di quella che sarebbe diventata, all’epoca di Filippo Maria Visconti, tra gli anni Venti e Trenta del Quattrocento, la prima magistratura sanitaria permanente in Italia e in Europa.

Controlli severi

L’obbligo delle bollette di sanità venne poi decretato durante l’epidemia palermitana del 1575 dal medico e magistrato sanitario Giovanni Filippo Ingrassia. Ben consapevole che la malattia si trasmetteva per contagio, Ingrassia rafforzò i controlli alle porte della città sui movimenti di persone e merci, che dovevano sempre essere accompagnate da bollette e patenti di sanità; ordinò il bando delle zone infette; il divieto assoluto di assembramento e di qualsiasi contatto sociale ravvicinato; ordinò la chiusura di taverne, locande, esercizi commerciali, scuole; proibí la vendita ambulante, la prostituzione, le veglie funebri, le processioni, le cerimonie religiose e le visite agli ammalati. Decretò che chi proveniva da località sospette dovesse portare un segno di riconoscimento; dispose la pulizia delle strade e delle case e il trasferimento coatto degli appestati al lazzaretto e dei loro familiari in una struttura idonea, facendo chiudere le case infette e bruciarne le suppellettili. Ai mendicanti fu conces-

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Nella pagina accanto Firenze, Orsanmichele. Medaglione in maiolica smaltata raffigurante l’insegna dell’Arte dei Medici e degli Speziali. Opera di Luca della Robbia, 1460 circa.

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costume e società sa la questua solo per 2 ore al giorno, al mattino. Nel dicembre 1575, al picco dell’epidemia, fu anche decretata la segregazione in casa per 20 giorni di donne e bambini inferiori ai 10 anni, con la proibizione di frequentare i luoghi sacri e praticare i sacramenti. Le magistrature cittadine veneziane, terminata l’epidemia del 1576, decretarono che nessuno potesse entrare in città sprovvisto di fedi di sanità per se stesso e per le proprie merci. Tali certificazioni dovevano essere stilate dalle autorità dei centri di provenienza e attestare l’immunità dalla peste dei centri medesimi. Ancora nel 1713 i provveditori alla sanità veneziani certificavano come sicura la provenienza di persone e merci dalla Serenissima quando era libera dal contagio. Centinaia di questi documenti si conservano tuttora negli archivi della città lagunare.

A mali estremi, estremi rimedi

Le bollette di sanità furono imposte nell’agosto del 1579 a Genova e nel suo dominio, allo scoppio di un’epidemia portata dai continui contatti commerciali con la Lombardia, dove era da poco cessata la «peste di San Carlo». Milano decretò il sequestro immediato di tutte le merci provenienti dalla Liguria, e l’interruzione di ogni contatto con quell’area. Per evitare fraintendimenti, fu emessa una grida con l’ordine di «arrestare, e non potendosi arrestare, di ammazzare quelli che vengon

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di Genova nello Stato». Il governo genovese, a sua volta, rese definitivo e generalizzato l’uso delle «bollette di sanità». Venne poi imposto alla popolazione della Val Polcevera (dove si era originato il primo focolaio), di denunciare entro 10 giorni tutti gli oggetti potenzialmente infetti che possedevano. La minaccia di pene severissime (da 10 anni di prigione alla morte) non bastava però a convincere le persone a obbedire, per cui si dovette ricorrere alla quarantena generale. Nell’ottobre del 1629, ancora a Milano, si cercò di porre un freno al contagio, istituendo anche in questo caso la «bolletta di sanità» che consentiva di entrare in città soltanto a chi non provenisse da zone infette. Ad Acquapendente (Viterbo) vigeva l’obbligo di presentare la fede di sanità per chi dalla Toscana si dirigeva verso lo Stato Pontificio. Qui fu costretto a sostare in quarantena anche Galileo, durante l’epidemia del 1633, quando venne convocato a Roma per discolparsi davanti al tribunale dell’Inquisizione. Ancora nell’Ottocento venivano adottati lasciapassare sanitari durante le epidemie, con gravi ripercussioni sulle possibilità lavorative di molti. Nell’agosto del 1884, quando in Italia infuriava il colera, vennero prese a livello locale iniziative come la quarantena e i passaporti sanitari, tanto da suscitare la riprovazione del Ministero dell’Interno, ostile a un sistema di barriere che avrebbe danneggiato il commercio. A Ragusa (Dubrovnik), nel 1377, venne intro-

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dotta per la prima volta la quarantena che prevedeva il rifiuto di accesso al porto alle navi provenienti da zone infette, con l’obbligo di rimanere per un mese al largo della città, presso l’isola di Mercana. Le persone e le merci provenienti via terra, invece, avrebbero dovuto sostare per un identico periodo a Ragusavecchia, località costiera situata 10 miglia a sud della città. In entrambi i luoghi i viaggiatori venivano sistemati in baracche di legno, bruciate poi al termine del loro periodo di isolamento. La durata della quarantena era di 40 giorni per i convalescenti, e di 22 per i casi sospetti.

Il fatalismo ostacola la prevenzione

Interi settori dei lazzaretti di molte città di mare (Ragusa, Venezia, Genova, Palermo) erano adibiti alla quarantena delle merci provenienti dai Paesi sospetti, e in particolare da quelli musulmani, dove la peste era endemica e non venivano presi provvedimenti adeguati. Il fatalismo delle popolazioni musulmane troncava infatti sul nascere ogni tentativo di prevenzione. Ma tutto questo rallentava paurosamente i traffici aumentandone i costi, per cui i tentativi di aggirare le pratiche di quarantena erano continui. A Genova, il cui lazzaretto era dotato di un’ala apposita per la disinfezione delle merci, non mancavano gli abusi: tentativi di scaricare le mercanzie di nascosto, evitando le spese e le lungaggini della quarantena e il

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dazio; furti di oggetti degli appestati o di merci in deposito; la richiesta di ospitare pecore per la disponibilità di erba nei recinti della costruzione (1582); vendite di cibo senza autorizzazione; persone «robuste e ingegnose» che occupavano l’edificio «per stanza, se ne servono per bottega e traffico, e non manca chi vi abbi già fatto grosso guadagno», come si denunciava nel 1635; il desiderio di alcune persone di rango di farvi un «giro turistico». Come già accennato in apertura, le epidemie di peste causarono crisi economiche gravissime, dovute sia alle misure di contenimento degli spostamenti di uomini e merci, che danneggiavano contemporane(segue a p. 36) Venezia, Isola del Lazzaretto Nuovo, olio su tela di Giacomo Guardi (1764-1835). Dopo la ricomparsa della peste in Europa nel 1347-1348, molte città presero provvedimenti volti a limitare il diffondersi del contagio tra cui, dalla metà del 1400, la costruzione dei lazzaretti, appositi ospedali nei quali riunire esclusivamente gli ammalati di peste, spesso con zone separate dedicate agli appestati e alla quarantena.

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costume e società San Sebastiano intercede a favore degli appestati, olio su legno di Josse Lieferinxe, detto «Maestro di San Sebastiano». 1497-1499. Baltimora, Walters Art Museum. San Sebastiano veniva invocato dai fedeli come protettore contro la peste, in quanto sopravvissuto al martirio delle frecce, paragonate ai segni (bubboni) lasciati dal morbo. Nel dipinto è raffigurata la città di Pavia, colpita dalla pestilenza, come narra Paolo Diacono, nell’anno 680. Sulla sinistra, il santo si inginocchia davanti a Dio per chiedere la fine dell’epidemia, mentre un angelo e un demone battagliano in cielo. La tradizione narra che, durante l’epidemia, nella notte, per le strade della città, i Pavesi videro aggirarsi un angelo bianco e uno nero, entrambi con la spada in mano. Quest’ultimo, batteva la porta delle case e, per ogni colpo, una persona era destinata a morire il giorno dopo.

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A destra Vero dissegno con le misure giuste del grande lazzaretto di San Gregorio di Milano, come si trovava nel tempo della grande peste l’anno 1630, incisione di Giovanni Francesco Brunetti. 1631. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata e Incisioni, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». 1. Area di sepoltura. La zona adibita al seppellimento di quanti non sopravvivevano al morbo, situata appena fuori l’uscita posteriore, era costituita da fosse comuni. 2. Stanze per i malati. Intorno al grande chiostro vi erano 288 camere destinate ad accogliere gli ammalati, dotate di servizi igienici e di un caminetto. In ogni camera si apriva inoltre una finestra che dava sul fossato esterno. 3. Chiesa di S. Carlo. In origine, si trattava di un altare posto al centro del lazzaretto. L’edificio ecclesiastico, con aperture su ogni lato per permettere ai ricoverati di assistere alle funzioni, fu costruito da Pellegrino Tibaldi su incarico di Carlo Borromeo durante la peste del 1576. 4. Fossato. La struttura era circondata da un fossato di acqua corrente, oltre il quale i parenti potevano parlare con gli ammalati, che si affacciavano dalle camere, i sacerdoti confessare e i medici impartire disposizioni senza venire a contatto diretto con gli appestati.

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«oro, fuoco, forca» I poteri eccezionali delle magistrature sanitarie La necessità di regolamentare e far rispettare le misure preventive contro il contagio portò in Italia (e solo in un secondo tempo in Europa) alla creazione di magistrature sanitarie permanenti, dotate di amplissimi poteri, fino a diventare, nei momenti di emergenza, vere e proprie forme di «dittatura sanitaria». La principale fu instaurata a Palermo nel 1575 dal già citato medico e deputato alla sanità Giovanni Filippo Ingrassia, che non esitò a disseminare di forche le vie cittadine per convincere la gente a obbedire. I suoi metodi, basati sulla triade «oro (cioè denaro necessario alle spese per l’emergenza), fuoco

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(per bruciare le suppellettili infette), forca (per punire i trasgressori)», furono imitate e applicate assiduamente in tutta la Penisola. Persino i Cappuccini incaricati nel 1576 e nel 1630 di gestire il lazzaretto di Milano non ebbero scrupoli ad adottare tali metodi. Misure molto severe vennero prese anche a Genova (dove la popolazione era particolarmente indisciplinata e refrattaria a interrompere i propri commerci) in occasione delle epidemie cinque-seicentesche. A Venezia, nel 1504, il Senato attribuí ai Provveditori di Sanità la facoltà di arrestare gli inquisiti e di sottoporli a tortura. A Corfú, nel Seicento, i Provveditori di

Sanità erano dotati di amplissimi poteri giurisdizionali: potevano ordinare il rogo delle merci e delle navi infette e condannare a morte chiunque fosse stato sospettato di aver diffuso, anche in modo involontario, la peste. Ovunque si minacciava di giustiziare davanti alla porta di casa chi non rispettava la quarantena. La pena di morte veniva effettivamente applicata: nel 1658 fu processata e condannata una donna residente in un borgo vicino a Chiavari, che non aveva denunciato alle autorità il marito morto di peste, ed era uscita di casa. Questo doveva servire di esempio a «questa gente quale è assuefatta a fare a suo modo».

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costume e società amente il commercio e le casse statali (per il mancato introito dei dazi), sia, per le pandemie piú gravi, ai mutamenti profondi sull’assetto economico e sociale prodotto quando il crollo demografico era particolarmente repentino e devastante.

L’Europa in ginocchio

A livello europeo, la crisi economica piú grave fu quella causata dalla pandemia del 1348 e degli anni successivi (la «crisi del Trecento»), che distrusse 1/3 della popolazione del continente (circa 30 milioni di individui su un totale di 100). I mutamenti profondi sotto ogni aspetto della vita economica, sociale, politica e culturale che ne derivarono, non furono dovuti soltanto all’epidemia, ma al ciclo infernale di eventi climatici (siccità, alluvioni, terremoti) e carestie, innescatosi dalla fine del Duecento, di cui la peste costituí l’episodio finale e risolutivo. Di fronte alla crisi economica aggravata dalle misure restrittive, la gente, preferendo «morire di peste che di fame», chiedeva a gran voce la «restituzione del commercio», che i governi cittadini concedevano con molta cautela, trascorso un notevole lasso di tempo dalla fine del contagio. Anche allora i «libri dei morti» in cui venivano conteggiati i decessi, fungevano da parametro di riferimento. Quando scoppiava un’epidemia di peste, il sistema

La chiusura delle scuole

Per proteggere i piú giovani Tra le disposizioni contro il contagio veniva comunemente adottata, soprattutto a partire dal Cinquecento, la quarantena generale (paragonabile agli odierni lockdown), ovvero la reclusione in casa di tutta la popolazione per un determinato periodo di tempo. È testimoniata a Palermo nel 1575, a Venezia nel 1576, a Milano durante la «peste di San Carlo» (1576/77), a Genova e nel suo dominio nel 1579, a Bergamo e a Firenze nel 1630, a Genova e a Napoli nel 1656/57. I reclusi erano rifocillati a spese dello Stato, se indigenti, oppure veniva concesso solo al capofamiglia di uscire di casa, la mattina, per procurarsi i viveri (come a Genova durante la pestilenza del 1579). La gente mal sopportava tale situazione,

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e cercava con ogni sotterfugio di continuare i propri commerci, come descrivono ampiamente i carteggi delle magistrature sanitarie. La popolazione dell’entroterra ligure, sprezzante dei divieti, continuava tranquillamente i propri traffici lungo il crinale dell’Appennino. I Fiorentini erano refrattari a ogni costrizione e durante l’epidemia del 1630, anziché rispettare l’obbligo dell’isolamento imposto dalla quarantena generale, andavano ugualmente al lavoro e, se rimanevano a casa (perché guadagnavano meno del sussidio statale di cui potevano usufruire), invece di osservare l’obbligo dell’isolamento, «vanno attorno, conversano, sono raccettati da altri, introducono nelle case loro altre

genti». E lo stesso accadeva nelle altre località della Toscana, a Napoli, a Milano, a Palermo. Un’altra misura fondamentale, adottata sistematicamente dall’inizio del Cinquecento in poi, fu la chiusura delle scuole per tutto il periodo dell’epidemia, perché, come si affermava in una missiva sanitaria fiorentina del 1630, «le scuole sono come vivai in cui si coltivano le pianticelle piú giovani, e non è giusto condannare a morte i virgulti da proteggere». Tale provvedimento è testimoniato, per esempio, a Sansepolcro nel 1523, quando il comune proibí al maestro del borgo di insegnare finché fosse durata la pestilenza; a Palermo nel 1575, a Milano nel 1576, e a Firenze nel 1630. dicembre

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Nella pagina accanto particolare di un affresco raffigurante il trasporto delle vittime della peste. Sullo sfondo una madre piange il figlio morto. 1481. Venanson, Chapelle Sainte-Claire. A destra Castello di Issogne (Valle d’Aosta). Particolare di un affresco raffigurante un farmacista nella sua bottega. Fine del XV-inizi del XVI sec.

degli Uffici di Sanità di tutto il Centro-Nord della Penisola faceva immediatamente scattare l’allarme, provvedendo a mettere in quarantena la città o il villaggio colpito e causando l’interruzione di ogni rapporto di comunicazione e di scambio. L’area interessata veniva cosí a trovarsi nel piú completo isolamento, con il conseguente arresto dei traffici e il collasso totale di ogni attività commerciale e manifatturiera. Un rallentamento di tutte le attività vitali si impossessava delle città all’arrivo della pestilenza. Ovunque gli effetti sull’economia e sull’occupazione erano devastanti: nel 1575 la produzione tessile di Verona venne messa in ginocchio dalla quarantena seguita allo scoppio dell’epidemia, al punto che molti disoccupati erano morti di fame, senza alcun aiuto perché imprigionati in una città completamente isolata. Nel 1576 a Milano la chiusura di tutte le botteghe e la cessazione di ogni attività economica lasciò senza lavoro e senza sostentamento 80 000 persone. A Firenze, nel 1630, le transazioni commerciali si ridussero del 96%. Quando la medesima epidemia raggiunse Busto Arsizio, la produzione locale di tessuti di cotone venne bandita da tutte le altre località della Penisola, e lo stesso si verificò per i tessuti serici di Genova, colpita nel 1657 dal contagio. La quarantena di 57 giorni subita da Recco in quell’occasione aveva messo la località in ginocchio,

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mentre i tessitori di seta di Chiavari e Lavagna erano alla fame, non potendo esercitare la loro attività per mancanza della materia prima e l’impossibilità di ottenere nuove commissioni. A Chiavari, in particolare, mancavano il sale e la farina per fare il pane, e il poco che si riusciva a produrre era «piú proporzionato alla distrutione della vita humana che alla sua conservazione». Per rimpinguare i bilanci devastati dalle spese per l’emergenza sanitaria, i metodi dei governi, dal Trecento in poi, furono sempre gli stessi: imposte indirette, contribuzioni straordinarie, prestiti forzosi, emissione di titoli del debito pubblico, nuove tasse.

E Siena sembrava «disabitata»...

Il rallentamento di tutte le attività vitali si impossessava delle città all’arrivo della pestilenza: «niuna Arte si lavorava in Firenze: tutte le botteghe serrate, tutte le taverne chiuse, salvo speziali e chiese», cosí si presentava la città di Dante nel 1348, secondo le parole del cronista Marchionne di Coppo Stefani. E cosí Siena, descritta da Agnolo di Tura: «la città di Siena pareva quasi disabitata, che non si trovava quasi persona per la città». Chiuse e deserte le botteghe, annullate le riunioni dei maggiorenti cittadini, vuoto il palazzo comunale, nessuno che potesse piangere i morti, né accompagnarli alla sepoltura. Nel piú totale venir meno della vita sociale, ciascuno si preoccupava soltanto della salvezza personale.

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costume e società Da leggere

San Gennaro intercede presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno per la peste, olio su tela di Luca Giordano. 1656 (?). Napoli, Museo nazionale di Capodimonte.

I mercanti di lana e di seta, che davano da vivere ai 2/3 di Venezia, cessarono la loro attività, «e quasi tutti gli artefici serrarono le lor botteghe, lasciarono il palazzo i litiganti e gli avvocati et i giudici, et altri ministri della ragione li abbandonarono parimente. Le piazze erano sgombre di gente, e per le vie si camminava senza che l’uno urtasse l’altro. Non s’udivano piú suoni, né canti, né dilettevoli trattenimenti per le strade e canali»: cosí si presentava la città lagunare durante la pestilenza del 1576. Chiudevano i fornai, le macellerie, le famacie, i banchi di frutta al mercato per la morte improvvisa dei loro proprietari, e cadevano morti per strada i sacerdoti: cosí Milano nello stesso anno. Le strade coperte di erba e di ortiche, dominata dall’ozio e dalla solitudine: questa era Bergamo nel 1630. E cosí appariva Napoli nel 1656: «Si vedeva Napoli,

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Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste. Misure restrittive, quarantena, crisi economica, Jouvence [Mimesis Edizioni], Milano 2020; e la bibliografia ivi citata e in particolare: Giovanni Assereto, «Per la comune salvezza dal morbo contagioso». I controlli di sanità nella Repubblica di Genova, Città del silenzio, Novi Ligure 2011 Paolo Calcagno, Pestilenze e controllo del territorio nella Repubblica di Genova, in Mario Berruti, La peste a Finale (1631-1532). Diffusione e incidenza di una epidemia nella Liguria di antico regime, Philobiblon, Ventimiglia 2012; pp. 96-161 Danilo Pedemonte, Quando il nemico è visibile: il magistrato di sanità genovese come strumento di controllo del territorio e di politica economica, «Storia Urbana», 147, 2015; pp. 33-54 Rossella Cancila, Salute pubblica e governo dell’emergenza: la peste del 1575 a Palermo, «Mediterranea Ricerche Storiche», XIII, n. 37, agosto 2016; pp. 231-272 Idamaria Fusco, La grande epidemia. Potere e corpi sociali di fronte all’emergenza nella Napoli spagnola, Guida Editori, Napoli 2017 John Henderson, Florence under siege: surviving plague in an early modern city, Yale University Press, New Haven-London 2019 Mario Ascheri, Rimedi per le epidemie. I consigli dei giuristi nel diritto europeo, Aracne, Roma 2020 Rocco Benedetti, Venezia 1576, la peste. Una drammatica cronaca del Cinquecento, a cura di Donatella Calabi, Luca Molà, Simone Rauch, Elena Svalduz, Verona, Cierre Edizioni, 2021 Paolo Sorcinelli, Nuove epidemie, antiche paure, CLUEB, Bologna 2021

fiore e delitia della Città di Europa già tutta marcita, e tutta funebre, i suoi giardini e ville, che con l’amenità de siti, e dolcezza de loro frutta rendevano troppo grate delitie ai cittadini, erano tutte fatte campagne incolte, e monumenti, i lidi, e le fresche sponde del mare, spiravano aure pestifere; le strade, che erano solite a calcarle carri, e carrozze dorate, in quel conflitto erano seminate e calcate da carri de’ morti, gli edificij tutti voti, et i cittadini parte sotterra e parte sopra terra spirati, i medici tutti morti, o fuggiti; le medicine e medicamenti tutti finiti, i viveri erano troppo scarsi e con fatigha ne ritrovavi, et in somma, Napoli era ridotta al non plus ultra delle miserie». «Non v’è poi nella detta città vicolo dove non si oda un morto o un moribondo, chi può dire il numero delle vedove, chi dell’orfani, li quali sopravvivono solo al dolore, e quella vita che hanno non so come negata alla peste, si è forza cederla volontariamente alla fame». dicembre

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VITERBO, UNA CAPITALE DEL XIII SECOLO

Un soggiorno foriero di di Alfio Cortonesi

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Viterbo invasa da una folla di dignitari e funzionari, soldati e inservienti di ogni genere: ecco come doveva apparire la città alto-laziale quando vi arrivavano il pontefice e la sua corte. Un evento estremamente favorevole per l’economia locale e tale da conferire alla stessa vita urbana un’inedita vivacità e brillantezza…

Viterbo. Una veduta del Palazzo dei Papi, la cui la costruzione ebbe inizio nel 1255 e si concluse nel 1266. Un anno piú tardi fu portata a termine anche la realizzazione della loggia.

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l fatto che buona parte dei pontefici, nella seconda metà del XIII secolo, avesse scelto, per periodi piú o meno lunghi, Viterbo come luogo di residenza – quasi sempre al fine di sottrarsi a vicende romane che ne insidiavano la tranquillità e talora ne mettevano a repentaglio la vita – ebbe a favorire non poco lo sviluppo complessivo della città del Patrimonio, vivacizzandone vistosamente, nel periodo di per-

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manenza, il tono della vita politica, produttiva e commerciale. Tra i numerosi fattori che influirono sulla reiterata scelta pontificia di trasferirsi con la curia in Viterbo vi fu indubbiamente anche l’assetto produttivo delle campagne viterbesi, la cui feracità rassicurava circa l’approvvigionamento cerealicolo e vinicolo e sottraeva a ogni rischio di natura sussistenziale il vicario di Cristo e quanti lo seguivano. Dal punto di vista

ambientale, la salubrità dell’aria, la piacevolezza dei luoghi, la diffusa presenza di terme di antica tradizione dovevano pur esse contribuire in misura non secondaria a orientare la scelta dei papi. Erano centinaia (probabilmente non meno di 500) le persone, di vario rango, che si mobilitavano in connessione con l’itineranza pontificia: se i cardinali avevano al loro seguito un numero cospicuo di familiares, si aggiungevano

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viterbo capitale/4 pontefice di sovrani accompagnati da dignitari di corte e relative scorte, come pure di ecclesiastici di alto rango, l’arrivo di ambascerie e delegazioni, nonché di personaggi illustri di varia connotazione politica e professionale conferivano particolare vivacità e brillantezza alla vita urbana, facendo di Viterbo un centro di primaria rilevanza nel panorama della politica europea.

Crescono i guadagni

Miniatura raffigurante la mungitura delle pecore, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

a essi funzionari di curia, cappellani, medici, soldati, addetti alle cucine, al rifornimento in commestibili, alle cavalcature e alle stalle, camerieri e inservienti. Non è difficile immaginare come le esigenze legate al vivere quotidiano della variegata folla che si trovava a invadere Viterbo nella circostanza indicata dinamizzassero non poco il mercato cittadino, sia per il settore dei victualia (in primis quelli di prima necessità: pane e vino, ma anche ortaggi e carni), sia per i manufatti di vario impiego (quelli

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destinati all’abbigliamento in special modo). Anche la rendita degli immobili abitativi cresceva sensibilmente nel periodo della presenza pontificia, quando l’entità dei canoni d’affitto automaticamente raddoppiava – secondo precise clausole contrattuali – e talora raggiungeva livelli anche piú elevati. Non può, inoltre, dimenticarsi il fatto che l’ordinario transito dei pellegrini lungo il tratto viterbese della via Francigena tendeva a infittirsi in concomitanza con la residenza papale e che quest’ultima creava anche le condizioni per le quali il soggiorno cittadino dei «romei» si prolungava, per la gioia di tavernieri e albergatori. Inoltre, le non rare visite al

Mentre tutto questo accadeva (e si dispiegava anche la singolare vicenda del lungo conclave degli anni 1268-1271), i Viterbesi – stimolati dalla prospettiva dei maggiori guadagni che la presenza del papa garantiva – svolgevano il loro quotidiano lavoro, legato tanto, in via diretta, alla variegata domanda di un mercato in espansione, quanto alle attività primarie, ovvero l’agricoltura e la pastorizia, dalle quali dipendeva la possibilità di far fronte alle esigenze di approvvigionamento venutesi a creare. Non a caso, nella seconda metà del XIII secolo e nei primi decenni del successivo, l’ordinamento della produzione agricola e il paesaggio che ne derivava subirono, nelle terre di gravitazione viterbese – dal suburbio ai seminativi e agli incolti periferici – mutamenti significativi, che si sostanziarono innanzitutto nella forte progressione della cerealicoltura e delle vigne. Ampiezza e capillare distribuzione delle «terre da pane» costituivano per la Viterbo del pieno e tardo Medioevo una base su cui solidamente fondare la propria politica annonaria. La coltivazione dei cereali penetrava anche all’interno del parcellario a sfruttamento intensivo che cingeva, con varia profondità, la cerchia muraria. Tanto per gli effetti del generale incremento della popolazione che per l’apporto demico derivato dal soggiorno della curia pontificia sembra verosimile ipotizzare che proprio all’indicembre

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Vignette raffiguranti, dall’alto, papa Clemente IV che canonizza Edvige, duchessa di Slesia, e ne inserisce il nome nel registro dei santi; uomini ritirano le reti per nutrire di pesce la popolazione

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nel giorno della canonizzazione della stessa Edvige, dal Kodeks lubinski, biografia della santa redatta in un atelier della Slesia (Polonia). 1353. Los Angeles, Getty Museum.

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terno di questo settore, largamente presidiato dagli orti e dalle vigne, il frumento venisse a marcare, nella seconda metà del Duecento e nei primi decenni del successivo, una presenza crescente (come, peraltro, indica il moltiplicarsi degli orti ad linum et granum). Di certo non è meno importante che, nello stesso periodo, appaiano in espansione, entro la fascia esterna del coltivo (cultum) – in concorrenza con pascoli, macchie e boschi – quelle petiae terrae e quei vasti campi che, con il grano e alcuni cereali minori (spelta e orzo soprattutto), acco-

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glievano fra i solchi anche rari alberi e numerose aie per la raccolta e la battitura del prodotto.

Dal vino...

Anche la viticoltura conosceva nella Tuscia medievale una capillare diffusione: fra le zone in cui era piú largamente praticata, sono senza dubbio da annoverare le campagne prossime a Viterbo, che una documentazione piuttosto ricca illustra nel loro assetto produttivo con dovizia di riferimenti. Oltre a dividersi con gli orti la fascia dei terreni posti lungo le mura, le vi-

gne viterbesi punteggiavano talora fittamente i settori dell’aridocoltura, garantendo un non secondario sostegno all’economia locale. Ancora una volta, nella seconda metà del XIII secolo – proprio in coincidenza con i soggiorni altolaziali dei vari pontefici – la viticoltura conobbe un notevole impulso, a cui sembra non siano stati del tutto estranei gli stessi personaggi di curia, pronti a cogliere l’opportunità di investimenti remunerativi. Entro le superfici a coltura intensiva del suburbio la vigna prese a registrare il maggiore addensamendicembre

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Da leggere Sandro Carocci (a cura di), Itineranza pontificia. La mobilità della curia papale nel Lazio (secoli XII-XIII), ISIME, Roma 2003 Alfio Cortonesi, Il lavoro del contadino. Uomini, tecniche, colture nella Tuscia tardomedioevale, CLUEB, Bologna 1988 Angela Lanconelli (a cura di), La terra buona. Produzione, tecniche e rapporti di lavoro nell’agro viterbese fra Due e Trecento, CLUEB, Bologna 1994

Sulle due pagine altre miniature tratte da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto, la produzione delle stoffe di lino; a sinistra, una piantagione di miglio.

to, talora disponendosi in schiera compatta. Siepi, muri a secco, steccati, ne cingevano qui i filari, allo scopo di scoraggiare le iniziative dei malfattori e di impedire le rovinose divagazioni del bestiame. Diversamente, nelle campagne periferiche, viti e altre piante si spartivano il coltivo (vigne cum terra, cum terra et olivis, cum arboribus, ecc.), alla ricerca di equilibri produttivi funzionali all’autosufficienza. Quanto agli alberi (soprattutto olivi, ma anche piante a frutto dolce), costituivano presenze di frequente riscontro e notevole utilità per le

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mense domestiche ed eventuali proiezioni sul mercato.

...alla canapa

Si è già accennato sopra alla presenza nell’agro viterbese delle piante tessili, particolarmente del lino. Si aggiunga qui che attestazioni di una produzione già rilevante offrono le redazioni duecentesche degli statuti comunali cittadini (1237-38, 1251-52), nei quali troviamo costantemente giustapposti riferimenti al lino e alla canapa. Il commercio delle fibre e, soprattutto, le operazioni che ne

consentivano l’estrazione dal fusto erano oggetto di disposizioni di notevole interesse, sulle quali non possiamo qui intrattenerci (ma per le quali può vedersi utilmente la bibliografia proposta). È comunque, nella seconda metà del XIII secolo che, in ragione della sempre maggiore importanza fatta registrare dalla produzione delle fibre, il comune venne assumendo responsabilità piú estese e dirette nel processo di lavorazione, anche attraverso l’acquisto di terreni, «piscine» (conserve d’acqua), canalizzazioni, edifici con esso collegati. Ciò che in questa occasione maggiormente interessa osservare è come l’essere residenza di pontefici abbia comportato per Viterbo adeguamenti di carattere logistico e operativo anche in rapporto a quest’attività di rilievo economico primario; vediamo, infatti, che nel 1278 il comune si impegna, proprio in vista del soggiorno della curia pontificia e su richiesta del papa medesimo, al concentramento delle piscine utilizzate per la macerazione delle piante tessili in località Ionketum, nel Piano dei Bagni, fuori dalla cerchia muraria cittadina. Pontefice e curia volevano garantirsi in questo modo una permanenza in città che non fosse segnata dagli sgradevoli effetti olfattivi degli steli messi a macerare, ciò che in una delle italiche «capitali del lino» sarebbe ineluttabilmente accaduto fin quando le vasche fossero state disseminate per le piazze e le vie della città.

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LA LETTERA DEI CARDINALI «CUM CLAVE» di Attilio Bartoli Langeli, Anna Proietti e Centro studi Santa Rosa da Viterbo

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fatti viterbesi dei tre anni tra il 1268 e il 1271, quelli che coincisero con il conclave piú lungo della storia, sono ben noti. Esponiamoli in breve. Il 29 novembre 1268 a Viterbo, sede papale preferenziale dal 1257, muore Clemente IV. I membri del collegio cardinalizio, convenuti a Viterbo per eleggere il nuovo pontefice, presero a riunirsi nella cattedrale di S. Lorenzo e nel palazzo vescovile, sede in cui erano liberi di andare e venire. Tra la curia pontificia e il collegio cardinalizio da un lato e le autorità comunali – il podestà Corrado da Alviano e il capitano del popolo Raniero Gatti – dall’altro erano stati stabiliti patti in base ai quali le seconde si facevano garanti non solo della sicurezza del consesso, ma anche di tutti i religiosi e laici che a qualsiasi titolo si sarebbero recati presso la curia. Dopo circa un anno il collegio cardinalizio non aveva ancora trovato un accordo sul nome del nuovo pontefice in quanto era lacerato politicamente al suo interno. Esistevano infatti due orientamenti politici: uno sosteneva Carlo I d’Angiò che, con il favore di Clemente IV, aveva posto fine alla dinastia degli Svevi e si era insediato nel regno di Napoli; l’altro, ostile al Francese, era invece di tendenza filoimperiale. I cardinali erano inoltre divisi da interessi personali e familiari. Dopo un anno di sede vacante cominciava a serpeggiare in città un certo malcontento. A questo punto il podestà di Viterbo fece chiudere le porte della città e i cardinali vennero condotti nel

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palazzo vescovile e lí arctati, cioè forzati e rinchiusi, per spingerli a prendere una decisione rapida. Il collegio cardinalizio ritenne l’azione un intervento indebito, un venir meno ai patti intercorsi con le autorità comunali e proprio da parte di chi avrebbe invece dovuto garantire la sicurezza dei prelati. Ciò costò al podestà Corrado una sentenza di scomunica, che portò alla sua sostituzione: nell’aprile del 1270 gli subentrò l’aretino Alberto di Montebono.

Esposti alle intemperie

La fase di stallo continuava e, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 1270, i rapporti fra il collegio cardinalizio e le autorità civiche divennero sempre piú tesi: il Comune decise di far scoperchiare il tetto del palazzo vescovile, esponendo cosí alle intemperie i religiosi, tanto che alcuni di essi si ammalarono. Tali vessazioni provocarono la drastica reazione dei cardinali che, il 6 giugno 1270, ordinarono alle autorità civiche viterbesi, con una lettera da leggere pubblicamente, di ripristinare il tetto, di riaprire l’accesso ai servizi igienici, di far uscire dal palazzo i cardinali infermi. A tali richieste seguivano le ammonizioni di ordine religioso (minaccia di scomuniche), economico (privazioni di beni e privilegi) e politico (abbandono di Viterbo come sede papale). Mentre questa lettera la conosciamo in copia, di un’altra immediatamente successiva è conservato l’originale: è la pergamena n. 194, oggi custodita nell’Ar-

Sulle due pagine la lettera indirizzata dai cardinali, l’8 giugno 1270, al podestà e al capitano del popolo di Viterbo. Viterbo, Archivio storico del Comune di Viterbo presso la Biblioteca Comunale degli Ardenti, Fondo diplomatico, pergamena n. 194. dicembre

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chivio del Comune di Viterbo. Si tratta di una lettera indirizzata l’8 giugno del 1270 dal collegio cardinalizio al podestà e al capitano del popolo di Viterbo. I cardinali chiedono che uno di loro, il vescovo di Ostia e Velletri Enrico

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da Susa, nella lettera indicato con una .H. (Henricus), possa uscire dal palazzo «in quo sumus inclusi», evidente riferimento alla loro situazione di prigionia imposta dalle autorità civili viterbesi, in quanto malato. A lui i cardinali avevano

fatto dichiarare di non opporsi alla futura elezione del nuovo papa, adducendo la propria assenza, e di ratificarla una volta avvenuta. Poiché disponiamo di un ben conservato originale di lettera cardinalizia, munito di diciassette

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viterbo capitale/4 sigilli, conviene darne una breve descrizione. Il testo è piuttosto breve: 160 parole disposte su 8 righe rigate a secco. La grafia appartiene al tipo adoperato nella cancelleria pontificia, e dunque va attribuita a uno scriptor litterarum apostolicarum. Il foglio di pergamena misura all’incirca 40 cm di larghezza e 25 di altezza; altezza che si riduce a 20 cm una volta piegato il bordo inferiore a formare la plica. Con la plica si rinforza il margine che, forato, riceve i sigilli dei cardinali, che perciò possono dirsi applicati. L’applicatura è realizzata mediante un cordoncino bicolore di fili di seta intrecciati, per il primo sigillo a sinistra; per gli altri, invece, mediante piccoli listelli di pergamena (detti tenie) saldati con i sigilli. I fori per far passare nella plica il cordoncino del primo e le tenie degli altri sono perfettamente allineati, con l’aiuto di una linea rigata a secco. L’originale della lettera dell’8 giugno, anch’essa datata «in palatio discooperto», reca, si è detto, diciassette sigilli. Il primo a sinistra si di-

stingue dai restanti non solo per la fettuccia di appensione, ma anche per la forma: è circolare, mentre gli altri sono ogivali, a mandorla.

Il sigillo del rettore

Non è il sigillo di un cardinale, ma del rettore del Patrimonio di San Pietro in Tuscia, come si chiamava la provincia ecclesiastica con perno a Viterbo, anche se la sua sede era Montefiascone. Lo prova la legenda, ossia la scritta che corre intorno al sigillo: vi si legge tra l’altro MONTIS FLASCONIS, che non è certo un titolo cardinalizio. Dunque il rettore del Patrimonio ebbe, quel giorno, accesso alla clausura dei cardinali e con essi interloquí. Non sappiamo chi ricoprisse l’ufficio: nel 1267 è documentato Gerardo de Pilleo, francese, nel 1272 Visconte Visconti, piacentino; attraente l’idea che nel 1270 fosse rettore il secondo, un concittadino e, di piú, parente del futuro papa. Di conseguenza i cardinali che «firmano», sigillandolo, il documento sono sedici. Il tipo dell’imViterbo. La cattedrale di S. Lorenzo e, in secondo piano, il Palazzo dei Papi.

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I diciassette sigilli applicati alla lettera dell’8 giugno 1270 (vedi foto alle pp. 46/47). Il primo a sinistra è del Patrimonio di San Pietro in Tuscia, mentre gli altri sono dei cardinali che la firmarono.

magine che sta al centro dei sigilli prova che essi fossero disposti, da sinistra a destra, in ordine gerarchico: prima i cardinali vescovi, poi i preti, poi i diaconi. Quasi tutte le legendae sono illeggibili. Ciononostante, l’ottima analisi che ne ha fatto Maria Elena Piferi arriva ad attribuire sette sigilli ad altrettanti cardinali. Il documento risulta redatto a Viterbo, nel palazzo vescovile scoperchiato («Viterbii, in palatio discooperto episcopatus Viterbiensis»), a conferma che, di fatto, l’edificio, l’8 giugno, era ancora scoperto. Di lí a pocovenne ripristinato; e la situazione si tranquillizzò. Ma dovettero passare un altro anno e piú perché si chiudesse la lunga vicenda. Il 1° settembre del 1271 venne eletto papa Tealdo o Tedaldo dei Visconti di Piacenza, un diacono. Si trovava in Terra Santa, al seguito della settima crociata; poté essere incoronato, dopo essere stato ordinato prete e consacrato vescovo, ben sette mesi dopo l’elezione, il 27 marzo 1272, a Roma, prendendo il

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nome di Gregorio X (vedi «Medioevo» n. 298, novembre 2021; anche on line su issuu.com). Entriamo ora, per cosí dire, all’interno del palazzo vescovile di Viterbo, per conoscere piú da vicino i cardinali riuniti in conclave e ci soffermeremo, in particolare, sul loro numero, dando luogo a un piccolo gioco di pazienza. Occorre prima di tutto chiarire com’era formato il collegio cardinalizio e qual era la sua composizione. Il collegio era a numero chiuso ed era diviso in tre classi, corrispondenti ai tre gradi dell’ordine sacro: cardinali vescovi, cardinali preti, cardinali diaconi.

Classi e sedi

Ogni classe corrispondeva al numero delle sedi ecclesiastiche cardinalizie: le sei diocesi suburbicarie per i cardinali vescovi (Albano, Ostia e Velletri, Porto e Santa Rufina, Palestrina, Sabina, Tuscolo); le ventotto chiese presbiteriali di Roma per i cardinali preti; le diciotto chiese diaconali di Roma per i cardinali diaconi. Ogni cardinale era titolare di una di queste 52 sedi ecclesiastiche. Non sappiamo se il plenum del collegio – cinquantadue cardinali – sia mai stato raggiunto; sta di fatto che, alla morte di Clemente IV, i cardinali erano venti. Li elenchiamo per ciascuna classe in ordine di anzianità (di nomina, non di età). Cinque cardinali vescovi: 1. Odo (Oddone, Eudes) di Châteauroux, cardinale vesco-

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vo tuscolano dal 1244; 2. Stefano Vancsa, ungherese, cardinale vescovo prenestino dal 1251; 3. Raoul de Grosparmy, cardinale vescovo albanese dal 1261; 4. Giovanni di Toledo, inglese, cistercense, cardinale vescovo portuense dal 1262; 5. Enrico di Susa, cardinale vescovo ostiense dal 1262. Sei cardinali preti: 6. Simon de Brie, cardinale prete di S. Cecilia dal 1261; 7. Simone Paltinieri di Monselice, cardinale prete di S. Silvestro e S. Martino ai Monti dal 1261; 8. Annibaldo Annibaldi, romano, cardinale prete dei XII Apostoli dal 1262; 9. Ancherio o Oncherio Pantaléon di Troyes, cardinale prete di S. Prassede dal 1262; 10. Guillaume de Bray di Reims, cardinale prete di S. Marco dal 1262; 11. Guy de Bourgogne, già abate di Cîteaux, cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina dal 1262. Nove cardinali diaconi: 12. Riccardo Annibaldi, romano, cardinale diacono di S. Angelo in Pescheria dal 1239; 13. Ottaviano Ubaldini di Firenze, cardinale diacono di S. Maria in Via Lata dal 1244; 14. Giovanni Gaetano Orsini, cardinale diacono di S. Niccolò in Carcere Tulliano dal 1244; 15. Ottobono Fieschi di Genova, cardinale diacono di S. Adriano dal 1251; 16. Goffredo da Alatri, cardinale diacono di S. Giorgio in Velabro dal 1261; 17. Uberto da Cocconato, piemontese, cardinale diacono di S. Eustachio dal 1261; 18. Giacomo Savelli, cardinale diacono di S. Maria in

Cosmedin dal 1261; 19. Giordano Pironti dei conti di Terracina, cardinale diacono dei Ss. Cosma e Damiano dal 1262; 20. Matteo Rosso Orsini, cardinale diacono di S. Maria in Portico dal 1262. Quattordici cardinali erano a Viterbo ancora vivente Clemente IV, poiché sottoscrissero l’ultimo suo privilegio (28 febbraio 1268). Gli altri evidentemente arrivarono in città subito dopo la morte del papa: sono i cardinali che abbiamo indicato con i nn. 6, 8, 15, 19 e 20. Raoul de Grosparmy [3], né c’era prima, né mai venne a Viterbo: si trovava in Francia, nel 1270 partí col re Luigi IX per la crociata, morí di peste in Tunisia il 16 agosto 1270, dieci giorni prima del re.

Gli elettori

Dunque i cardinali elettori erano in partenza diciannove. Durante la sede vacante scomparvero Giordano Pironti [19] il 9 ottobre 1269 e Stefano Vancsa [2] il 9 luglio 1270. Alla fine, a eleggere il diacono piacentino Tedaldo furono diciassette. Vediamo dunque come essi stessi si manifestano nei documenti in cui agiscono collettivamente: si tratta delle lettere da loro emesse oppure degli atti notarili che li mostrano in azione. In particolare, le lettere – che iniziavano con la formula «Nos miseratione divina episcopi, presbiteri et diaconi Sacrosancte Romane Ecclesie cardinales» – portavano i sigilli di ciascuno dei cardinali «firmatari».

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viterbo capitale/4 A sinistra lastra smaltata moderna raffigurante il conclave del 1268-1271, che si svolge nella sala a cui è stato tolto il tetto. Viterbo, Palazzo dei Priori. In basso la sala del Palazzo dei Papi di Viterbo nella quale si tenne il conclave e che da esso ha preso nome.

6 giugno 1270, «in palatio discooperto»: diciotto. Della lettera di protesta e minaccia nei confronti delle autorità comunali viterbesi non possediamo l’originale, ma una copia, all’interno del documento, dello stesso giorno, che attesta la lettura pubblica di essa. Qui si dice che l’epistola cardinalizia era sigillata con diciotto sigilli di cera rossa: «cum

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.xviij. sigillis annodatis de cera rubea». In effetti i cardinali erano i diciannove di partenza meno uno, Giordano Pironti [19], morto nell’ottobre precedente. 8 giugno 1270, «in palatio discooperto»: sedici. Vedi sopra. Ci si aspetterebbe che fossero diciassette: i 18 di due giorni prima meno l’ostiense, del

quale nel documento si parla in terza persona. Si noti che il 6 giugno i cardinali avevano chiesto di far uscire dal conclave, in quanto in cattivo stato di salute, tre cardinali: Simone de Brie [6], Annibaldo Annibaldi [8] e Ottobono Fieschi [15]. Il secondo e il terzo però ci sono, poiché due sigilli sono sicuramente attribuibili a loro, a parere di Maria Elena Piferi. Che dicembre

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fosse uscito Simone de Brie? (il cui sigillo non è identificabile). Non sembra, dato che egli sarà presente nei documenti successivi. 22 giugno 1270, «apud Viterbium, in consistorio maioris palatii congregato»: diciassette. I cardinali ricevono il giuramento delle autorità viterbesi di desistere da ogni costrizione e ingiuria. Agisce Oddone di Châteauroux [1] in nome di 16 colleghi, tra i quali ci sono sia Simone de Brie che l’ostiense, mentre è dato per assente Riccardo Annibaldi [12]: «etiam ex parte domini R. Sancti Angeli diaconi cardinalis, in dicto consistorio non existentis». 28 luglio 1270, «Viterbii»: sedici. Lettera dei cardinali al comune di Perugia, perché cessi di tassare il clero per finanziare la costruzione delle nuove mura urbiche: se ne ha l’originale nel Diplomatico comunale dell’Archivio di Stato di Perugia. Essa in origine portava sedici sigilli, tutti applicati con tenia membranacea e di forma ogivale e perciò tutti cardinalizi, anche il primo; se ne conservano, ridotti abbastanza male e completamente illeggibili, soltanto dieci. Si ricordi che nel frattempo, il 9 luglio, era morto Stefano Vancsa [2] e i cardinali presenti e sigillanti dovrebbero perciò essere diciassette. Ma probabilmente era uscito l’ostiense, che dagli atti conclusivi viene interpellato dai colleghi affinché acconsentisse ai loro atti. 1 settembre 1271, «Viterbii, in communi consistorio»: quindici. Si tratta dell’atto con il quale i cardinali si accordano per scegliere sei di loro, tre per partito, affinché propongano un nominativo come nuovo papa. Nel documento si hanno tre elenchi: il primo riporta i nomi dei presenti (quindici); il secondo i nomi di coloro che con-

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Da leggere Alberto Melloni, Il conclave: storia dell’elezione del papa, il Mulino, Bologna 2001 Agostino Paravicini Bagliani e Maria Antonietta Visceglia, Il conclave: continuità e mutamenti dal Medioevo a oggi, Viella, Roma 2018 Settimo centenario del 1° conclave (1268-1271), Atti del convegno di studio, Viterbo, Agnesotti, 1975. Sandro Vismara, Il «lungo conclave» di Viterbo, 1268-1271, in Renato Lefevre (a cura di), Fatti e figure del Lazio medievale, Fratelli Palombi, Roma 1978; pp. 397-413 Antonino Franchi, Il conclave di Viterbo (1268-1271) e le sue origini, Santa Maria degli Angeli, Porziuncola 1993 Sara Menzinger, Viterbo «città papale»: motivazioni e conseguenze della presenza pontificia a Viterbo nel XIII secolo, in Sandro Carocci (a cura di), Itineranza pontificia: la mobilità della Curia papale nel Lazio, secoli XII-XIII, ISIME, Roma 2003; pp. 307-340. Maria Grazia Nico Ottaviani e Elisabetta Rizzi, Il lungo conclave di

sentono al compromesso (nove) e di coloro che sono eletti nella commissione ristretta (sei); il terzo è costituito dalle sottoscrizioni autografe dei cardinali stipulanti (nove). I tre elenchi dunque coincidono. Non è nominato tra gli stipulanti il cardinale vescovo portuense, Giovanni di Toledo [4]. Nel documento si dice che egli si trovava sí «infra papale palatium», ma «in sua camera», nella sua stanza privata: evidentemente impossibilitato, per malattia o per altro motivo, a partecipare alla riunione. Il documento, del quale non si ha l’originale, è dichiarato sigillato: «sigillorum nostrorum munimine fecimus sigillari». 1 settembre 1271, come sopra: quindici e sedici.

Viterbo (1268-1271), in Gregorio X pontefice tra Occidente e Oriente. Atti del convegno storico internazionale nel III centenario della beatificazione di Gregorio X 1713-2013 (Arezzo, 22-24 maggio 2014), Cisam, Spoleto 2015; pp. 179-192. Maria Elena Piferi, Gli inediti sigilli duecenteschi della pergamena del «Palagio discoperto». Analisi iconografica e considerazioni generali, in Biblioteca & Società, 2016; pp. 14-20. Un lungo e documentatissimo saggio sul conclave di Viterbo di John Paul Adams è disponibile sul sito www. csun.edu/~hcfll004/SV1268.html Per le cronotassi papale e cardinalizia: August Potthast, Regesta pontificum romanorum ab condita Ecclesia ad annum post Christum natum 1198-1304, Berolini 1874-1875; Konrad Eubel, Hierarchia catholica Medii Aevi... ab anno 1198 usque ad annum 1431 perducta, Münster 1913; Adriano Cappelli, Cronologia, Cronografia e Calendario perpetuo, Hoepli, Milano 1930

Il decretum conclusivo della lunga vicenda riporta i nomi dei quindici cardinali presenti; il resoconto del compromesso pattuito in precedenza; la proclamazione solenne dell’eletto, fatta dal capo della commissione arbitrale, Simone Paltinieri [7]; le sottoscrizioni, che sono sedici. Infatti qui interviene l’Ostiense, «H[enricus] Ostiensis et Velletrensis episcopus», che dichiara di accettare tutto quanto premesso. Ancora assente Giovanni di Toledo. Anche per questo documento è dichiarata l’apposizione dei sigilli. Torna quasi tutto: solo il secondo documento, quello dell’8 giugno, rivela una discrepanza che non si è in grado di sanare. Poco male, perché è il piú bello e meglio conservato di tutti.

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mostre longobardi

Tesori da una «terra di mezzo» di Elena Percivaldi

Il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto ripercorre la storia della presenza longobarda in Italia e, in particolare, nella Tuscia. Una vicenda di grande rilevanza, segnata dal confronto, ma anche dallo scambio, fra la cultura dei nuovi arrivati e quella delle popolazioni autoctone. E che si riflette nella produzione di oggetti di eccezionale pregio, ora riuniti nell’esposizione 54

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«G

ens germana feritate ferocior» («un popolo piú feroce della ferocia germanica»): cosí, nelle sue Historiae Romanae, lo storico latino Velleio Patercolo presentava i Longobardi appena sconfitti da Tiberio (era il 5 d.C.) durante una delle campagne militari condotte da Roma nel tentativo di sottomettere le popolazioni oltre il Reno. Originari, secondo l’Origo gentis Langobardorum e Paolo Diacono, il loro principale cronista, del Sud della Scandinavia – ma al riguardo mancano prove archeologiche certe –, i Longobardi furono protagonisti di una lunga migrazione, che li condusse dal

Baltico, seguendo il corso del fiume Elba, fino alla Pannonia e al Norico. Infine, nel 568, condotti dal re Alboino varcarono le Alpi Giulie e dilagarono nella Pianura Padana, spingendosi fino alla Tuscia, all’Umbria, nelle Marche e nel Sannio per dare vita a un regno destinato a durare quasi due secoli fino alla conquista, nel 774, da parte dei Franchi di Carlo Magno; a restare indipendente rimase, ormai divenuto principato, solo il ducato di Benevento, fino alla conquista normanna, avvenuta alla metà dell’XI secolo. Un’epopea breve, durata solo due secoli, ma destinata a incidere profondamente sulla Sulle due pagine particolare della decorazione della fibbia di Chiusi (vedi box e foto a p. 57) e, in secondo piano, un particolare dell’allestimento della mostra.

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mostre longobardi

storia della Penisola nel delicato momento di passaggio tra l’età antica e l’Alto Medioevo.

Un popolo in armi

Al loro ingresso in Italia i Longobardi erano un popolo in armi guidato da una potente aristocrazia guerriera. Cosí come altre popolazioni dell’età delle migrazioni, si trattava di un gruppo tribale eterogeneo: oltre ai Longobardi, infatti, al seguito di Alboino c’erano anche contingenti svevi, turingi, gepidi, sarmati e sassoni. L’occupazione della Penisola avvenne per gradi e in misura differente; protagoniste del processo furono le «fare», gruppi allargati condotti dagli arimanni-exercitales (gli uomini liberi aventi il diritto-dovere di portare le armi) e legati tra loro da vincoli familiari, ma anche dall’autoriconoscimento «identitario» intorno a un nucleo di leggende e tradizioni risalenti a un passato ancestrale e mitico, e in grado di combattere come di insediarsi stabilmente sul territorio mantenendone il controllo.

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L’arrivo dei Longobardi cambiò profondamente lo scenario sociale dell’Italia e comportò la sostituzione di larga parte della vecchia classe dirigente di grandi proprietari fondiari: alcuni furono fisicamente eliminati, altri ripararono nei territori rimasti all’impero romano d’Oriente – le coste adriatiche con la Romagna (poi strutturata in esarcato e pentapoli), il Lazio con Roma, parte dell’area lungo il Po e l’area lacustre lombarda –, altri ancora preferirono collaborare, offrendo ai nuovi arrivati le competenze tecniche necessarie ad amministrare il nascente regno. Ma proprio la necessità di organizzare e controllare un territorio vasto e complesso, cosí come il continuo confronto con gli Italici e il prestigio rappresentato dalla civiltà romano-bizantina comportarono il progressivo avvicinamento tra «invasori» e autoctoni, reso possibile anche dalla conversione al cattolicesimo, avvenuta a partire dall’inizio del VII secolo. Da portatori di un’antica cultura pagana e tribale, i Longobardi seppero dunque trasformarsi «sul dicembre

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La fibbia di Chiusi

In alto la sezione della mostra dedicata a «Goti, Bizantini e Longobardi», nella quale sono esposti i corredi di due sepolture femminili provenienti da Chiusi (S. Mustiola e Ospedale Pubblico).

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La spettacolare fibula femminile a staffa in argento dorato rinvenuta sul colle dell’Arcisa è conservata al Museo Nazionale di Chiusi. L’elaborata decorazione si caratterizza per le dieci protomi umane, disposte a raggiera, che presentano la scriminatura centrale dei capelli secondo la tipica acconciatura «odinica» descritta da Paolo Diacono e riscontrabile su alcuni anelli-sigillo; al centro della lunetta appare un volto umano (forse Odino?) affiancato da animali; lungo i lati si scorgono quattro teste di rapaci. La fibula appartiene alla prima fase di occupazione longobarda in Italia (fine del VI-inizi del VII secolo) ed è legata al suggestivo immaginario tribale dell’età delle migrazioni.

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mostre longobardi

La lamina di Agilulfo (o di Valdinievole) Il reperto piú noto della mostra è la cosiddetta «Lamina di Valdinievole» (ritrovata in provincia di Pistoia), un controverso manufatto in bronzo dorato interpretato come frontale di elmo, forse ricavato dalla placca decorativa di un reliquiario. Al centro è rappresentato il re Agilulfo (591-616), identificato dalla scritta D(omi)NO AGILU(lf) REGI («al signore re Agilulfo»), assiso in trono: con la mano sinistra stringe la spada, mentre la destra si atteggia nel gesto dell’adlocutio utilizzato dagli imperatori dinanzi alle coorti pretoriane in occasione dell’avvento al trono oppure davanti all’esercito schierato in campo. Il sovrano è attorniato da due armati che sfoggiano armi e le tipiche «lunghe barbe», a cui seguono due angeli-Nike che reggono cornucopie a forma di corno potorio e un labaro inneggiante alla Vittoria (VICTURIA); infine, quattro uomini inginocchiati che offrono caschi-corona sormontati da una croce, tipica insegna di potere. Il reperto, conservato al Museo Nazionale del Bargello di Firenze, rappresenta iconograficamente la duplice azione, tradizionalista e «filoromana», che caratterizza il tentativo del sovrano e della consorte Teodolinda (da lui sposata dopo la morte del suo primo marito Autari) di consolidare il regno e di trasformarlo da un agglomerato di entità precarie coese intorno valori di tipo etnico-tribale, in un potere stabile, forte e durevole, amministrato in senso territoriale.

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La lamina di Agilulfo e, nella pagina accanto, la sua probabile funzione originaria di frontale di un elmo proposta nel corso di una rievocazione.

campo», assimilando elementi derivanti da tradizioni diverse – quelle apprese dal confronto con le genti delle steppe, quella romano-bizantina e quella cristiana –, dando vita alla prodigiosa «sintesi tra mondi» che sta alla base del «nostro» Medioevo.

Una presenza capillare

Stando a Paolo Diacono e al piú tardo Agnello Ravennate (IX secolo), i Longobardi giunsero in Tuscia, fra Toscana e alto Lazio, già intorno al 574, ovvero poco dopo l’ingresso nella Penisola. L’occupazione partí dai centri cittadini di Lucca e Chiusi che, di lí a poco, diventarono ducati. L’avanzata proseguí da Lucca verso Pisa, Pistoia, Volterra e oltre, fino a inglobare parte del territorio di Populonia (ricca di risorse minerarie) e Roselle; da Chiusi, posta alla confluenza delle vie Cassia e Amerina, i Longobardi si spostarono invece a ovest, verso Arezzo e il Monte Amiata, fino a includere nel Regnum anche Siena e Fiesole. A sud, infine, la possibile «prima linea» di frontiera bizantina tra il lago di Bolsena e il mare venne erosa dai Longobardi del ducato di Spoleto, che arrivarono fino a Sovana e Tuscania. Una «terra di mezzo», dunque, stretta tra i territori bizantini: se infatti a nord la Tuscia confinava con i castelli costruiti in età tardo-antica lungo gli Appennini, a sud-est la frontiera – mobile – era rappresentata dal corridoio che collegava Ravenna a Roma tramite la via

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Flaminia. Lungo la costa, alcuni porti e città di mare come Pisa rimasero in un primo tempo sotto il controllo imperiale, ma a seguito della pacificazione agli inizi del VII secolo, le fortificazioni bizantine, soprattutto quelle dell’Aurelia, finirono per essere abbandonate, passando a loro volta sotto il controllo longobardo. Cosí come nella Pianura Padana, anche in Tuscia i Longobardi controllavano il territorio dalle città e dai castra preesistenti, che – come a Pistoia, Siena, Volterra e Tuscania – costituivano i centri del potere da dove i funzionari regi, i gastaldi, gestivano l’amministrazione per conto del sovrano (una testimonianza eloquente è data dall’anello-sigillo di «Faolfus» ritrovato a Chiusi; vedi box a p. 60). Fuori dai grandi centri abitati e nei valichi appenninici, invece, la viabilità e i beni fiscali erano presidiati da nuclei di arimanni armati.

Le tracce archeologiche

Del popolamento longobardo in Tuscia restano ampie tracce archeologiche, di cui dà ora puntuale conto la mostra «Una terra di mezzo. I Longobardi e la nascita della Toscana», in corso presso il Museo Archeologico e d’Arte di Grosseto (vedi box a p. 62). A Chiusi, per esempio, si riscontra la continuità con la precedente occupazione gota – lo testimoniano le quattro sepolture della catacomba di S. Mustiola, caratterizzate da deformazione artificiale del cranio se-

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mostre longobardi L’anello-sigillo di Faolfus L’anello-sigillo in oro, conservato al Museo Nazionale del Bargello di Firenze, proviene dal colle dell’Arcisa a Chiusi (Siena) e presenta, inciso a bulino, un volto maschile stilizzato accompagnato dalla scritta rovesciata con il nome «Faolfus». Non si tratta di un unicum: altri anelli di questo tipo sono stati rinvenuti a Trezzo d’Adda, Udine, Palazzo Pignano (Cremona), Milano, Benevento e Bergamo (quest’ultimo femminile, attribuito alla badessa Gumetruda). In Tuscia ne è noto un solo altro esemplare, proveniente dalla chiesa di S. Pietro a Civita di Bagnoregio (Viterbo) e recante il nome Aufret. Si tratta, verosimilmente, di anelli utilizzati per sottoscrivere documenti da parte di funzionari regi insigniti di poteri amministrativi e politicomilitari in ambiti territoriali considerati particolarmente strategici. A destra orecchino a cestello in oro che testimonia la ricezione di tradizioni autoctone da parte dei Longobardi, da Grosseto. In basso l’anello-sigillo di Faolfus.

condo un uso presente nelle culture nomadiche di origine asiatica, recepito anche in taluni ambiti germanici –, cosí come la presenza, nella necropoli dell’Arcisa, di elementi legati tanto alla prima immigrazione – è il caso delle armi e di vari ornamenti tra cui un’eccezionale fibula a staffa in argento dorato del tipico stile animalistico germanico – quanto al progressivo contatto con la popolazione autoctona (orecchini a cestello). Notevole è lo splendore dei corredi, sicuro indice di presenze di altissimo rango come nel caso del cavaliere – soprannominato non a caso «Longobardo d’oro» – accompagnato da una panoplia composta

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da cintura multipla, spada con impugnatura aurea, scramasax (grosso coltello con lama a un solo taglio, n.d.r.) con fodero a elementi aurei, lancia, coltello, elmo e umbone di scudo con borchie dorate (purtroppo dispersi), finimenti equini, cesoie, un anello gemmato e ben cinque crocette in lamina d’oro. Legata all’ambito elitario è anche la sepoltura del nobile guerriero rinvenuta a Lucca nella chiesa di S. Giulia: un caso molto particolare, perché, pur in presenza di un articolato corredo d’armi, le crocette auree e le decorazioni di chiara matrice cristiana che ornano lo scudo (vedi box alla pagina accanto) sembrano indicare l’avvenuta conversione, almeno nella ritualità funeraria, di un personaggio di altissimo rango che scelse di farsi seppellire, alla metà del VII secolo, nella propria cappella privata. Per quanto concerne Fiesole, già fortezza di rilievo durante la guerra greco-gotica e ritenuta piú «strategica» di Firenze, la presenza longobarda è data da numerose sepolture databili dalla fine del VI secolo, piú d’una delle quali intra muros nell’acropoli, nell’area occupata dagli edifici pubblici romani (terme, teatro, tempio) ormai caduti in disuso. Quanto a Pisa, le tombe longobarde, databili alla seconda metà del VII


Le decorazioni dello scudo da parata di Villa Guinigi montate su un supporto che replica le possibili dimensioni del disco ligneo originario.

Lo scudo da parata di Villa Guinigi Le magnifiche decorazioni dello scudo, databili alla metà del VII secolo, provengono dalla tomba di un guerriero scavata in S. Giulia, a Lucca (il reperto è conservato a Villa Guinigi). Intorno all’umbone centrale vi erano sei lamine a forma di teste equine; al margine del disco ligneo erano fissati due motivi paleocristiani: un kantharos (coppa a due manici) tra due pavoni e una figura umana (giunta acefala), con tunica e stivali, che regge scudo, spada e asta crociata sormontata da una colomba (forse Daniele nella fossa dei leoni). L’umbone, con sei raggi e borchie a rilievo, reca la scritta «Domine ad adiuvandum me festina» («Signore vieni presto in mio aiuto»). Le decorazioni sembrano testimoniare l’avvenuta conversione del guerriero al cristianesimo.

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mostre longobardi La mostra

Nel segno degli intrecci La mostra in corso al MAAM-Museo Archeologico e d’Arte di Grosseto si sviluppa in quattro sezioni, con un allestimento basato sull’idea dell’intreccio, simbolo della compenetrazione tra autoctoni e «invasori», ma anche tratto distintivo di alcuni motivi che caratterizzano gli oggetti longobardi e i decori artistici. La sala d’ingresso accoglie il visitatore nella «terra di mezzo»: qui, accompagnate dall’incipit dell’Origo Gentis Langobardorum, due mappe forniscono una visione d’insieme della migrazione del popolo longobardo dal nord Europa fino all’Italia e alla sua progressiva conquista tra il 568, anno dell’ingresso nella Penisola, e il 774, l’anno della caduta del Regnum a opera di Carlo Magno. Nella seconda sala, dedicata a «Goti, Bizantini e Longobardi», accanto alla ricostruzione di due sepolture femminili con corredo provenienti da Chiusi (S. Mustiola e Ospedale Pubblico) in cui le inumate presentano la deformazione cranica, si possono ammirare il tesoro di Galognano, la lamina di Agilulfo e l’anello-sigillo di Faolfus. A rendere ancor piú suggestiva la visita è la recita, su sottofondo musicale, dell’«atta unsar», il Padre Nostro in lingua gota, il cui testo (conosciuto grazie alla traduzione realizzata nel IV secolo dal vescovo ariano Ulfila) è riportato su una parete. Si passa poi alla terza sezione, interamente focalizzata sul ducato di Tuscia, cuore pulsante dell’esposizione. Qui sono raccolti i reperti di Roselle affiancati da quelli maremmani: Salica, Casette di Mota, Grancia, Talamone, Saturnia, Semproniano, Podere Macereto, San Martino sul Fiora, Pitigliano, Vetricella, Castiglione della Pescaia, alcuni esposti per la prima volta. Il quadro è completato dai reperti provenienti dal resto del ducato: Luni, Fiesole, Lucca (lo scudo con lo splendido umbone, conservato al Museo Nazionale di Villa Guinigi), Volterra, Pisa, area senese (Aiano, Sovicille), Arezzo, Chiusi (dove spicca la fibula dell’Arcisa), Pistoia, Chiusa del Belli (Farnese), Bolsena, Perugia, Isola del Giglio. Di notevole impatto sono anche i punti multimediali, che propongono lo storytelling di alcuni episodi e personaggi chiave dell’epopea longobarda – l’arrivo di Alboino, la storia di Teodolinda e la figura di Paolo Diacono – e le ricostruzioni dell’abbigliamento e degli accessori realizzate dall’associazione «La Fara». Curata da Chiara Valdambrini e Barbara Fiorini, la mostra è accompagnata da un ampio ed esauriente catalogo scientifico (Silvana Editoriale).

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La sezione della mostra in cui viene descritto l’abbigliamento tipico del popolo longobardo.

secolo, si concentrano in piazza dei Miracoli: una di esse si segnala per la presenza di una fibbia da cintura della generazione precedente, probabile lascito da parte di un antenato e dono dal forte valore simbolico. Sempre allo stesso periodo risale l’occupazione di Siena e Volterra, entrambe sedi di gastaldato ma caratterizzate da ritrovamenti di armi e finimenti provenienti da contesti incerti. Oltre a riproporre reperti toscani spettacolari, ma noti da tempo – uno per tutti, la celeberrima Lamina di Valdinievole (vedi box a p. 58) –, la mostra di Grosseto ha il merito di avere raccolto e analizzato, per la prima volta in modo organico, le tutt’altro che trascurabili testimonianze provenienti anche dall’area maremmana, ritenuta tradizionalmente, ma a torto, marginale. Da questo punto di vista, rivestono un dicembre

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ruolo di primo piano le importanti sepolture dell’area di Roselle (necropoli di Grancia, Casette di Mota, Salica), caratterizzate da corredi comprensivi di cinture per la sospensione delle armi databili al pieno VII secolo e «tra le poche necropoli in campo aperto di una certa estensione attualmente note nella Tuscia» (Caterina Giostra). Altri reperti denotano invece l’appartenenza al contesto italico, ribadendo ancora una volta quanto l’incontro tra le due culture abbia contribuito a caratterizzare e a plasmare nel tempo l’identità del territorio. Con il suo suggestivo impianto narrativo e didattico, la mostra di Grosseto contribuisce quindi a ricostruire un tassello fondamentale della lunga storia della Toscana, rivelando come l’epopea longobarda sia stata, anche in tale contesto, fondamentale

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Dove e quando «Una terra di mezzo. I Longobardi e la nascita della Toscana» Grosseto, MAAM-Museo Archeologico e d’Arte della Maremma fino al 6 gennaio 2022 Orario ma-ve, 9,30-13,30; sa-do e festivi, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; chiuso il lunedí Info tel. 0564 488752; e-mail: maam@comune. grosseto.it; https://maam.comune.grosseto.it nel consolidare il ruolo della penisola come crocevia e intreccio di culture, nonché «cerniera» tra Europa continentale e Mediterraneo.

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di Chiara Frugoni, con un contributo di Ileana Tozzi

Particolare del Presepe di Greccio, nel ciclo delle Storie francescane nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi (intero alle pp. 66/67). 1290-1295 circa.

Il presepio di

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e la predica negata Nella notte di Natale del 1223, in un antico borgo nella piana di Rieti, Francesco d’Assisi mette in scena la Natività, inaugurando una tradizione ancora oggi viva e sentita. Il gesto del futuro santo non ha solo un carattere estetico, ma riflette la sua rivoluzionaria visione della fede e della dottrina. Che viene di fatto «censurata» nella piú celebre rappresentazione dell’evento


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ue brevi premesse, perché sia comune il quadro di riferimento, prima di cominciare a parlare della notte di Natale a Greccio cosí come fu voluta da san Francesco e in seguito rappresentata, premesse che riguardano la specificità della basilica di S. Francesco ad Assisi e il problema delle fonti francescane. La basilica è una doppia chiesa, che si rivolgeva a due pubblici completamente diversi. Quella inferiore era dedicata ai pellegrini, che, avanzando nella navata, vedevano scorrere in parallelo affrescate, sulla parete di destra, la storia della Passione di Cristo, e, su quella di sinistra, la vita di Francesco fino alla sua morte, con la scoperta sul suo cadavere dei segni delle stimmate. La morte dipinta del santo preparava il devoto al pensiero che, pochi metri dopo, avrebbe sostato davanti alla vera tomba, anche se invisibile, posta sotto l’altare, nella quale l’Assisiate era seppellito: la preziosissima reliquia era il fulcro di tante preghiere, attese e richieste di aiuto. La Chiesa Superiore, invece – cappella papale –, in cui il pontefice aveva la sua cattedra e dove si svolgevano le cerimonie ufficiali, aveva come destinatario privilegiato l’Ordine. La chiesa era sotto la protezione di san Pietro e del pontefice. A quest’ultimo era unicamente sottoposta, sottratta alla giurisdizione del vescovo di Assisi. I dipinti presuppongono dunque uno sguardo perfettamente in grado di cogliere il significato di un programma complesso. Noi oggi conosciamo a memoria gli episodi del celebre ciclo di Giotto – non intendo entrare nella questione della paternità degli affreschi e uso un nome riassuntivo di comodo –, ma, a ben vedere, si tratta di una scelta agiografica molto insolita e molto mirata, poiché le storie dipinte si propongono come una nuova, ulteriore biografia per immagini.

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Le biografie precedenti, pur essendo ufficiali e redatte da Francescani, erano state scritte e riscritte man mano che la figura di Francesco doveva essere aggiornata all’evoluzione e al successo dell’Ordine. Francesco si era convertito da adulto; era stato un giovane brillante, che amava le feste, e il primo biografo ufficiale francescano, Tommaso da Celano, scrivendo nel 1228, due anni dopo la morte del santo, non poté dimenticare questi tratti. Lo descrisse allora, esagerando i toni, come un giovane dissoluto, traviato da genitori scellerati. Ciò gli permise di fare risaltare la grandezza della misericordia di Dio che cosí come si era posata su san Paolo sulla via di Damasco, all’improvviso aveva fatto di Francesco un santo.

Da sempre santo

Dopo 15 anni il vero Francesco cominciava a essere dimenticato; nella prima biografia, d’altra parte molti giudizi risultavano ora imbarazzanti: per esempio le lodi per Elia, vicario generale dal 1221 al 1227 (poi ministro generale dal 1232 al 1239) ma scomunicato per essersi schierato dalla parte di Federico II. Francesco era diventato il fondatore di un Ordine dal successo straordinario: si poteva sopportare che in una parte della sua vita fosse stato un peccatore? No, non si poteva, ed era quindi opportuno affermare che da sempre era stato un santo. Ed ecco allora cambiare prontamente anche il ritratto dei genitori: Tommaso da Celano – ancora lui – si spinse addirittura a sostenere che la madre di Francesco sembrava una nuova santa Elisabetta. Nel 1257, quando Bonaventura divenne ministro generale dell’Ordine, le biografie di Francesco circolanti erano davvero molte, spesso con racconti troppo diversi fra loro. Bonaventura nel 1266 intese dunque, imponendo da quel momento la sua biografia, la Legenda maior,

Il presepe di Greccio, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto (?) nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. In questo Dossier, Chiara Frugoni, a proposito del famoso ciclo, non vuole affrontare il dibattito sulla sua paternità, assegnandola, come scrive in questa pagina a «un nome riassuntivo di comodo». Di qui la scelta di inserire il punto interrogativo accanto all’indicazione «Giotto».


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Nella pagina accanto Francesco che dona il mantello a un povero (o Elemosina del mantello), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto (?) nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

offrire sia un univoco e meno sconcertante ritratto del santo, sia riportare la pace tra i frati, divisi fra la strettissima osservanza della regola di assoluta povertà voluta da Francesco e una sua interpretazione piú morbida. Impose anche la distruzione di tutte le biografie precedenti: fu un’operazione che colpí migliaia di manoscritti, eseguita in modo tanto meticoloso che solo nel XVIII e XIX secolo, magari in monasteri assai lontani, furono trovate, e spesso in un’unica copia, le biografie precedenti, alcune, non tutte. Per molti secoli, dunque, Francesco, fu il Francesco di Bonaventura. La sua Legenda, insieme a un’altra sua opera, le Collaxiones in hexaemeron, furono la fonte del ciclo di affreschi della basilica di Assisi. Chi suggerí il programma seppe tradurre, e spesso modificare, i concetti dell’ultimo biografo. La bellezza dei dipinti fa dimenticare che proprio nella basilica proclamata da Gregorio IX, «capo et madre dell’Ordine», sono scomparse le idee piú nuove, piú inquietanti e piú scomode del santo: per esempio l’importanza del lavoro, l’esaltazione della povertà, l’amore verso chi soffre – in particolare i lebbrosi –, l’atteggiamento di apertura e stima verso le donne. Negli affreschi del ciclo giottesco di Assisi non c’è un povero (perché il cavaliere caduto in miseria a cui Francesco dà il mantello è vestito benissimo, ha perfino un cappello di pelliccia; vedi foto alla pagina accanto); non c’è un lebbroso, non si vede Francesco che lavora, non si vede Francesco con Chiara: o meglio il santo le si mostra, sí, ma da morto. Neppure si vede mai il santo predicare a una folla, anche se a

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questo dedicò tutta la sua vita. La Chiesa, nonostante tutto, conservò sempre un certo disagio verso l’ex mercante, verso un uomo che non volle mai farsi prete o monaco: Francesco infatti, al cardinale Ugolino che si faceva portatore della raccomanadazione dei compagni piú dotti di scegliere come regola una di quelle già sperimentate, di san Benedetto o di san Bernardo oppure di sant’Agostino, aveva risposto con veemenza: «Fratelli miei, fratelli miei! Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio quindi che nominiate altre regole, né quella di sant’Agostino, né quella di san Bernardo o di san Benedetto. Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi l’ultimo pazzo del mondo: questa è la scienza alla quale Dio vuole ci dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo della vostra stessa sapienza e scienza!». Operando una specie di censura, la Chiesa, attraverso pittori e miniatori, mostrò sempre Francesco mentre si indirizza agli uccelli, ma mai agli uomini! Bonaventura avrebbe voluto che insieme ai manoscritti fossero distrutte anche tutte le immagini di Francesco. Tuttavia questa seconda decisione ebbe meno successo: i dipinti, nelle chiese, erano circondati da devozione e alcuni erano ritenuti miracolosi, cosicché in gran parte sopravvissero. Le immagini perciò ci danno molte informazioni sul cambiamento della figura di Francesco: vanno considerate fonti a tutti gli effetti e di pari dignità di quelle scritte.

Il Natale di Francesco

Diamo subito la parola a Tommaso da Celano che cosí racconta nella prima biografia scritta a due anni dalla morte del santo, nel 122829, l’episodio della notte di Natale a Greccio: «C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché,

pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava piú la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesú, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei fare memoria del Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo. E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione giungono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco, vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme. Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia. Il Santo è lí estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’eucaristia sulla mangiatoia ed egli stesso assapora una consolazione mai gustata prima.

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SS3 SS3 SS S3

Parco fluviale del Nera

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UMBRIA SS79

Narni Naarn arn rni

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui Leonessa doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti Camponeschi conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda. SS4

Limiti di Greccio Convento Lo Speco Otricoli

Cantalice

Greccio

Micigliano

Configni

Calvi Dell’Umbria

Monte San Giovanni in Sabina

Magliano in Sabina Casperia

Cantalupo in Sabina

Cittaducale

LAZIO Ornaro Basso

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Paterno

Grotti

Petrella Salto Borgo San Pietro

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Ponzano Romano

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Contigliano

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Collevecchio

Vazia

Rieti

A sinistra il territorio reatino con Greccio e le altre località della Valle Santa citate nel testo. Sulle due pagine Greccio (Rieti), l’esterno del santuario del Presepe. Nella pagina accanto la cappella realizzata nel luogo in cui Francesco allestí la Natività.

Poggio Mirteto Casaprota

Varco Sabino

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Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesú,

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infervorato di amore celeste lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor piú di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesú”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e tratte-

nere tutta la dolcezza di quelle parole. Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti,

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perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesú veniva risuscitato nei cuori di molti che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria. Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia». Tommaso da Celano, dopo essersi preoccupato di sottolineare la perfetta liceità della predica di Francesco – era diacono e dunque del tutto autorizzato a cantare il Vangelo e a commentarlo – si sofferma con molta insistenza sull’effetto catartico delle parole

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del santo: addirittura il sacerdote stesso aveva provato una gioia mai sentita prima. Francesco predica in maniera cosí intensa che a un uomo di grande virtú sembra di vedere in visione un bambino esanime. E Tommaso da Celano spiega che il santo aveva svegliato nel cuore degli astanti quell’amore verso Dio e verso il prossimo che sembrava morto: «Greccio è divenuto come una nuova Betlemme». Siamo intorno al 1223, quando era ancora in corso la quinta crociata. Francesco nel 1219 aveva compiuto un gesto sorprendente: da As-

sisi aveva raggiunto l’Egitto; aveva parlato con i crociati sperando di dissuaderli dal combattere e massacrare, in quanto cristiani; vista vana la sua perorazione era addirittura passato nel campo nemico e si era fatto ricevere dal sultano Malik al-Kamil. Era stato accolto con raffinata ospitalità e aveva predicato la buona novella. Sappiamo che si trattenne fino all’estate del 1220, quando fu costretto a tornare in patria, perché, raggiunto fortunosamente da un frate, aveva saputo che la giovane fraternità si stava dividendo. Il viaggio in Egitto di Frandicembre

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Il Natale di Greccio, affresco di anonimo umbro. Fine del XIV-inizi del XV sec. Greccio, Cappella del Presepe. L’opera si ispira al modello delle Storie francescane di Assisi e sul messale aperto si legge la frase, scritta in un latino incerto, «In ecelsis Deo et in tera pax omnibus».

pretazione: il bue rappresenta gli Ebrei, l’asino i pagani, il fieno l’ostia salutare. Lo riassume mirabilmente Walafrido Strabone, commentando il versetto del Vangelo di Luca, «positus in praesepio»: «“Posto nella mangiatoia” cioè il corpo di Cristo sull’altare; il bue e l’asino accanto alla mangiatoia di Cristo significano i pagani e gli ebrei che si comunicano sull’altare». Francesco dunque, memore del fatto che, alla nascita di Cristo, gli angeli avevano cantato «Pax in terra», prevedeva che nel tempo Ebrei e pagani, cioè musulmani, si sarebbero pacificamente convertiti al Vangelo. Un messaggio audacissimo rispetto a una Chiesa che voleva solo guerra e crociate.

Una scomoda memoria

cesco è un’iniziativa straordinaria; il santo si oppone a una Chiesa in armi che uccide e massacra, non attaccando e accusando, ma proponendosi silenziosamente come esempio dissonante e diverso. L’episodio di Greccio può essere letto come la sconfessione della crociata. È inutile andare in Terra Santa, armarsi e uccidere, in nome della fede. L’importante, per un vero cristiano, è avere Betlemme nel cuore, come appunto scrive in maniera illuminante Tommaso da Celano. Per ricreare l’atmosfera della nascita di Cristo nella solitu-

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dine di un povera stalla in mezzo ai pastori, Francesco fa celebrare la messa sopra la greppia, su un altare improvvisato, non sulla mensa consacrata di una chiesa. Compie un gesto, a quel tempo, proibito. Perché Francesco chiese esclusivamente la presenza del bue e dell’asino, presenti solo nei vangeli apocrifi, quelli cioè che la Chiesa ritiene non ispirati da Dio, e di una greppia colma di solo fieno, per rendere visivamente presente la nascita di Cristo? Basterà esaminare l’esegesi patristica per trovare una costante e ininterrotta inter-

Solo nel 1224 il papa diede facoltà ai Francescani di avere un altare portatile. Per i Domenicani e i Francescani sempre in cammino, quel permesso era indispensabile, ma significava il riconoscimento da parte della Chiesa della loro funzione ecclesiologica principalmente legata all’itineranza, almeno nell’ambito della pastorale liturgica. La concessione dell’altare portatile liberava i Francescani dal preventivo assenso del vescovo per celebrare la messa, perché, avendo un loro proprio altare, potevano farlo ovunque. Sanciva un secondo cambiamento: la celebrazione non avveniva piú necessariamente all’interno dell’edificio sacro, ma in un qualsiasi spazio indefinito che acquistava lo statuto di luogo ecclesiale, parte integrante della Chiesa presente ovunque, perché è il mondo stesso. Di questa innovativa conce-

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Nella pagina accanto San Francesco davanti al sultano Malik al-Kamil (o La prova del fuoco), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto (?) nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

zione i Francescani erano lucidamente consapevoli. Nel poemetto del 1227 circa Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertatate, Madonna Povertà va a fare loro visita; crede di entrare in un monastero, in un luogo tradizionalmente assai confortevole, ma nello stesso tempo chiuso e separato dalla comunità dei fedeli e chiede ai Francescani: «Mostratemi l’oratorio dove pregate, la sala dove tenete capitolo, il chiostro, il refettorio, la cucina, il dormitorio, la stalla, i bei sedili, le tavole pulitissime, le case immense»; i frati invece «la condussero in cima a un colle e le mostrarono tutt’intorno la terra fin dove si poteva spingere lo sguardo dicendo: “questo, signora, è il nostro chiostro”». Francesco, ideando quel particolare Natale a Greccio anticipò dunque i tempi, con un gesto audace, che, come vedremo, Bonaventura cercò di giustificare. Anche il contenuto della predica è audace e controcorrente. Greccio, inoltre, era il luogo in cui, nel 1246, i tre compagni piú cari di Francesco – Leone, Angelo e Rufino –, gelosi custodi della sua memoria, facendosi interpreti della voce di altri frati, in risposta alla prescrizione del Capitolo generale del 1244 e di Crescenzio da Jesi allora ministro generale, di raccogliere nuove testimonianze sulla vita di Francesco, avevano scritto una lettera, «la lettera da Greccio» per l’appunto, come premessa a un «Florilegio», forse perduto, assai polemica rispetto alla linea che l’Ordine voleva adottare nel tramandare il ricordo del santo: «Noi non ci accontentiamo però di narrare solo miracoli, i quali mostrano ma

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non costituiscono la santità; nostro intento è anche di mostrare alcuni aspetti salienti della sua vita e l’intenzione della divina volontà». A Greccio era stato costretto a ritirarsi Giovanni da Parma, dopo che le sue simpatie gioachimite lo ebbero obbligato a dare le dimissioni da ministro generale; il suo posto fu preso nel 1257 da Bonaventura, che sottopose Giovanni a processo e lo confinò per l’appunto a Greccio. Il cronista francescano Salimbene de Adam annota: «Dopo che fu liberato dall’ufficio, frate Giovanni andò ad abitare nell’eremo di Greccio, dove il beato Francesco nella Natività del Signore fece la rappresentazione della stalla, della quale si racconta piú compiutamente nella sua biografia».

Un convinto gioachimita

Nei dieci anni del suo generalato, Giovanni aveva appoggiato la parte rigorista dell’Ordine, senza accogliere le attenuazioni della Regola che una gran parte dei frati richiedeva. Nella sua lunga vita – morí ottantenne nel 1289 – rimase fedele al suo gioachimismo e alle sue idee di povertà e umiltà, pur essendo circondato di grande rispetto. Ubertino da Casale, lo strenuo difensore degli Spirituali, ricorda ancora nel 1285 un decisivo incontro a Greccio con Giovanni da Parma, tracciando dell’ex ministro un commosso e ammirato ritratto: Giovanni è presentato come uomo di santa vita, convinto gioachimita, perseguitato ma instancabile nel redarguire «con parole durissime» la Chiesa carnale e «le teste durissime di tutti i frati e degli empi». A Greccio, Tommaso da Celano, nella seconda biografia, scritta intorno al 1246-47, situa la liberazione dei lupi che infestavano la città da parte di Francesco – diventerà poi il celebre Fioretto di Francesco e il lupo – senza dimenticare il Natale del Bambino di Betlemme «quando Francesco si era fatto bambino con il Bambino». In questa occasione

Tommaso non manca di sottolineare la predilezione di Francesco per questo luogo «perché lo vedeva ricco di povertà». Ma sono soprattutto le due fonti dell’ala rigorista dell’Ordine, la Leggenda perugina – secondo alcuni studiosi redatta da Leone, Angelo e Rufino – e lo Speculum perfectionis, che insistono nel ricordare la predilezione di Francesco per Greccio: lí i frati si erano mantenuti virtuosi e poveri; gli abitanti erano ugualmente poveri, semplici, devoti: moltissimi di loro si erano fatti frati. Greccio dunque evocava nella memoria francescana una costellazione di associazioni mentali da una parte troppo note, dall’altra troppo disturbanti rispetto all’indirizzo che la maggioranza dell’Ordine, ancora vivente Francesco, aveva imboccato, avvolgendo di opacità cinerina le infuocate e limpide parole del santo. Greccio era il luogo che pubblicamente Francesco dichiarava di prediligere, perché vi vedeva attuata la sua scomoda proposta di vita evangelica, di assoluta povertà, nei compagni e negli abitanti; a Greccio aveva ideato la strana celebrazione del Natale dove ancora una volta egli aveva voluto sottolineare la totale indigenza del Bambino divino: l’innovazione liturgica, come ci dimostra Salimbene, che non può nominare Greccio senza collegarlo al Natale di Francesco, colpí profondamente i contemporanei e, in particolare, i frati dell’Ordine. Si comprende allora perché il traguardo da raggiungere rapidamente fosse la rappresentazione di una nuova memoria di quella notte, che rifondasse la volontà di Francesco; occorreva cancellare il messaggio della predica, vivaio di ingombranti perplessità, per approdare al sicuro porto della sacra rappresentazione o della dotta esegesi teologica. Ed ecco come Bonaventura nella Legenda maior rimodella il racconto di Tommaso da Celano.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Sulle due pagine Il Natale di Greccio in due miniature da altrettante edizioni della Legenda maior di san Bonaventura. La prima (a destra), attribuita a un miniatore lombardo, è contenuta in un manoscritto della Provincia franciscana de la Immaculada de España di Madrid, databile fra il 1330 e il 1350; la seconda, assegnata a un miniatore bresciano, appartiene a un codice dell’Istituto Storico dei Cappuccini di Roma, datato 1457.

Ascoltiamolo: «Tre anni prima della sua morte, [Francesco] decise di celebrare vicino al paese di Greccio il ricordo della Natività del bambino Gesú, con la maggior solennità possibile, per rinfocolarne la devozione. Ma, perché ciò non venisse ascritto a desiderio di novità, chiese e ottenne prima il permesso del sommo Pontefice. Fece preparare una stalla, vi fece portare del fieno e fece condurre sul luogo un bove e un asino. Si adunano i frati, accorre la popolazione, il bosco risuona di voci e quella venerabile notte diventa splendente di innumerevoli luci, solenne e sonora di laudi armoniose. L’uomo di Dio stava davanti alla mangiatoia, ricolmo di pietà, cosparso di lacrime, traboccante di gioia. Il santo sacrificio viene celebrato sopra la mangiatoia e Francesco, levita di Cristo, canta il santo Vangelo. Predica al popolo e parla della nascita del re povero e, nel nominarlo, lo chiama, per tenerezza d’amore, il “bimbo di Bethlehem”. Un cavaliere, virtuoso e sincero, che aveva lasciato la milizia del secolo e si era legato di grande familiarità all’uomo di Dio, messer Giovanni di Greccio, affermò di aver veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo fanciullino addormentato, che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia sembrava destare dal sonno. Questa visione del devoto cavaliere è resa credibile dalla santità del testimone, ma viene comprovata anche dalla verità che essa indica e confermata dai miracoli da cui fu accompagnata. Infatti l’esempio di Francesco, ripro-

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posto al mondo, ha ottenuto l’effetto di ridestare la fede di Cristo nei cuori intorpiditi; e il fieno della mangiatoia, conservato dalla gente, aveva il potere di risanare le bestie ammalate e di scacciare varie altre malattie. Cosí Dio glorifica in tutto il suo servo e mostra l’efficacia della santa orazione con l’eloquenza probante dei miracoli».

Anacronismo voluto

Bonaventura ricalca sostanzialmente il racconto di Tommaso da Celano, ma opera alcuni sottili cambiamenti e aggiunge alcuni cruciali dettagli. Si premura, innanzitutto, di sottolineare che Francesco aveva chiesto il permesso al papa per fare celebrare la messa all’aperto a Greccio (con il bue e l’asinello), commettendo un voluto anacronismo, inteso a proteggere il fondatore dell’Ordine da ogni possibile accusa di eresia. Poiché c’è l’assenso della Santa Sede, diventa inutile il lungo dialogo fra Francesco e l’amico devoto Giovanni, che viene omesso. Era infatti troppo evidente nella prima versione di Tommaso da Celano

quanto il santo non si curasse della gerarchia ecclesiastica, impartendo autonomamente minuziosi ordini a un laico. Non si parla piú del pubblico commosso, né del sacerdote che per la prima volta assaporava «una consolazione mai gustata prima»: se da una parte questa osservazione suonava a lode a Francesco per il potere trascinante della sua parola, dall’altra gettava un’ombra di discredito sul sacerdote, chiuso al messaggio evangelico. L’esito dell’infuocata predica si conclude con la visione di un laico, l’amico devoto Giovanni, a cui Bonaventura, rispetto a Tommaso da Celano, attribuisce uno statuto di maggiore attendibilità: viene infatti definito cavaliere e uomo socialmente importante, che, per amore di Francesco, aveva abbandonato le armi. A Giovanni parve vedere nella mangiatoia «un bellissimo fanciullino addormentato, che il beato Francesco, stringendo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno». Bonaventura attenua subito la carica eversiva delle parole di Celano, che senza reticenze dicembre

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aveva scritto: «esanime e come morto». Sottolinea poi che si trattava di un bambino bellissimo. Questa visione, nota ancora Bonaventura, il quale mira a fare dimenticare la violenta emozione suscitata fra gli astanti dalla predica di Francesco, «è resa credibile dalla santità di colui che ebbe la visione ma viene comprovata anche dalla verità che essa indica e confermata dai miracoli che seguirono». Dunque la visione non appartiene piú a un devoto ascoltatore – sarà da notare la sparizione del pubblico – suscitata dalla predica coinvolgente di Francesco, di cui non è fatto cenno, ma a un amico che non viene affatto descritto come particolarmente commosso dalle parole di Francesco. Bisogna allora portare altre prove per giustificare la visione: la santità del testimone e i miracoli che seguono. Tommaso da Celano aveva detto che il fieno della notte di Natale guariva anche gli esseri umani, uomini e donne, ma Bonaventura preferisce far dimenticare in ogni modo il pericoloso uditorio e parlare genericamente di miracoli.

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Inoltre, i cuori intorpiditi non si inteneriscono per le parole del santo a Greccio, ma per «l’esempio di Francesco, riproposto al mondo» che agisce nel tempo. Infine Bonaventura loda «l’efficacia della santa orazione» del santo, che ha tuttavia bisogno di essere sostenuta dall’efficacia di susseguenti miracoli, non l’eloquenza con cui Francesco diffonde il messaggio di Cristo: non a caso, l’episodio di Greccio è compreso nel capitolo decimo della Legenda maior, «Amore per la virtú dell’orazione».

Modifiche significative

Chi programmò gli affreschi di Assisi sulla base del racconto di Bonaventura, ha operato ancora dei cambiamenti importanti. Non siamo su di una montagna, quasi che anche i poveri pastori e contadini di Greccio rievocassero l’evento evangelico in una partecipazione corale. È stata cancellata l’idea di Francesco che intendeva rappresentare la povertà di Cristo. Ci troviamo invece in una città e all’interno di una chiesa ricchissima; una chiesa dell’Ordine, do-

ve i frati, che certo abitano in uno stabile e vicino convento, vengono a cantare a ore fisse le ore canoniche. Per questo la chiesa è divisa da un tramezzo affinché i laici non disturbino: soprattutto le donne, le eterne tentatrici è bene stiano lontane, e infatti le vediamo arrestarsi sulla soglia della parete divisoria. Tutto è rientrato nella tradizione, compresa la distanza che la Chiesa ha sempre segnato dal gregge dei fedeli, che devono soltanto lasciarsi guidare, pieni di timoroso rispetto. I gradini dell’altare sono decorati da marmi cosmateschi e ricoperti da un tappeto. Sulla mensa è stata stesa una bella tovaglia ricamata, il sacerdote e i diaconi – compreso Francesco – sono rivestiti di sontuosi paramenti liturgici; i laici si difendono dal freddo con costose pellicce – quelli in primo piano sembrano essere magistrati – sotto un pulpito finemente scolpito, con fregi e marmi preziosi che decorano il tramezzo. Al centro sta inginocchiato Francesco mentre depone nella culla il Bambino, prima che inizi

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la messa; è seminascosto alla vista degli astanti da un monumentale badalone (leggio, n.d.r.) illuminato da una cornice di candele accese, punto di riferimento dei frati che cantano con voce convinta e piena, descritti con grande realismo con le bocche spalancate, la fronte corrugata per lo sforzo; fra di loro ha preso posto un laico che compuntamente guarda Francesco. Il bue e l’asinello, piccolissimi, si propongono già come figure di terracotta. L’affresco è celebre per l’insolito punto di vista – la chiesa è descritta dall’abside – e per gli scorci, in particolare quelli del pulpito e della croce issata sull’iconostasi e vista da dietro. Il sacerdote all’altare è rivestito con la casula amphibolum; dietro di lui si intravede un frate in tunicella, quindi officiante da suddiacono. Il Vangelo cantato sarà quello della Missa in nocte (Lc 2, 1-14). Ma il sacerdote, come si è detto, non sta ancora celebrando; il canto dei frati, la messa non ancora iniziata, ci dicono che dobbiamo immaginare di ascoltare non il testo del

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Vangelo, bensí il Gloria, che si canta per l’appunto prima dell’inizio della messa a Natale, quando si porta il Bambino. Questo spiega perché i laici occupino ancora il presbiterio e perché il prete non abbia ancora cominciato a celebrare e l’altare appaia spoglio.

Il pulpito scomparso

A Greccio, nell’affresco dovuto a un ignoto pittore umbro tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo che commemora il famoso episodio secondo il modello di Assisi (vedi foto alle pp. 72/73), si legge sul messale che il sacerdote tiene aperto sulla mensa, in un incerto latino: «In ecelsis Deo et in tera pax ominibus». Rispetto ad Assisi, è stato cancellato addirittura il pulpito. Il gesto del santo è puramente devozionale: commemora la nascita a Betlemme che l’affresco stesso mostra nella metà di destra, dove vediamo la Vergine allattare il figlio divino accanto a Giuseppe, al bue e all’asinello. In due miniature fra loro molto simili, l’una copia dell’altra (la

Sulle due pagine particolari del Presepe di Greccio, nel ciclo delle Storie francescane. 1290-1295 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. In alto, il coro dei frati, che dobbiamo immaginare intenti a cantare il Gloria, prima dell’inizio della messa di Natale; a destra, i laici che assistono alla rappresentazione, che sembrano poter essere identificati con un gruppo di magistrati.

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prima di un miniatore lombardo del XIV secolo, la seconda di un miniatore bresciano del 1457; vedi foto alle pp. 76-77), non solo non si vede il pulpito ma addirittura il sacerdote e i due frati che lo aiutano hanno abbandonato l’altare su cui sono posate l’ostia e il calice per collocarsi nello spazio del coro-tramezzo. Qui Francesco, in abiti diaconali, tiene fra le braccia il Bambino sotto gli occhi dell’amico Giovanni in sontuosissima pelliccia (nella miniatura piú antica di vaio, in quella piú recente di ermellino), di alcuni laici (solo uomini), e del bue e dell’asino accucciati vicino alla mangiatoia.

Un bimbo «bellissimo»

Ad Assisi la scritta sottostante l’affresco, oggi totalmente cancellata, spiegava: «Come il beato Francesco in memoria del Natale di Cristo fece preparare un presepe, portarvi del fieno, un bue e un asinello; quindi predicò della nascita del Re povero e mentre il sant’uomo parlava, un certo cavaliere vide proprio il Bambin Gesú in luogo di quello che il santo aveva portato». Il suggerimento visivo cui Bonaventura aveva discretamente accennato («un bellissimo fanciullino addormentato») viene ripreso e ampliato. È suggerita la presenza di un vero bambino, neonato o statuetta che fosse, bambino che finalmente si aggiunge all’asino e al bue completando la scena evangelica in precedenza solo evocata dai simbolici animali. I fedeli dell’affresco non ascoltano Francesco, la sua voce sonora, dolcissima, trascinante. Ricordiamo che ci troviamo nella chiesa in cui è sepolto il fondatore! Il pulpito è vistosamente vuoto. Ascoltano invece il coro spiegato dei frati. La visione del cavaliere – che non ha piú bisogno di essere particolarmente pio – è davvero modesta: vede nel bambino, fisicamente presente fra il bue e l’asino, il Bambin Gesú. Il carisma di Francesco è stato

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Dossier Un altro particolare del Presepe di Greccio, nel ciclo delle Storie francescane, raffigurante il Bambino che Francesco sta deponendo nella culla. 1290-1295 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore.

cancellato: ricordiamo che l’episodio di Greccio nella prima descrizione di Tommaso da Celano era incentrato esclusivamente sull’effetto della parola del santo. La visione traduceva l’esito della predica: Cristo quasi morto per i fedeli e per il clero, incapaci di ascoltare parole di amore e di pace, era ridestato da Francesco nei loro cuori. Dalla solitudine disadorna di una montagna d’inverno, da una scena all’aperto si è passati all’interno di una chie-

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sa opulenta che ospita un pubblico, certo non di povera gente approssimativamente vestita. Che cosa resta della predica di Natale voluta da Francesco? Il suo silenzio.

Da leggere Chiara Frugoni, Un presepio con molte sorprese. San Francesco e il Natale di Greccio, Mauvais Livres, Roma 2020 https://mauvaislivres.com dicembre

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ICONOGRAFIA NELLA VALLE SANTA di Ileana Tozzi

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enché la memoria del miracolo del Natale 1223 sia attestata dalle fonti francescane locali e divulgata attraverso gli affreschi di Greccio e di Rieti, la rappresentazione del presepe tarda ad affermarsi nella tradizione iconografica che, sia nelle chiese parrocchiali urbane, sia nelle pievi rurali del territorio diocesano, privilegia fino al tramonto l’immagine della Virgo lactans o della Madonna in maestà, spesso con esiti di grande pregio artistico. Si deve attendere la prima età moderna per assistere, anche nel territorio diocesano reatino, alla graduale elaborazione di un modello iconografico destinato ad affermarsi con straordinario successo nel XVII secolo.

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Al tramonto del Quattrocento, le pagine della Legenda volgare che narrano la vocazione alla vita religiosa di Colomba da Rieti (14671501), la Terziaria Domenicana che uní all’esperienza mistica il delicato ruolo di moralizzatrice al seguito dei Baglioni, gli orgogliosi signori di Perugia, riportano la notizia del suo desiderio di realizzare un piccolo presepio nella propria casa natale con l’aiuto del suo confessore. Dopo avere assicurato il proprio aiuto, il confessore deluse le aspettative della giovane, ricompensata dalla visione mistica della Natività. Una lunetta del chiostro del complesso conventuale di S. Domenico, affrescato nella terza decade del XVII secolo dai piú noti

Il Bambino Gesú, scaldato dall’asino e dal bue, è adorato dalla Vergine Maria e da san Giuseppe sotto lo sguardo di tre angeli in gloria mentre lo Spirito Santo si libra nel cielo, particolare del presepe in terracotta dipinta e indorata della bottega dei maestri Giacomo e Raffaele da Montereale. 1501. Leonessa (Rieti), basilica di S. Francesco.

artisti attivi a Rieti, racconta per imagines l’episodio. Il calvario in stoppa e materiali diversi conservato presso il monastero delle Colombe a Perugia conferma l’eccellente manualità della religiosa, che per anni aveva preso parte attiva alla produzione di filati e pannilana che assicurava benessere alla famiglia di Angelo Antonio, apprezza-

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Dossier to artigiano e mercante titolare di casa e bottega nel sestiere reatino di porta Cintia de suptus, dove, dalla seconda metà del Duecento, avevano sede i Padri Predicatori. Al tempo, presso la basilica domenicana, era intitolato alla Natività di Gesú il secondo altare a cornu Epistulæ, giuspatronato della famiglia Petrozzi. La cattedrale romanica intitolata a santa Maria Madre di Dio, ricostruita e fundamentis sui resti di un tempio pagano tra il 1109 e il 1225, nel suo assetto quattrocentesco non aveva ancora completato l’allineamento delle cappelle lungo le navate laterali, ma addossava ai pilastri gli altari dedicati a Giovanni Battista, Michele Arcangelo, agli apostoli Andrea, Giacomo e Filippo, Simone e Giuda, a Matteo, Biagio, Cristoforo, Antonio Abate, Lucia, Girolamo, all’Immacolata Concezione e alla Natività. Dopo l’istituzione della Vene-

A destra, sulle due pagine Miracolo del presepe di Greccio, affresco di artista anonimo legato alla tradizione romana, dalla chiesa di S. Francesco a Rieti. Inizi del XIV sec. Rieti, Museo Diocesano.

A sinistra veduta d’insieme del presepe in terracotta dipinta e indorata della bottega dei maestri Giacomo e Raffaele da Montereale. 1501. Leonessa, basilica di S. Francesco.

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rabile Compagnia delle SS. Stimmate di San Francesco, eretta dal vescovo frate Gaspare Pasquali all’alba del XVII secolo, affinché si provvedesse all’assistenza spirituale degli agonizzanti e a una degna sepoltura in cattedrale, nel 1627 il pittore Gioacchino Colantoni fu incaricato di affrescare le pareti della basilica inferiore con le Storie di San Francesco. Quando il ricco possidente antrodocano Alessandro Blasetti e i suoi i fratelli si trasferirono a Rieti chiesero e ottennero dal Capitolo di poter dotare nella basilica inferiore un altare intitolato alla Natività. Gli Atti di Sacra Visita del vescovo Ferretti, il 2 novembre 1828, ne richiedono il restauro. Tanto gli affreschi,

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quanto gli altari, furono distrutti nel primo quarto del Novecento, quando Angelo Sacchetti Sassetti e Francesco Palmegiani si alternarono nel ruolo di Ispettori onorari ai monumenti, condividendo l’idea di riportare il complesso della cattedrale e del palazzo papale allo stile romanico delle origini.

Una versione realistica

Presso la basilica annessa al convento di S. Francesco, oltre alla realistica raffigurazione del Presepe di Greccio inclusa nel ciclo delle Storie del coro (vedi anche «Medioevo» n. 276, gennaio 2020; on line su issuu.com), quando la cappella della Natività fu affidata in giuspatronato dalla famiglia Cerroni,

venne dotata di un’Adorazione dei pastori, tempera su tavola attribuita da Luisa Mortari a Marcantonio di Antoniazzo Aquili oggi conservata presso il Museo Civico, e di un presepio in terracotta commissionato ai maestri Giacomo e Raffaele da Montereale, attivi tra gli Abruzzi, l’Umbria e la Sabina. Il presepio fittile della chiesa reatina di S. Francesco andò presto perduto, deteriorato forse a causa dell’umidità che infestava la cappella. Possiamo però intuirne il pregio comparandolo con le figure dei presepi di Leonessa (1501), di Casperia e di Calvi dell’Umbria (1541-1546), anch’essi eseguiti dai maestri della bottega di Giacomo e Raffaele da Monterale.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Altri particolari del presepe in terracotta di Giacomo e Raffaele da Montereale. 1501. Leonessa, basilica di S. Francesco. In alto, il corteo dei Magi; in basso, l’adorazione dei pastori.

Il piú antico presepio, a tutt’oggi conservato nella sede originaria presso la chiesa di S. Francesco a Leonessa, è opera di Paolo da Montereale, detto Paolo Aquilano, capostipite della bottega di figulini che seppe fare del presepio il proprio capolavoro, apprezzato e richiesto dalla committenza laica ed ecclesiastica. All’interno di una ordinata cornice curvilinea a sesto ribassato, disposto su tre distinti ripiani finemente modellati allo scopo di offrire spazialità e prospettiva alla rappresentazione, il presepe consta di una quarantina di figure in terracotta policroma, realistiche nei tratti e vivaci nelle posture, disposte intorno al Bambino Gesú e alla famiglia terrena, la madre Maria, il padre putativo Giuseppe inginocchiati al suo cospetto, il bue e l’asino accostati per scaldare con il loro fiato il neonato. Un pastore con la sua zampogna a due flauti, tre viandanti, una donna con una coppia di piccioni in una cesta intenta a indicare alla figlia il Divino Bambino

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Il ricco corteo dei Magi evoca i fasti di un Oriente affascinante e al tempo stesso misterioso

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto Rieti. La chiesa di S. Francesco. A sinistra l’Arco di Bonifacio, che si appoggia al palazzo vescovile di Rieti e scavalca con una doppia volta a crociera la centralissima via Cintia.

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sono i personaggi che si approssimano alla scena del primo ripiano, dominata da tre angeli oranti. Sul secondo ripiano, impaginato dalle figure di due pastori che, stanchi, si abbandonano al sonno in compagnia del fedele cane, alcuni cavalieri apprendono da due giullari la notizia della natività. Le dimensioni delle statuine si rimpiccioliscono via via, per accentuare il senso prospettico dell’insieme. Sul terzo e piú alto ripiano, infine, compaiono i Magi con il loro ricco corteo che evoca

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i fasti di un Oriente affascinante e misterioso a un tempo.

L’angelo in contemplazione

Sei angeli di paradiso completano la scena: nel registro inferiore, uno di loro s’inginocchia a contemplare compunto la natività, sul registro superiore i due disposti agli estremi sembrano esortare gli astanti alla preghiera, i tre al centro suonano i loro strumenti – la viola, il liuto, l’arpa – rendendo ancor piú solenne l’atmosfera della composizione.

Avvicinandosi la metà del secolo, i fratelli Giacomo e Raffaele da Montereale replicarono la composizione di un presepe per l’oratorio di S. Antonio Abate, sede dell’omonima confraternita, ricevendo dal priore Florio di Giovanni e dal camerlengo Jacobello la somma di 16 ducati e mezzo in carlini, stando agli atti del notaio Domenico Maggi. Questa volta, la trentina di statuine in terracotta dipinta furono distribuite su due soli registri, mantenendo però sapientemente l’effetto prospettico della scena,

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conservato anche nella ricollocazione settecentesca resa necessaria dal rifacimento della chiesa. Per la chiesa di S. Maria in Legarano presso Casperia, annessa a un monastero dei seguaci di san Colombano, i due fratelli monteregalesi abbandonarono il modello già sperimentato per proporre la realizzazione di statue di notevoli dimensioni. Dell’originale cinquecentesco resta soltanto la coppia di Maria e di Giuseppe, recentemente restaurati per conto

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della Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti, dopo i guasti dei terremoti del 2016-2017.

Solo una labile traccia

Dal secondo quarto del Cinquecento, dominarono la scena artistica nel territorio reatino e sabino i fratelli Lorenzo e Bartolomeo Torresani, trasferitisi in gioventú da Verona e stabilitisi a Narni. Per la confraternita reatina di S. Maria del Pianto, eretta nel 1519 ai mar-

gini del popoloso rione delle Valli, nel 1525 Lorenzo Torresani, il piú anziano dei due fratelli, affrescò la scena della Natività sulla parete a cornu Evangelii documentata negli Atti di Sacra Visita del vescovo francescano frate Gaspare Pasquali dell’anno 1605. L’affresco reatino lasciò solo una labile traccia nei documenti d’archivio, ma possiamo immaginare che avesse qualche affinità con gli affreschi di alcune chiese a Santa Maria in Petrella, a Paterno e a Cittaducale. dicembre

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A sinistra Presepe di Greccio, dipinto su tela di Piero Casentini. 2004. Limiti di Greccio (Rieti), S. Maria di Loreto.

In alto e a sinistra codici contenenti edizioni manoscritte di varie Legendae. Rieti, Museo Diocesano.

A Petrella di Cicoli, oggi Petrella Salto, alle porte del Vicariato di Regno, la chiesa di S. Maria era enumerata cum cappellis suis già nel 1182 nella bolla di papa Lucio III. Nel 1391, secondo il testo di un’epigrafe lapidea a caratteri gotici, fu ricostruita a spese del notaio Giovanni de Luttis ad laudem Virginis Mariæ. L’abside, che conclude l’aula divisa in due navate mediante una serie di pilastri irregolari a sostegno delle volte, conserva i dipinti murari cinquecenteschi della

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Natività e dell’Adorazione dei Magi, stilisticamente ascrivibili alla bottega dei Torresani. Forti analogie sono evidenti anche nell’Adorazione dei Pastori della nicchia sovrastante l’altare che sigilla la navata destra della chiesa di S. Giovanni Battista a Paterno, frazione di Castel Sant’Angelo. In anni recenti, le pareti dell’oratorio della confraternita di S. Maria dei Raccomandati a Cittaducale hanno rivelato la presenza di un Presepe sotto una piccola parete eretta al tempo del riassetto tardo-barocco. Il primo Francescano in concetto di santità raffigurato tra i personaggi di una Natività è il frate dell’Osservanza Tommaso Bellaci, in cammino dal convento abruzzese di Montepiano alla volta di Roma, per ottenere dal papa l’autorizzazione a intraprendere l’ultima missione in Oriente. Morí a Rieti il 31 ottobre 1447 e fu sepolto presso la basilica di S. Francesco. Crescendo la sua fama di santità, il 30 maggio 1687 le sue spoglie furono

solennemente traslate dal presbiterio alla cappella a cornu Evangelii del transetto, di cui era titolare la famiglia Savarelli. L’immagine del beato Tommaso compare alle spalle di san Giuseppe nella tela dedicata all’Adorazione dei Magi eseguita in quel torno d’anni dal pittore sabino Girolamo Troppa. Per ammirare l’immagine di san Francesco che, in estasi, contempla il Bambino Gesú che prende vita tra le sue braccia, bisognerà attendere l’alba del terzo millennio, quando Piero Casentini realizza la grande tela del Presepe di Greccio per la chiesa parrocchiale di S. Maria di Loreto a Limiti di Greccio. L’ispirazione dell’artista contemporaneo ricapitola sapientemente i caratteri formali dell’arte sacra, vitalizza l’immagine evocativa di un Medioevo che nutre l’immaginario collettivo, ma il lampo di genio, lo spunto di assoluta originalità si rivela nel gioco di sguardi tra il santo e il Bambino, capace di evocare e rinnovare il puer senex della tradizione cristiana.

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medioevo nascosto lombardia


Il

romanico è nato qui di Elena Percivaldi

Un minuscolo edificio di culto, composto da una sola navata chiusa da un’absidiola, sembra essere il «modello in scala» delle grandi cattedrali sorte in Italia e in Europa a partire dall’anno Mille. Per verificare questa intrigante ipotesi vi invitiamo a raggiungere le rive di un piccolo lago alle pendici delle Alpi… Salvo diversa indicazione, tutte le foto che corredano l’articolo documentano l’architettura e l’apparato pittorico del tempietto (o oratorio) di S. Fedelino a Samòlaco (Sondrio). Uno scorcio del tempietto con il lago di Mezzola sullo sfondo.


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isalendo il lago di Como fino alla sua estrema propaggine settentrionale si giunge al minuscolo lago di Mezzola, sulla cui sponda occidentale, proprio all’imbocco della Valchiavenna, in provincia di Sondrio, si trova un oratorio di dimensioni modeste, ma di enorme importanza per la storia dell’arte medievale. Intitolato a san Fedele, il tempietto o oratorio – detto di «san Fedelino» proprio per la sua piccolezza –, sarebbe addirittura l’edificio romanico piú antico della Lombardia, la sorgente sia architettonica che simbolica del nuovo stile che si sviluppò e diffuse in Lombardia e in Europa a partire dal Mille. Per raggiungerlo, si deve percorrere l’impegnativo sentiero che parte da Casenda, frazione di Samòlaco, oppure vi si può arrivare comodamente in barca dalla vicina Novate Mezzola. Quest’area oggi isolata, al confine tra la provincia comasca e quella di Sondrio, era anticamente molto trafficata in quanto vi passava la via Regina – il cui tracciato oggi scorre sulla riva orientale – che collegava Como alle Alpi e alla Rezia. Proprio qui, nel III secolo, si sarebbe consumato il martirio di Fedele, che, secondo la tradizione piú diffusa, era uno dei soldati della Legione Tebea perseguitati da Diocleziano e Massimiano per aver aderito al cristianesimo. La storia della Legione Tebea ci è stata tramandata dalla Passio Acaunensium martyrum, scritta verso il 450 da Eucherio, vescovo di Lione, e a sua volta debitrice di leggende precedenti. La Legione Tebea, o piú correttamente Legio Prima Maximiana, era un contingente di soldati di fanteria pesante fondato alla fine del III secolo da Diocleziano (il nome Maximiana faceva riferimento al suo collega tetrarchico, Massimiano) e inviato di stanza, insieme alla Legio Secunda Flavia Constantia, nella neonata provincia della Tebaide, nell’Egitto meridionale. Secondo Eucherio, intorno al 286 il contingente tebeo, costituito da 6600 uomini al comando di Maurizio e tutti di religione cristiana, venne inviato ad Agaunum, località della Gallia situata lungo il Rodano (l’odierna Saint-Maurice, nel Vallese, in Svizzera) nei pressi dell’abitato di Octodurus (attuale Martigny), sul versante settentrionale del Gran San Bernardo. La legione aveva il compito di coadiuvare Massimiano nella difesa contro le incursioni dei Quadi e dei Marcomanni, ma anche di domare la rivolta delle popolazioni locali – tra le quali la tribú celtica dei Bagaudi – che si dimostravano insofferenti al dominio romano. Vuole la leggenda che, quando Maurizio e i suoi scoprirono che gran parte dei ribelli si erano convertiti al cristianesimo, si rifiutarono di infierire su di loro. Altre versioni dell’agiografia sostengono che i soldati non vollero sacrificare agli dèi pagani, né adorare l’immagine dell’imperatore. In ogni caso, Massimiliano ordinò nei confronti dei Tebei una punizione esemplare: la flagellazione, seguita dapprima dalla decimazione

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Gordona

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Andalo Valtellino

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e poi, dato che perseveravano nell’ammutinamento, dall’annientamento dell’intero contingente. Perirono cosí i comandanti – oltre a Maurizio, anche Esuperio e Candido –, il veterano Vittore e, tra gli innumerevoli altri, Orso e Vittore. Alcuni soldati piú fortunati – tra cui Alessandro, Matteo e Gusmeo – riuscirono a sfuggire momentaneamente all’eccidio e a disperdersi al di qua delle Alpi per rifugiarsi tra Lombardia e Piemonte; furono in ogni caso raggiunti e giustiziati dalle milizie inviate dall’imperatore, oppure caddero per mano delle popolazioni locali pagane, dando origine a un culto vastissimo (la ricorrenza dei martiri della Legione Tebea è celebrata collettivamente il 22 settembre) e tutt’oggi molto presente a livello locale e non solo.

Incongruenze sospette

L’agiografia fin qui narrata presenta evidenti anacronismi: la decimazione, per esempio, era una pratica ormai desueta nel III secolo e l’arruolamento massivo di soldati cristiani era quasi impossibile prima dell’editto di Milano e dell’avvento di Costantino. Ciò ha spinto a ritenere che la Passio di Eucherio sia in larga parte frutto d’invenzione, tanto piú che la stessa vicendicembre

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Veduta esterna dell’abside del tempietto.

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In alto particolare dei piedi degli apostoli nell’affresco del catino absidale che li raffigura. XI sec. Nella pagina accanto ancora una veduta esterna del tempietto.

da del ritrovamento delle reliquie dei martiri avvenne in circostanze poco chiare. L’artefice del rinvenimento, secondo Eucherio, fu quel Teodoro (o Teodulo) che la tradizione riconosce come primo vescovo di Octodurus sul finire del IV secolo. Appare però molto difficile (per non dire impossibile) stabilire se i resti che il vescovo sostenne di aver individuato fossero autentici oppure no: secondo alcuni studiosi moderni, il prelato si sarebbe in realtà imbattuto in un antico cimitero oppure, addirittura, nella fossa comune che aveva accolto, nel lontano inverno fra il 57 e il 56 a.C., i caduti dello scontro tra i Galli Seduni e Veragri e i Romani di Servio Galba, il quale aveva cercato di aprire per conto di Cesare il passaggio alle legioni attraverso il passo alpino. Di certo Teodoro doveva avere in mente l’azione di Ambrogio, che conosceva almeno dal concilio di Aquileia (381), durante il quale il vescovo di Milano, impegnato nella lotta contro l’arianesimo, aveva ricoperto un ruolo di primo piano. In quegli stessi anni, infatti, grazie a una visione, Ambrogio aveva ritrovato (narrando l’evento con dovizia di particolari) i cor-

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Particolare dell’affresco della Maiestas Domini con una delle figure angeliche che affiancano il Cristo. XI sec. dicembre

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pi dei martiri Gervaso e Protaso; per accoglierli aveva inoltre fatto erigere la Basilica Martyrum, una delle quattro che nel suo programma simbolico e pastorale avrebbero dovuto manifestare la piena adesione della città al cristianesimo. Allo stesso modo, lo zelante Teodoro fece costruire immediatamente un sacello sul luogo in cui aveva rinvenuto le reliquie, che si trovava nei pressi di un’antica sorgente sacra poi – forse – sede di un tempio romano dedicato alle ninfe o a Mercurio: l’intenzione, evidente, era quella di esaugurare culti precedenti legati alla fertilità e spingere le genti ancora pagane alla conversione. Un’operazione che, alla lunga, portò i suoi frutti, perché, poco piú di un secolo piú tardi, nel 515, sul primitivo e spartano oratorio sorse, per volere di re Sigismondo – il primo sovrano cattolico di origine burgunda –, l’abbazia di Saint-Maurice-en-Valais, ancora oggi la piú antica d’Europa per continuità di insediamento.

In fuga sul Lario

Tra i soldati «ribelli» della Legione Tebea c’era, secondo parte della tradizione agiografica, anche Fedele, il quale, rifugiatosi sul Lario, sarebbe stato qui raggiunto dai sicari imperiali e decapitato. Un’altra tradizione sostiene che Fedele si prodigò per salvare altri soldati

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tebei, tra cui Alessandro, favorendone la fuga a Bergamo, dove sarebbe infine stato martirizzato. Altre ancora indicano in Fedele un alto funzionario o un soldato convertito al cristianesimo da Materno, futuro vescovo di Milano dal 316 al 328, e da quest’ultimo inviato a evangelizzare il municipium di Como e le valli circostanti, allora in gran parte pagane. Tutte le leggende, comunque, concordano sul fatto che Fedele terminò i suoi giorni da martire, probabilmente nell’anno 298, durante la persecuzione di Diocleziano e Massimiano. Il suo corpo venne seppellito sul luogo della sua uccisione, avvenuta nei pressi del laghetto di Mezzola. E nel V secolo, vicino al piccolo sacello eretto per onorarne la memoria, si stabilí per pregare e vivere in contemplazione – a dircelo è il suo agiografo, il vescovo Ennodio di Pavia – l’eremita Antonio prima di ritirarsi nel monastero provenzale di Lérins. Lasciato a se stesso, del primitivo «sepulchrum beati martiris Fidelis» si persero ben presto le tracce, finché, nel 964, non venne miracolosamente ritrovato grazie a una donna, la quale, guidata da una provvidenziale visione, indicò all’allora vescovo di Como Valdone (o Ubaldo, 945-967), al tempo impegnato nel tentativo di guadagnare visibilità alla propria diocesi, dove scavare esattamente per trovare le reliquie del santo.

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medioevo nascosto lombardia Il volto di uno degli apostoli ritratti nell’affresco del catino absidale. XI sec.

I martiri della Legione Tebea

Un culto radicato e millenario

Seguí la solenne traslazione nel capoluogo lariano e la collocazione nella basilica di S. Eufemia, l’antichissima cattedrale comasca, per l’occasione reintitolata a san Fedele. Quest’ultimo edificio fu abbattuto nell’XI secolo per far posto all’attuale costruzione, in forma romanica ampiamente rimaneggiata, mentre il titolo di cattedrale fu trasferito a S. Maria Maggiore, che in seguito assurse al ruolo di Duomo cittadino.

Una testimonianza preziosa

Tornando al martire Fedele, il punto esatto del ritrovamento delle reliquie era con grande probabilità pertinente a un’antica area sacra collegata alla vicina zona di estrazione del granito, sede di precedenti culti ancestrali. Poco dopo la traslazione, dunque a ridosso del Mille o poco oltre, il luogo fu nobilitato con la costruzione dell’oratorio di S. Fedelino nelle forme tutt’oggi visibili. La chiesetta è di una suggestione unica perché si è mantenuta pressoché intatta nel corso dei secoli, sopravvivendo allo sciagurato utilizzo in tempi moderni, da parte degli scalpellini che operavano nella vicina cava di granito, come fortino, ricovero per animali, deposito e persino cucina. Grazie alla posizione defilata, l’oratorio non ha tuttavia subito alcuna trasformazione strutturale, né rifacimento «in grande stile» e pertanto si rivela una fonte rarissima ed estremamente preziosa per studiare, sul piano architettonico, gli esordi del romanico lombardo, che vedeva la luce proprio negli anni intorno al Mille. La minuscola chiesa – misura appena 3 metri e mezzo per lato – presenta due ingressi, uno sul lato

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Il culto di Fedele e dei martiri della Legione Tebea è piuttosto diffuso in Lombardia e nell’area lariana. Oltre al tempietto di S. Fedelino a Samòlaco e alla basilica di S. Fedele a Como, il territorio conserva varie chiese e oratori dedicati ai soldati martiri, spia di un culto radicatissimo e ormai piú che millenario. Una delle piú note è la basilica dedicata ai Ss. Gusmeo e Matteo di Gravedona e Uniti (Como), situata in posizione elevata rispetto all’abitato: in origine era romanica, ma venne riorientata e rimaneggiata nel Cinquecento. L’edificio, che oggi si presenta a navata unica chiusa da un’abside a pianta quadrata e completata da cappelle laterali, sorse, secondo la tradizione, sul luogo di martirio e di sepoltura dei soldati tebei Gusmeo e Matteo, sfuggiti all’eccidio ordinato da Massimiano e rifugiatisi sul Lario, ma poi catturati, decapitati e seppelliti proprio a Gravedona. Del loro sepolcro si perse memoria, finché i corpi non tornarono miracolosamente alla luce l’11 settembre 1248 nella frazione di Pozzano: traslati inizialmente nella chiesa che lí sorgeva, dedicata a san Fedele, vennero infine portati nel nuovo edificio, costruito per l’occasione sulle fondamenta del precedente. La nuova basilica venne dunque intitolata ai santi Gusmeo e Matteo, che divennero anche patroni di Gravedona, e fu consacrata nel 1250 dal vescovo Uberto. Le reliquie dei due martiri, un tempo conservate al centro della chiesa, furono traslate un’ultima volta per volere del vescovo Feliciano Ninguarda in un’arca, posizionata nel 1637 nell’altare maggiore. Dell’edificio romanico originario restano oggi visibili solo le murature esterne del fianco meridionale, scandite da lesene e archetti, e la parte absidale con ancora le monofore in cotto, gli archetti, i pinnacoli e la cornice con dentelli, ma l’insieme, circondato dai platani, è ugualmente molto suggestivo. Nella pagina accanto la chiesa dei Ss. Gusmeo e Matteo a Gravedona e Uniti (Como).

nord e l’altro sul lato sud. Costruita in pietra locale direttamente sulla roccia a ridosso del letto del fiume Mera e ricoperta dalle tipiche «piote» – le lastre in pietra comuni anche alle case valtellinesi –, si presenta a navata unica, chiusa da una sola absidiola, rivolta, come di consueto, a est, in direzione del sole nascente. Al centro del corpo dell’edificio si erge un originale fastigio con tetto a capanna, una soluzione dicembre

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medioevo nascosto lombardia Dove e quando Tempietto di S. Fedelino via San Fedelino, frazione Campo Mezzola, Samòlaco (Sondrio) Orario aperto da marzo a ottobre, nei fine settimana e nei giorni festivi oppure su prenotazione Info tel. 0343 44085 oppure 0343 36384; è vivamente consigliato telefonare, cosí da programmare la visita Note il sito è raggiungibile in traghetto da Novate Mezzola (Sondrio) oppure a piedi da Casenda, frazione di Samòlaco. Il sentiero (piuttosto impegnativo, da affrontare con abbigliamento adeguato e scarpe da trekking) parte dai ruderi della chiesa medievale di S. Giovanni all’Archetto, compromessa nel Seicento da varie inondazioni e infine abbandonata e sconsacrata nel 1935 (il restauro risale al 1996)

La chiesa, oggi sconsacrata, di S. Giovanni all’Archetto, punto di partenza del sentiero che conduce al tempietto di S. Fedelino.

In basso Novate Mezzola. Il molo dal quale partono i traghetti che permettono di raggiungere il tempietto di S. Fedelino.

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formale che non sembra trovare – almeno allo stato attuale delle conoscenze – riscontri, né precedenti nell’arte dell’epoca. Allo stesso modo, la copertura a crociera nervata su cui si innesta la stessa abside è probabilmente la piú antica di tutto il territorio comasco, mentre l’abside semicircolare appare «scandita da lesene a ritmo binario di archetti con peduccio ancora incerto e sfuggente» (Roberto Cassanelli). Si tratta di caratteristiche riconducibili al precoce manifestarsi dello stile romanico. Gli scavi archeologici condotti tra il 2003 e il 2004 nella vicina Verceia (Sondrio), al confine tra la bassa Valchiavenna e la Valtellina, hanno confermato la presenza, sotto la chiesa dedicata anche in questo caso a san Fedele, di un’aula absidata riconducibile all’incirca allo stesso periodo, il che conferma come il romanico veda proprio in questo luogo appartato i suoi timidi, ma già promettenti esordi. L’interno dell’oratorio era originariamente ricoperto da affreschi, purtroppo in parte compromessi dagli impropri utilizzi moderni. I restauri, avvenuti in piú riprese (gli ultimi all’inizio degli anni Novanta) sono fortunatamente riusciti a riportarne alla luce almeno alcuni lacerti, peraltro di grande interesse. Nell’abside si staglia un grande Cristo Benedicente che regge il Libro, aperto sulla scritta giovannea «Ego sum via et veritas et vita». Nel semitamburo sottostante si conserva la teoria degli Apostoli (con la Vergine?), di cui restano visibili solo alcune teste e parti delle vesti. L’opera forse di maggiore interesse è, delle due, la Maiestas Domini, laddove il Cristo appare affiancato da due angeli (probabilmente gli Arcangeli Michele e Gabriele), rivestiti di un manto dorato e con le braccia coperte da un drappo purpureo («velatio manuum») in segno di adorazione, come sempre avviene al cospetto della teofania secondo un’iconografia classica della pittura bizantina. Le figure si stagliano sullo sfondo celeste, che rappresenta il cielo, e poggiano su un piano verde che rimanda al giardino del paradiso.

Maestranze di alto livello

La scena della Maiestas nel catino absidale, ampiamente diffusa in Italia settentrionale e non solo, sembra derivare dal modello iconografico codificato nel mosaico della chiesa dei Ss. Cosma e Damiano a Roma, risalente al VI secolo. Nel «prototipo» romano a circondare il Cristo in Maestà, in posizione eretta e non seduto sul trono, sono collocati gli apostoli Pietro e Paolo – ritratti con le braccia velate –, i quali a loro volta assistono i due santi eponimi. In S. Fedelino, invece, il posto dei santi è preso dagli arcangeli, secondo una variante attestata in particolare in Istria. La medesima composizione appare, con la variante dei profeti al posto degli angeli,

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nel catino absidale della basilica di S. Vincenzo in Galliano a Cantú (Como), complesso celebre per il prestigioso legame con Ariberto d’Intimiano, futuro arcivescovo di Milano, il quale la commissionò intorno al 1007 (vedi «Medioevo» n. 226, novembre 2015; anche on line su issuu.com). Questa e altre similitudini stilistiche tra i due cicli di affreschi confermano la datazione del tempietto di S. Fedelino ai primissimi anni del Mille e ne ascrivono la realizzazione a opera di maestranze di alto livello attive sul territorio lombardo, probabilmente legate proprio all’ambiente che lavorò a Galliano. Sulle altre pareti si conservano scarni lacerti di altri affreschi dedicati a santi e martiri. Di grande interesse, per quanto molto lacunosa, è infine la fascia geometrica che orna la parte inferiore del tempietto. I motivi decorativi, caratterizzati da intrecci e nodi, ricordano assai da vicino quelli analoghi che impreziosiscono i manoscritti di tradizione irlandese: si tratta di motivi decorativi noti agli autori delle pitture di Samòlaco o per contatti cultuali diretti oppure, piú probabilmente, grazie ai tanti repertori che circolavano all’epoca tra le maestranze e servivano da modello soprattutto per le decorazioni librarie. La presenza a Samòlaco di tali pitture di sapore insulare conferma, ancora una volta, la centralità dell’arte lombarda nel contesto culturale del Mille e la sua capacità di imporsi come laboratorio d’avanguardia nella creazione e nella trasmissione e circolazione di temi e stilemi destinati a imprimere una svolta decisiva nell’arte europea medievale.

Da leggere Il tempietto di S. Fedelino è uno dei protagonisti del nuovo saggio dell’autrice del presente articolo, Lombardia Medievale in uscita per i tipi delle Edizioni del Capricorno (240 pp., 14,00 euro). Il volume descrive alcune delle piú rilevanti (e meno note) testimonianze architettonico-artistiche del Medioevo in Lombardia, una presenza profonda e per molti versi da riscoprire. Si inizia da importanti contesti paleocristiani e altomedievali per poi ripercorrere la grande stagione del romanico, espressione dei cambiamenti socioeconomici, politici e culturali che, tra l’XI e il XIII secolo, hanno caratterizzato l’età comunale. Infine, alcuni gioielli trecenteschi, frutti che maturano dall’estetica gotica, nell’autunno del Medioevo, in un viaggio alle radici dell’arte lombarda.

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Un leone per Firenze SIMBOLI • Fin dall’antichità, il «re della foresta» ha assunto una natura polivalente

ed è stato adottato come emblema da numerose comunità, fra cui spicca la città del giglio. Nella quale, per molti secoli, alcuni esemplari del magnifico felino furono tenuti in cattività in un serraglio, curati e accuditi con ogni riguardo

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uesti parea che contra me venisse con la test’alta e con rabbiosa fame, sí che parea che l’aere ne tremesse». Con questi versi, tratti dal I canto dell’Inferno, Dante Alighieri descrive nella sua Commedia l’incontro che fa «nella selva oscura» con un leone, la seconda delle tre fiere dopo la lonza – identificabile con un grande felino maculato –, e prima di una lupa. Sin dall’antichità archetipo della forza, del coraggio e delle virtú regali, il leone – come hanno evidenziato gli studiosi Giuseppe Crimi e Luca Marcozzi (autori del saggio Dante e il mondo aninale, Roma 2013) – nel Medioevo viene «cristianizzato» e identificato con il potere divino come animale, secondo la Physiognomonika dello Pseudo-Aristotele «generoso e liberale, magnanimo e desideroso di vittoria, tranquillo e buono e incline a mostrare affetto nei confronti di A destra il leone, simbolo della guelfa Firenze, nella versione del Marzocco scolpito da Donatello. 1420. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Nella pagina accanto l’incontro di Dante con un leone nella «selva oscura» (Inferno, I, 45-48), in una tavola realizzata da Gustave Doré per la celebre edizione illustrata della Divina Commedia pubblicata nel 1861.

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eventuali alleati». Ciononostante, nei secoli dell’età di Mezzo, il grande felino assunse anche aspetti negativi, come manifestazione della forza e della pericolosità del male: nella stessa Commedia, se quel «test’alta» da un lato ci restituisce l’immagine del coraggio e della fiducia in sé, dall’altro rimanda all’orgoglio e alla voglia di sovrastare di un animale dalla «rabbiosa fame», iracondo e collerico, a sottolineare l’intento politico-morale del poeta nella sua opera piú nota. Ma furono altre le fonti di ispirazione del bestiario dantesco: dalle allegorie dedicate a mostri con tratti ferini alla lettura di favole, enciclopedie, bestiari e, non ultima, la diretta osservazione degli animali.

Il serraglio della Repubblica Nella storia dei serragli fiorentini, riportata dallo zoologo Pierluigi Finotello, tra le bestie esotiche, un protagonista di primo ordine fu senza alcun dubbio il leone, a cui venne attribuito in origine il nome «marzocco» – termine che deriva dal latino martocus, traducibile anche come «piccolo Marte» – secondo una leggenda che narra la sostituzione di una statua del Dio Marte, collocata su Ponte Vecchio e andata perduta durante la terribile alluvione del 1333, con quella di un leone. Del «marzocco», resta celeberrima la scultura realizzata tra il 1418 e il dicembre

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1420 da Donatello, conservata nel Museo Nazionale del Bargello e in copia in piazza della Signoria, che ritrae un leone araldico, simbolo della repubblica Fiorentina, con la zampa che regge uno scudo raffigurante lo stemma della città. Sembra che la scelta di tenere

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leoni nelle collezioni zoologiche di animali vivi sia nata per rendere onore all’ascesa di Guglielmo, detto «il Leone», fratello del re di Scozia Malcom IV a cui era succeduto nel 1165, come segno di riconoscenza per aver contribuito alla liberazione

di Firenze. Le caratteristiche morfologiche ed etologiche del leone rafforzavano il prestigio del proprietario e rappresentavano una dimostrazione del controllo che il sovrano o il nobile aveva su queste fiere. La nobiltà della natura del leone dicembre

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Miniatura raffigurante una madre che libera il figlio catturato da un leone, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La scena evoca l’episodio del quale fu protagonista uno dei leoni allevati nel serraglio della città di Firenze, che riuscí a fuggire e in Orsanmichele afferrò un bambino chiamato Orlanduccio. La madre accorse disperata e affrontò la belva: al che, senza che «nullo male» accadesse, forse per caso o per fortuna, scrive Villani, o forse per «la gentilezza della natura del leone» poté riabbracciare suo figlio.

emerge dalle cronache medievali, come nella vicenda di «Orlanduccio del Leone», ambientata nel 1259, nella quale il mercante e storico fiorentino Giovanni Villani narra di un bimbo afferrato da un leone fuggito dalla sua gabbia per le vie di Firenze, che venne tratto in salvo

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dalla madre, la quale «come disperata, con grande pianto, e scapigliata, corse contra ‘l leone e trassegliel dalle branche, e il detto leone nulla male fece né alla donna né al fanciullo se non che gli guaitò, e ristrettesi».

Una tradizione ben consolidata Si trattava di animali allevati con estrema cura e, nel 1289, il Comune deliberò di mantenerli totalmente a proprio carico. Lo stesso guardiano veniva scelto come uomo «onoratissimo, qualificato e nobile» con acconciatura (barba e basette lunghe, al contrario dei costumi dell’epoca) e abiti consoni al ruolo affidatogli. La presenza dei leoni e, piú in generale, di altri grandi felini, orsi e lupi divenne una tradizione ben consolidata nella Firenze del XIII secolo e il serraglio dei Leoni della Repubblica, come poi si venne a chiamare, si trasformò in una vera e propria istituzione pubblica del governo fiorentino, destinata a durare per quasi cinque secoli. Tra il XIII e il XIV secolo, la Gabbia delle Fiere subí diversi spostamenti – l’ultimo, nel 1350, accanto a Palazzo Vecchio, nell’area prospiciente a quella che è poi divenuta via dei Leoni – in relazione allo sviluppo della città e alle «numerose e straordinarie nascite di leoncini» riportate da Villani, a dimostrazione dell’estrema attenzione nel mantenimento di questi animali: si pensi, per esempio, al fatto che ogni giorno un individuo adulto veniva alimentato con ben quattro chili di carne fresca al giorno! In ogni caso, l’aumento del numero di esemplari è da attribuire anche agli animali acquisiti come doni da sovrani, governi stranieri e facoltosi cittadini che pure provvederanno per buona parte al mantenimento del serraglio. A Firenze, ricorda ancora Villani, la nascita di un leoncino era considerata di buon auspicio, un segno di «magnificenza

della Città e prospera fortuna per lo Comune», cosí come, al contrario, la morte di una leonessa incinta, riportata da un altro cronista, Pietro Minerbetti († 1482), veniva considerata un «pessimo augurio tra i Cittadini». Non mancano le note piú curiose, a dimostrazione di come questi animali fossero presi in seria considerazione, quasi come un oggetto di venerazione: il memorialista Giovanni di Pagolo Morelli (1371-1444) scrive che, nel 1364, a seguito della sconfitta di Pisa, come segno di umiliazione i Fiorentini portarono un cucciolo di leone «al quale tutti i Pisani baciaroni il chulo».

Le Cacce alle Belve Feroci Dalla metà del Quattrocento, per circa tre secoli, a Firenze non ci si accontentò piú di acquisire i leoni nelle collezioni zoologiche e di condurli al guinzaglio o trasportarli in apposite gabbie in occasione di trionfali processioni, conquiste o alla presenza di ospiti illustri. È il momento in cui, nelle piazze o nell’arena del serraglio, hanno luogo le Cacce alle Belve Feroci, una riproposizione delle antiche venationes romane che prevedevano il combattimento tra gli animali piú diversi e quello tra uomini e animali. E il leone, suo malgrado, divenne un soggetto ricercatissimo in queste cacce come ci ricorda lo speziale Luca Landucci (1437-1516) con queste parole: «E a 25 giugno 1514, si fecie una caccia in Piazza de’ Signori, e feciono venire fuori due Lioni, e fuori Orsi, Leopardi, Tori, Bufali e Cervi e molte altre Fiere di diverse regioni, e Cavagli, e finalmente i Lioni: e massimamente uno che venne prima, non fece nulla per il grande tumulto del popolo, eccetto che venendo a Lui certi cani grossi ne prese uno e strinsero e lasciollo morto in terra, e cosí al secondo, non stimando alcuna altra Fiera; si posava, se non era molestato e andava piú in là». Carlo Canna

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Storie, uomini e sapori

Quando la carne fa(ceva) paura di Sergio G. Grasso

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in dall’antichità, le malattie sono state considerate una punizione divina oppure opere del demonio, e le guarigioni erano una questione di fede, di preghiere, di offerte alle divinità con frequenti concessioni all’astrologia e a una incredibile varietà di amuleti. Negli ultimi trent’anni le crisi sanitarie imputabili al consumo

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delle carni animali – mucca pazza, afta epizootica, influenza aviaria – hanno spinto il consumatore a interrogarsi, preoccupato, sui regolamenti che disciplinano la filiera. Ansie e apprensioni alimentari che non sono solo segno dei nostri tempi ma accompagnano la vicenda umana e la vita sociale. Nel Medioevo, epoca di ricorrenti

e spesso falcidianti pandemie, la paura del malsano e del corrotto spinse l’Occidente a mettere sotto sorveglianza l’alimentazione, al fine di prevenire il piú possibile ogni pericolo potenziale, quasi sempre incognito o mal diagnosticato. Il ruolo delle carni malate o guaste nella diffusione di molte patologie fu pienamente riconosciuto dicembre

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Nella pagina accanto vignette raffiguranti banchi di macelleria in un mercato, da un’edizione della Cronaca del Concilio di Costanza di Ulrich Richental. 1483. New York, The Morgan Library & Museum. In basso miniatura raffigurante la lavorazione delle carni di capra, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. solo nel Duecento, quando crebbe l’affollamento delle città, aumentando il rischio di diffusione massiccia di patologie. La dissenteria causata da acque malsane o alimenti (carni, uova, latte e derivati) rappresentava la prima causa di morte: colpiva il 40% della popolazione adulta e il 75% dei bambini fino ai 6 anni. La percentuale di bambini colpiti da parassitosi intestinali superava il 60% e poco meno negli adulti.

Liberi di razzolare

ed Ebrei erano esclusi) fosse da attribuire a carni suine contaminate in vita o infettate post mortem. Attorno all’anno Mille i testi di riferimento per determinare ciò che poteva essere consumato o meno, erano ancora quelli ereditati dalla Grecia e da Roma antica, Ippocrate e Galeno in testa. Una certa consapevolezza nutrizionale si manifestò solo nel XII secolo, grazie al Regimen Sanitatis Salernitanum, trattato didattico con il quale i medici della Scuola Medica di Salerno divulgavano in versi latini le indicazioni igieniche, le proprietà e le indicazioni terapeutiche degli alimenti. Rimanevano due interdizioni formali che riguardavano l’animale in quanto tale. La prima era a carico della capra, la cui unica finalità era quella di produttrice di latte; secondo Ippocrate, il tremore che scuoteva spesso il corpo dell’animale poteva essere

trasmesso all’uomo procurando «il massimo turbamento del ventre» e infettandolo col «male sacro», come allora era detta l’epilessia. La seconda carne interdetta era quella di cavallo e talvolta d’asino, animali indispensabili al lavoro dei campi, strumenti di viaggio e motori di traino; cibarsene era atto che la Chiesa condannava come atteggiamento barbaro e pagano.

Fra scienza e superstizione A prescindere da queste due avvertenze, la medicina dell’epoca – spesso impastata di superstizioni popolari – lasciava le porte aperte al consumo di tutte le altre carni ritenute genericamente «buone, utili e non guaste». Solo quando il sospetto di una malattia – reale o immaginaria come quella della «lebbra suina – trasmessa dall’animale all’uomo, assumeva caratteri e dimensioni sociali, l’autorità cittadina provava a intervenire, talvolta con semplici

Particolarmente consumate erano le carni suine, piú a buon mercato di quelle ovine e vaccine, ma anche meno sicure. Tra i mammiferi domestici il maiale è da sempre il piú conveniente, efficiente e rapido trasformatore di proteine vegetali in muscoli e grasso. Nel Medioevo il maiale si allevava quasi sempre nel contesto familiare, nutrendolo con gli scarti alimentari oppure lasciandolo libero di razzolare nelle campagne, dove, in quanto onnivoro, poteva cibarsi anche di carcasse in decomposizione ed escrementi. La sua digestione veloce e sommaria (4 ore contro le 24 della mucca) e l’assenza delle ghiandole sudorifere, faceva sí che quelle tossine si accumulassero nei tessuti. A questo rischio, si sommavano le infezioni suine da virus (epatite, hepavirus) e da larve (tenia, trichinella). In buona sostanza, si presume che nel Medioevo gran parte delle tossinfezioni alimentari della popolazione cristiana (musulmani

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CALEIDO SCOPIO A sinistra la bottega di un macellaio in un’altra miniatura tratta dal Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto capolettera raffigurante la macellazione di un suino, da un’edizione del Régime du corps (De regimine sanitatis), un trattato di medicina e norme igieniche compilato da Aldobrandino da Siena nel XIII sec.

raccomandazioni, talaltra con regole, ispezioni e controlli che potevano portare ad ammende o punizioni esemplari. Non si trattava ancora di veri e propri «disciplinari», ma di ordinanze ispirate alla quiete sociale, il piú delle volte contro le «soperchierie» sul peso, sul prezzo o sulla natura degli animali. Per trovare qualcosa che assomigli a una legge di sanità pubblica, un’ordinanza sull’igiene dei mercati e dei macelli o un corpus di regole per i controlli sanitari sugli animali e sulle carcasse, si deve attendere l’età dei Comuni, quando i centri urbani riacquistarono il vigore perduto durante i primi secoli del Medioevo. Sfogliando gli atti del Comune di Milano, si rinviene un documento

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che riguarda il commercio delle carni datato 1211. Si legge in esso che il podestà Guglielmo di Lando, sentite le reiterate proteste del popolo e per evitare sommosse, proibiva ai macellai la vendita di carne ingrassata col «panello», un pastone ottenuto coi semi oleosi rimasti dalla torchiatura delle olive, che dava «malo gusto» alle carni e le rendeva «lardose». A Bologna, nel 1290, si vietava ai beccai di vendere bestie dopo il tramonto per evitare che i compratori non vedessero eventuali difetti; era inoltre vietato commerciare maiali nelle strade movimentate per non intasarle con le mandrie. Sempre alla fine del Duecento, i macellai fiorentini, ritenuti –

non a torto – esosi, disonesti, ma anche rissosi e aggressivi per la loro padronanza dei ferri da taglio, tentarono di tutelare la loro reputazione (e i propri interessi), riunendosi in corporazioni o «gilde». Ricche e socialmente autorevoli, queste lobbies erano in grado di influenzare la politica e imporre sia i prezzi di vendita delle carni al pubblico, sia quelli di acquisto presso gli allevatori. Pochi anni dopo la sua costituzione, questa gilda mostrò di possedere una sua etica di categoria, rendendosi disponibile a trovare un punto d’incontro con le autorità preoccupate della salute del consumatore e del welfare cittadino. Ma la vera rivoluzione ebbe inizio dicembre

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in Francia. Nel 1303, a Mirepoix, nel Languedoc, funestato dalla dissenteria e dalle parassitosi, il signore della città, Jean de Lévis, alcuni notai, professori di diritto, i rappresentanti municipali e i delegati della corporazione dei macellai, negoziarono e firmarono il primo documento contenente le regole per la macellazione e la vendita delle carni nei mercati.

Norme recepite un po’ ovunque La presenza di un procuratore di Filippo il Bello dimostra quanto il re di Francia fosse cosciente delle implicazioni giuridiche, commerciali e politiche connesse all’alimentazione. Quasi subito le norme stabilite dalla «Carta di Mirepoix» furono adottate non solo in Francia, ma anche in Italia, a cominciare dai macellai fiorentini, poi da quelli di Bologna, di Milano, di Pavia e di Verona. In buona sostanza un po’ dovunque si applicavano quelle norme generali, seppure con adattamenti piú o meno rilevanti da città a città: si autorizzava la vendita solo di carni di capretto inferiore all’anno, montone, bue e maiale; la loro sanità e integrità doveva risultare da un certificato rilasciato dagli ispettori annonari; il maiale veniva sottoposto a una ulteriore visita prima dell’uccisione; tutte le carcasse erano soggette a ispezione post mortem; gli ispettori certificavano l’integrità del midollo, obbligatoriamente fluido e abbondante; non erano ammesse ai banchi di vendita carni di cavallo, asino, bue, capra, orso; le uccisioni e le macellazioni andavano effettuate lontano dal mercato, in recinti o strutture pavimentate in riva ai canali; si potevano vendere solo carni di animali macellati dopo il sorgere del sole e prima del

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tramonto; d’estate era ammesso vendere anche carni macellate il giorno prima, in inverno quelle di due giorni; chi commerciava carni fresche non poteva vendere salumi, prosciutti, carni salate, affumicate o cotte di qualsiasi specie; i banchi di vendita dovevano essere coperti da tende o tetti per evitare il sole diretto; le porte delle macellerie dovevano essere sempre spalancate; le mezzene dovevano essere a vista. Gli statuti trecenteschi di Treviso e Venezia prevedevano inoltre per i «becheri»: la vendita a peso e non a pezzo; la bollatura semestrale delle

bilance; il divieto di vendita di verri e scrofe; il divieto di fare luganeghe e salsicce prima del 1° gennaio e dopo la Pasqua. Nel corso del XV secolo si assistette a una generale normalizzazione di carte, ordinanze, statuti e capitolari riguardanti l’abbattimento, la macellazione e il commercio delle carni, a cominciare dalle regioni del Nord, in Emilia e in Toscana, dove furono talvolta le stesse gilde a elaborare i regolamenti, a multare o espellere i contravventori e a insistere con le autorità per

l’applicazione di pene pecuniarie o corporali. A Roma, a Napoli e in tutto il Meridione, fino all’Unità d’Italia i regolamenti d’igiene furono quasi sempre emanati motu proprio dalle autorità locali.

Sulle rive dei fiumi Le regole sanitarie piú ferree riguardavano la macellazione degli animali. Quasi in tutti i comuni medievali dovevano entrare vivi e sulle proprie gambe in città, venivano registrati dal casello daziario, sottoposti a un controllo sanitario quindi autorizzati all’abbattimento. Agli inizi del XV secolo tutti i commercianti che macellavano gli animali a casa propria o nel loro negozio, furono obbligati a servirsi dei macelli pubblici, generalmente situati sulle rive di un fiume. I liquami di risulta causavano un pesante inquinamento delle acque, ma si eliminava cosí una notevole quantità di lordure dalle strade; nel contempo, si garantivano al consumatore la freschezza e la buona condizione delle carni, assicurando al comune la corretta tassazione dei capi animali in entrata. Tra le regole per noi piú curiose vi era quella che impediva ai macellai di soffiare aria, attraverso un buco, sotto la pelle degli animali di piccola taglia, per renderne le carni piú toniche e distese, quindi all’apparenza piú fresche; curiosa anche la presenza in qualche mercato dei «lordatores», agenti pubblici ai quali era affidato il compito di sporcare le carni rimaste invendute sui banchi al tramonto per impedirne la vendita il giorno dopo. Vigeva comunque, dai tempi della «Carta di Mirepoix» il divieto per i banchi e le botteghe di macelleria, all’aperto o al chiuso, di vendere frattaglie, carni tritate, speziate, salate, cotte, secche o insaccate.

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Quando i santi prendevano le armi

Con il libro e con la spada di Paolo Pinti

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ato a Tarso, nell’attuale Turchia, per alcuni nell’anno 4 d.C., per altri nel 5-10, e morto a Roma nel 67, Paolo è uno degli apostoli, ma non conobbe mai Gesú. Il fatto è apparentemente bizzarro e va spiegato: apostolo è colui che «porta nel mondo la parola di Cristo», mentre chi lo segue personalmente, frequentandolo, è un discepolo. Resta da capire, quindi, perché si dica «dodici apostoli», visto che la definizione corretta sarebbe «dodici

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discepoli». Comunque sia, Saulo – questo il nome originario di Paolo – era un Ebreo che godeva della cittadinanza romana e inizialmente non era molto ben disposto verso i cristiani, tanto che gli sono attribuite un centinaio di uccisioni degli stessi. Assistette anche al martirio per lapidazione di santo Stefano, facendo addirittura da custode ai mantelli degli aguzzini: quindi la sua avversione verso i cristiani è fuori questione.

Il famoso episodio della conversione avvenne in occasione di un suo trasferimento da Gerusalemme a Damasco, dove andava a organizzare la repressione dei cristiani: all’improvviso fu avvolto da una fortissima luce, mentre la voce di Gesú gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Reso cieco da questa luce, fu poi curato e guarito da Anania, capo di una piccola comunità cristiana di Damasco. Quindi si convertí al dicembre

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A sinistra Conversione di San Paolo, olio su tela del Caravaggio (al secolo, Michelangelo Merisi). 1601. Roma, S. Maria del Popolo. Folgorato dalla visione del Cristo, il santo ha lasciato cadere a terra la spada (vedi foto alla pagina precedente).

cristianesimo, grazie anche all’opera di Anania, e iniziò a predicare la nuova dottrina in giro per il mondo, prima in Giordania, poi in Grecia e in Turchia. Infine, a Gerusalemme, venne fatto imprigionare dagli Ebrei, che l’accusavano di turbare l’ordine pubblico. Poiché, come abbiamo ricordato, era cittadino romano, Paolo chiese di essere giudicato dall’imperatore e fu pertanto tradotto a Roma, dove visse per anni agli arresti domiciliari,

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A destra San Paolo, olio su tela di Domenikos Theotokopoulos, detto El Greco. 1608-1614. Madrid, Museo del Prado. Si noti la grande spada dalla lunga impugnatura, tecnicamente definibile spadone da due mani.

ma riuscendo comunque a continuare la sua predicazione.

Vittima delle persecuzioni Durante la persecuzione di Nerone venne giustiziato per decapitazione, quasi certamente tra il 64 e il 67. Nell’iconografia, il santo viene, di norma, raffigurato di età matura, se non addirittura vecchio, con lunga barba: caratteri comuni agli Ebrei e che rappresentavano, comunque, lo stereotipo del filosofo. Come

simbolo ha costantemente un rotolo di pergamena oppure un libro, a ricordare le tante lettere di predicazione, e – ma solo a partire dal XIII secolo – la spada, che richiamava sia il suo passato di persecutore (e uccisore), sia l’arma usata per il suo martirio. In realtà, tale simbolo può alludere anche alla «spada spirituale» di cui si parla nella Lettera agli Efesini (6,17): «Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che

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CALEIDO SCOPIO è la parola di Dio» e in quella agli Ebrei (4, 12-13): «Infatti la parola di Dio è vivente ed efficace, piú affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla». Va al riguardo osservato che, dal punto di vista tecnico, se l’arma fosse stata a un solo taglio, sarebbe stata una mezza spada e non una spada. Se per la conversione l’identificazione risulta piú agevole (trattandosi di una scena con il cavallo e con una figura a terra, abbacinata dalla luce di Cristo), quando siamo in presenza della sola figura di un uomo di almeno 40 anni (ma spesso piú vecchio), con una lunga barba, nera o bianca, decisamente stempiato, non longilineo, con in mano un libro e una spada, possiamo dunque essere certi del fatto che si tratta di san Paolo. Come accade per rappresentazioni di personaggi o episodi biblici, anche nel caso di san Paolo la spada è quasi sempre di un tipo in uso al tempo in cui visse l’artista che eseguí l’opera.

San Paolo, pannello del Polittico di sant’Orsola, tempera su tavola di Antonio Vivarini, dalla chiesa di S. Pietro in Oliveto. 1440-1445. Brescia, Museo Diocesano.

Tipologie ben riconoscibili

Pose ricorrenti Si possono inoltre rilevare alcune pose ricorrenti: nelle scene con la conversione, la spada è in terra, al fianco di Paolo o poco lontano da lui; nei ritratti, soprattutto in quelli ridotti alla sola mezza figura, il santo impugna la spada tenendola traversa e con il dito indice non raramente posizionato al di sopra dell’elso; sempre nei ritratti a tutta figura, la spada, di regola, è appoggiata con la punta in terra e tenuta ferma con la mano sull’impugnatura. Come detto, non è raro trovare spade impugnate con l’indice sopra all’elso, come nel polittico del Maestro di Staffolo (metà del XV secolo), conservato nella chiesa di S. Egidio a Staffolo (Ancona) oppure nel San Paolo (1370) di Luca di Tommé, o, ancora, nel Polittico della Vergine col Bambino, conservato al Museo Civico di Rieti:

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lentamente, tanto che ne troviamo esempi e raffigurazioni pittoriche in numero crescente alla fine di tale secolo, quando gli archetti divennero doppi, come negli affreschi di Luca Signorelli nel santuario di Loreto, risalenti al 1482-85 e raffiguranti ugualmente la Conversione di Saulo, o, appunto, nel San Paolo (1520) del Carpaccio, conservato nel santuario di S. Domenico a Chioggia, e nel San Paolo di Antonio Leonelli da Crevalcore (1450 circa-1525) in una collezione privata di Londra.

non è difficile intuire la pericolosità di una simile abitudine (molto diffusa, almeno in pittura), che, in caso di combattimento, avrebbe esposto il dito ai fendenti avversari. Eppure, si deve arrivare almeno al XIV secolo per trovare una protezione costituita da una specie di anello (archetto) definito come «elemento che dalla base del braccio dell’elso si protende nel piano della lama con andamento curvilineo verso la stessa». Solo nel Quattrocento tale semplice (e tardiva) invenzione si diffonde,

Essendo la spada la vera protagonista nei dipinti con san Paolo, posta spesso in primo piano, viene quasi sempre descritta accuratamente in ogni particolare, dalla lama al fornimento, testimoniante la moda del momento. Nelle numerose Conversioni, la spada, solitamente raffigurata sul terreno, dopo la caduta da cavallo di Saulo, occupa un posto secondario, ma la tipologia è sempre ben individuabile: pensiamo a quella, famosissima del Caravaggio, nella chiesa di S. Maria del Popolo a Roma, dal fornimento molto semplice, vera arma da soldato e non da condottiero, oppure a quella della Conversione di San Paolo di Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, con i bracci dell’elso a «S» e un pomo di lusso, tipico dell’arma di un personaggio altolocato. Ugualmente di lusso è la spada tenuta di traverso dal San Paolo di Bernardino Zacchetti (1475post 1525), nella basilica di S. Prospero a Reggio Emilia o nel dipinto trecentesco del Maestro di Sant’Abbondio, nella chiesa di S. Abbondio a Como: qui, fatto inconsueto, il santo tiene con la mano sinistra il fodero della spada, molto dettagliato e dotato di una dicembre

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A destra San Paolo, olio su tela attribuito a Bartolomé Esteban Murillo. 1650-1700. Parma, Galleria Nazionale. In basso uno spadone a due mani tedesco della fine del XVI sec. fibbia assai elaborata, all’altezza del ricco fornimento dorato. Vanno infine segnalate alcune curiosità: in qualche raro caso (Assunzione della Vergine di Cola dell’Amatrice, del 1515 circa, nella Pinacoteca Vaticana, e in una statua lignea nel Museo del Castello Piccolomini di Celano) il santo appare con la spada in mano, con la punta appoggiata in terra, e il pomo mancante. In assenza di spiegazioni piú documentate, potremmo pensare alla volontà di rappresentare il distacco di Paolo dal suo passato cruento (simboleggiato dalla spada, privata del pomo e, quindi, resa inutile come arma).

Con la punta a terra In numerose occasioni poi, l’arma impugnata – sempre appoggiata con la punta in terra – è una spadona da due mani (o a due mani), tipica del XVI secolo, enorme e di grande effetto visivo. Ricordiamo quella nella Cappella Eroli del Duomo di Spoleto, attribuita a Giacomo Santoro da Giuliana, detto Jacopo Siculo, attivo in Umbria dal 1524 al 1543, e quella nel San Paolo (seconda metà del XVII secolo) attribuito a Bartolomé Esteban Murillo (o alla scuola sivigliana) e ora conservato a Parma. In casi come questi, l’artista associa al santo un’arma squisitamente ed esclusivamente militare, in dotazione a particolari corpi formati da soldati molto robusti e coraggiosi, che, protetti solo da un petto e da una ridotta difesa del capo, si avvicinavano ai

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quadrati di picche avversari tagliando le aste delle stesse: nessuno, all’epoca, avrebbe mai ipotizzato che Saulo avesse impiegato una spada del genere per uccidere i cristiani, ma, vista come arma per il suo martirio, poteva andar bene. La spadona a due mani, indubbiamente, colpisce chi guarda il dipinto ed è spesso usata proprio per l’aspetto imponente. San Paolo viene festeggiato

insieme a san Pietro, il 29 giugno, perché entrambi sono ricordati come «baluardi della fede» ed entrambi furono martirizzati a Roma piú o meno negli stessi anni, sotto Nerone. Probabilmente, si tratta della scelta di convertire la festa pagana in onore di Romolo e Remo, che cadeva appunto il 29 giugno, in quella celebrante la nascita di una nuova Roma cristiana, simboleggiata dai suoi due piú significativi esponenti.

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Lo scaffale Franco Cardini Dantesca Dodici brevi saggi

La Vela, Lucca, 244 pp.

18,00 euro ISBN 978-88-99661-89-2 www.edizionilavela.it

Dantesca, vale a dire il percorso ragionato di quel che nel settecentesimo anniversario della morte del sommo poeta, è stato detto, scritto, commentato, chiosato, dando vita a una vera «dantedemia». A proporre una lettura originale e a tutto tondo dell’universo dantesco e di ciò che gli ha ruotato intorno è Franco Cardini, profondo conoscitore delle opere dell’Alighieri. La Firenze a cavallo tra XIII e XIV secolo, con le sue lotte intestine che porteranno il poeta all’esilio, la corsa degli eventi che stanno tra le battaglie di Montaperti e quella di Campaldino, emergono con rara chiarezza dai saggi di Dantesca, un contesto senza penetrare il quale non è facile approcciarsi alla Commedia che Boccaccio chiamò divina e piú vastamente all’opera di Dante. L’originalità del libro sta proprio in questo: nell’aver collocato il poeta nel suo tempo, nell’aver

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ricercato le radici della sua formazione, quella aristotelico-averroistica, ma anche le influenze che la cultura araboislamica ha esercitato sugli scritti di Dante. L’amore viscerale che egli ha sempre coltivato per la sua Firenze, decaduta, prostrata dai conflitti fa dire all’autore che «le mura della città di Dite, sono le nuove, potenti mura fiorentine erette a rinserrare una città traboccante di vizi, di odi, di vendette». Quella di Dante è una peregrinatio animae – afferma Cardini – e non potrebbe essere altrimenti, in quanto è nella dimensione spirituale che si fa ritorno alla vera patria, che per un cristiano è la Gerusalemme celeste. «Come nei viaggi fisici dei pellegrini, anche le anime debbono affrontare disagi e possono essere insidiate dall’ansia e dall’inquietudine: anche quelle pur destinate alla salvezza finale». Non è forse questa la koinè della Commedia dantesca, che l’autore coglie ai piedi della montagna del Purgatorio? Ansia e inquietudine che attraversano Ulisse nel suo «folle volo» e che Dante condanna tra i consiglieri fraudolenti

avvolti in lingue di fuoco. È lí perchè ha preteso di cancellare la cultura del limite, ha voluto spingersi oltre le Colonne d’Ercole e ha indotto i suoi a seguirlo anziché tornare in patria. La ragione senza la grazia, questa la metafora dantesca, porta nella «selva oscura». «Ulisse è dunque eroe e profeta

della modernità» – conclude Cardini –, proprio perché la sua inesausta curiosità, il suo abile ingannare è rivolto al disconoscimento di ogni finitezza, a cui l’uomo, in quanto creatura di Dio, è sottomesso. Fare di ogni mezzo un fine è in effetti uno dei tratti distintivi della modernità e, in questo senso, Dante non è solo il grande interprete del disegno di salvezza, ma anche il profeta di ciò che sarà la societas christianorum o meglio di quello che ne resta. Alessandro Bedini

Rocco Benedetti Venezia 1576, la peste Una drammatica cronaca del Cinquecento

a cura di Donatella Calabi,

Luca Molà, Simone Rauch, Elena Svalduz, Cierre Edizioni, Verona, 120 pp., ill. col. e b/n

11,50 euro ISBN 9788855200943 edizioni.cierrenet.it

Nel 1576, Rocco Benedetti, notaio mercantile con sede a Rialto, cuore economico veneziano, girovagava per la città devastata dalla peste, ascoltando in strada le ultime volontà dei contagiati. In questo penoso vagabondare ebbe modo di osservare le condizioni di Venezia in quella situazione, ricavandone il resoconto ora pubblicato integralmente in questo piccolo libro. E la sua narrazione è corredata da documenti inediti (provvedimenti delle magistrature sanitarie, relazioni e suppliche dei cittadini, proposte di ambasciatori stranieri residenti a Venezia) che la completano. Di fronte all’epidemia venuta d’Oltralpe, che avanzava inesorabile, colpendo anche la Serenissima, i malati vennero chiusi al Lazzaretto Vecchio e i

conviventi sani furono mandati in quarantena al Lazzaretto Nuovo. Immensi roghi bruciavano le masserizie degli infetti, e «grandissima quantità di danari si veniva a spendere del publico, né però era se non picciol ristoro a le povere persone». L’epidemia sembrò rallentare la sua corsa, ma «poco durò la presa allegrezza, perché dinuovo surse il male piú fiero che mai». Durante questa seconda ondata i governanti veneziani «proibirono che niuno per quindici giorni potesse andar in casa d’altri, né donne né putti uscissero delle sue contrate». Non si trovavano piú medici, né barbieri, né chirurghi che ardissero andare nelle case a visitare gli infermi, né amici che visitassero gli amici, né sacerdoti che li confessassero. Come ci si accorgeva che «qualcuno in qual si voglia modo, havesse praticato con sospetti dal male, o havuto da loro cosa per piccola che fosse, veniva incontinente sequestrato in casa» Vennero creati due appositi provveditori alla Sanità per gestire la situazione. Mentre i medici padovani, in discordia con quelli dicembre

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veneziani, negavano in casa per 40 giorni, l’esistenza della peste, ma piú terribile era la il male si diffondeva, situazione di coloro e i potentati italiani che si ammalavano ed misero al bando erano segregati soli, e la Serenissima, «senza aiuto alcuno, proibendo ai loro miserabilmente corrieri di portare morivano». Spaventoso la corrispondenza il numero delle porte e ritirando i propri inchiodate con assi per ambasciatori dalla impedire ai contagiati città. I forestieri di uscire, e ancor piú partirono, i cittadini spaventosa la quantità agiati si ritirarono nelle di barche cariche di ville di campagna, i ammalati e di morti mercanti di tessuti mescolati insieme. di lana e seta, che Per evitare disordini davano da vivere tra il personale del ai due terzi della cantiere navale città, cessarono dell’Arsenale, cuore la produzione della sicurezza e e interruppero del commercio completamente i veneziano, i governanti commerci sulle piazze. della Serenissima Quasi tutti gli artigiani stabilirono che i di S. Marco e di lavoratori confinati in Rialto chiusero le loro casa perché malati botteghe. I giudici, i o sospetti di esserlo, litiganti e gli avvocati avrebbero percepito lasciarono il palazzo metà del salario, di giustizia, le piazze non avendo modo erano deserte e «per altrimenti di sostentare le vie si camminava se stessi e le famiglie. senza che l’uno Raccapriccianti urtasse l’altro. Non dovevano essere s’udivano piú suoni, né le condizioni del canti, né altri dilettevoli Lazzaretto Vecchio, nel intrattenimenti per le quale erano reclusi strade e canali, ma in gli ammalati, migliori lor luogo si sentivano quelle del Lazzaretto di continuo pianti, Nuovo, che ospitava i singulti, lamenti, strida guariti in quarantena e ululati di persone per 22 giorni (e altri Ondas. Martín Codax, che si cruciavano chi 8 giorni di isolamento de della Amigo delCantigas male, e chi tornati a casa). Venne Vivabiancaluna Biffi, Pierre Hamon morte infelice de suoi». anche avanzata la Arcanastesso, (A390), 1 CD proposta (da parte di Il notaio www.outhere-music.com avendo perso alcuni una società privata al congiunti, era dovuto governo veneziano) rimanere sequestrato per la costruzione

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di casette in legno temporanee nelle quali isolare, con corresponsione di un affitto, coloro che erano stati a contatto con gli infetti. Per soccorrere i piú poveri, furono inflitte nuove tasse ai bottegai già in gravi difficoltà per la contrazione del commercio. Nel mese di giugno Milano chiuse le frontiere a merci e persone provenienti dalla Serenissima. Nel mese di luglio, mentre

l’epidemia infuriava, in una delle contrade veneziane piú popolate venne proibito a donne e bambini di uscire di casa. Contemporaneamente gli ambasciatori fiorentini presenti a Venezia (che davano anche il resoconto dei morti settimana per settimana), constatavano che s’infettava per lo piú «gente povera e meschina» che abitava con tutta la famiglia in una sola stanza

angusta e infelice, senza ricambio di aria, con promiscuità tra sani e ammalati. Ci si interrogava intanto sulle origini del male, ed emerse persino una tesi malthusiana: «I filosofi diceano che questi erano salassi che venivano fatti dalla natura quando troppo moltiplicavano le spetie» ed essendo cresciuta la popolazione di Venezia oltremisura, c’era bisogno di una «purgatione». Alla fine «essendo la peste tanto inveterata, e perciò fatta come famigliare – osservava il notaio – non era piú chi la temesse come prima né stesse con tanti riguardi». Si era ormai imparato ad automedicarsi, e molti, tornati vivi dal lazzaretto, prestavano assistenza nelle case degli infetti. Alcuni operatori specializzati provenienti dai Grigioni introdussero particolari procedimenti di sanificazione, consistenti nell’affumicare le case e le masserizie bruciando una mistura di mirra, pece spagnola, ginepro e zolfo, e facendo bollire le cose sporche in un’altra

mistura «non si sa di che». Riscossero un grande successo (anche perché il fumo denso faceva fuggire i topi, responsabili dell’epidemia), per cui i governanti veneziani diedero loro l’incarico di disinfestare le case. Un altro decreto prevedeva poi che i drappi di seta fossero disinfettati con la sabbia, e quelli di lino e di altri materiali facendoli bollire nell’acqua salata. Altre masserizie di un certo pregio venivano sanificate tenendole per 5 giorni nell’acqua corrente del canale (cioè nell’acqua salata). Debellata la pestilenza, vennero riaperte le botteghe, e cominciò a ritornare «gente svariata e senza numero», «onde il publico e il privato si potrà in breve ristorar de danni patiti – osserva Benedetti –, le piazze e le strade sono cosí frequentate che chi non è stato presente alla mortalità e ruina grande traspasata non può capirla». Impressionante il bilancio dei morti alla fine dell’epidemia: perí oltre un quarto dei 180 000 abitanti di Venezia. Maria Paola Zanoboni

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Oggi è nato il Cristo MUSICA • La Natività del Signore è

stata celebrata nell’età di Mezzo, dando vita a un repertorio canoro che abbraccia stili e lingue differenti. Oggi riproposto dal gruppo The Boston Camerata con sublime maestria

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on un approccio che del Natale indaga il significato piú autentico e fedele all’epoca medievale a cui si riferisce, l’antologia Hodie Christus Natus Est si sofferma piuttosto sull’incertezza – lo spiega bene Anne Azéma direttrice dell’ensemble – che connota la figura medievale di Cristo: il giudice supremo che sceglie gli eletti e respinge coloro che non sono degni. E in questo contesto la figura di Maria vergine, grazie al suo potere di intercessione, è quella che piú ha ispirato, sin dal XII secolo, artisti e poeti. Nel repertorio proposto si spazia dall’XI al XIV secolo, abbracciando stili e lingue differenti: dai canti provenienti dall’Aquitania, che vide allora nascere la scuola dei provenzali, a brani che ci riconducono alla tradizione monodica liturgica piú ortodossa, ad altri provenienti dall’Inghilterra, dalla Spagna e dall’Italia. Si passa dunque dall’uso delle lingue vernacolari al latino, in un continuum costante. E su questi repertori si innestano/fondono gradualmente nuovi testi poetici, che si accompagnano a forme musicali che si rinnovano di continuo. Dal canto monodico di Hodie Christus natus est, si passa dunque alle prime forme aquitane di polifonia, come nel Verbum Patris humanatur, O! Le strutture polifoniche di quest’epoca lasciano ben intendere una pratica improvvisativa, che diviene la base delle future speculazioni dei grandi teorici musicali dei secoli a venire.

Quelle danze sui sagrati delle chiese... Tra i brani proposti, le polifonie inglesi si distinguono per il caratteristico andamento parallelo delle voci per intervalli di terza, che provocano nell’ascolto un senso quasi incantatorio (Veine pleine de duçur e Gedeonis Area), mentre altri, come Edi be thu hevene quene, Campanis cum cymbalis e Dou way, Robin, rimandano chiaramente, nelle

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Hodie Christus Natus Est. A Medieval Christmas The Boston Camerata, direzione Anne Azéma Harmonia Mundi (HMM 905339), 1 CD www.harmoniamundi.com melodie e nei ritmi, alle danze popolari, probabilmente eseguite sui sagrati delle chiese. La presenza iberica ci è testimoniata in questa antologia dalle cantigas di re Alfonso el Sabio del XIII secolo, dalla cui immensa raccolta proviene Por nos Virgen madre, una soave lirica in cui si esalta l’amore di Maria per il figlio e il padre. Alla tradizione peninsulare italica, ci riporta invece Dal ciel venne messo novello (XIV secolo), la cui dimensione popolare, come nelle cantigas, si evince dalla presenza di ritornelli e da un andamento melodico semplice, che vede alternarsi voce solista e coro. Nel panorama della discografia statunitense rivolta alla musica antica, il gruppo The Boston Camerata, diretto da Anne Azéma, è una perla rara per la qualità e la bellezza delle sue interpretazioni, avvalendosi di straordinari interpreti vocali e strumentali. Le ottime voci sono infatti accompagnate da strumenti della tradizione medievale, tra cui spiccano la viella, la rebeca, l’arpa, la ghironda e alcuni strumenti a fiato; tutti ben testimoniati nelle arti figurative. Il programma «natalizio» qui presentato è stato uno dei cavalli di battaglia dell’ensemble, quando, tra il 1974 e il 1975, l’allora direttore, Joel Cohen, ideò un programma incentrato sulla musica natalizia nel Medioevo. Questa nuova registrazione ne riprende i principi, tra cui la volontà di includere le fonti e gli stili piú diversi, creando un affascinante approccio «multietnico», che ben si addice a questa particolarissima celebrazione in musica del Natale. Franco Bruni dicembre

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