Medioevo n. 298, Novembre 2021

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CH TR IES EV A IS RI O TR OV AT A

LA

MEDIOEVO n. 298 NOVEMBRE 2021

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Mens. Anno 25 numero 298 Novembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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IN EDICOLA IL 3 NOVEMBRE 2021



SOMMARIO

Novembre 2021 ANTEPRIMA UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Dall’Arno alla Senna?

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di Federico Canaccini

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MOSTRE Allegretto è tornato!

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RESTAURI A tu per tu con Michelangelo Treviso ritrova la chiesa dei Fiorentini

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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di Stefania Romani

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STORIE

COSTUME E SOCIETÀ

CIVIDALE

OLTRE LO SGUARDO/9

Tempietto Longobardo La visione di un sogno di Luca Villa

30

Davide

Un sovrano per tutte le stagioni 72 di Furio Cappelli

30

CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI L’ingordigia come regola di vita 104 Maestri del gotico

Bagliori al «tempo dei Goti»

di Sergio G. Grasso

di Federico Giannini

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VITERBO CAPITALE/3 Gregorio X, lo sguardo verso Oriente 60 di Franco Cardini

Nella grand’aula del palagio... 67 di Gianpaolo Serone

IL VERO VOLTO DI LUCREZIA BORGIA

di Maria Paola Zanoboni

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MOSTRE

Dossier

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Fedele, avvocato pentito 108 di Paolo Pinti

LIBRI Lo Scaffale

recensioni di Alessandro Bedini e Maria Paola Zanoboni

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MEDIOEVO n. 298 NOVEMBRE 2021

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19/10/21 15:30

MEDIOEVO Anno XXV, n. 298 - novembre 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Franco Cardini è storico del Medioevo. Francesco Colotta è giornalista. Federico Giannini è storico dell’arte. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Stefania Romani è giornalista. Gianpaolo Serone è archeologo. Luca Villa è dottore di ricerca in archeologia medievale. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Cortesia degli autori: copertina e pp. 30-31, 33, 34-45, 68-69, 108-111 – Doc. red.: pp. 5, 60/61, 74, 76/77, 80-81, 85, 87, 88, 90/91, 92-97, 98/99, 102 – Ufficio stampa Studio Esseci: pp. 6-7, 12-14, 48-59 – Cortesia Opera di Santa Maria del Fiore: Claudio Giovannini: pp. 8, 10 – Shutterstock: pp. 32 (basso), 70, 77, 99, 107 – Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: pp. 62-63; AKG Images: pp. 64-65, 66, 78, 82, 104; Erich Lessing/Album: pp. 79, 83 (sinistra), 100/101; Zuma Press: pp. 83 (destra), 103; The Print Collector/Heritage Images: p. 105; Album: p. 106 – da: Il Villani illustrato, Firenze 2005: p. 67 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 72/73 – Alamy Stock Photo: p. 75 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 32.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano In copertina proposta ricostruttiva dello stato originario del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli

Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Nel prossimo numero epidemie

farnese

dossier

Quando i Visconti imposero il lockdown

Il Medioevo sulla rupe

Irlanda. Nella terra dei druidi


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

Dall’Arno alla Senna?

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na delle pagine piú affascinanti, benché dubbie, della vita di Dante, è il presunto viaggio a Parigi che il poeta avrebbe compiuto tra il 1309 e il 1310. Di questa sua trasferta sono testimoni cronisti e commentatori: Giovanni Villani ci informa che «fu cacciato e sbandito di Firenze e andossene allo studio a Bologna e poi a Parigi e in piú parti del mondo». Boccaccio afferma che «già vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave l’andarne a Parigi, dove non dopo molta mora con tanta gloria di sé disputando piú volte, mostrò l’altezza del suo ingegno, che ancora narrandosi se ne meravigliano gli uditori». Nel 1310 Dante aveva ormai 45 anni, un’età vicina «alla sua vecchiezza»: ciononostante, si sarebbe incamminato verso la Sorbona. Si rifletta sui 1100 chilometri che separano Parigi da Firenze e che Dante dovette percorrere quasi certamente a piedi, considerando che le sue risorse erano scarsissime: dopo la condanna, infatti, «gli fu corso a casa e rubata ogni sua cosa e dato il guasto alle sue possessioni». Ottenne qualche aiuto dal fratellastro Francesco, rimasto a Firenze perché estraneo alle vicende politiche che avevano travolto Dante. In un’epoca di voli low cost, potremmo rimanere stupiti da simili camminate, ma, in realtà, stiamo parlando

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novembre

In basso stampa cinquecentesca raffigurante una seduta di laurea tenuta presso l’Università di Parigi. Parigi, Bibliothèque des Arts décoratifs.

della norma: Marco Polo, partito diciassettenne da Venezia nel 1271, giunse ormai ventenne a Pechino nel 1275; e si ricordi che suo padre e uno zio vi erano stati un’altra volta appena nel 1266. Alcuni commentatori hanno voluto scorgere ricordi del presunto viaggio francese in alcuni passi della Commedia, come il ricordo del «Vico de li Strami», la strada in cui erano ubicati gli edifici universitari; quello del «maestro» e «baccelliere», titoli accademici del tempo; oppure l’episodio di Oderisi da Gubbio, in cui cita «quell’arte ch’illuminar chiamata è in Parisi». Se Dante ebbe modo di raggiungere Parigi, forse potè incontrare Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun, avversi al potere papale e sostenitori dell’impero: saranno loro a comporre il Defensor Pacis (1324), in cui viene negato il primato petrino, sottolineando piuttosto la funzione dell’imperatore come effettivo detentore del potere politico. Argomenti certamente cari all’Alighieri che, di lí a pochi mesi, giunse a Milano per assistere all’incoronazione di Enrico VII.

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ANTE PRIMA

Allegretto è tornato! MOSTRE • Grazie

a importanti prestiti, Fabriano celebra il talento di uno dei suoi figli piú illustri: il pittore Allegretto Nuzi. Attivo nella seconda metà del Trecento, ebbe grande successo già presso i contemporanei e la sua opera ispirò una nutrita schiera di seguaci, nelle Marche, ma non solo

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abriano rende omaggio al pittore Allegretto Nuzi, nato nella città marchigiana intorno al 1320, con una mostra che, per la prima volta, riunisce le sue numerose opere oggi disperse in collezioni italiane e straniere. Sebbene siano poche le notizie sui primi anni di attività, Allegretto dovette formarsi in Toscana e, in particolare, a Siena, poiché nel 1346, durante il suo soggiorno fiorentino, risultava

iscritto alla Compagnia di S. Luca come «Allegrettus Nuccii de Senis». Lo scoppio della peste del 1348 lo indusse a rientrare a Fabriano, dove lavorò stabilmente fino alla morte, sopraggiunta nel 1373. Nell’arco di un trentennio, l’artista realizzò numerose opere, di varia tipologia, fra cui altaroli per il culto privato, grandi polittici e cicli affrescati. La qualità dei suoi fondi oro ebbe, da subito e ancor piú nei

secoli successivi, uno straordinario successo e queste opere vennero contese da estimatori e collezionisti, finendo in musei e collezioni non solo fuori da Fabriano, ma anche dall’Italia, tanto che nel nostro Paese non restano i dipinti di devozione individuale. Ecco perché i prestiti ottenuti fanno di questa esposizione un evento di assoluto rilievo, considerando che, fra le opere giunte a Fabriano, figurano ben undici tavole da musei stranieri. Ai lavori di Allegretto sono state affiancate sculture realizzate da altri artisti attivi nel territorio fabrianese, con l’intento di documentare il singolare momento artistico vissuto In alto San Lorenzo presenta i poveri all’imperatore Decio, affresco (ricostruzione) di Allegretto Nuzi. 1370 circa. Fabriano, S. Venanzio, cappella di S, Lorenzo. A sinistra Madonna col Bambino, Santa Maria Maddalena, San Giovanni Evangelista, San Venanzio, pentittico di Allegretto Nuzi. 1340 circa. Fabriano, Pinacoteca civica Bruno Molajoli.

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da questa zona nella seconda metà del Trecento e, soprattutto, sottolineare l’influenza esercitata da Nuzi e dalla sua scuola. Questa capillare «riconduzione all’origine» ha peraltro consentito di riunire parti da tempo disperse di polittici, di mettere a confronto opere che delineano il percorso di un maestro che la dispersione e la conseguente scarsa conoscenza diretta delle sue opere avevano relegato a un ruolo apparentemente locale.

Un innovatore influente Come ha scritto Andrea De Marchi, uno dei curatori della mostra, «Forte della sua educazione toscana Nuzi esercitò un’influenza enorme, fra Umbria e Marche, in sodalizio con il

conterraneo ed emulo Francescuccio di Cecco, importando un linguaggio pacato e monumentale, maturato sul confronto con la tenerezza espressiva dei Lorenzetti a Siena e con i volumi accarezzati di giotteschi fiorentini come Maso di Banco e Bernardo Daddi. Allegretto introdusse nelle Marche tipologie ancora ignote di complessi polittici e squisiti altaroli per la devozione individuale. Nelle iconografie fu innovatore, contribuendo alla diffusione della Madonna dell’Umiltà in area adriatica, piegando le storie della Passione a interpretazioni originali e toccanti. Nelle tecniche pittoriche fu sperimentatore, combinando con grande libertà i punzoni per

Madonna col Bambino in trono tra San Bartolomeo e Santa Caterina, Crocifissione, tempera su tavola di Allegretto Nuzi. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.

comporre i decori floreali dei nimbi e dispiegando scintillanti tessuti operati con fantasie di uccelli e tartarughe, col colore sgraffito per rimettere in luce l’oro del fondo. Da Fabriano dialogò strettamente con i migliori pittori fiorentini suoi coetanei, con Puccio di Simone, con i fratelli Andrea e Nardo di Cione, gli Orcagna. Seppe impalcare cicli murali di rara freschezza, capaci di coniugare la grandiosità semplificata dell’insieme e l’immediatezza narrativa del dettaglio. I principali si conservano ancora nelle chiese di Fabriano, in S. Lucia Novella (cappella di S. Michele e S. Orsola, sagrestia), e nella tribuna di S. Venanzio». Proprio la tribuna di S. Venanzio, oggi cattedrale, eretta negli anni Sessanta del Trecento, è un vertice misconosciuto dell’architettura gotica centro-italiana ed è stata oggetto di una restituzione virtuale fondata su un rigoroso rilievo, qui esperibile in forma immersiva, quale adeguata introduzione alla visita nell’attuale cattedrale, dove sopravvivono, decurtati dalle trasformazioni successive, i resti degli affreschi che rivestivano le cappelle di S. Lorenzo, S. Giovanni e della Santa Croce. Grazie alla collaborazione con la diocesi di Fabriano-Matelica, la mostra presenta anche una piccola sezione presso il Museo Diocesano e nella stessa cattedrale di S. Venanzio, al cui interno è ricostruito un Calvario ligneo coi dolenti. (red.) DOVE E QUANDO

«Allegretto Nuzi e il ‘300 a Fabriano. Oro e colore nel cuore dell’Appennino» Fabriano, Pinacoteca civica Bruno Molajoli fino al 30 gennaio 2022 Info tel. 0732 250658; e-mail: oroecolore@comune.fabriano.an.it; www.pinacotecafabriano.it

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ANTE PRIMA

A tu per tu con Michelangelo RESTAURI • È stato ultimato

l’intervento sulla Pietà Bandini, opera dalla storia travagliata, eccezionalmente visibile da vicino fino al prossimo 30 marzo

È

terminato il restauro della Pietà di Michelangelo dell’Opera del Duomo, nota come Pietà Bandini e conservata a Firenze nel Museo dell’Opera del Duomo. Iniziato nel novembre 2019, interrotto piú volte durante la pandemia da Covid 19, il restauro è stato un’occasione unica per comprendere la complessa storia dell’opera, le varie fasi di lavorazione e la tecnica scultorea utilizzata. Un intervento che restituisce al mondo la bellezza di uno dei capolavori piú intensi e tormentati di Michelangelo, liberato dai depositi superficiali che ne alteravano la leggibilità dell’eccezionale plasticità e la cromia.

Scolpita in un unico blocco L’obiettivo del restauro è stato quello di raggiungere una lettura uniforme ed equilibrata dell’opera, riproponendo l’immagine della Pietà, scolpita in un unico blocco, come probabilmente era stata in origine pensata da Michelangelo. Grazie alla scelta di realizzare un cantiere di restauro «aperto» i visitatori del Museo dell’Opera del Duomo hanno potuto assistere al restauro in corso d’opera. E in via eccezionale, fino al prossimo 30 marzo, l’Opera di Santa Maria del Fiore ha deciso di lasciare il cantiere per permettere al pubblico, con visite guidate, di vedere da vicino e in un modo unico e irripetibile, la Pietà restaurata.

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In alto la Pietà Bandini al termine del restauro. Secondo gli studi piú recenti, Michelangelo avrebbe iniziato a lavorare all’opera poco prima del 1550, lasciandola incompiuta perché insoddisfatto della qualità del blocco di marmo nel quale l’aveva scolpita. A destra un momento del restauro della figura di Nicodemo, a cui Michelangelo diede i suoi tratti.

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ANTE PRIMA In questa pagina, dall’alto immagini che documentano le varie fasi del restauro e ancora un’immagine della Pietà Bandini al termine dell’intervento.

scolpisce la Pietà tra il 1547 e il 1555, rimane però un mistero. Sappiamo anche che Michelangelo non era soddisfatto della qualità di questi marmi, perché presentavano venature impreviste e microfratture difficili da individuare dall’esterno.

Un marmo difficile da lavorare

Le quattro figure che compongono l’opera, tra le quali l’anziano Nicodemo, a cui l’artista ha dato il suo volto, sono scolpite in un blocco di marmo, alto 2 metri e 25 centimetri, del peso di circa 2700 chilogrammi. Le indagini diagnostiche hanno portato alla scoperta che si tratta di un marmo proveniente dalle cave di Seravezza (Lucca) e non di Carrara, come ritenuto fino a oggi. Una scoperta significativa, perché le cave di Seravezza erano di proprietà medicea e Giovanni de’ Medici, futuro papa Leone X, aveva ordinato a Michelangelo di utilizzarne i marmi per la facciata della chiesa di S. Lorenzo a Firenze e di aprire una strada per trasportarli al mare. Come mai questo enorme blocco di marmo fosse nelle disponibilità di Michelangelo a Roma, quando

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Grazie al restauro è stato possibile confermare, per la prima volta, che il marmo utilizzato per la Pietà era effettivamente difettoso, come racconta anche Vasari nelle Vite, descrivendolo duro, pieno d’impurezze e che «faceva fuoco» a ogni colpo di scalpello. Sono infatti emerse tante piccole inclusioni di pirite nel marmo che, colpite con lo scalpello, avrebbero certamente fatto scintille, ma, soprattutto, la presenza di numerose microfratture, in particolare una sulla base che appare sia davanti che dietro, e che fa ipotizzare che Michelangelo, incontrandola mentre scolpiva il braccio sinistro di Cristo e quello della Vergine, sia stato costretto ad abbandonare l’opera. Un’ipotesi piú credibile di quella di un Michelangelo che ormai anziano, scontento del risultato, abbia tentato in un momento di sconforto di distruggere la scultura a martellate, delle quali non è stata individuata traccia, a meno che Tiberio Calcagni – allievo di Buonarroti – non ne abbia cancellato i segni quando intervenne sull’opera per restaurarla. Per informazioni su orari e visite guidate: www.duomo.firenze.it (red.) novembre

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ANTE PRIMA RESTAURI •

S. Margherita è stata per secoli un polo cultuale di primaria importanza. Oggi, strappata all’abbandono e restaurata, diventa un contenitore culturale di grande prestigio

Treviso ritrova la chiesa dei Fiorentini 12

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ondata nel 1282 dagli Eremitani, quasi a ridosso della cerchia muraria di Treviso, la chiesa di S. Margherita, scelta dai Fiorentini come luogo di culto e di sepoltura – tanto che, fra gli altri, vi ha riposato anche Pietro Alighieri, figlio di Dante –, poteva vantare una Madonna attribuita a Gentile da Fabriano e un ciclo di affreschi dedicati a Sant’Orsola, dipinti attorno alla metà del Trecento da Tommaso da Modena, artista che, guardando alla miniatura e alla pittura bolognese, elaborò uno stile naturalistico. Dopo i decreti napoleonici, la struttura religiosa fu utilizzata a scopo militare, subendo importanti manomissioni, poiché venne

Treviso. La facciata della chiesa di S. Margherita. Fondata alla fine del Duecento, la struttura oggi accoglie la Collezione Salce (forte di oltre 50mila manifesti di film) e propone esposizioni temporanee.

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Immagini dell’interno della chiesa di S. Margherita, sulle cui pareti viene proiettata la ricostruzione virtuale del ciclo di affreschi con le Storie di Sant’Orsola realizzato alla metà del Trecento da Tommaso da Modena. I dipinti originali, oggi conservati nel Museo di Santa Caterina, furono staccati e salvati dalla distruzione grazie all’intervento dell’abate Luigi Bailo. adibita a magazzino, a deposito di fieno e quindi a cavallerizza. Solo nel tardo Ottocento, grazie all’intervento dell’abate Luigi Bailo, figura di primo piano nell’ambiente culturale cittadino, gli affreschi, che oggi si trovano nel Museo di Santa Caterina, furono staccati e messi in salvo. Dopo un lungo periodo di abbandono e i danni causati dai bombardamenti del 1944, l’architettura e il suo chiostro sono stati restaurati, per accogliere la Collezione Salce, all’interno di un parallelepipedo monumentale che custodisce oltre 50mila manifesti realizzati dai piú importanti cartellonisti del mondo e ospita mostre temporanee, come quella

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ANTE PRIMA Un’altra immagine dell’interno della chiesa di S. Margherita, con la ricostruzione virtuale del ciclo delle Storie di Sant’Orsola di Tommaso da Modena.

dedicata fino al 1° maggio 2022 al grafico trevigiano Renato Casaro, che con le sue locandine ha conquistato prima Cinecittà e quindi Hollywood.

Dall’abbandono al recupero S. Margherita ha un impianto semplice, con una facciata a capanna in mattoni, alleggerita da rosone, monofore laterali a sesto acuto e arcatelle a tutto sesto che si rincorrono sotto gli spioventi del tetto. A ridosso del luogo di preghiera si trova ciò che rimane del chiostro, che sotto i bombardamenti perse tre dei suoi lati, mentre il quarto venne ridotto a macerie. Il cantiere di restauro, avviato nel 2014 dopo indagini preliminari e attività di consolidamento, ha recuperato gli intonaci antichi e i resti di pitture murali, grazie a interventi conservativi condotti sulle superfici parietali. È stata restituita alla fruizione anche una parte del chiostro, dove sono emerse tracce di affreschi, come il lacerto di una Madonna con Bambino fra due Sante e Serafino, ascrivibile alla fine del Duecento, che si colloca cosí fra le piú antiche testimonianze pittoriche della città. Grazie a un intervento di anastilosi, ovvero di ricomposizione della struttura architettonica attraverso i materiali originali, le colonne superstiti sono state individuate e ricollocate: il braccio claustrale ha riacquisito il volto medievale, proprio grazie al ripristino di materiali d’epoca, i cui resti sono stati integrati con nuovi manufatti, segnalati come tali dalla data di realizzazione. La copertura del chiostro è stata realizzata con tegole provenienti da antichi stabili cittadini, mentre lo sterrato che accoglieva il giardino monastico è stato pavimentato in trachite e sassi di fiume, per ospitare eventi temporanei. Info: www. collezionesalce.beniculturali.it Stefania Romani

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre SUSA-TORINO IL RINASCIMENTO EUROPEO DI ANTOINE DE LONHY Susa, Museo Diocesano fino al 7 novembre Torino, Palazzo Madama, Sala Senato fino al 9 gennaio 2022

L’esposizione punta a ricomporre la figura di Antoine de Lonhy, un artista poliedrico – era pittore, miniatore, maestro di vetrate, scultore e autore di disegni per ricami – che ebbe un impatto straordinariamente importante per il rinnovamento del panorama figurativo del territorio dell’attuale Piemonte nella seconda metà del Quattrocento. Venuto a contatto con la cultura fiamminga, mediterranea e savoiarda, fu portatore di una concezione europea del Rinascimento, caratterizzata dalla capacità di sintesi di diversi linguaggi figurativi. Lonhy visse e lavorò in tre Paesi diversi. Originario di Autun, in Borgogna, si formò sui testi della pittura fiamminga, tra Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. Prima del 1450 era già in contatto con uno dei piú straordinari

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mecenati di ogni tempo, il cancelliere del duca di Borgogna Nicolas Rolin, per il quale eseguí delle vetrate istoriate, purtroppo perdute. Si conoscono poi tutte le tappe del suo percorso attraverso l’Europa, che si concluse nel ducato di Savoia, dove lavorò per la corte e per numerose chiese e monasteri del territorio e dove si spense, probabilmente, prima della fine del secolo. Il percorso espositivo della mostra, articolato nelle due sedi di Palazzo MadamaMuseo Civico d’Arte Antica di Torino e del Museo Diocesano di Susa, vuole mettere in evidenza i viaggi, gli spostamenti e la carriera itinerante attraverso l’Europa di un artista che nelle sue opere riuní insieme elementi e influssi dalla Borgogna, dalla Provenza, dalla Catalogna e dalla Savoia. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

TIVOLI ECCE HOMO: L’INCONTRO FRA IL DIVINO E L’UMANO PER UNA DIVERSA ANTROPOLOGIA Villa d’Este-Santuario di Ercole Vincitore fino al 7 novembre (prorogata)

Ecce homo: sono le parole dette da Pilato nel Vangelo di Giovanni (XIX, 5) nel presentare alla folla Gesú, dopo averlo fatto flagellare e lasciato rivestire per dileggio con un manto rosso e una corona di spine. La scena, sommamente tragica, diviene una delle piú rappresentate della Passione, il cui racconto si snoda in mostra attraverso opere e prestiti illustri da prestigiose collezioni pubbliche e private. L’esposizione intende infatti accostarsi al significato profondo e universale dell’incarnazione e della morte di Cristo, consentendo di intrecciare a essa differenti percorsi antropologici e artistici, trasversali alle epoche e alle sensibilità culturali. Al centro della mostra si pongono la fragilità e la ricerca di senso,

quali condizioni profondamente connaturate all’essere umano e al rapporto con il divino. Il ciclo statuario antico dei Niobidi, rinvenuti a Ciampino (Roma) e ora nelle collezioni dell’Istituto Villa Adriana e Villa d’Este, consente di esplorare il tema del dolore e del lutto, raccontando la strage dei figli di Niobe, uccisi per punire l’alterigia della madre. L’innocenza delle vittime e il trauma della perdita sono il cuore di un racconto che ha attraversato i secoli giungendo ai nostri giorni e interpellando la coscienza e la sensibilità dei moderni. All’opposto cronologico, Nicola Samorí (Forlí, 1977), rappresentato da Monitor, indaga i temi della vulnerabilità, della debolezza della carne, della rottura dell’integrità, lavorando su uno stratificato archivio iconografico, depositato per accumulo nella memoria collettiva e profondamente rielaborato dall’artista attraverso squarcianti intuizioni. info www.coopculture.it; e-mail: villaexhibitions@beniculturali.it SPOLETO INCANTO TARDOGOTICO. IL TRITTICO RICOMPOSTO DEL MAESTRO DELLA MADONNA STRAUS Museo Diocesano fino al 7 novembre

In occasione del restauro dei due sportelli laterali della Collezione Vaticana, raffiguranti due sante poco note – Paola Romana ed Eustochio –, madre e figlia che vissero all’epoca di san Girolamo (fine del IV secolo), se ne è approfondito lo studio e si è cercato di trovare lo scomparto centrale perduto: ora individuato al Museo Diocesano di Spoleto in una tavola frammentata, che raffigura una Madonna in trono col Bambino tra due angeli novembre

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Lorenzo Monaco e di Gherardo Starnina, ma mantenendo sempre una sua originale arcaicità. info tel. 0577 286300; e-mail: duomospoleto@operalaboratori. com; www.duomospoleto.it BOLOGNA FUORI DAI CORI. TRE «QUADRI DI TARSIA» DI FRA DAMIANO ZAMBELLI DA BERGAMO (1480 CIRCA-1549) Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini fino al 5 dicembre

Inserita nell’ambito delle celebrazioni internazionali per l’ottavo centenario della morte reggicortina. Sebbene mutilo della parte inferiore, il dipinto appare stilisticamente affine ed è stato riconosciuto come centro del trittico. L’opera ornava in origine l’altare della cappella di S. Maria presso il castello di Abeto di Preci, da cui l’appellativo di «Maria Santissima di Piè di Castello». Al fine di approfondire lo studio di un pittore di elevatissima qualità non abbastanza noto, è stata selezionata anche un’opera piú tarda da mettere a confronto, la Madonna in trono col Bambino tra due angeli, oggi custodita nel Museo di Arte Sacra e Religiosità Popolare «Beato Angelico» di Vicchio del Mugello. E proprio grazie a questo accostamento è possibile intuire le dimensioni originarie della Madonna di Spoleto, gravemente danneggiata nel terremoto del 1703. Due momenti del percorso del Maestro della Madonna Straus, attivo a Firenze tra il 1385 e il 1415, un pittore che, da un iniziale neogiottismo, lentamente si apre al nuovo stile internazionale, accogliendo in parte i modi di

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vengono approfonditi alcuni postergali che sono in dialogo con le tarsie presentate al museo. I tre mosaici di legname raffigurano infatti composizioni analoghe a quelle visibili nel coro della basilica bolognese, capolavoro di fra Damiano, eseguito con aiuti a partire dal 1541 e terminato un decennio piú tardi, poco dopo la morte dell’artista. info tel. 051 236708; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/arteantica Facebook: Musei Civici d’Arte Antica Twitter: @MuseiCiviciBolo TRENTO ANNA, LA MADRE DI MARIA CULTO E ICONOGRAFIA NEL TIROLO STORICO Museo Diocesano Tridentino fino al 10 dicembre

di san Domenico, la mostra rende omaggio al «principe degli intarsiatori» fra Damiano Zambelli. Del frate bergamasco, trasferitosi nel 1528 a Bologna, dove fu attivo nel convento di S. Domenico per un ventennio, sono esposte due tarsie oggi in collezione privata, rappresentanti una Flagellazione e una Crocifissione, affiancate per la prima volta al commesso ligneo conservato al Museo Davia Bargellini, raffigurante a sua volta quest’ultimo soggetto. L’esposizione si giova della disponibilità della proprietà e del sostegno della Galleria Longari Arte Milano e prevede un focus, attraverso pannelli esplicativi, anche all’interno del coro della basilica di S. Domenico, dove

Frutto di un progetto di ricerca dell’Università di Trento, l’esposizione illustra l’evoluzione del culto e dell’iconografia di sant’Anna fra il XV e il XVIII secolo, concentrandosi sul territorio che oggi va dall’Austria meridionale al Trentino. La figura di sant’Anna ha avuto uno spazio di grande rilievo nella storia del cristianesimo. Come madre della Vergine Maria e nonna di Gesú, è stata al centro di un culto diffuso in Oriente e in Occidente, che pur conoscendo alterne vicende, non è mai venuto meno e ha dato vita a una ricca e variegata produzione artistica. Questo fenomeno ha avuto il suo apice tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, soprattutto nei Paesi germanofoni, incluso il Tirolo storico. In queste terre di montagna, dove le Alpi non sono mai state un elemento divisorio tra realtà artistiche differenti, bensí un luogo d’incontro e di congiunzione

tra influenze diverse, si trovano ancor oggi opere d’arte di estremo interesse legate al culto di sant’Anna. Anche qui, infatti, la santa fu patrona delle famiglie dell’alta borghesia cosí come di orefici, tessitori, falegnami e minatori. La sua figura, inoltre, costituí un importante punto di riferimento per la popolazione femminile, soprattutto per le partorienti, le madri di famiglia e per le donne che faticavano a concepire. Dopo il concilio di Trento, in un clima di generale ridimensionamento del culto dei santi di origine piú o meno leggendaria, la venerazione per sant’Anna diminuí progressivamente in tutta Europa e la sua raffigurazione divenne oggetto di una serie di interessanti «correzioni», tese a eliminare qualsiasi sospetto di scarsa ortodossia. Al pari del suo sposo Gioacchino, infatti, Anna non è un personaggio biblico: nelle Sacre Scritture non si fa mai riferimento ai

genitori di Maria e alla loro storia. Le scarne notizie della sua biografia si desumono dai racconti narrati nei Vangeli apocrifi, ritenuti cioè non autentici dalla Chiesa cattolica. Questa evoluzione teologica e cultuale si riflette in modo esemplare nelle modifiche che l’iconografia di

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AGENDA DEL MESE sant’Anna subí dalla seconda metà del XV secolo al XVIII secolo, cioè nell’arco di tempo indagato dalla mostra. info tel. 0461 234419; e-mail: info@mdtn.it; www. museodiocesanotridentino.it BRESCIA DANTE E NAPOLEONE Palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 15 dicembre

La mostra è compresa nel piú vasto programma di iniziative organizzate dall’Ateneo di Brescia-Accademia di Scienze Lettere e Arti con Fondazione Brescia Musei per celebrare due miti, a 700 anni dalla morte di Dante e, al contempo, a 200 da quella di Napoleone. Il progetto indaga valori, ideali e sentimenti che si addensarono intorno ai due personaggi, descrive un’epoca, i suoi protagonisti, il collezionismo, le tendenze, all’insegna di un comune denominatore: l’Europa. Per la mostra «Dante e Napoleone»

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sono state riunite oltre 80 opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e medaglie, provenienti da collezioni pubbliche e private, in dialogo con il percorso permanente della casa-museo di Paolo Tosio. Opere che documentano l’interesse largamente diffuso per i due grandi personaggi: Alighieri in quanto riferimento delle aspirazioni civili e identitarie della nazione, della quale il poeta era considerato l’unificatore dal punto di vista linguistico; Bonaparte in quanto percepito come colui che, grazie alla costituzione della Repubblica prima e del Regno italico poi, aveva avviato un processo di formazione della coscienza nazionale che diede vita al Risorgimento e all’unificazione della Penisola. info www.ateneo.brescia.it, www.bresciamusei.com MILANO BAGLIORI GOTICI. DAL MAESTRO DEL 1310

AREZZO OMAGGIO AL SOMMO POETA. PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI Palazzo della Fraternita dei Laici fino al 31 dicembre

A BARTOLOMEO VIVARINI Galleria Salamon fino al 17 dicembre

La mostra propone un suggestivo percorso attraverso due secoli di pittura italiana, dalla fine del Duecento ai maestri del tardo gotico, e presenta 18 dipinti su tavola di eccezionale valore. Per buona parte si parla di «nuove acquisizioni agli studi», sebbene molte delle opere fossero già conosciute da Federico Zeri (1921 1998), che disponeva delle relative immagini nella sua fototeca. In alcuni casi – per esempio l’incantevole Madonna col Bambino di Agnolo Gaddi, di certo uno dei vertici dell’esposizione –, le tavole sono state riconosciute meritevoli di dichiarazione d’interesse culturale (notificate) da parte del Ministero della Cultura. Il provvedimento di notifica equivale a dichiarare i dipinti «come degni di far parte delle maggiori collezioni museali italiane», e attribuisce loro la prerogativa di documenti imprescindibili del nostro patrimonio nazionale. info tel. 02 76024638; e-mail: info@salamongallery.com

La mostra propone documenti d’archivio e testi a stampa che inseriscono a pieno titolo la città di Arezzo nell’itinerario delle vicende dantesche. Il percorso, volutamente circoscritto, ma scientificamente documentato, è organizzato nelle sale del prestigioso e antico palazzo di Fraternita (XIV-XV secolo). L’esposizione si apre con una sezione che, attraverso documenti notarili e autorevoli fonti, illustra il legame di Dante e della sua famiglia con Arezzo: il soggiorno del poeta tra il 1303 e il 1304 e la

presenza del fratello Francesco in città per la stipula di un contratto. Nel nucleo centrale appare egemone il ruolo svolto in quegli anni dall’antica Fraternita dei Laici, che vive allora il passaggio da istituzione religiosa e assistenziale a organismo laico riconosciuto dal Comune. Sono quindi esposti gli antichi Statuti, l’elenco dei confratelli iscritti, le riforme e i lasciti novembre

MEDIOEVO


testamentari. È poi la volta delle splendide edizioni a stampa della Commedia e di volumi un tempo appartenuti alla stessa Fraternita che, riccamente illustrati, testimoniano dal XV al XVI secolo, l’enorme fortuna dell’opera dantesca. Tra queste, spicca la pregiata edizione della Commedia (1481), illustrata, secondo l’attribuzione di Giorgio Vasari, da Sandro Botticelli. L’esposizione si conclude con il ritratto a stampa di Dante proveniente dalla Collezione Bartolini ed eseguito da Angelo Volpini nel XIX secolo (stampa di Carlo Lasinio), icona e simbolo della mostra: l’immagine si distingue da altre effigi del poeta in virtú del cartiglio esplicativo, che ne ricorda la genesi da una maschera originale del poeta. info e-mail: info@ fraternitadeilaici.it; www.fraternitadeilaici.it; Fb: Fraternita dei Laici BELLUNO ACQUA FERRO FUOCO. ARTE DELLE SPADE NEL BELLUNESE Museo Civico fino al 9 gennaio 2022

Nel 1578, a Belluno, il mercante inglese Lancillotto Rolanzon, residente a Venezia, e il gentiluomo Giovanni Brone, suo conterraneo, stipularono un contratto con i maestri spadai Andrea e Zandonà Ferrara per la fornitura di 7200 spade all’anno, per i successivi dieci anni. Il documento attesta l’esistenza, alla fine del Cinquecento, di un’attività molto importante, per il volume di spade che una sola fucina era in grado di assicurare e per il mercato di riferimento di questa attività, che, varcando i confini della Serenissima e aprendosi

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novembre

all’Europa, poteva competere con i piú famosi centri spagnoli e tedeschi. Una realtà protagonista della mostra allestita nel Museo Civico bellunese, il cui percorso segue la filiera produttiva dall’estrazione del minerale di ferro nelle miniere, alla prima lavorazione nei forni e nelle fusine grosse, alla produzione delle lame nelle fucine da spade, per gettare uno sguardo alla commercializzazione e all’uso delle armi nella società del tempo. info tel. 0437 956305 MODENA DANTE ILLUSTRATO NEI SECOLI. TESTIMONIANZE FIGURATE NELLE RACCOLTE DELLA BIBLIOTECA ESTENSE UNIVERSITARIA Biblioteca Estense Universitaria, Sala Campori, Gallerie Estensi fino all’8 gennaio 2022

diversissime che permettono di ripercorrere l’intera storia del «Dante figurato», compreso un video realizzato ad hoc dall’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dalla sequenza quasi cinematografica di acquarelli papyrus style nel margine superiore di tutti i fogli del celebre Dante Estense, alle xilografie delle prime edizioni

generale, dell’arte figurativa. info www.gallerie-estensi. beniculturali.it

a stampa, alle rappresentazioni di Gustave Doré, Francesco Scaramuzza, William Blake, fino ai recenti Salvator Dalí e Renato Guttuso, passando per le «imagini» di Amos Nattini, il materiale custodito presso la Biblioteca Estense, rappresentativo – nella sua ricchezza – dell’immensa produzione dantesca, riesce a documentare i diversi modi di leggere la Divina Commedia, illustrando un capitolo della storia secolare del commento e della «fortuna» di Dante Alighieri, oltre che della storia del libro e, piú in

Ottaviano Nelli è protagonista della mostra ospitata nei due luoghi espositivi piú emblematici di Gubbio, il Palazzo Ducale e il Palazzo dei Consoli. Per l’occasione sono state riunite le opere piú importanti del pittore eugubino, quali polittici, anconette e affreschi strappati e al contempo viene proposta una lettura del legame profondo dell’artista con la città e il territorio di cui fu espressione massima nel suo tempo. Formatosi nell’ambito della cultura tardo-gotica, Ottaviano di Martino Nelli (1375 circa-1444 circa)

GUBBIO OTTAVIANO NELLI E IL ‘400 A GUBBIO. ORO E COLORE NEL CUORE DELL’APPENNINO Palazzo Ducale e Palazzo dei Consoli fino al 9 gennaio 2022

L’arte caleidoscopica di

La Biblioteca Estense presenta una mostra unica per la ricchezza del suo fondo dantesco, tra i piú prestigiosi esistenti in Italia e forse nel mondo, attingendo allo straordinario patrimonio relativo al poeta. Allestita nella sala Campori, la rassegna presenta cimeli di estrema rarità, dai manoscritti alle opere a stampa, documenti dalle caratteristiche preziose e

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AGENDA DEL MESE seppe fondere la tradizione locale con elementi desunti dalla pittura lombarda e dalla miniatura francese, sviluppando un linguaggio personale vicino alle soluzioni di Lorenzo Salimbeni e di Gentile da Fabriano. A Gubbio, dove venne ripetutamente nominato console della città, fu a capo di un’attivissima bottega che esercitò una certa influenza in Umbria e nelle Marche. Tematica centrale della mostra, pertanto, è quel Quattrocento eugubino di cui Nelli fu protagonista indiscusso. info www.mostranelligubbio.it FIRENZE LA MIRABILE VISIONE. DANTE E LA COMMEDIA NELL’IMMAGINARIO SIMBOLISTA Museo Nazionale del Bargello fino al 9 gennaio 2022

Negli spazi del Bargello è stata

della quale le opere formano una stringente sequenza che collega fra loro dipinti, sculture e rimandi concettuali e letterari impliciti nella vicenda biografica e poetica di Dante. L’esposizione, che nel titolo – «La mirabile visione» – rimanda agli studi danteschi di Giovanni Pascoli, è articolata in varie sezioni, dedicate alla scoperta del piú antico ritratto di Dante, opera di Giotto, nella cappella del Bargello (1840), alle suggestioni della Vita Nova nella seconda metà dell’Ottocento, ai grandi e tragici personaggi della Commedia rappresentati nell’ambito artistico internazionale, alle opere presentate al Concorso Alinari del 1901 e alle illustrazioni piú affini alla sensibilità simbolista, ma anche alla risonanza della Commedia nella produzione letteraria di Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio. info tel. 055 0649440; www.bargellomusei.beniculturali.it ROMA INFERNO Scuderie del Quirinale fino al 9 gennaio 2022

riunita una selezione di opere che, dalle correnti naturaliste agli influssi europei del simbolismo, illustrano lo straordinario catalogo di immagini che il poema dantesco era in grado di offrire al mondo dell’arte. La mostra è concepita come una narrazione tematica e interdisciplinare, all’interno

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Prima grande rassegna d’arte dedicata a questo tema, Inferno racconta la persistenza dell’iconografia del mondo dei dannati dal Medioevo ai nostri giorni. Accompagnati dalla parola dantesca, i visitatori attraverseranno i luoghi terrifici e le visioni laceranti dell’Inferno cosí come sono stati rappresentati dagli artisti di tutte le epoche, dalle schematiche scene medievali alle sublimi invenzioni rinascimentali e barocche, dalle tormentate visioni romantiche fino alle spietate interpretazioni psicoanalitiche del Novecento. Un’intera

sezione sarà dedicata alle varie traslitterazioni dell’esperienza dell’Inferno in terra: la follia, l’alienazione, la guerra, lo sterminio. Oltrepassato il culmine del Male, la mostra troverà la sua conclusione con l’evocazione dell’idea di salvezza, affidata da Dante all’ultimo verso della cantica: e quindi uscimmo a riveder le stelle. Grazie al supporto straordinario della Biblioteca Apostolica Vaticana, per le prime settimane della mostra sarà concesso in prestito il capolavoro piú celebre ed emblematico di tale iconografia, la voragine infernale di Sandro Botticelli. info www.scuderiequirinale.it

Alighieri ebbe in vita con la città di Bologna, le ragioni della mostra muovono dallo sguardo curioso e dalla attenta sensibilità critica che egli dovette rivolgere verso le arti figurative, di cui dimostrò di essere a conoscenza nei

BOLOGNA DANTE E LA MINIATURA A BOLOGNA AL TEMPO DI ODERISI DA GUBBIO E FRANCO BOLOGNESE Museo Civico Medievale fino al 9 gennaio 2022

Richiamandosi al rapporto, intenso e fecondo, che Dante

piú importanti sviluppi coevi al suo tempo. Il sommo poeta soggiornò a Bologna in piú occasioni: una prima volta probabilmente intorno al 1286-87, quando forse novembre

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frequentò, come studente «fuori corso», l’Università. Piú prolungato dovette essere invece il secondo soggiorno, che lo vide trattenersi in città per almeno due anni, dal 1304 al 1306. Dopo aver lasciato Verona, e poi Arezzo, Dante ricercava ora nella scrittura e nello studio il motivo del suo riscatto che l’avrebbe risollevato dall’ignominia dell’esilio, iniziato nel 1302. Ed è probabile che in queste circostanze abbia scelto proprio Bologna come possibile nuova meta, atta a garantirgli le necessarie risorse per vivere e anche per studiare e scrivere. Una presenza che dovette consentirgli di entrare in contatto con alcuni di quei luoghi deputati alla produzione e alla vendita dei libri, dove probabilmente aveva avuto notizia dello stesso miniatore Oderisi da Gubbio di cui racconta l’incontro, tra i superbi, nell’XI canto del Purgatorio: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’ Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’ all uminar chiamata è in Parisi?” / “Frate”, diss’elli, “piú ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte”». info tel. 051 21939.16-30; e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; facebook: Musei Civici d’Arte Antica; twitter: @MuseiCiviciBolo; www.museibologna. it; instagram: @bolognamusei RAVENNA DANTE. GLI OCCHI E LA MENTE UN’EPOPEA POP MAR-Museo d’Arte della città di Ravenna fino al 9 gennaio 2022

Dopo «Inclusa est flamma» e «Le Arti al tempo dell’esilio»,

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«Un’Epopea POP» conclude il ciclo espositivo «Dante. Gli occhi e la mente» e mostra come la fortuna popolare di Dante cominci già nel Trecento per arrivare fino a quell’universo culturale che chiamiamo genericamente «pop». I suoi versi piú celebri, entrati nel linguaggio comune degli italiani, sono stati

percorso d’arte contemporanea. info tel. 0544 482477; www.mar.ra.it FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 16 gennaio 2022

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie riprodotti in tutto il mondo negli almanacchi e nei calendari, nei poster e nelle magliette; li vediamo scritti nei muri; li riconosciamo nelle pubblicità e nelle canzoni. L’immagine del poeta è divenuta un’icona internazionale, dai monumenti nelle piazze, alla miriade di oggetti che la riproducono. Le storie e i personaggi del poema, soprattutto le atmosfere infernali, hanno generato le piú svariate manifestazioni creative. E la Commedia, tradotta in un centinaio di lingue, si è diffusa attraverso migliaia di edizioni popolari illustrate, commenti e riassunti, riduzioni cinematografiche e parodie televisive, album di figurine, giochi da tavolo, storie a fumetti e cartoni animati. Intrecciato all’intero progetto espositivo, si snoda inoltre un

sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del

clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it ROMA LA «BIBLIOTECA» DI DANTE Palazzo Corsini fino al 16 gennaio 2022

Nell’opera dantesca, e nella Commedia in particolare, la tradizione della cultura classica, cristiana e medievale si ricapitola come in una summa: autori, libri, scuole di poeti e filosofi, enciclopedie, mitologie antiche e dogmi cristiani, scrittori canonici e autori piú eccentrici vengono tutti riattraversati dallo sguardo di Dante, che scrivendo il suo testo ne riscrive simultaneamente la tradizione d’appartenenza. In tal senso sapere di quali letture, di quali libri, si siano materialmente nutrite la cultura e la fantasia poetica dell’Alighieri ha da sempre costituito un interrogativo profondo tanto per i critici che per i lettori per arrivare a una comprensione piú profonda della Commedia. Nella mostra sono dunque esposte per la prima volta tutte le opere da Dante esplicitamente citate e presumibilmente lette, quindi parte d’una sua «biblioteca», secondo i piú recenti accertamenti e secondo un percorso rappresentativo del suo iter intellettuale e poetico. Sono stati per lo piú selezionati codici dei secoli XIII e XIV, ovvero libri che corrispondono alle tipologie manoscritte che Dante potrebbe aver praticato; e si possono inoltre ammirare codici provenienti dal fondo duecentesco della biblioteca

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AGENDA DEL MESE di Santa Croce, il convento fiorentino che, secondo gli studi piú recenti, potrebbe aver ospitato la prima formazione del poeta. info www.lincei.it

Santomaso – ma anche di tanti architetti, talentuosi uomini d’arte, letterati e musicisti che hanno accompagnato il suo divenire. info https://palazzoducale. visitmuve.it; facebook visitmuve ducalevenezia; twitter visitmuve_it, visitmuve_en, ducalevenezia;

FABRIANO ALLEGRETTO NUZI E IL ‘300 A FABRIANO. ORO E COLORE NEL CUORE DELL’APPENNINO Pinacoteca civica Bruno Molajoli fino al 30 gennaio 2022

Fabrianese d’origine e toscano di formazione, Allegretto Nuzi lavorò stabilmente a Fabriano dal 1347 fino alla morte nel 1373, creando un numero rilevante di opere diverse, dagli altaroli per il culto privato ai

instagram visitmuve ducalevenezia

Appuntamenti «impresa impossibile»: riportare a Fabriano una trentina di opere di Allegretto prestate per l’occasione, fra cui undici tavole da musei stranieri. Per dare contezza del singolare momento artistico fabrianese della seconda metà del Trecento, queste opere sono affiancate a sculture di altri artisti del territorio, sculture che nelle loro cromie, ma non solo, risentono in modo evidente dell’influenza di Nuzi e della sua scuola. info tel. 0732 250658; e-mail: oroecolore@comune.fabriano.an.it; www.pinacotecafabriano.it VENEZIA VENETIA 1600. NASCITE E RINASCITE Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25 marzo 2022

polittici di grandi dimensioni, a cicli affrescati. La qualità dei suoi fondi oro ebbe, da subito e ancora piú nei secoli successivi, uno straordinario successo e queste opere vennero contese da estimatori e collezionisti, finendo in musei e collezioni importanti non solo fuori da Fabriano ma anche dall’Italia, tanto che nel nostro Paese non restano i dipinti di devozione individuale. E questa mostra riesce per la prima volta nella

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«L’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedí Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fú dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...»: il mito di Venezia sta anche nella leggenda della sua fondazione, raccontata cosí nel Chronicon Altinate (XI-XII secolo) e coincidente con la posa della prima pietra della chiesa di S. Giacometo a Rivoalto il giorno dell’Annunciazione alla

Madonna. Una leggenda che, tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise insieme racconti che si erano intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del valore di Venezia: città eletta da Dio. Che ora celebra i suoi 1600 anni anche con una mostra messa in scena – è il caso di dire – nel luogo simbolo del potere e della gloria della Serenissima: il Palazzo dei Dogi in piazza San Marco. L’esposizione vuole raccontare – attraverso oltre 250 opere d’arte, manufatti antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno segnato la storia di Venezia, scegliendo un punto di vista inedito, cioè quello degli innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle altrettante rigenerazioni e rinnovamenti che hanno segnato la sua esistenza. «Nascite e rinascite»: tappe salienti della storia e dell’identità di Venezia piú volte chiamata a ridisegnare il suo futuro e ripensare il suo destino, testimoniate dalle opere e dai documenti dei massimi artisti che in laguna hanno operato nell’arco di quasi un millennio – Carpaccio, Bellini, Tiziano, Veronese, Tiepolo, Rosalba Carriera, Guardi e Canaletto, fino a Canova, Hayez, Appiani; e poi Pollock, Vedova, Tancredi,

ROMA DANTE PER TUTTI Teatro Flavio 4 e 18 novembre, 2 dicembre

Riprende la rassegna di letture dantesche che inaugura la stagione del Teatro Flavio. Ogni spettacolo prevede, oltre alla lettura e al commento di un canto, anche l’esposizione di una leggenda medievale che si allinea alle tematiche affrontate nei versi danteschi. Qui di seguito i prossimi appuntamenti. 4 novembre, ore 21,00: lettura e commento del canto I dell’Inferno, a cui è associata la storia del cavaliere irlandese Tantalo, originaria del XII secolo, ma letta nella sua versione trecentesca, in volgare italiano. 18 novembre, ore 21,00: Inferno, canto V: Paolo e Francesca e la leggende del monaco tentato dal diavolo. 2 dicembre, ore 21.00: Inferno, canto X: Farinata degli Uberti e la leggenda di santa Giuliana che incatena il diavolo. info tel. 06 70497905 o 328 1720922; e-mail: info@ teatroflavio.it; www.teatroflavio.it

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MEDIOEVO







ANTE PRIMA

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GLI ARGOMENTI

DANTE

• Fra guelfi e ghibellini • La cerchia del poeta

Un destino tra amore e politica

• Tra fede e fanatismo E LATA NTRIVE A A D RI

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UN DESTINO TRA AMORE E POLIT ICA

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N°46 Settembre/Ott obre 2021 Rivista Bimestrale

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DANTE

In filigrana, c’è naturalmente spazio anche per le grandi creazioni letterarie, culminate nella Divina Commedia, ma il filo conduttore è innanzi tutto legato alle turbolenze e alla sanguinosa divisione fra guelfi e ghibellini che condizionarono la vita di Dante, obbligandolo a dolorose rinunce e a vivere da esule per un ventennio. La sua storia, tracciata a partire dalle testimonianze di Dino Compagni, diviene lo specchio di una realtà piú ampia e si rivela in molti momenti sorprendentemente attuale. Perché, allora come oggi, essere «tutto d’un pezzo» poteva costare molto caro.

In alto particolare di una miniatura a corredo del canto I dell’Inferno, da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Priamo della Quercia. 1442-1450. Londra, British Library.

MEDIOEVO DOSSIE R

el settimo centenario della morte, sottolineare la statura di Dante in quanto poeta e letterato non smette d’essere un’operazione certamente lecita, se non doverosa. Tuttavia, esiste un «altro» Alighieri, la cui vicenda non è meno importante e si dipana nel panorama politico della Firenze e dell’Italia del Trecento: questo alter ego è dunque il protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo» e la sua parabola viene magistralmente ripercorsa da Chiara Mercuri, che ricostruisce, passo dopo passo, il percorso di un uomo rivelatosi ben presto «scomodo» e condannato a pagare un prezzo altissimo per la sua integrità morale.

IN EDICOLA IL 16 SETTEMB RE 2021

N

• Essere di parte • Suggestioni dantesche • L’esilio

06/09/21 16:32

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cividale tempietto longobardo

La visione di un sogno Il Tempietto di Cividale del Friuli è una delle espressioni piú insigni dell’arte e dell’architettura maturate al tempo del regno creato in Italia dal popolo longobardo. E ora la sua spettacolare decorazione «rivive» grazie al restauro virtuale 30

di Luca Villa

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Sulle due pagine la proposta ricostruttiva dello stato originario del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli messa a confronto con l’aspetto odierno del monumento. L’origine dell’edificio è tuttora dibattuta, ma appare verosimile ipotizzare che sia sorto al tempo di Ratchis e Astolfo, che ressero il regno longibardo tra il 744 e il 756.

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cividale tempietto longobardo

C «C

iò che là dentro si vede pare visione di sogno e non realtà…». Cosí, quasi un secolo fa, un visitatore (Giuseppe Marioni) esprimeva l’emozione provata al suo ingresso nell’oratorio di S. Maria in Valle, a Cividale del Friuli, meglio conosciuto come Tempietto Longobardo. Ci sono infatti monumenti, opere, schegge del nostro passato che emanano un’attrazione particolare: il Tempietto Longobardo di Cividale è uno di questi. Un monumento unico, punto di riferimento fondamentale per la storia, l’arte e l’architettura dell’Occidente medievale, che gli è valso, dieci anni fa, il riconoscimento come Patrimonio dell’Umanità, nell’ambito del Sito UNESCO «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)». Chiunque entri nel piccolo oratorio è quasi avvolto e soggiogato dal suo fascino, colpito dalla singolare articolazione dell’architettura e abbagliato dagli scorci dell’originaria decorazione, che fa solo trasparire la bellezza di un tempo, tra cui sicuramente spiccano le maestose figure femminili in stucco e l’avvolgersi del tralcio sulla controfacciata. Questa inaspettata e particolare bellezza, non del tutto svelata, attira ancora sia i visitatori, sia gli studiosi che da tempo si rivolgono al monumento nel tentativo di scorgere e comprendere il segreto delle sue origini. Si è ormai concordi nel ritenere il Tempietto Longobardo una cappella privata sorta nell’ambito della corte

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AUSTRIA Trentino-Alto Adige Ampezzo

Tolmezzo

Cimolais

San Daniele del Friuli

Pordenone San Vito al Tagliamento

Veneto

SLOVENIA Cividale del Friuli Udine Codroipo

Gorizia Palmanova

Latisana

Trieste

regia longobarda (gastaldaga) di Forum Iulii, la futura Civitas Austriae (da cui Cividale), capitale del primo ducato in Italia. Un piccolo luogo di culto, affiancato alla chiesa principale della gastaldaga, S. Giovanni in Valle, frequentato solo dai piú alti funzionari del regno e dalla stessa famiglia reale, quando si trovava a Cividale. Fu eretto nell’ambito di un’area precedentemente

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occupata da altri edifici del primo periodo longobardo, appositamente abbattuti per la sua costruzione che si deve, dunque, alla volontà dei piú alti esponenti del regno. E quale miglior momento vi può essere per immaginarne la nascita, se non quello durante il periodo dei due fratelli cividalesi, Ratchis e Astolfo, figli del duca Pemmone, che ressero le sorti del regno nei decenni centrali dell’VIII secolo, tra 744 e 756, lasciando a Cividale altre importanti opere?

Un’origine dibattuta

Si discute ancora molto sulla sua origine: se appare ammissibile l’attribuzione dell’architettura all’ultimo periodo longobardo, differenti proposte sono state invece avanzate circa l’inquadramento della decorazione interna, che alcuni vorrebbero spostare piú in avanti, addirittura al primo periodo carolingio. Ma la situazione storica, i caratteri stessi di questi ornamenti e persino il riconosciuto legame con le maestranze attive, poi, nella basilica di S. Salvatore a Brescia, inducono a ritenerlo nel suo insieme un’opera pienamente inserita in quello splendido periodo per l’arte e l’architettura che in Italia si è svolto tra l’età di Liutprando (712-744) e quella di Desiderio (757-774). Un’età d’oro, che precorre la ben piú nota

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Ricostruzione assonometrica (in alto) e veduta attuale degli elevati del Tempietto. Nella pagina accanto, in basso particolare dell’affresco con l’immagine di Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele.

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rinascenza carolingia la quale, fino a poco tempo fa, ha avuto maggiore fortuna tra la critica. Il Tempietto fu quindi un’opera dei re. Espressione di un’arte di potere, voluta dai piú nobili tra i Longobardi per celebrare il loro ruolo e testimoniare al mondo la loro eredità. Per farlo, utilizzarono le migliori maestranze del periodo, guardando a quanto si era prodotto o si stava realizzando nelle grandi capitali del passato e del presente: a Ravenna e Roma per esempio. Anche per questo, pur nella imprevedibile particolarità e nello stupore generato da alcune scelte, si scorge nella cappella cividalese quel filo conduttore, quel sentimento che lega l’opera alla piú antica tradizione dell’arte paleocristiana e bizantina.

Alla ricerca della forma primitiva

Comprendere e immaginare come fosse realmente il Tempietto alla sua origine è un sogno che molti hanno avuto o perseguono. Ora, grazie alle ricerche compiute negli ultimi anni e all’occasione offerta da un progetto europeo (RECOLOR; vedi box a p. 45), volto al riconoscimento e valorizzazione dei paesaggi del passato, si è tentato, senza la pretesa di voler svelare tutti i misteri

A sinistra l’aspetto attuale dell’interno del Tempietto Longobardo, messa a confronto, in alto, con la proposta ricostruttiva del suo assetto originario.

di questo monumento, di proporre le visioni di quella che poteva essere la primitiva forma: cosí come appariva agli ultimi re longobardi. Si tratta di uno sforzo sicuramente impegnativo, forse anche ambizioso, e con una buona dose di rischio, di cui si è consapevoli. Per questo, lungi dal voler presentare questa esperienza come un dato di fatto, oggettivo, la si vuole proporre unicamente come un mezzo per migliorare la percezione di quanto conservato e visibile. Non si tratta comunque di un’operazione di pura forma e immaginazione, ma il risultato di un lungo lavoro di acquisizione e valutazione dei dati, alcuni già noti, altri inediti o emersi per l’occasione. Si è poi ri-

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velato anche un utile strumento conoscitivo per perfezionare alcune questioni interpretative. Sicuramente alcune proposte potranno, anzi dovranno essere riviste alla luce delle nuove scoperte che verranno alla luce con il proseguire degli interventi e delle analisi sul monumento. Magari proprio in seguito ai restauri che sono in previsione. È però anche questo il bello della ricerca e della scoperta. La certezza di non poter mai scrivere una parola definitiva. La chiave di lettura che si è voluta proporre è basata su un preciso percorso metodologico, che parte dalla numerosa e variegata documentazione disponibile. La corretta valutazione dello stato attuale ha costituito il punto di partenza. novembre

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L’immagine del Tempietto, come appare oggi, non è certo fedele a quella del periodo longobardo, sebbene in età moderna sia stata privilegiata la messa in luce e conservazione degli elementi riconducibili a quella fase. Il monumento giunto fino a noi è il frutto di numerose trasformazioni subite nel corso del tempo, sia in seguito a eventi esterni, sia per il necessario adeguamento alle varie epoche e alle diverse concezioni ornamentali, influenzate anche dalle diverse funzioni svolte: per esempio, nel passaggio da cappella nobiliare privata a oratorio monastico, che avvenne probabilmente fin dal tardo periodo longobardo o nella prima età carolingia, tra fine dell’VIII e il IX secolo. L’inserimento, nell’ultimo quarto del XIV secolo, di un coro ligneo nell’aula dell’oratorio e la realizzazione degli affreschi medievali su alcune pareti, ora per la maggior parte rimossi, sono la testimonianza principale delle evoluzioni che si sono susseguite e che solo in parte si possono cogliere.

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È comunque certo che, fino alla metà del secolo scorso, il Tempietto era un edificio diverso dall’attuale. L’aspetto odierno della cappella è infatti frutto dei restauri succedutisi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, sino a quelli effettuati negli anni Ottanta del secolo scorso. Interventi che hanno imposto scelte importanti, mediando tra le esigenze di conservazione e la volontà di ripristino del primitivo assetto, senza tuttavia poter fare emergere una reale fase originaria.

Vedere l’invisibile

Ciò che questi interventi non hanno potuto fare – fortunatamente, si potrebbe dire – appare ora possibile, senza alcun rischio di stravolgere la complessità storica e monumentale dell’oratorio, grazie alle tecniche di manipolazione digitale, che permettono di giungere alla creazione di una realtà virtuale, assai utile per rendere visibile ciò che non c’è piú o che si può cogliere solo in parte. Tali attività di rielaborazione dell’imma-

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cividale tempietto longobardo

gine dell’edificio hanno coinvolto diverse professionalità, con adeguata esperienza nel valutare e riproporre le architetture antiche, trovando nella società Katatexilux un importante punto di appoggio tecnico per ricreare la proposta figurativa di come doveva apparire il Tempietto in epoca altomedievale. La definizione dell’architettura e dei volumi è stata possibile grazie alla creazione di un modello tridimensionale, che ha consentito di «correggere» e riportare all’aspetto primordiale le trasformazioni che hanno in parte modificato i volumi. È stato cosí possibile riproporre l’esatta collocazione dell’ingresso nel presbiterio, spostato nella posizione attuale solo in seguito alle ricostruzioni bassomedievali che interessarono il lato meridionale dell’edificio. È stato ripristinato anche il corretto sviluppo della volta che copriva l’aula, piú accentuata verticalmente rispetto a quelle ricostruita dopo il terremoto duecentesco che l’aveva distrutta, pro-

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vocando probabilmente anche la scomparsa di buona parte della decorazione in stucco delle pareti nei lati sud e nord e, forse, anche a est. Sebbene non propriamente legato alle questioni architettoniche, anche il ricollocamento della recinzione presbiteriale nella posizione originaria, cioè tra le due colonne che reggono verso occidente i voltini del presbiterio, consente di conferire all’interno dell’oratorio un diverso rapporto spaziale tra aula e presbiterio. È però nello sforzo di ricomposizione dell’originario aspetto delle decorazioni interne che il restauro virtuale consente di meglio comprendere i caratteri di questo prezioso monumento longobardo. Oltre al disegno della corretta forma dell’opus sectile pavimentale, come suggeriscono i brani rimasti o quelli visti in passato, a rendere giustizia della qualità delle scelte ornamentali operate è l’integrazione delle scomparse decorazioni marmoree, nella parte bassa novembre

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delle pareti, degli affreschi, nella fascia mediana, e degli stucchi, attorno agli arconi e nella parte superiore. La ricchezza cromatica che si può rappresentare nelle ipotesi ricostruttive costituisce forse uno degli elementi che può colpire di piú, ma che appare anche tra i piú consueti per le produzioni artistiche dell’epoca paleocristiana e altomedievale.

Nel solco della tradizione

L’aspetto piú sorprendente è però costituito dalla complessiva organizzazione delle decorazioni sulle pareti che, in una insolita articolazione spaziale, grazie al fondamentale ruolo ordinatore svolto dalle fasce orizzontali e dai marcapiani in stucco per sottolineare i vari livelli, appare in grado di dare un particolare equilibrio compositivo all’insieme, facendo trasparire oltre agli aspetti innovativi quel profondo legame con la tradizione dei grandi monumenti

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A sinistra, sulle due pagine proposta ricostruttiva della primitiva decorazione ad affresco sulla parete sud dell’aula. In alto la parete nord dell’aula prima dei restauri della metà del Novecento.

Qui sopra parete nord dell’aula. L’affresco della lunetta, con la Vergine Hodighitria, durante i restauri che hanno proposto l’integrazione dei resti dipinti, poi eliminata negli anni Ottanta del Novecento.

dell’arte e dell’architettura cristiana di cui il Tempietto costituisce un degno successore. L’apparto ornamentale, come si può ricomporre, risulta ben inquadrato in un programma iconografico che richiama le scelte di piú elevata qualità dei luoghi di culto paleocristiani e altomedievali d’Italia, e non solo. Un racconto figurativo che a Cividale risulta incentrato sulla figura del Salvatore a cui il Tempietto era probabilmente dedicato. Cosí, il repertorio proposto nelle lu-

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cividale tempietto longobardo nette degli arconi, con Cristo tra arcangeli, sulla parete ovest, e la Vergine (Hodighitria, che indica la via), con Bambino tra arcangeli, nella parete nord, possiamo intuire possa essere completato dalla rappresentazione di una Deesis nella lunetta meridionale, dove manca qualsiasi traccia dell’originario dipinto. Un importante esempio è costituito dalla raffigurazione di Cristo tra Maria e san Giovanni Battista, il precursore, in un affresco del VII secolo della chiesa di S. Maria Antiqua, A Roma, giustamente considerata uno dei monumenti

che offre importanti riferimenti per inquadrare la cultura artistica dei dipinti del Tempietto di Cividale. Se nella Deesis della lunetta meridionale possiamo immaginare la Vergine e Giovanni Battista che intercedono per il genere umano, i santi raffigurati a lato degli arconi, cosí come le sante in stucco dell’ordine superiore, rappresentano, secondo le attestate consuetudini iconografiche del periodo, gli intercessori tra i credenti, ma in questo caso potremmo anche dire, tra i componenti della corte regia e il cielo. Un aspetto che pare concordare anche con la possibile destinazione dell’oratorio nobiliare a preziosa cappella reliquiario.

Confronti e riscontri

La teoria di offerenti e intercessori del Tempietto ha molti riscontri in epoca paleocristiana e altomedievale, nelle decorazioni delle navate e delle parti presbiteriali delle basiliche cristiane. Se le sante in stucco sono connotate con caratteri tipici, quali le corone del martirio e le croci, la presenza di simili connotati si può intravvedere anche negli affreschi dei santi ad affresco della fascia inferiore, tra cui cinque sono rappresentati con il tipico abito militare mentre uno, nell’angolo sudest dell’aula, sembrerebbe apparire nella veste di un

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In basso veduta attuale della parete di fondo orientale nella navatella sud e, a destra, proposta ricostruttiva dell’aspetto originario.

vescovo. Cosí lo descriveva Hjalmar Torp, vedendo la presenza di alcuni particolari dell’abito liturgico (la casula o penula), che non è stato però possibile riscontrare nelle parti ora visibili dell’affresco. Ciononostante, si notano sicuramente alcune differenze rispetto alle altre figure, come, per esempio, la tunica che non si interrompe al di sotto delle ginocchia, ma giunge sino alle caviglie. Se si tratta realmente di un santo vescovo o, comunque, in abiti liturgici, appare assai probabile, secondo i riscontri di simili rappresentazioni del periodo o precedenti, che fosse raffigurato con un libro gemmato nella mano sinistra. La restituzione dell’apparato dipinto dell’oratorio, oltre a potersi basare sull’inquadramento del programma iconografico, ha riguardato anche lo sforzo di riconoscere la tavolozza dei colori utilizzata negli novembre

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affreschi. Ciò è stato possibile grazie alle osservazioni condotte sui resti dei dipinti della parete ovest durante una campagna conoscitiva condotta a partire dal 2010, quando è stato possibile raggiungere da vicino le decorazioni sulle parti alte della controfacciata occidentale. Indagini strumentali non invasive (XRF-fluorescenza a raggi X) e l’analisi su sezione sottile e lucida di alcuni campioni (anche al SEM-microscopio a scansione elettronica) hanno consentito di riconoscere alcuni pigmenti, ricomponendo un panorama dove, accanto all’ampio uso di colori a base di terra (ocre), si osserva anche quello di composti a base di rame (azzurrite) e di piombo (minio). Altri approfondimenti sulla tecnica seguita per la realizzazione degli affreschi, grazie a osservazioni macroscopiche e con l’ausilio di microscopio digitale – poi completate da fotografie multispettra-

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li e da indagini con il metodo dell’ipercolorimetria –, hanno suggerito la presenza e distribuzione di alcuni pigmenti. Sebbene non esaustivi e ulteriormente da ampliare, questi dati costituiscono un primo modello di riferimento dei colori usati nei dipinti e hanno fornito utili indicazioni per il restauro virtuale. La decorazione figurativa appare poi completata dalle rappresentazioni sulle lunette della parete di fondo del presbiterio, dove vari elementi indicano l’esistenza di una originaria decorazione musiva. Non si esclude che gli affreschi medievali dell’Annunciazione e degli Apostoli Pietro e Paolo, presenti nella navatella centrale e meridionale, siano in realtà la riproposizione di piú antiche figurazioni musive con gli stessi soggetti. Difficile dire cosa potesse trovar posto nel settore settentrionale. Presumibilmente si trattava sempre di due

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cividale tempietto longobardo

In alto la parete ovest del Tempietto, cosí come si presenta oggi e, a destra, la ricostruzione della decorazione originaria della controfacciata. Sei figure femminili dominano la parte superiore, mentre, in quella inferiore, la lunetta sopra l’ingresso reca l’immagine di Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele.

figure disposte ai lati della finestra: forse il Battista e l’Evangelista, a cui si possono accostare le dedicazioni degli edifici di culto della gastaldaga regia? Decorazioni musive dovevano ornare anche i voltini del presbiterio e, probabilmente, anche la volta dell’aula. Il tema del cielo stellato, tanto caro alla produzione paleocristiana

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e utilizzato anche in seguito, potrebbe risultare una proposta sensata e meno impegnativa di quella che prevede la presenza di una croce centrale o di girali vegetali su sfondo d’oro o blu, come attestato altrove. Un’ultima questione riguarda la decorazione in stucco che vede nel Tempietto di Cividale una delle novembre

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massime espressioni conservate per il periodo altomedievale. L’esistenza di semicolonne in stucco al di sotto dei capitelli che reggevano gli arconi è confermata dalla presenza di chiodi in ferro ai lati delle nicchie, riferibili al sistema di aggancio alle pareti. Sulla base dei piú recenti riscontri è stato poi possi-

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bile riproporre il corretto andamento delle fasce orizzontali e dei marcapiani, soprattutto di quello a fregio stellato nella parte piú alta delle pareti che sicuramente risultava correre senza soluzione di continuità anche sulle strutture di imposta della volta dell’aula. La riproposizione delle porzioni di archi in stucco,

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cividale tempietto longobardo il ripristino delle pitture

Restaurare con il mouse Il lavoro di restauro e di integrazione digitale, realizzato con il programma di fotoritocco Adobe Photoshop, è stato preceduto dalla valutazione dei fenomeni di degrado che attualmente affliggono le pitture. A carico della pellicola pittorica si attestano abrasioni, graffi e cadute, gravi lacune interessano gli strati preparatori e il degrado varia molto da parete a parete, da pittura a pittura. Le principali fasi del lavoro hanno riguardato: In alto l’affresco della nicchia occidentale nel suo stato attuale e come doveva apparire in origine. In basso particolare del Cristo nell’affresco della nicchia occidentale: lo stato attuale, il restauro virtuale.

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1. ricucitura dell’usura e delle abrasioni della pellicola pittorica; 2. integrazione mimetica delle lacune suscettibili di ricostruzione; 3. ripristino virtuale delle lacune non suscettibili di ricostruzione. Nel primo caso è stata conferita maggiore matericità alla pellicola pittorica, dopo avere riconosciuto e campionato il colore originale da riprodurre: scegliendo la tipologia tra una vasta

originariamente presenti, ma poi caduti nel corso del tempo, è stata possibile realizzando repliche delle porzioni di queste decorazioni tuttora conservate, sull’arcone e sulla finestra della controfacciata occidentale o sulla finestra della parete nord. Si è cosí potuto riproporre la decorazione plastica, attestata in alcuni casi dai chiodi di aggancio, sia sugli arconi e sulle finestre dell’aula, sia sul triplice arco in laterizi della fronte del presbiterio, sia sull’arcone della parete di fondo orientale. La teoria di sante in stucco è stata poi riproposta a gruppi di tre, replicando i modelli raffigurati sulla controfacciata, anche tra le finestre della parete sud e nord dell’aula. Per quel che riguarda la parete est, sopra gli archi in stucco del triforium, si è per il momento preferito, per evitare forzature, non indicare alcuna decorazione, vista la mancanza di tracce e la difficoltà di trovare esatti riscontri. Un elemento di grande interesse riguarda infine la finitura degli stucchi che, come spesso è stato suggerito, dovrebbe prevedere una colorazione superficiale. Questo è sicuramente vero per alcune parti della decorazione plastica, come quella relativa alle sante della teoria nella fascia superiore, dove alcuni particolari non risulterebbero visibili se non rimarcati dal colore. Forse una diversa prospettiva riguarda invece gli ornati degli arconi e dei marcapiani, dove, oltre all’assenza di significativi indizi, gli aspetti coloristici sembrerebbero sottolineati dal chiaroscuro del traforo dell’arco vitineo e dalle perle vitree inserite al centro dei fiori. novembre

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gamma di possibilità, calibrando lo spessore e la durezza del tratto, ispirandosi alle aree di pittura meglio conservate. Per quel che riguarda il secondo aspetto, le lacune sono state risarcite direttamente a «Pennello» oppure duplicando e copiando piccoli pattern prelevati da aree limitrofe di colore ben conservato e cercando di imitare la texture originale e l’andamento delle pennellate. La restituzione virtuale della lunetta raffigurante

il Cristo tra arcangeli è esemplificativa dell’applicazione di queste prime due fasi. Anche là dove lo stato conservativo della pittura era caratterizzato da abrasioni e cadute di pellicola pittorica abbastanza limitate è stato possibile ricucire con fedeltà la pittura. L’ampia lacuna che interessava il volto dell’arcangelo Gabriele è stata invece colmata duplicando e specchiando il volto meglio conservato e precedentemente «restaurato» dell’arcangelo Michele. Il ripristino virtuale

di lacune non suscettibili a ricostruzione (terza fase) è stato qui favorito dalle caratteristiche iconografiche della raffigurazione, organizzata in modo speculare. La reintegrazione della lunetta che raffigura la Vergine con Bambino tra arcangeli è stata estremamente complessa, visto che il brano superstite restituisce una piccolissima parte della composizione originaria. Anche in questo caso il lavoro è proceduto per tappe. Dapprima sono state ricucite le abrasioni,

poi reintegrate lacune all’interno del brano e infine, per rievocare quanto non conservato, è stato necessario guardare a esempi iconograficamente piú vicini, secondo quanto già indicato da Hjalmar Torp: in particolare, il mosaico absidale della chiesa dell’Angeloktistos a Kiti (Cipro). Il ripristino è stato effettuato cercando il piú possibile di avvicinare e imitare lo stile del dipinto, secondo la tavolozza di colori che è stata riconosciuta. Valeria Valentini

Le varie fasi del restauro virtuale dell’affresco della nicchia settentrionale raffigurante la Vergine con il Bambino fra arcangeli.

Gli studi piú recenti hanno rivelato che, in origine, le figure in stucco delle sante erano vivacemente colorate MEDIOEVO

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cividale tempietto longobardo Sulla base di quanto conservato appare comunque complicato ricostruire la qualità cromatica delle finiture degli stucchi. Le osservazioni compiute nel 2010 hanno permesso di verificare alcune lievi tracce di colore. Oltre a quelle rossastre già note sui visi delle sante e martiri, è stato possibile individuare limitate porzioni di colorazione ocra, a base di pigmenti terrosi, anche in due punti sulle vesti. La mancanza di piú importanti evidenze potrebbe dipendere dal possibile dilavamento dei colori o, meglio, da una profonda ripulitura che ne ha eliminato ogni traccia. Un restauro antico eseguito forse in un’epoca in cui lo splendore candido, quasi marmoreo delle figure poteva risultare meglio apprezzabile?

Una patina bianca

Una possibile profonda ripulitura delle sante e martiri sembrerebbe confermata anche dal fatto che, in alcune pieghe dei vestiti o dei visi, rimangono parti di un livello superficiale di rivestimento, realizzato con una patina bianca di calce. Compare con maggiore evidenza nella decorazione a intreccio del sottarco occidentale dove, nella parte liscia, risulta dipinto di rosso, come riscontrato anche negli occhi e nella bocca delle sante. Difficile dire se si tratti di una patina originaria, stesa magari prima della finitura dipinta, o se sia In alto lo stucco del sottarco occidentale con tracce della patina superficiale biancastra e della colorazione rossa. A sinistra tracce di colore rosso sul viso di una santa della parete ovest. Nella pagina accanto fiore in stucco del marcapiano con perla vitrea.

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Il Progetto RECOLOR

Insieme per la valorizzazione Il Progetto RECOLOR, Reviving and EnhanCing artwOrks and Landscapes Of the adRiatic (Riscoperta e valorizzazione dei beni artistici e paesaggistici dell’Adriatico) è stato finanziato dal programma Interreg V-A Italia-Croazia 2014-2020. Oltre a Cividale del Friuli, coinvolge altri sette partner: Regione Emilia-Romagna, in veste di capofila, Università di Bologna, Politecnico di Sebenico, Comune di Campobasso, Montefeltro Sviluppo Scarl, Comune di Albona e Città di Zara. La finalità è quella di aumentare, anche con l’aiuto di tecnologie innovative, l’attrattività dei paesaggi urbani e rurali italiani e croati caratterizzati da un rilevante patrimonio culturale. Si tratta dunque di un’operazione di valorizzazione e promozione dei Landscape of art (Paesaggi d’arte). stata aggiunta in un secondo momento. Comunque sia, le minime tracce di colore rimaste non consentono di indicare quale potesse essere la finitura colorata originaria degli stucchi. Sembrerebbero comunque in linea con gli esempi altomedievali romani delle sante rappresentate in teoria di offerenti, come nella cappella di S. Zenone o nel catino absidale di S. Prassede

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(inizi IX secolo), o di quelle raffigurate con ricchi costumi principeschi, come nei frammenti di S. Susanna al Quirinale (prima metà dell’VIII secolo), o vestite piú semplicemente, con tunica e palla, come nel dipinto di Santa Giulitta in S. Maria Antiqua (cappella di Teodoto, dell’epoca di papa di Zaccaria, 741-757). In questi casi paiono prevalere, per le vesti, i colori tenui, terrosi, di tono chiaro, derivanti dalle diverse sfumature dell’ocra, mentre piú accesi sembrano solo i particolari degli elementi preziosi e di corredo delle vesti. L’immagine ricostruttiva proposta per gli stucchi si basa comunque sullo stesso principio con cui è stato realizzato tutto il restauro virtuale: senza la pretesa di riprodurre il vero aspetto dell’oratorio altomedievale dei re longobardi nella corte cividalese, ma semplicemente di suggerire, sulla base della piú attenta valutazione scientifica della documentazione disponibile, come poteva apparire. Uno sguardo fugace e perfettibile sull’originario Tempietto Longobardo.

Dove e quando Tempietto Longobardo e Monastero di S. Maria in Valle Cividale del Friuli, via Monastero Maggiore 34 Info tel. 0432 700867; www.tempiettolongobardo.it

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maestri del gotico di Federico Giannini

Bagliori al «tempo dei Goti» Sorta in Italia con sensibile ritardo rispetto ai Paesi d’Oltralpe, l’arte gotica rivela tuttavia una notevole capacità di persistenza, affiancando a lungo, soprattutto nella sua variante «internazionale» e «cortese», la contemporanea affermazione del linguaggio rinascimentale. Una mostra a Milano, dedicata alla pittura italiana tra il XIV e il XV secolo, è testimone di questa singolare continuità

Tutti i dipinti riprodotti nelle pagine che seguono sono attualmente esposti nella mostra «Bagliori Gotici», in corso a Milano presso la Galleria Salamon. Sulle due pagine Giudizio Finale (particolare; intero a p. 53), dipinto su tavola di Niccolò di Tommaso. 1360-1365.

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maestri del gotico

M «M

a, benché il defunto padre mio Grangola di buona memoria, avesse dato ogni cura a ciò ch’io profittassi d’ogni perfezione e sapere politico e il mio lavoro e studio corrispondessero benissimo, anzi oltrepassassero il suo desiderio, tuttavia, come puoi ben capire, il tempo non era tanto propizio alle lettere e comodo come ora, e non avevo copia di precettori tali quali tu hai havuto. Il tempo era ancora tenebroso e sentiva l’influsso malefico e calamitoso dei Goti che avevano distrutto ogni buona letteratura. Ma, per

la bontà divina, luce e dignità sono state restituite alle lettere in questa età e si vede tale progresso che difficilmente oggi sarei promosso nella prima classe degli scolaretti, io che nell’età virile ero (non a torto) reputato il piú sapiente del secol nostro. (…). Ora tutte le discipline sono rifiorenti, le lingue restaurate: la greca senza la quale sarebbe onta chiamarsi sapiente, l’ebraica, la caldea, la latina. Sono in uso stampe elegantissime e corrette, inventate al tempo mio per ispirazione divina come, per contro, l’artiglieria per ispirazione diabo-

lica. Tutto il mondo è pieno di persone sapienti, di precettori dottissimi, di ben provveduti librai, e parmi che nemmeno al tempo di Platone, o di Cicerone, o di Papiniano, fosse tanta comodità di studio quanta ora si vede. Non si troverà piú d’ora innanzi in alcun posto o compagnia chi non sia stato ben forbito nell’officina di Minerva. I briganti, i carnefici, gli avventurieri, i palafrenieri d’oggi son piú dotti che i dottori e predicatori del tempo mio» (François Rabelais, Gargantua e Pantagruel, I, 8). L’affettuosa lettera di Gargantua al figlio Pantagruel – quest’ultimo appena arrivato da Orléans a Parigi per seguire i corsi della SorboA sinistra Madonna col Bambino, dipinto su tavola dell’artista noto come Maestro del 1310. Inizi del XIV sec.

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Nella pagina accanto, in alto San Francesco che riceve le Stimmate e Ultima Cena, dittico di Jacopo del Casentino. 1320 circa. A sinistra il particolare dell’Ultima Cena, nella cui rappresentazione compare una scena piuttosto rara, vale a dire l’abbraccio disperato di Giovanni a Cristo, che indica Giuda come colui che lo tradirà.

na –, contenuta nel Libro secondo dell’opera di Rabelais, costituisce, a parere degli storici, l’atto di nascita della stagione rinascimentale in Francia; e si tratta, al contempo, della prima condanna, sia pur limitata all’ambito prettamente letterario, della cultura del «tempo dei Goti», nel Paese che, nondimeno, dell’arte e dell’architettura gotica conservava senza ombra di dubbio le piú alte testimonianze. Facendo opera di contestualizzazione, consideriamo che Rabelais scriveva attorno al 1530 – la prima edizione del Pantagruel è del 1532 –, e dunque l’epoca «tenebrosa» a cui alludeva il vecchio Gargantua altra non era se non lo scadere del XV secolo: la medesima fase storica che in Italia era nel frattempo mar-

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cata da personalità quali Lorenzo il Magnifico, Ercole e Isabella d’Este, Ferrante d’Aragona e dai papi Sisto IV Della Rovere e Innocenzo VIII Cybo, ovvero proprio coloro che consideriamo i grandi principi del nostro Rinascimento.

Coesistenza di linguaggi

Questa sfasatura cronologica si spiega da un lato con il prestigio della tradizione dell’arte gotica in Francia, che costituiva certo un argine al diffondersi di un nuovo gusto proveniente da meridione. Tuttavia, anche nella Penisola, l’affermazione del linguaggio che identifichiamo come rinascimentale, nell’arte e nell’architettura, fu un fenomeno assai compassato, che attraversò quasi tutto il Quat-

trocento con tempi e forme diverse di regione in regione, e talvolta persino nei medesimi territori. Il famoso affresco dell’oratorio dei Disciplini a Clusone, in Val Seriana, con Il trionfo della morte e la Danza macabra, porta i segni di una cultura formale che è quella della civiltà del tardo-gotico lombardo; eppure venne realizzato da Giacomo Busca nel 1485: dieci anni piú tardi rispetto al completamento nella vicina Bergamo, da parte di Giovanni Antonio Amadeo, della cappella e del monumento sepolcrale di Bartolomeo Colleoni, capolavoro riconosciuto del Rinascimento italiano; e per giunta nello stesso anno in cui verosimilmente Leonardo consegnò – e si vide rifiutare – alla confraternita dell’Im-

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maestri del gotico macolata Concezione la prima redazione della Vergine delle rocce, oggi al Museo del Louvre, ma che era destinata alla chiesa di S. Francesco Grande a Milano.

Il tempo dell’oro

Proprio a Milano una mostra di notevole pregio, organizzata dalla Galleria Salamon al piano nobile di Palazzo Cicogna in via San Damiano, mette ora in luce i caratteri della persistenza della civiltà gotica nella pittura italiana tra Trecento e Quattrocento. Già il titolo, «Bagliori gotici. Dal Maestro del 1310 a Bartolomeo Vivarini», indica con precisione quale sia il tema portante della rassegna: lungi da quanto affermava Gargantua nella lettera a Pantagruel, il «tempo dei Goti» nell’arte fu tutt’altro che tenebroso, segnato casomai dalla luce dell’oro sulle tavole dipinte, da quella delle vetrate nelle chiese e delle sontuose cromie nei codici miniati. E nella pittura italiana in particolare il tempo dei Goti non si circoscrive all’epoca condannata da Rabelais nel brano sopra riportato: la temperie gotica nelle arti figurative della Penisola si esprime per circa due secoli, dalla fine del Duecento sino alla metà del Quattrocento, lasciando peraltro la sua eredità formale a nutrire la maniera di grandi artisti della nuova stagione, alcuni dei quali – per esempio appunto i Vivarini – tuttavia avvertivano il loro temperamento come poco in linea con i progressi in chiave luminosa della pittura contemporanea. Punti estremi del percorso della mostra sono l’anonimo artista pistoiese noto come il Maestro del 1310, uno dei pittori che meglio incarnano in Toscana l’introduzione di quegli accenti espressivi che caratterizzano la miniatura francese dalla metà del XIII secolo in poi; e Bartolomeo Vivarini, un autore veneziano della seconda metà

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Arte e pandemie

Il Giudizio divino dopo la peste Lo storico dell’arte statunitense Millard Meiss, autore del fondamentale testo Pittura a Firenze e Siena dopo la Morte Nera (Princeton 1951; edizione italiana, Torino 1982), notava come dopo la pandemia degli anni 1347-51 alcune iconografie religiose della pittura – in particolare in Toscana – fossero radicalmente mutate. Si trattava, a suo parere, dell’ovvia conseguenza di un momento storico terrificante, nel quale le cittadinanze di tutta Europa non riuscivano a darsi ragione di una strage che non pareva possibile arrestare o limitare in alcun modo (si stima che le vittime dell’epidemia furono circa 20 milioni, almeno un terzo dell’intera popolazione del continente). Secondo Meiss, fra le iconografie che piú vennero modificate vi è quella del Giudizio Finale: e quest’assunto non sorprende, dal momento che nelle pagine di cronisti come Matteo Villani, come in quelle di illustri poeti quali Francesco Petrarca, la peste assume il valore di nuovo Diluvio biblico, espressione della collera rinnovata di Dio davanti ai peccati reiterati degli uomini; e ipso facto anticipazione del giorno del giudizio. Se nel Giudizio Universale affrescato da Giotto all’inizio del secolo sulla controfacciata della Cappella degli Scrovegni, Cristo appare in cielo da solo entro la mandorla, con sguardo benevolo rivolto verso i beati, nella tavola di Niccolò di Tommaso oggi in mostra a Milano, risalente al 1360-65 circa, egli compare insieme alla Madre. Ma mentre questa, dall’indole compassionevole, si trova sul lato dei beati, Cristo, descritto come giudice impassibile, sta comminando la sua condanna dalla parte opposta, su dannati che, appena fuoriusciti dagli avelli, sono trattenuti e ricacciati indietro da parte di spaventosi demoni. In altri termini la peste con le sue devastazioni aveva mostrato con evidenza quanto potesse essere severo e insindacabile il giudizio divino sulle colpe dell’umanità. E quanto dunque risultasse necessario per i fedeli – magari spronati da immagini di natura devozionale – prepararsi a una palingenesi, avvertita come un fatto imminente, attraverso un percorso di penitenza e liberazione dal peccato. del Quattrocento, che invece è un maestro compiutamente rinascimentale, formatosi a Padova sui modelli di Donatello e Mantegna, ma che nella fase matura della sua carriera, davanti all’emergere in laguna della sintesi luminosa della pittura di Giovanni Bellini, si pone con questi in pervicace polemica, recuperando l’elemento lineare quale chiave di interpretazione privilegiata della realtà e della natura.

Dipinti parlanti

Linea e natura, del resto, costituiscono all’unisono la ragione formale intrinseca alla civiltà gotica: le linee slanciate delle strutture

architettoniche si traducono in pittura nella centralità del valore del tratto di contorno, che diviene, a partire dalla fine del Trecento, principio autonomo e indipendente rispetto ai piani spaziali, fattore di distinzione e ricercatezza di un’arte che doveva compiacere il gusto sopraffino delle corti principesche. E allo stesso tempo la mimesi degli elementi naturali occorreva sí a sbalordire gli occhi e i sensi dei committenti dei preziosi codici miniati; ma occorreva anche a illustrare il messaggio evangelico o le vite dei santi nei cicli di affreschi delle basiliche, destinati soprattutto a chi non sapeva legnovembre

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Giudizio Finale, dipinto su tavola di Niccolò di Tommaso. 1360-1365 circa.

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gere e quindi si affidava ai dipinti per apprendere il contenuto altrimenti inaccessibile dei testi sacri. Furono gli Ordini mendicanti – testimoni del movimento pauperistico e la cui missione era quella di condurre la catechesi verso i ceti subalterni dei centri urbani –, a sancire la fortuna di una pittura che traeva ispirazione dall’aderenza alla realtà: una realtà talvolta illustrata in modo prospettico e straordinariamente illusivo, come avviene nei famosi Coretti di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova o nelle nicchie con ripiani e oggetti che si aprono nel registro inferiore degli affreschi della Cappella Baroncelli in Santa Croce a Firenze, a opera di Taddeo Gaddi. Ma una realtà che può essere resa anche con il timbro umorale di certe Madonne, lontane dalla compostezza delle pose delle figure

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di Giotto, e animate piuttosto da dettagli che le rendono accostanti interlocutrici per l’osservatore devoto. Gli occhi azzurri della Vergine, nella tavola del Maestro del 1310 portata in mostra da Matteo Salamon, attenuano il carattere risoluto del volto e le donano uno sguardo penetrante da cui è difficile distogliere la nostra attenzione (vedi foto a p. 50, in basso). A distanza di oltre sette secoli, questo dipinto, dei primissimi anni del Trecento, è dunque ancora straordinariamente «parlante». E come attesta la Legenda dei tre compagni nel narrare il famoso episodio del dialogo tra Francesco d’Assisi – prima della conversione – e il Crocifisso dipinto della chiesa di S. Damiano (il Crocifisso interpellò Francesco, appena entrato nella chiesa, dicendogli «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va

dunque e riparala» e Francesco replicò tremante «Lo farò volentieri, o Signore», Legenda Trium Sociorum, V, 13), il compito delle immagini devozionali era appunto quello di parlare ai fedeli. Un compito che l’opera del Maestro del 1310 assolve mirabilmente ancora oggi.

La condanna di Vasari

Meno vent’anni dopo Rabelais era la volta di Giorgio Vasari a scatenare una nuova potente invettiva contro l’arte gotica: «Ècci un’altra specie di lavori, che si chiamano tedeschi, i quali sono di ornamenti e di proporzione molto differenti da gli antichi e da’ moderni; né oggi s’usano per gli eccellenti, ma son fuggiti da loro come mostruosi e barbari, dimenticando ogni lor cosa di ordine, che piú tosto confusione o disordine si può chiamare; avendo fatto nelle lor fabriche, che son tante ch’hanno amnovembre

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A destra Madonna col Bambino in trono, dipinto su tavola dell’artista dalmata Lovro Dobricevic. Metà del XV sec. Nella pagina accanto La Vergine e san Giovanni evangelista dolenti, capicroce realizzati da Lippo di Dalmasio. 1390 circa.

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maestri del gotico Cristo in pietà (particolare), dipinto su tavola di Antonio Vivarini. 1440 circa.

morbato il mondo, le porte ornate di colonne sottili et attorte a uso di vite, le quali non possono aver forza a reggere il peso di che leggerezza si sia; e cosí per tutte le facce et altri loro ornamenti facevano una maledizzione di tabernacolini l’un sopra l’altro, con tante piramidi e punte e foglie, che non ch’elle possano stare, pare impossibile ch’elle si possino reggere; et hanno piú il modo da parer fatte di carta, che di pietre o di marmi. (…) Questa maniera fu trovata da i Goti, che per aver ruinate le fabriche antiche e morti gli architetti per le guerre, fecero dopo, chi rimase, le fabriche di questa maniera, le quali girarono le volte con quarti acuti e riempierono tutta Italia di questa maledizzione di fabriche, che per non averne a far piú, s’è dismesso ogni modo loro. E Iddio scampi ogni paese da venir tal pensiero et ordine di lavori, che per essere eglino talmente difformi alla bellezza delle fabriche nostre, meritano che non se ne favelli piú che questo» (Giorgio Vasari, Le vite de’ piú eccellenti architetti, pittori

antonio e bartolomeo vivarini

Le braccia del Cristo in pietà Nella pittura veneziana del Quattrocento ricorre in modo particolare l’iconografia del Cristo in pietà: il Redentore compare a mezzo busto, mentre si erge dal sepolcro e ostende le ferite delle mani e del costato per rendere il fedele partecipe del suo dolore. Molto spesso tavole con questo tema chiudevano al centro del registro superiore grandiose macchine d’altare – come nel polittico di Carlo Crivelli per il duomo di S. Emidio ad Ascoli Piceno – o addirittura ne costituivano singolarmente la cimasa. Questa doveva essere l’originaria collocazione anche di due tavole esposte alla Galleria Salamon, opera, rispettivamente, di Antonio e Bartolomeo Vivarini. I due fratelli, alla guida di una bottega oltremodo fiorente in laguna per oltre mezzo secolo – nella fattispecie dal 1440 circa fino al 1505, data verosimile della morte di Alvise, figlio di Antonio – offrono del tema due redazioni distinte, eseguite a distanza di

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quarant’anni l’una dall’altra. Nella tavola di Antonio, che porta i segni della maniera adottata dal caposcuola nella fase giovanile della sua carriera, Cristo incrocia le braccia sul ventre offrendo un’interpretazione pacata e raccolta della sofferenza, sublimata nell’insistenza dell’elemento lineare a definirne elegantemente il profilo. Nella tavola di Bartolomeo, che invece è opera tarda e si colloca dopo il 1480, l’energia plastica del modellato offre la visione di un Cristo a braccia distese, che da calligramma si è fatto finalmente uomo. Pur con tutte le resistenze di un autore ancora sospeso tra Medioevo ed età moderna, l’arte di Bartolomeo incarna dunque il superamento dell’astrazione, che era a sua volta un concetto intrinseco alla civiltà figurativa del gotico. Una figura certamente meno elegante la sua, ma improntata a una schiettezza che prelude alle nuove esigenze di devozione dell’assai piú smaliziato uomo dell’epoca rinascimentale. novembre

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et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, 1550). Vasari tuttavia, in modo molto strumentale, limitava il suo giudizio alle architetture e in particolare all’ordine che chiamava appunto «tedesco», fondato sulla leggerezza delle strutture e sulle volte ad arco acuto. Intenzione ovvia dello storico aretino era svincolare il piú possibile l’arte italiana, e soprattutto le arti figurative, da qualsiasi legame con la «maniera dei Goti»: nella sua speculazione, dunque, la pittura e la scultura da Giotto e dai Pisano in poi altro non era se non un percorso di rinascita dalla barbarie estetica

(«maledizzione di fabriche») imposta precedentemente dagli invasori d’Oltralpe alla nostra Penisola.

Gli allievi di Giotto

È stata la storiografia moderna a includere la pittura italiana del Trecento nella categoria del gotico, riscontrando ovviamente una maggiore o minore adesione agli stilemi considerati ordinari di questo stile nei diversi contesti e artisti analizzati. Il punto di contatto piú evidente con lo sviluppo delle arti figurative in Francia è stato sempre individuato nella tradizione senese (nella mostra questa scuola è testimoniata da

Cristo in pietà, dipinto su tavola di Bartolomeo Vivarini. Dopo il 1480.

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tre preziosi tondi del cosiddetto Maestro del Trittico Richardson), che, non a caso, venne assunta in blocco dalla corte papale ad Avignone quale lingua privilegiata della pittura moderna. Ma anche la verve narrativa dei migliori allievi di Giotto a Firenze attesta il gusto del dettaglio, proprio dell’intelligenza figurativa gotica: notevole nella rassegna milanese è a questo riguardo il piccolo dittico (33 x 15,5 cm) di Jacopo del Casentino, uno appunto degli allievi piú prolifici di Giotto, nella quale sono sovrapposti i soggetti di San Francesco che riceve le Stimmate e dell’Ultima Cena (vedi foto a p. 50, in alto). In particolare, nel Cenacolo (vedi foto a p. 51) è raffigurato un episodio piuttosto raro nell’iconografia consueta del tema, ovvero l’abbraccio disperato di Giovanni al Salvatore, mentre questi con la mano destra sta indicando Giuda come colui che lo tradirà. L’episodio, che tradisce una notazione patetica molto consona alla sensibilità religiosa trecentesca, si trova nelle Scritture solo nel Vangelo di Giovanni (Gv. 13, 23-26): qui l’autore lo utilizza per aumentare il senso di commozione, con i ritratti in sequenza degli apostoli dai volti atterriti, mentre Giuda, dallo sguardo piú compassato, indica se stesso, come a dire «Io?». Jacopo del Casentino realizza la scena come se fosse un regista cinematografico moderno: ogni dettaglio è descritto accuratamente, per non lasciare nulla al caso, e lo spazio che si frappone sul tavolo fra i calici e le piccole forme di pane accresce il senso di tensione nello spettatore; e tutto ciò sia chiaro avviene in un dipinto che misura appena pochi centimetri. Un discorso a parte merita la tavola col Giudizio Universale del fiorentino Niccolò di Tommaso (vedi box e foto alle pp. 52-53): testimone questi della generazione di artisti che era sopravvissuta alla Peste

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maestri del gotico Madonna col Bambino, dipinto su tavola di Agnolo Gaddi, forse dalla basilica fiorentina di S. Maria Novella. 1370-1375.

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Nera e che nelle iconografie adottate portava chiari i segni di questo doloroso passaggio. Punto di arrivo della tradizione che fa capo a Giotto è invece il pittore Agnolo Gaddi, figlio minore di Taddeo, ovvero l’artista che per ben 24 anni aveva fatto parte della bottega del maestro di Bondone, seguendolo per tutte le peregrinazioni nella Penisola della fase matura. Agnolo è certamente il pittore fiorentino piú importante della sua epoca – gli ultimi trent’anni del XIV secolo –: basti pensare al riguardo ai grandi cicli di affreschi da lui realizzati nella Cappella Maggiore di Santa Croce a Firenze e nella Cappella del Sacro Cingolo nel duomo di Prato. Nella sua fiorente bottega si formarono a loro volta tutti i piú alti ingegni della stagione del tardogotico fiorentino; e vi si formò anche Cennino Cennini, colui che nel Libro dell’arte, prendendo a modello proprio l’atelier di Agnolo, avrebbe tramandato quale fosse il funzionamento di un laboratorio d’artista alla fine del Trecento. Eppure, sebbene il suo ruolo centrale sia stato ormai ampiamente riconosciuto dagli studi, gli esordi dell’attività del piú giovane dei Gaddi risultavano essere ancora un problema poco sondato dalla storiografia moderna. Sopperisce a questa lacuna il bel volume in lingua inglese curato da Angelo Tartuferi in occasione di questa mostra, Agnolo Gaddi. The early career and a new ‘Madonna and Child’ (Milano 2021), testo monografico dedicato al reperimento di una sontuosa Madonna col Bambino forse proveniente in antico, secondo il parere espresso proprio da Tartuferi, dalla basilica di S. Maria Novella (vedi foto alla pagina accanto). L’opera si presenta nella sua sfavillante tenuta cromatica, segno di come Agnolo Gaddi in gioventú avesse sedimentato, oltre alla tradizione paterna, anche le impressioni dai lavori di Giovanni da Milano

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e Giotto di Maestro Stefano detto Giottino, pittori decisamente piú orientati al recupero delle morbidezze luminose dell’ultima stagione della maniera giottesca. La Madonna Salamon si presenta nella sua precisa scansione dei piani prospettici, ma seduce soprattutto in ragione delle decorazioni in oro del bordo del manto della Vergine e del sottile disegno della punzonatura a marcare i nimbi. Una tavola dunque da collocare certamente entro il 1375, ma che altrettanto chiaramente anticipa molte delle ragioni formali dell’ultima stagione del gotico, quella appunto dalla natura piú «cortese» e «internazionale».

Realtà diverse

Con il passaggio al nuovo secolo, la mostra offre l’occasione di distendere lo sguardo verso altre realtà territoriali: innanzitutto la città di Siena, la cui cultura è attestata da un notevole San Francesco che mostra i segni delle Stimmate eseguito da Andrea di Bartolo, nello stesso periodo (1410-13) in cui il pittore attendeva al Polittico dell’Osservanza per la basilica oggi dedicata a san Bernardino; poi soprattutto Bologna con i due capicroce laterali con La Vergine e san Giovanni evangelista dolenti di Lippo di Dalmasio (vedi foto a p. 54), speculari nella loro indole fortemente espressiva a quelli del Crocifisso già nella chiesa di S. Girolamo della Certosa e oggi nelle Collezioni Comunali di Palazzo d’Accursio. Quindi le Marche, con la Crocifissione di Giovanni Antonio Bellinzoni da Pesaro, opera realizzata quasi alla metà del Quattrocento, ma che mostra ancora l’ossessione lineare e quell’eloquenza espressiva persino urlata propria del realismo tardo-gotico; infine Venezia con due dipinti dal soggetto speculare – il Cristo in pietà – da parte di Antonio e Bartolomeo Vivarini, pittori muranesi che rappresentano il passaggio estremamente

compassato a una nuova stagione formale (vedi box a p. 56). A lungo collaboratore della bottega di Antonio Vivarini è stato Lovro Marinov Dobricevic, noto alla storiografia italiana col nome convenzionale di Maestro dell’Annunciazione Ludlow – dal momento che l’opera piú importante del gruppo stilistico a lui riferito era appunto una tavola con l’Annunciazione di Maria, che si trovava agli inizi del Novecento nella raccolta privata di Lady Alice Ludlow, nella tenuta di Luton Hoo in Inghilterra –: di questo autore, originario di Cattaro in Montenegro e attivo a lungo a Venezia e Dubrovnik, la rassegna della Galleria Salamon presenta una raffinata Madonna col Bambino in trono (vedi foto a p. 55). Ora, l’individuazione del Maestro Ludlow nella personalità di Dobricevic era stata suggerita nel 1971 da un geniale storico dell’arte ungherese, Miklós Boskovits, di gran lunga il piú grande studioso moderno della pittura italiana, e in particolare fiorentina, alla fine del Medioevo. Boskovits ci lasciava giusto dieci anni fa, il 19 dicembre del 2011. La mostra milanese per forza di cose si presenta dunque come un tributo personale a lui e alle sue ricerche sull’arte della Penisola: ricerche che hanno contribuito a illuminare un’epoca per secoli ritenuta, a torto come abbiamo visto, un periodo di fitta oscurità.

Dove e quando «Bagliori Gotici Dal Maestro del 1310 a Bartolomeo Vivarini» Milano, Galleria Salamon fino al 17 dicembre Orario lunedí-venerdí, 9,30-13,00 e 14,00-18,00; altri orari su appuntamento Info tel. 02 76024638; e-mail: info@salamongallery.com; www.salamongallery.it

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VITERBO, UNA CAPITALE DEL XIII SECOLO

Gregorio, lo

di Franco Cardini

sguardo verso

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Miniatura raffigurante papa Gregorio X che riceve i fratelli Matteo e Niccolò Polo, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Quello iniziato a Viterbo nell’inverno del 1268 fu il piú lungo conclave della storia: ci vollero infatti oltre due anni prima che i cardinali trovassero un accordo. E finalmente, nel 1271, la scelta cadde, inaspettatamente, sull’allora legato pontificio in Terra Santa, Tedaldo Visconti. Salito al soglio di Pietro con il nome di Gregorio X, il nuovo papa cercò, fin da subito, di raccogliere forze e denari per allestire una nuova crociata...

D D

opo la morte nel 1268 di Clemente IV, il conclave che avrebbe dovuto deciderne il successore si trascinò per due anni a causa dei contrasti fra cardinali francesi e italiani (vedi anche nella seconda parte dell’articolo, alle pp. 67-70). Il popolo di Viterbo cercò di spingere a una scelta rinchiudendo i prelati nel palazzo papale. Insolitamente, la scelta cadde su una figura estranea al conclave e dotata solo degli ordini minori: Tedaldo Visconti, piacentino, fu eletto papa il 1° settembre 1271 mentre si trovava a San Giovanni d’Acri, probabilmente sulla scorta della sua lunga esperienza politico-diplomatica. Il 1° gennaio 1272 il nuovo pontefice sbarcò a Brindisi dalla Terra Santa e, il 10 febbraio, entrò a Viterbo, dove pronunciò un discorso ai cardinali per presentare la grave situazione di quelle regioni, mettendo subito in chiaro quale sarebbe stato il suo principale interesse. Sempre a Viterbo, Tedaldo assunse il nome di Gregorio X, ricevette l’ordinazione sacerdotale e fu consacrato vescovo. L’incoronazione ebbe invece luogo a Roma, il 27 marzo in S. Pietro.

L’incontro con Marco Polo

Mentre era ancora a San Giovanni d’Acri, Tedaldo incontrò un allora giovanissimo Marco Polo che, insieme con il padre e lo zio, si avviava sul cammino che l’avrebbe condotto in Cina alla corte di Kublai Khan. Non si tratta soltanto di una curiosità, poiché Tedaldo cercò di sfruttare la novità di occidentali diretti nel cuore dell’impero mongolo per provare a stabilire un contatto, come avevano già fatto, senza risultati, diversi missionari francescani nei decenni precedenti. Il drappello dei Polo era partito da Venezia nel 1271 ed era arrivato ad Acri; è a questo punto che incontraro-

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viterbo capitale/3 A sinistra riproduzione ottocentesca di una miniatura del XV sec. raffigurante i Polo che consegnano al Gran Khan Qubilay la lettera a lui indirizzata da papa Gregorio X. Nella pagina accanto Gregorio X, cartolina cromolitografica n. 75 dalla Raccolta dei Sommi Pontefici Romani dedicata a papa Pio X e da questi benedetta. Roma, ottobre 1903.

no Tedaldo, giunto in Terra Santa al seguito del principe Edoardo d’Inghilterra; poi in estate lasciarono la città alla volta di Laiazzo; erano certamente lí all’inizio di settembre, quando arrivò la notizia che proprio Tedaldo era stato eletto pontefice. I mercanti veneziani ricevettero allora un’ambasciata dal nuovo pontefice, che chiese loro di rientrare subito ad Acri. Gregorio X pregò quindi i Polo di farsi accompagnare nel loro viaggio verso oriente da due frati domenicani: Guglielmo da Tripoli e Niccolò da Vicenza. Il gruppo tornò ancora una volta a Laiazzo, da dove iniziò l’avventura. Ma la situazione politico-militare era tutt’altro che tranquilla. Il sultano d’Egitto Baibars aveva proseguito le sue campagne contro gli Armeni di Cilicia, alleati dei Mongoli, mettendone a ferro e fuoco il territorio. Secondo il Milione, si deve a questa situazione di pericolo se i due Domenicani «ebbero gran paura di spingersi oltre; dissero perciò che non avrebbero proseguito il viaggio. Diedero a messer Niccolò e a messer Matteo tutti i privilegi e le lettere che avevano e si separarono da essi, andandosene col Maestro del Tempio»: ossia con Thomas Berard, allora (e fino al 1273) Maestro dei Templari, che non sappiamo esattamente a quale titolo si trovasse lí con loro, anche se l’Ordine aveva molti interessi nella regione.

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Il repentino abbandono della missione ha destato non poche perplessità nei commentatori: difficile pensare che i due padri domenicani fossero tanto piú pavidi rispetto ai Polo, visto che a loro era stata affidata un’ambasceria pontificia. Inoltre, a quel tempo la guerra non era ancora giunta al suo culmine. Tuttavia, c’è forse un’altra chiave di lettura. Sappiamo che, nel 1273, Guglielmo da Tripoli compose in Acri un Tractatus de statu Sarracenorum, nel quale illustrava i tanti insospettati rapporti e i punti di contatto tra i princípi dell’Islam e il cristianesimo. A partire, prima di tutto, dalle comune origini veterotestamentarie. Nel suo libro, una concezione religiosa considerata in Occidente fino ad allora alla stregua di una bestemmia, acquistò di colpo le proporzioni di una fede sorella.

Un fronte tutt’altro che compatto

D’altro canto, dopo la conquista mongola della Persia, i musulmani di Siria e d’Egitto avevano ragione di preoccuparsi seriamente, nonostante la vittoria riportata nel 1260 contro le forze lasciate in Siria da Hulegu Khan. Dinanzi al crescere di tale rivalità, anche il fronte cristiano-occidentale – già percorso da numerose inimicizie e da durissimi conflitti d’interesse tra ordini militari, principi laici e città marinare itanovembre

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viterbo capitale/3

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liche – si era spezzato proprio sulla scelta dell’alleato e dell’avversario cui contrapporsi. Per alcuni – gli Ospitalieri di San Giovanni, i Francescani, i mercanti genovesi, i Lusignano di Cipro, Manfredi, i principi armeni – bisognava appoggiare i Mongolo-persiani, che apparivano ben decisi a spazzare dalla Siria l’egemonia mamelucca. Al contrario, altri – i Templari, i Domenicani, i mercanti veneziani e pisani, Carlo d’Angiò fratello del re di Francia e dal papa designato re di Sicilia in luogo dello scomunicato Manfredi – erano del parere che con i Mamelucchi si potesse convivere. E che non fosse il caso di mettere in pericolo i ricchi affari che si potevano concludere a Damietta e ad Alessandria. Il che non impediva, è chiaro, di intessere relazioni commerciali con i Mongoli, cosí come si apprestavano a fare i Polo. Ma sotto il profilo delle alleanze politico-militari le cose andavano differentemente. Questo dato, ben piú della paura della guerra, può spiegarci la scelta dei due Domenicani. La lettura del trattato composto da Guglielmo non può che corroborare questa ipotesi: il frate lo stava elaborando proprio negli anni in cui sarebbe dovuto partire; dovrebbe infatti averlo cominciato nel 1271 e concluso due anni piú tardi. Forse il suo scopo era anche fornire un parere in vista del concilio di Lione del 1274, nel quale si sarebbe discussa la questione dei Mongoli e dei Mamelucchi. Guglielmo parla del sultano Baibars come di un uomo retto e virtuoso, che potrebbe nuocere molto con la forza dei suoi eserciti ai cristiani, ma che non li considera suoi nemici. A fronte di queste

opinioni, come avrebbe potuto il Domenicano recarsi a parlamentare? La decisione di rientrare con il Maestro dell’Ordine del Tempio, allineato sulle medesime posizioni, è dunque giustificata dal contesto.

Un uomo all’antica

Insomma, si può dire che l’azione di Gregorio X verso l’Oriente si aprí con un fallimento; in generale, vecchio legato pontificio in Siria, egli non voleva arrendersi troppo presto al fatto che la realtà storica – e con essa la mentalità – stesse cambiando. Uomo all’antica, appena asceso alla cattedra pontificia volle gettare le basi per la soluzione dei tre problemi che a lui, abituato a pensare per categorie universali come dai tempi di Federico Barbarossa e d’Innocenzo III nessuno faceva piú sul serio, parevano altrettante ferite mortali nel corpo della cristianità: lo scisma della Chiesa greca, la vacanza del trono imperiale e la perdita del Sepolcro. Un siffatto programma richiedeva la generale pacificazione dell’Europa, e il papa intendeva attuarlo attraverso il Concilio Ecumenico apertosi a Lione nel maggio del 1274. Ma accadde che appunto quel Concilio, che doveva proclamare la renovatio del mondo secondo gli ideali universalistici, mise viceversa a nudo l’impossibilità di tradurre concretamente ideali del genere nell’epoca nuova. Cominciò col mancare chi avrebbe dovuto essere a guida della crociata, perché né Edoardo d’Inghilterra, né Filippo III di Francia presenziarono all’assise. Quanto alle decime da versare per finanziare l’impresa, il problema in teoria fu risolto

Nella pagina accanto crociati fatti decapitare da Baibars in un’incisione realizzata da Gustave Doré per l’Histoire des croisades di Joseph-François Michaud, pubblicata in cinque volumi fra il 1811 e il 1828. A destra miniatura raffigurante Hulagu Khan in trono, da un’edizione del Giami’ at-Tawarikh (Raccolta di storie) di Rashid ad-din Fadl Allah. 1306-1311 circa.

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viterbo capitale/3 Il monumento funebre che custodisce le spoglie di Gregorio X nel Duomo di Arezzo. Ultimo decennio del XIII sec.

esoneri accordati con criteri discutibili. Insieme al problema economico della crociata, il papa si occupò anche di quello militare. Quanto ai capi, solo Giacomo I d’Aragona si mise senza riserve a sua disposizione: ma Gregorio non si preoccupò eccessivamente della freddezza dei principi cristiani, perché confidava soprattutto nell’aiuto mongolo. Gli emissari del khan di Persia Abaga, convenuti a Lione, avevano infatti promesso che il loro signore si sarebbe impegnato contro i Saraceni; e dietro Abaga stava una delle sue mogli, la principessa Maria, figlia del basileus Michele VIII Paleologo che sognava un’alleanza tripartita fra il papa, Bisanzio e i Mongoli. Difatti, a Lione fu proclamata nel luglio 1274 anche l’unione della Chiesa latina con quella greca, e nel gennaio successivo a Costantinopoli; nel giugno di quello stesso anno prese la croce il re di Francia, e nell’ottobre fu la volta del re dei Romani Rodolfo di Asburgo.

Un’impresa destinata al fallimento

secondo le norme già stabilite da Innocenzo III e da Innocenzo IV. Ma si dovette in pratica constatare che sarebbe stato assai difficile vincere la resistenza del clero, che non intendeva pagare. Del resto, il fatto che Gregorio moltiplicasse le disposizioni piú minute e dettagliate per la futura spedizione ma non vi affiancasse neppure una indicazione almeno approssimativa sulla data di partenza degli eserciti, dimostra che anch’egli cominciava, se non proprio a dubitare, a rendersi progressivamente conto delle tante difficoltà. La decima da lui proclamata per gli anni 1274-1280 fu la prima veramente generale, organizzata secondo un piano di tassazione organico e capillare. Tuttavia, ciò non bastò a impedire che la raccolta del danaro presentasse gli inconvenienti consueti: abusi da parte dei collettori, resistenza da parte dei tassati – soprattutto perché si temeva che la decima si mutasse in imposta permanente –,

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Gregorio poteva credere a quel punto di essere a un passo dalla realizzazione dei suoi sogni. Ma i suoi piani, in realtà, disturbavano troppi interessi: soprattutto quelli di Carlo d’Angiò, che la riunione tra le due Chiese obbligava ad abbandonare un intrigo tramato con Venezia per restaurare l’impero latino di Costantinopoli; e anche quelli di Michele VIII, a cui l’amicizia con Abaga e con il papa in vista della crociata minacciava di creare seri dissapori con l’Orda d’Oro e con l’Egitto, il che avrebbe causato all’economia bizantina un grave danno. E la crociata, difatti, non si fece. Gregorio X morí ad Arezzo ai primi di gennaio 1277, mentre da Lione tornava a Roma; sei mesi dopo lo seguí nella tomba il suo successore Innocenzo V che aveva tentato di portarne avanti il programma. I Mongoli di Abaga entrarono inutilmente in guerra con Baibars, e la morte stessa del terribile sultano, avvenuta a metà del 1277, non procurò ai franchi di Siria alcun vantaggio. Con Gregorio X nacque il piú organico e coerente piano di finanziamento della crociata – e della Chiesa stessa – che fosse mai stato concepito: e con esso anche la storia economica, finanziaria e piú tardi politico-religiosa della Chiesa (si pensi alla «protesta» di Lutero) conobbe una svolta radicale. Paradossalmente, però, quattro anni dopo la morte del re-crociato Luigi IX, emerse con la fine del pontificato di papa Gregorio il dato perentorio, anche se non ancora esplicito, che la «santa impresa» nata fra 1066 e 1099 era ormai divenuta impraticabile. Continuò, ed ebbe anzi molti revivals. Ma sotto altre vesti. novembre

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NELLA GRAND’AULA DEL PALAGIO... di Gianpaolo Serone

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a maggior parte delle notizie sul conclave viterbese (1268-1271), a oggi considerato il piú lungo di tutta la storia della Chiesa, ci sono pervenute dal Quaternus protocollarum del notaio Basso. Dalla cancelleria papale furono spedite, tra il 1268 e il 1271, almeno 264 lettere del collegio cardinalizio ma gran parte delle missive sono andate perdute. Le testimonianze di Basso rimangono quindi una fonte imprescindibile per capire il reale dispiegarsi degli avvenimenti. Dopo la morte di Clemente IV (Gui Foucois o Guy Le Gros Foulquois, italianizzato in Guido il Grosso Fulcodi), avvenuta il 29 novembre 1268, si aprí uno scenario molto delicato per le sorti dell’Europa. Il pontefice, infatti, aveva appoggiato la politica di Carlo D’Angiò che era sceso in Italia, su richiesa dello stesso Clemente, per contrastare il dominio di Manfredi nel regno di Puglia e Sicilia e le pretese imperiali di Corrado V di Svevia. Dopo la morte di Clemente, perciò, il nobile francese temeva un’inversione di tendenza e le sue pressioni sull’elezione viterbese furono notevoli. Il famoso conclave, inoltre, evidenziò il ruolo sempre piú rilevante che aveva assunto il collegio dei cardinali, che Innocenzo IV (1243-1254) aveva defi-

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nito Senatus Ecclesiae, per quanto riguardava soprattutto l’elezione alla cattedra di Pietro. Subito dopo la morte del papa, i diciannove cardinali elettori si riunirono a Viterbo (i convocati erano in realtà venti, ma Raoul Grosparmi non partecipò, poiché era impegnato nella crociata guidata dal re Luigi IX di Francia). Nonostante fosse diviso dalla rivalità fra porporati filofrancesi (e perciò filoangioini) e filoitaliani (alcuni avversi agli Orsini e alcuni filoimperiali e pro Orsini), il collegio si radunò inizialmente seguendo il metodo classico di elezione, che prevedeva semplici e libere riunioni. Il mancato accordo del consesso dei porporati determinava lo scioglimento dei lavori e, a volte, l’incontro successivo avveniva a distanza di diversi giorni favorendo l’intervento da parte delle maggiori forze politiche dell’epoca, che cercavano ovviamente di interferire sul voto. La macchinosità di un simile sistema comportaIn alto miniatura raffigurante l’assassinio di Enrico d’Inghilterra a Viterbo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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va talvolta lunghi periodi di vacanza pontificia e un gran numero di riunioni che si protraevano per diversi mesi. Probabilmente anche a Viterbo i cardinali riuniti si confrontarono seguendo tale metodo fino a quando, col passare dei mesi senza un accordo tra le parti, si arrivò a dover intervenire per scongiurare il rischio di pericolose rivolte in seno alla popolazione: tradizionalmente, infatti, il Comune che ospitava l’elezione papale contribuiva al sostentamento delle spese e questa situazione, a Viterbo, provocò il malcontento del popolo che si ribellò, costringendo le magistrature locali a un intervento risolutore. Secondo una tradizione tuttora molto discussa, su consiglio di Bonaventura da Bagnoregio, il Capitano del Popolo Raniero Gatti optò per la clausura dei cardinali «cum clave» all’interno del palazzo papale, per favorire la conclusione del processo elettivo ed evitare il contatto dei prelati con il mondo esterno. Fra maggio e giugno del 1270, a ormai due anni dall’inizio dei lavori, e dopo la morte del cardinale Giordano Pironti – che aveva ulteriormente ridotto il numero degli elettori –, le pressioni nei confronti del collegio cardinalizio si fecero piú incalzanti. Il 1°

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giugno furono serrate le porte della città e i cardinali dalle loro abitazioni private furono trasferiti nella «grand’aula del palagio vescovile» sotto minaccia di non poter uscire fino a elezione avvenuta.

Un lasciapassare per i malati

Il regime di clausura doveva essere severo, tanto che, il 6 di giugno, con pubblica lettura nel duomo di S. Lorenzo e nella chiesa di S. Maria Nuova, fu emanato dal collegio un decreto per permettere ai cardinali malati di lasciare il palazzo. Il documento in questione è interessante perché ci informa in modo specifico su alcuni particolari circa le condizioni in cui i porporati versavano. Cosí apprendiamo che, oltre al lasciapassare per i malati, i cardinali chiesero la riapertura della porta che dava accesso alla camera riservata (che era stata evidentemente sbarrata), la riparazione del tetto entro tre giorni pena scomunica (questo dato ci fornisce un terminus post quem circa la scoperchiatura del soffitto) e minacciarono l’interdetto e la sottrazione a Viterbo di Tuscania e Corneto (attuale Tarquinia). L’8 giugno fu emesso il salvacondotto, indirizzato al podestà Enrico da Montebuono, a Raniero Gatti e novembre

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al popolo di Viterbo, per fare uscire Enrico di Susa, vescovo di Ostia, che versava in precarie condizioni di salute. La situazione probabilmente migliorò, ma il cardinale camerlengo ingiunse ai Viterbesi di desistere da ogni cooptazione ed è dunque evidente che le pressioni da parte del comune continuarono almeno fino al 20 del mese, quando si giunse a un compromesso fra le parti. Il 9 luglio si registra la morte del vescovo di Palestrina e abbiamo notizia che alcuni cardinali escono dal conclave, il che significa che i prelati non sono piú «serrati» nel palazzo.

L’attesa si macchia di sangue

Come si evince da un documento del 25 ottobre 1270 firmato in palatio episcopale (l’edificio non viene piú definito discoperto, segno che il soffitto era stato riparato) dal cardinale Giovanni, vescovo di Porto, alla presenza delle monache del monastero del Paradiso di Viterbo, era stata inoltre data la possibilità di far entrare persone estranee all’elezione. Ciononostante, la situazione politica rimaneva instabile e preoccupante, tanto che, il 12 marzo 1271, Filippo, re di Francia, Carlo D’Angiò, Baldovino di Costantinopoli e Riccardo di Cornovaglia giunsero a Viterbo per convincere i cardinali ad accelerare i tempi per l’elezione. A testimonianza delle tensioni palpabili si registra una vicenda particolarmente grave; il 13 marzo, nella chiesa viterbese di S. Silvestro, A sinistra la Sala del Conclave nel Palazzo dei Papi di Viterbo e, in basso, uno dei lacerti di affresco che vi si conservano.

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viterbo capitale/3 Il campanile della cattedrale viterbese di S. Lorenzo, innalzato sul finire del Duecento. La presenza dei papi a Viterbo fece crescere considerevolmente l’importanza della chiesa, che, tra l’altro, fu teatro della consacrazione di ben sette pontefici.

Guido di Monfort e il fratello Simone assassinarono Enrico di Cornovaglia (figlio di Riccardo di Cornovaglia e nipote di Enrico III d’Inghilterra). Il misfatto, stigmatizzato anche da Dante nel canto XII dell’Inferno, trovò «giustificazione» nel desiderio di vendetta dei Monfort verso il re Enrico III, che aveva ucciso loro sia il padre, sia il fratello nella battaglia di Evesham. L’atroce delitto fu duramente punito con la scomunica e re Carlo ordinò la cattura degli esecutori e la confisca dei loro beni. Alcuni storici, tuttavia, sospettano che tra il sovrano e i nobili francesi ci fosse stata connivenza. Nel 1271, evidentemente stremati dalla fatica e dal

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degenerare della situazione politica, i cardinali trovarono un compromesso: furono delegati sei cardinali diaconi che, il 1° settembre, lo stesso giorno in cui la commissione fu creata, indicarono Tedaldo (o Tebaldo) Visconti di Piacenza, arcidiacono di Liegi, come futuro papa. Come si legge nella prima parte dell’articolo (vedi alle pp. 60-66), Tedaldo era legato pontificio per la Terra Santa e al momento della nomina si trovava a San Giovanni d’Acri. Il suo insediamento avvenne quindi solo sette mesi dopo quando, scortato da Carlo d’Angiò, giunse a Roma per l’incoronazione e poi a Viterbo per prendere possesso del palazzo. novembre

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Un sovrano per tutte le stagioni di Furio Cappelli

Il nome di Davide evoca – immancabilmente – l’idea del debole che si fa vincitore, pur alle prese con un avversario all’apparenza imbattibile. Ma la figura del biblico re è complessa, le sue doti e virtù non si fermano alla sola abilità nel combattere. Lo dimostra la millenaria vicenda della sua ricezione, suffragata da una fortuna iconografica straordinaria…

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roe biblico indiscusso, Davide (ossia David, nella sua forma latinizzata) deve la sua fama alla lotta vittoriosa contro un avversario ben piú forte e imponente. Seguendo il racconto del I Libro di Samuele, sappiamo che, durante le ostilità che contrapponevano gli Ebrei ai Filistei, scese in campo il gigante Golia, originario di Gat, un’importante città che pare fosse caratterizzata da edifici enormi – e magari proprio per questo la si pensava abitata da uomini di altezza spropositata – corrispondente all’attuale località di Tell es-Safi, nel distretto di Hebron (Palestina). In un’altra battaglia, d’altronde, si distinse un ulteriore gigante di Gat, «che aveva sei dita per mano e per piede, in tutto ventiquattro» (II Libro di Samuele, 21:20). Golia era schierato proprio con gli «incirconcisi» (senza il sigillo della circoncisione e quindi preclusi a ogni legame con Dio), gli «stranieri» e politeisti Filistei, irriducibili e bellicosi avversari del popolo eletto. E seminava terrore a piene mani con la sua sola presenza. «Era alto sei cubiti e un palmo (2,70 m circa). Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo (47 kg

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Piatto in argento raffigurante il duello tra Davide e Golia. Produzione bizantina, 629-630. New York, The Metropolitan Museum of Art. È uno dei nove piatti facenti parte del cosiddetto «tesoro di Cipro», che recano rappresentazioni di gusto classicheggiante di episodi della vita del re.

«Davide e tutta la casa d’Israele danzavano davanti al Signore con tutte le forze, con canti e con cetre, arpe, tamburelli, sistri e cimbali...» (II Libro di Samuele, 6:5) novembre

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circa). Portava alle gambe schinieri di bronzo (rivestimenti metallici degli arti, n.d.a.) e un giavellotto di bronzo tra le spalle. L’asta della sua lancia era come un cilindro di tessitori e la punta dell’asta pesava seicento sicli di ferro (6 kg circa)» (I Libro di Samuele, 17:4). Il gigante corazzato propose un combattimento a singolar tenzone. Se un campione degli Ebrei fosse riuscito ad abbatterlo, i Filistei avrebbero riconosciuto la propria sconfitta. Raccolse la sfida un giovane pastore, Davide, figlio del patriarca Iesse di Betlemme. Samuele, giudice e profeta, l’aveva unto come re d’Israele. Era giunto al cospetto di Iesse seguendo l’indicazione divina, e Yahweh scelse, tra i figli del patriarca, quello che aveva minore età e che non era particolarmente prestante. In compenso, Davide «Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto» (15:12). Il racconto seguente della lotta contro il gigante tralascia l’avvenuta unzione, e, ripetendone la genealogia – come se fosse la sua prima apparizione –, ci presenta un «ultimo arrivato» che pretende di affrontare una difficile prova pur non avendo alcuna esperienza con le armi. Quando si trova di fronte a re Saul a proporre la propria discesa in campo, Davide si dice certo della riuscita perché in diverse occasioni ha dovuto difendere il gregge dagli assalti delle bestie feroci, e ogni volta ne è uscito vittorioso. «Il Signore che mi ha liberato dalle unghie del leone e dalle unghie dell’orso, mi libererà anche dalle mani di questo Filisteo» (17:37). Rinuncia persino all’armatura perché gli impedisce di muoversi con scioltezza. Si presenta cosí con il consueto bastone che gli serve per accudire le pecore, e con una fionda.

La boria del gigante

Golia si rivolge al suo avversario con tutta la boria richiesta dalla parte. «Sono io forse un cane, perché tu venga a me con un bastone?» (17:43). Da un lato si sente deluso per il fatto di ritrovarsi di fronte a un misero fanciullo, dall’altro pregusta la facile vittoria. «Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche» (17:44). Lo scontro si consuma in modo quasi fulmineo grazie all’unica risorsa su cui il giovane pastore può fare affidamento: l’abilità. Mulinando la fionda, Davide scocca un tiro impeccabile: centra Golia in mezzo alla fronte con un ciottolo raccolto dalla riva di un torrente e lo abbatte. Mentre il gigante è riverso a terra con la faccia nella polvere, il giovane si appropria della sua spada e lo finisce, per poi reciderne la testa. I Filistei si dissolvono in un batter d’occhio, terrorizzati. La storia si adatta bene a diversi piani di lettura. Qualora, infatti, si mantenga sullo sfondo la valenza prettamente religiosa, abbiamo la suggestiva rappresentazione di come si possa ottenere un lusinghiero successo anche

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A destra miniatura raffigurante il re Davide attorniato da musicisti e da danzatori, dal Salterio aureo (Psalterium aureum) di San Gallo. IX sec. San Gallo, Stiftsbibliothek. Nella pagina accanto il David di Donatello, scultura in bronzo, con tracce di dorature. 1440 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. L’opera, commissionata dalla famiglia Medici, fa seguito alla monumentale statua in marmo dello stesso Donatello, già in S. Maria del Fiore (1408-1409).

quando, apparentemente, non si possiedono i giusti requisiti per misurarsi con le circostanze. Firenze, per esempio, era orgogliosa della sua forza a fronte di potenze che potevano contare su territori piú ampi e su schiere ben piú folte di combattenti, e il suo organo di governo, la signoria, adottò proprio Davide come eroesimbolo, dapprima acquisendo una statua di marmo di Donatello che adornava in origine il duomo di S. Maria del Fiore (oggi al Museo del Bargello), con l’eroe che si staglia sulla testa mozza del gigante, e poi com-

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missionando a Michelangelo il Davide che si ammira nella Galleria dell’Accademia. Ma a questo punto, dopo le suggestioni dell’epica biblica, la domanda viene istintiva. In quali termini possiamo davvero parlare di un re Davide? La sua realtà storica si colloca agli inizi dell’ultimo millennio a.C., tra il 1000 circa e il 960. A prescindere dalla Bibbia, un’epigrafe aramaica del IX secolo a.C., contenuta nella stele in basalto di re Mesha (oggi al Louvre), farebbe riferimento alla «casa di Davide» negli stessi termini del

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testo sacro, cosí come un’altra stele (frammentaria) rinvenuta nel sito di Tel Dan. Si può quindi asserire che la stirpe regale gemmata dal patriarca Iesse, cosí come è visualizzata nell’Albero su cui ci siamo soffermati in precedenza (vedi «Medioevo» n. 295, agosto 2021; anche on line su issuu.com), ha una sua plausibilità anche su un fronte prettamente filologico. Risulta invece assai difficile definire con chiarezza l’impatto effettivo di un simile personaggio. Qual era, in sostanza, il regno di Davide? Seguendo il dettato biblico, egli pose le fondamenta di uno Stato unico in grado di abbracciare entrambi i regni che sono alla

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base della storia ebraica, quello del Nord (Israele) e quello del Sud (Giuda). Gerusalemme sarebbe cosí divenuta la capitale politica e religiosa del popolo eletto, e questo ruolo sarebbe stato suggellato dall’erede al trono Salomone, che edificò quel Tempio consacrato a Yahweh che doveva essere «lo sgabello dei piedi del nostro Dio» (I Libro delle Cronache, 28:2). Ma dopo Salomone l’unità si sarebbe dissolta, e il popolo ebraico avrebbe poi conosciuto le aggressioni degli Assiri e dei Babilonesi. Sotto questi ultimi avrebbe subíto in particolare la deportazione in massa in terra straniera, per poi riguadagnare la patria perduta sotto novembre

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la versione di benedetto antelami

Due lati della stessa medaglia Se osserviamo sul lato interno il Portale del Redentore del Battistero di Parma, opera di Benedetto Antelami (1196-1216), il re Davide campeggia nella lunetta, intento a suonare il salterio (un antico strumento a corda), mentre intorno a lui c’è un gruppo di musici e danzatori. La scena è ispirata al racconto della traslazione dell’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme. Con un singolare virtuosismo, ai lati del re si aprono due feritoie che mettono in contatto visivo e in corrispondenza simbolica i rispettivi protagonisti della lunetta interna e della lunetta esterna. Il Cristo giudice che esibisce le ferite della Passione (all’esterno) è tutt’uno con il re musicista (all’interno). Come scolpiti in un solo blocco, o due lati della stessa medaglia, essi sono cosí chiamati a esprimere il nesso profondo tra morte e resurrezione, tra sacrificio e salvezza, tra rettitudine e gioia eterna. E in questo modo si ribadiscono le corrispondenze tra Vecchio e Nuovo Testamento, e la discendenza di Cristo dalla stirpe regale dello stesso Davide. In età romanica, d’altronde, l’abbinamento tra Davide citarista e la figura di Cristo re era un motivo ricorrente nella decorazione dei salteri, ossia nelle raccolte dei Salmi.

l’egida dei Persiani, ma senza poter piú realizzare un regno autonomo d’Israele.

Lo Stato che non c’era

Di certo, questo regno rappresentò una grande aspirazione ideale che motivò il popolo eletto proprio all’epoca della cattività babilonese (597-539 a.C.) e, in quest’orizzonte di sacra regalità, venne riletta nel testo biblico la stessa vicenda storica che fa capo al nostro Davide, con «l’invenzione» di un grande Stato monarchico che con tutta probabilità non ebbe mai luogo, come asserisce, per esempio, lo storico Mario Liverani.

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Sulle due pagine la lunetta che sormonta il Portale del Redentore del Battistero di Parma, opera di Benedetto Antelami. 1196-1216. Sul lato interno (a sinistra), compare Davide che suona il salterio, fra musici e danzatori; il lato esterno (in alto), è invece dominato dalla figura del Cristo giudice, che mostra le ferite della Passione.

La Bibbia stessa propone in modo tutt’altro che lineare i rapporti tra Davide e il suo predecessore al trono Saul. Nonostante quest’ultimo fosse stato destituito da Yahweh in persona, tramite il suo giudice Samuele, lo vediamo ancora alla testa del proprio popolo

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Particolare del mosaico pavimentale della sinagoga di Gaza raffigurante Davide che suona la lira. 508-509. Ma’ale Adumim (Gerusalemme), Museo del Buon Samaritano.

Davide come Orfeo

Suggestioni pagane La scena della formella ambrosiana con Davide che trionfa sulla belva (vedi foto a p. 81), si aggancia al tema venatorio della caccia al leone, rivisto in chiave salvifica. In questo caso, infatti, il leone non è solo la tipica preda della caccia regale, ma è il simbolo della morte, e la sua cattura allude quindi al trionfo del Cristo re sulla morte stessa. Ed è a questo punto naturale il richiamo al Salmo 91 (90):13, dove il Signore tiene sotto ai propri piedi leoni, vipere, leoncelli e draghi. Accanto a questa formulazione «imperiale» del dominio sulla natura, è invece ben piú

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nella lotta contro i Filistei, mentre Davide, l’unto del Signore, compare al suo cospetto come un semplice pastore con ambizioni guerresche. Si sviluppa cosí una narrazione che, attraverso la compresenza dei due personaggi, sempre piú in lizza tra loro, adombra il permanere di due regni ben distinti. Dapprima Saul prende David in simpatia grazie alle sue abilità in campo musicale, che gli permettono di sconfiggere i veleni della cattiveria. Mentre era al suo servizio, infatti, «Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui» (I Libro di Samuele, 15:23). Ma poi la vittoria su Golia scatena un senso di grande rivalità, dal momento che Saul si sente sminuito agli occhi dei propri sudditi. «Le donne cantavano danzando e dicevano: “Ha ucciso Saul i suoi mille / e Davide i suoi diecimila”»

diffusa l’immagine di Davide che suona placidamente uno strumento a corda in uno scenario agreste, in mezzo alle sue pecore e alle sue capre. Un’antica versione di questo tema è presente nel mosaico pavimentale di una sinagoga di Gaza, databile al 508-509, dove il re è contornato invece da animali selvatici. Si notano ancora un elefante, una

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(18:7). La vista stessa di Davide a corte diventa insopportabile. «Davide suonava la cetra come ogni giorno e Saul teneva in mano la lancia. Saul impugnò la lancia, pensando: “Inchioderò Davide al muro!”. Ma Davide gli sfuggí per due volte» (18:10). Ci fu un terzo tentativo di mettere fine alle abilità musicali di Davide, ma questi «si scansò da Saul, che infisse la lancia nel muro» (19:10). A quel punto il futuro re d’Israele pensò bene di darsi alla fuga affrontando per lungo tempo una vita errabonda, con esperienze di ogni genere. Si ritrovò persino alla corte di un re filisteo, Achis di Gat (la stessa città di Golia!), e sulle prime se ne vergognò a tal punto che si finse pazzo (21:15). Mentre combattè tra le schiere dei Filistei, Davide, poi, non risparmiò nessuno, proprio perché non restasse memoria delle sue gesta a favore degli «incirconcisi» (27:11).

leonessa, una zebra e un serpente. L’aspetto interessante è che il modello iconografico è prettamente «pagano». Ritorna cioè il tema di Orfeo, uno sciamano che compie prodigi con la sua lira, riuscendo tra l’altro a incantare gli animali. Cristo stesso viene evocato attraverso l’immagine di Orfeo in due affreschi della catacomba romana dei Ss. Marcellino e Pietro (IV

Mosaico raffigurante Orfeo che ammansisce gli animali con il suono della sua lira. II-III sec. d.C. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo.

secolo), come pure in una perduta volta dipinta nel cubicolo di Domitilla (330-350), dove proprio l’immagine di Davide con la fionda compariva in una serie di scene bibliche di contorno.

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oltre lo sguardo/9 iconografia

Quel re seduto in trono... L’ambone della cattedrale pugliese di Bitonto, opera dello scultore Nicolaus (1229), è noto per una assai discussa lastra di parapetto con quattro ieratiche figure che appartengono a un ambiente di corte. Due di esse sono coronate, una è in piedi, l’altra è seduta in trono. Secondo una lettura recentemente avallata dallo storico Francesco D’Angelo, l’uomo in piedi potrebbe essere Federico II (1220-1250), mentre nella figura in trono si potrebbe riconoscere re Davide, intento a conferire lo scettro a Corrado (1228-1254), appena nato ad Andria, proprio in terra pugliese, ed erede di diritto al trono di Gerusalemme in quanto figlio della defunta Iolanda di Brienne, seconda moglie dello Svevo. Una simile rappresentazione potrebbe essere in rapporto a una precisa congiuntura. Proprio nell’anno di esecuzione del pulpito, Federico aveva assunto a Gerusalemme la corona della Terra Santa, nella basilica del Santo Sepolcro (17 marzo). Il giorno dopo risulta redatta la sua enciclica imperiale, ossia una solenne lettera circolare in cui egli non esita a paragonarsi a Davide per aver riconquistato la Città Santa, ponendo fine all’esilio del nuovo Israele. In una lettera del 1235, lo Svevo arriverà a definire il re biblico «il nostro predecessore».

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Dopo la morte di Saul, gli anziani si recarono al cospetto di Davide, ormai trentenne, a Hebron, e lo proclamarono loro re, ripetendo l’unzione già ricevuta dalle mani di Samuele. Fece seguito la solenne traslazione dell’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme, in un tripudio di coreografie e di musiche che vedeva lo stesso Davide cinto da un paramento sacro in lino – l’efod, un pettorale istoriato –, e intento a saltare e a danzare con tutte le forze, a esprimere il proprio giubilo davanti al Signore. «Cosí Davide e tutta la casa d’Israele facevano salire l’arca del Signore con grida e al suono del corno» (II Libro di Samuele, 6:15). L’Arca fu posizionata al centro La lastra di parapetto scolpita da Nicolaus per l’ambone della cattedrale di Bitonto. 1229. Vi compaiono quattro personaggi, riferibili a una corte, e due di essi sono coronati: in particolare, quello seduto in trono potrebbe essere identificato con Davide.

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di un’apposita tenda. Seguirono «olocausti e sacrifici di comunione» (6:17), dopodiché Davide benedisse il popolo e dette luogo a una grande elargizione di cibo: «una focaccia di pane per ognuno, una porzione di carne arrostita e una schiacciata di uva passa» (6:19).

Prefigurazione del Messia

La liturgia della comunione esalta la qualifica sacerdotale di Davide, mentre l’Arca dell’Alleanza nella tenda non solo prefigura il Tempio, ma la rivelazione stessa di Cristo. Questo re biblico infatti è antenato e prefigurazione del Messia (ossia colui che riceve l’unzione da parte del Signore), tanto piú che è anch’egli originario di Betlemme. Per giunta, la rilettura di Davide in chiave cristologica astrae il concetto della sua regalità da una concreta situazione storica e politica, per concentrare ogni attenzione su un regno venturo che deve avverarsi alla fine dei tempi, quando la Gerusalemme celeste dell’Apocalisse scenderà in terra. L’angelo che annuncia a Maria la nascita di Cristo dice infatti: «Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Luca, 1:32). Davide stesso finisce per essere annoverato nella schiera dei profeti, sebbene il Vecchio Testamento non gli conferisca questa qualifica. Il fatto è che, secondo una tradizione diffusa da san Girolamo, traduttore della Bibbia, Davide è «la lira (antico strumento a corda, n.d.a.) che canta Cristo». A lui, infatti, vengono attribuiti i Salmi (in tutto o in parte), i testi dei canti che erano intonati nel Tempio di Gerusalemme dopo la sua ricostruzione, terminata la cattività babilonese. Il re biblico viene di conseguenza onorato come Psalmificus, il che non solo rende Davide un fondatore o un ordinatore della liturgia, ma anche un veggente, proprio perché i Salmi hanno un ruolo essenziale nell’ispirare la visione messianica del Nuovo Testamento. L’immagine di Davide entra precocemente nell’iconografia cristiana, proprio per l’autorità che conferisce sia al sacerdote che al monarca devoto al Signore. Ne era ben consapevole sant’Ambrogio in persona, quando, intorno al 386, commissionò i battenti della porta centrale della sua basilica martyrum a Milano, quella che, in piú fasi ricostruita, oggi porta il suo nome e ne custodisce il corpo. Le ante tuttora in situ sono il risultato di molteplici sostituzioni e restauri, ma il Museo Diocesano del capoluogo lombardo conserva due formelle lignee originali, nelle quali si vedono già ben definiti i canoni della narrazione davidica. Sono suddivise in due fasce con altrettanti episodi che si leggono in successione dal basso verso l’alto. Nella prima, all’inizio del ciclo figurato, in uno scenario pastorale Davide difende il gregge dall’assalto delle fiere. Si trova accanto a un albero, al centro, e

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Una delle due formelle lignee con storie di Davide in origine appartenenti ai battenti della porta centrale della basilica martyrum di Milano. L’opera, assegnata a un intagliatore lombardo, fu commissionata nel 386 dall’allora vescovo Ambrogio.

si contrappone a un leone alzando il braccio destro. La scena seguente presenta invece una schiera di figure togate: Iesse e i suoi figli ricevono Samuele. La seconda formella presenta lo stesso schema generale. Nella scena pastorale, in basso, un messo invita Davide a raggiungere il padre. Il pastore siede regalmente al centro della scena, poggiando il piede su un leone accucciato (si può intendere che fosse la stessa belva che lo aveva aggredito in precedenza). Nella scena con figure togate, in alto, assistiamo alla sua unzione per mano di Samuele. L’interesse di sant’Ambrogio per la figura di Davide si aggancia alla concreta realtà del suo tempo. Egli si era duramente scontrato con l’imperatore Teodosio proprio perché sosteneva che avesse superato i limiti della sua autorità, investendo gli ambiti inviolabili del sacerdozio. Scrisse cosí una Apologia prophetae David, proprio indirizzata all’augusto sovrano, sia per ribadire la superiorità del sacerdote (la regalità di Davide deriva dall’unzione impartita da Samuele, uomo di Dio), sia per sottolineare la necessità della penitenza a carico dei re, ogniqualvolta commettono un peccato (e Davide stesso, che ebbe modo di peccare, seppe ottenere il perdono del Signore).

La vittoria di Eraclio

La forza del modello di Davide aveva dato un grande smalto alla concezione del sovrano cristiano. Già nel 451 l’imperatore Marciano, nel solenne contesto del Concilio di Calcedonia, non esitò a definirsi novus David. E proprio l’immagine dell’umile eroe biblico in lotta contro un superbo avversario fece da sprone all’impresa di Eraclio, quando mobilitò le sue esigue forze per invadere la Persia del sasanide Cosroe II. Questi si era impossessato dell’Egitto e della Siria, e con la presa di

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oltre lo sguardo/9 Sulle due pagine miniature tratte dal Salterio di Parigi, realizzato su commissione di Costantino VII Porfirogenito (944-959). Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra, il duello tra Davide e Golia; nella pagina accanto, a sinistra, Davide affiancato dalle personificazioni della Saggezza e della Profezia; nella pagina accanto, a destra, Davide intento a suonare la lira.

Gerusalemme – deportandone gli abitanti e asportando la Vera Croce – aveva rinnovato il trauma della conquista babilonese (614). Fu cosí che all’indomani della vittoria dei Bizantini, conseguita nel 629, furono commissionati nove splendidi piatti in argento sbalzato dedicati proprio alla vita di Davide, i cui fasti erano tornati di piena attualità grazie alla disfatta di Golia-Cosroe (vedi foto in apertura di questo articolo, alle pp. 72/73). In Europa il merovingio Clotario II (626-27) fu il

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primo re a porsi sulla linea di Davide. L’identificazione acquistò particolare rilievo con Carlo Magno nell’anno 800, non solo per effetto del titolo imperiale, ma grazie anche all’omaggio delle chiavi del Santo Sepolcro e di altri luoghi (tra i quali il Monte Sion, dove Davide era sepolto) da parte del patriarca Giorgio di Gerusalemme, il che investiva il sovrano franco del ruolo di protettore della Terra Santa. La regalità sacra carolingia trovò piena espressione novembre

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nei codici miniati, sulla scorta della illustre tradizione bizantina. I testi sacri commissionati da Carlo e dai suoi successori risultarono infatti impreziositi da ritratti e da scene bibliche che ribadivano la saldezza dei sovrani devoti a Cristo. Il riferimento a Davide era particolarmente evidenziato nei salteri, ossia nelle raccolte dei Salmi, proprio perché al re biblico venivano attribuiti, come abbiamo visto. Nel Salterio di Lotario (842-855), per esempio, tre miniature in successione propongono il sovrano committente, Davide e san Girolamo (il traduttore). L’imperatore è chiaramente esemplato sull’immagine del re biblico.

Un salterio «aristocratico»

Passando al mondo bizantino, un caso particolare è costituito dal Salterio di Parigi, commissionato dal grande sovrano Costantino VII Porfirogenito (944959). Si tratta di un cospicuo esemplare di salterio del tipo noto come «aristocratico», nel quale compare una selezione di episodi della vita di Davide a fare da introduzione. Nella loro intonazione classica, le sette mirabili miniature sono un pieno esempio della cosiddetta rinascenza macedone. Nella scena dedicata alla lotta contro Golia, l’eroe biblico è affiancato dalla personificazione della Forza fisica (dynamis), mentre l’avversario può solo affidarsi alla Vanagloria (alazonéia), colta nell’atto di fuggire (vedi foto alla pagina accanto). Si potrebbe leggere in filigrana una celebrazione di Basilio I (867-886), nonno di Costantino e fondatore della dinastia macedone, salito al trono grazie all’assassinio del predecessore Michele

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III. L’ultima immagine propone Davide tra le personificazioni della Saggezza e della Profezia, mentre esibisce un libro con l’inizio del Salmo 72 (71): «Dio, affida al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia; regga con giustizia il tuo popolo» (vedi foto in alto, a sinistra). La stessa citazione è presente in un trattato di politica che proprio Costantino ha dedicato al figlio erede al trono, il futuro Romano II (959-963).

Da leggere Melinda Mihályi, Davide, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1994; anche on line su treccani.it Kathleen Corrigan, Salterio, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1999; anche on line su treccani.it Gemma Sena Chiesa, Elementi delle porte lignee di Sant’Ambrogio a Milano, schede 108-109, in AA. VV., Museo Diocesano, collana Musei e gallerie di Milano, Electa, Milano 2011; anche on line su academia.edu Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza, Roma-Bari 2012 Francesco D’Angelo, «Noster predecessor David»: la regalità davidica in Occidente tra XII e XIII secolo, in Anuario de Estudios Medievales, 46/2 (2016); anche on line su estudiosmedievales.revistas.csic.es.

NEL PROSSIMO NUMERO ● La ruota della fortuna

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POMPEI

SCAVI • SCOPERTE • RESTAURI DI ALESSANDRO MANDOLESI

Quasi come un’araba fenice, Pompei è piú volte rinata dalle ceneri e dai lapilli che la coprirono nel 79 d.C., a cominciare dal fatidico 1748, anno in cui Carlo III di Borbone decise di promuovere le prime esplorazioni del sito, dieci anni dopo quelle avviate a Ercolano. Negli ultimi decenni, l’idea di far sí che la città vivesse una nuova fioritura è stata ripetutamente rilanciata, ma la svolta decisiva si è avuta con il Grande Progetto Pompei, grazie al quale, dal 2014, sono stati allestiti numerosi cantieri di restauro e si è anche tornati a scavare in varie regioni dell’abitato, dando nel contempo un forte impulso alle attività di promozione del sito. Un impegno su piú fronti, dal quale è scaturita anche questa nuova Monografia di «Archeo», che propone un viaggio alla scoperta di quella che potremmo definire la «nuova» Pompei, disegnata dalle molteplici attività condotte sul campo. Nei vari capitoli è perciò possibile ripercorrere tutte le grandi scoperte che hanno riportato la città vesuviana agli onori delle cronache, non soltanto archeologiche: solo per citare qualche esempio, basti pensare al delicato affresco raffigurante Leda e il cigno, agli sgargianti colori del termopolio venuto alla luce nella Regio V, al sontuoso carro in bronzo di Civita Giuliana, o, ancora, poco fuori Porta Stabia, alla tomba di Gneo Nigidio Maio, della famiglia degli Alleii, nella cui iscrizione viene evocata la rissa scoppiata nell’anfiteatro, fra Pompeiani e Nucerini, nel 59 d.C. Un quadro vivace e variegato, che rende ancora piú nitidi i colori delle scene di vita quotidiana evocate dalle case e dalle botteghe della città antica.

IN EDICOLA


di Maria Paola Zanoboni

Lucrezia Borgia regna in Vaticano in assenza di papa Alessandro VI (particolare), olio su tela di Frank Cadogan Cowper. 1908-1814. Londra, Tate Collection.

Il vero volto di

LUCREZIA BORGIA Ammaliatrice e avvelenatrice – come vuole la «leggenda nera» ottocentesca – oppure figura integerrima, esempio luminoso di vita cristiana, madre premurosa, abile donna di governo e imprenditrice? Rileggendo i documenti della sua epoca, il profilo di Lucrezia Borgia appare assai piú complesso di quanto solitamente si pensa, e ben lontano dai luoghi comuni a lei tradizionalmente attribuiti


Dossier

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a figura di Lucrezia Borgia come donna dissoluta, avvelenatrice, protagonista d’ogni sorta di intrighi, fu elaborata nei primi decenni dell’Ottocento dalla letteratura romantica, che, non perdonandole la colpa di essere figlia del cardinale Rodrigo Borgia e di aver trascorso l’infanzia e la prima giovinezza nei palazzi papali, la metteva in stretta relazione con l’operato del padre, del fratello Cesare (ovvero il duca «Valentino», modello di dissolutezza e di calcolo politico nel Principe di Machiavelli), e della famiglia in generale, su cui pesava anche il giudizio negativo di Francesco Guicciardini a proposito del nepotismo e delle pratiche simoniache dei Borgia. A ciò si aggiungevano le calunniose accuse d’incesto lanciate contro di lei dal primo marito, Giovanni Sforza, ripudiato per volere di Alessandro VI. Fu poi una tragedia di Victor Hugo (1833), musicata da Gaetano Donizetti (1855), a consacrare il cliché di Lucrezia Borgia come avvelenatrice, sancito in seguito anche sul piano storico da Jacob Burckhardt (La cultura del Rinascimento in Italia,1860). Sebbene la storiografia della fine dell’Ottocento (con il saggio dello storico tedesco Ferdinand Gregorovius del 1874) e la letteratura novecentesca (in particolare con il romanzo storico di Maria Bellonci Lucrezia Borgia e il suo tempo [1939] e con il piú recente Lucrezia Borgia, la storia vera di Sarah Bradford [2006]) abbiano da tempo sfatato questi stereotipi, quella di Lucrezia è rimasta comunque una figura passiva fino a tempi recentissimi, quando le ricerche di Gabriella Zarri e Diane Yvonne Ghirardo, basate sui documenti d’archivio, ne hanno finalmente messo in evidenza il complesso profilo, in tutte le sue molteplici e straordinarie sfaccettature. Un profilo, del resto, già messo in luce dagli ambasciatori e diplo-

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matici contemporanei a Lucrezia, che nelle loro missive esprimevano tutto l’apprezzamento per questa donna dalle eccezionali capacità, sia nelle questioni politiche (fu reggente dello Stato Pontificio nel 1501 e sostituí il marito Alfonso d’Este quando, negli ultimi due mesi del 1518, si trovava in Francia), sia in quelle economiche (fu in grado infatti di risollevare le dissestate finanze del ducato di Ferrara con strategie imprenditoriali innovative).

Il confronto con Isabella

Il motivo del mancato apprezzamento da parte degli studiosi otto-novecenteschi era dovuto soprattutto al confronto diretto tra Lucrezia e la cognata Isabella d’Este, marchesa di Mantova, fanatica collezionista di oggetti antichi, e attivamente impegnata in una miriade di attività culturali e commissioni di opere d’arte che la mettevano continuamente in stretto contatto con tutti i principali artisti del Rinascimento. Di fronte a lei, la Borgia, non coinvolta nel mondo del collezionismo (anche se aveva finanziato pubblicazioni e assunto artisti per decorare i suoi appartamenti), che in campo culturale poteva vantare soltanto la relazione epistolare con Pietro Bembo e l’amicizia con Ludovico Ariosto, appariva perciò una figura sbiadita, da ricordare soltanto per l’entità della sua dote (200 000 ducati, e altri 100 000 in gioielli, abiti e libri), il numero dei suoi preziosi, e per essere figlia di papa Alessandro VI, sorella di Cesare Borgia, e moglie del duca di Ferrara Alfonso d’Este. In un periodo in cui non si concepiva neppure lontanamente che le donne, e tanto meno le nobildonne, potessero svolgere attività imprenditoriali, né politiche, la parte principale della vita di Lucrezia non era stata neppure presa in considerazione. E appunto

Nella pagina accanto Lucrezia Borgia regna in Vaticano in assenza di papa Alessandro VI, olio su tela di Frank Cadogan Cowper. 1908-1814. Londra, Tate Collection.

per questo, lo storico ottocentesco Alessandro Luzio non poteva che considerarla «una stupida». Un giudizio ampiamente smentito già dai contemporanei: gli ambasciatori del duca Alfonso, inviati a Roma per le trattative sulla dote della Borgia (1501), si erano meravigliati della sua saggezza e della sua grande intelligenza, mentre un delegato di Ercole d’Este a Roma scriveva di lei (1501): «Sembra che la duchessa sia molto prudente, e piú abile a sbrigare gli affari correnti che a divertirsi (…). Ho trovato in lei un’amabile Madonna che ragiona in modo eccellente»; e che era «donna molto prudente, discreta e di buona indole e di grandissima osservanza verso vostra Eccellenza e l’Illustrissimo don Alfonso (…). Inoltre ella ha ottima gratia in ogni cosa, ed è a un tempo modesta, bella e onesta. (…). La bellezza è già di per sé soddisfacente, ma la piacevolezza delle maniere e il modo grazioso di porgersi l’aumentano e fanno che nulla di sinistro si debba o si possa sospettare di lei: piuttosto è da presumere, credere e sperarne sempre ottime azioni». Nello stesso periodo (1502) un corrispondente di Isabella d’Este (figlia di Ercole I e cognata di Lucrezia) la reputava ogni giorno di piú «donna di gran cervello, astuta», nonché «savia madona», affermando anche che non si trattava di un’opinione soltanto sua, ma di tutti quelli che la conoscevano. Queste aspettative non andarono deluse, come dimostra la delicatezza delle parole di Lucrezia nel rispondere al suocero Ercole d’Este preoccupato per la sua salute in occasione della prima delle sue sfortunate gravidanze (1502): «Ho ricevuta grandissima displicentia dello affanno et molestia che ha presa la Excellentia Vostra della mia nova innovembre

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Dossier Matrimonio mistico di Santa Caterina, dipinto attribuito alla scuola del Pinturicchio. XV sec. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. La figura che affianca la Vergine viene tradizionalmente identificata con Lucrezia Borgia.

disposizione, la quale volentieri l’haveria celata per non li dare melanconia, quando tacendo non fusse mancato del debito mio (…). La ringratio sumamente dello amorevole scrivere suo, et della speranza ch’ella mi dà (…)». E cosí gli annunciava la morte del suo secondo bambino, di appena

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un mese: «(…) lo illustrissimo nostro charissimo figliolino essendo sta’ agitato piú volte da molti accidenti sopravvenuti, questa mattina su le XIII ore è passato da questa vita. De che siamo in lachryme tanto tribulata et havemone tanto cordoglio quanto Vostra Signoria pote pensare (…)», pregando poi il

duca di non farlo sapere alla duchessa, malata, per non darle preoccupazione. Tornando alla storiografia ottocentesca, come accennato, Ferdinand Gregorovius, autore di una monumentale Storia di Roma nel medioevo, aveva compiuto impornovembre

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I Borgia, una dinastia tra Medioevo e Rinascimento Domingo de Borgia

Catalina

Alfonso Borgia

sposa Juan Luis del Milá barone di Masalavés

Papa Callisto III

(† 1468)

Isabella

(† 1468)

Rodrigo Gil de Borgia

Jofré

sposa

(† 1436 o 1437)

(1455-1458)

Pedro Luis Borgia

Rodrigo Borgia

duca di Spoleto, prefetto di Roma

Papa Alessandro VI

(† 1458)

Giovanna sposa Pedro Lanzol de Romani

(1492-1503)

Ramo Borgia-Lanzol

Pedro Luis Borgia

Juan Borgia

Cesare Borgia

Jofré Borgia

I duca di Gandía

II duca di Gandía

duca di Valentinois

principe di Squillace

(† 1491)

(† 1497)

(† 1507)

Juan Borgia

(† 1517)

Lucrezia

(† 1507)

III duca di Gandía

(† 1519)

sposa

(1) Giovanni

Rodrigo Borgia († 1537)

cardinale

Fernando Borgia

Francesco Borgia († 1572)

sposa Eleonora de Castro poi cardinale e generale dei Gesuiti

Carlo Borgia

(† 1540)

cardinale

(† 1558)

V duca di Gandía

VI duca di Gandía

marchesa di Denia sposa Francisco Gomez de Sandoval, duca di Lerma

Carlo II Borgia

Inigo Borgia

Gaspare Borgia

(† 1632)

(† 1622)

(† 1645)

generale nelle Fiandre

cardinale

(† 1595)

viceré di Sardegna

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Sforza di Pesaro (2) Alfonso d’Aragona, duca di Bisceglie (3) Alfonso I, duca di Ferrara

Isabella

(† 1592)

Francesco II

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Enrico Borgia

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Dossier

tanti ricerche sulla corte romana di Alessandro VI, rivalutando per primo anche la figura di Lucrezia, e restituendole la realtà storica di persona onesta e leale. Sulla scia delle sue ricerche, l’unico a tracciare di lei un ritratto completamente favorevole fu il letterato francese Joseph Arthur de Gobineau, nei suoi dialoghi storici rigorosamente documentati (La Renaissance. Scènes historiques, 1877). Lucrezia viene rappresentata come una «regina», esperta nell’arte di governo e in grado di valutare la propria condizione in rapporto agli eventi, che la vedevano nel ruolo

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di pedina mossa dai familiari: «Io non sono che una miserabile donna di cui la famiglia si serve come di un giocattolo, i cui interessi non contano piú dei suoi sentimenti. In tale situazione mi resta la fierezza» .

Colta e sensibile

Ingiustamente sottomessa a vincoli matrimoniali imposti, ma anche fiera rappresentante della famiglia Borgia, consapevole della provvisorietà della sua condizione economica, legata ai matrimoni e all’influenza del padre; estranea alle macchinazioni del genitore e del fratello; colta interlocutrice di

Ludovico Ariosto e Pietro Bembo. Una donna capace di concepire i sentimenti piú profondi, come quelli espressi nel dialogo con Bembo: «Non c’è di grande a questo mondo che l’amore delle arti, l’amore delle cose dello spirito, l’amore di coloro che si amano, e quando la vita nel suo corso vi ha portato sopra uno di quegli altipiani dove i fiori divengono piú rari e gli orizzonti piú severi, forse si troverà ancora piacere nel considerare saggiamente certe cose eterne delle quali meno ci si cura nella prima giovinezza». Nelle strategie politiche di Alessandro VI Lucrezia assunse fin da giovanissima un ruolo di rilievo novembre

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LE DATE DA RICORDARE

La disputa di Santa Caterina, affresco realizzato dal Pinturicchio per l’Appartamento Borgia, in Vaticano. 1494 circa. Cardine della composizione è appunto il confronto tra la vergine alessandrina, tradizionalmente identificata con Lucrezia Borgia, e l’imperatore Massimino Daia, assiso in trono, che sarebbe invece Cesare Borgia, il Valentino.

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1480 Figlia illegittima del cardinale Rodrigo Borgia, arcivescovo di Valencia (divenuto nel 1492 papa Alessandro VI), e di Vannozza Cattanei, e sorella di Cesare Borgia, Lucrezia nacque a Subiaco il 18 aprile. 1493 Il 12 giugno, come pedina della politica matrimoniale del padre e del fratello, andò in sposa a Giovanni Sforza, signore di Pesaro, cosa che avrebbe consentito l’alleanza del papato con i duchi di Milano. Le nozze furono poi annullate dal papa, che aveva cambiato schieramento politico, mettendosi al fianco degli Aragonesi (1497). 1498 Il mutamento delle alleanze del padre e del fratello la portò a un secondo matrimonio, con Alfonso d’Aragona, figlio illegittimo del re di Napoli, poi fatto assassinare da Cesare Borgia (1500), che si era nel frattempo avvicinato al partito filofrancese. Fu un matrimonio assai gradito a Lucrezia, che, come duchessa di Bisceglie, con lui tenne una corte frequentata da poeti, letterati, principi e cardinali, e difese il marito dai numerosi attentati dei parenti. Da lui ebbe un figlio, Rodrigo d’Aragona. L’assassinio del marito guastò irrimediabilmente i rapporti di Lucrezia col padre e col fratello. 1502 Nozze con Alfonso d’Este, figlio di Ercole I, duca di Ferrara, con lo scopo di rafforzare il potere di Cesare Borgia in Romagna. L’opposizione iniziale degli Estensi fu vinta dal ricatto di Alessandro VI che fece leva sul re di Francia Luigi XII, protettore del duca di Ferrara. 1503 Morte di Alessandro VI e ascesa al soglio pontificio di Pio III e, poco dopo, 18 agosto di Giulio II. I Borgia caddero in disgrazia e il nuovo papa Della Rovere ordinò a Cesare Borgia l’immediata restituzione allo Stato Pontificio di tutte le fortezze conquistate in Romagna. Il «Valentino» rifiutò appoggiato da Lucrezia, che nell’occasione arrivò a difendere con un piccolo esercito di mercenari il ducato del fratello, riuscendo a sconfiggere i Veneziani alleati di Giulio II, salvando Imola e Cesena. 1505 Morte di Ercole I d’Este. Alfonso e Lucrezia diventano duchi di Ferrara. 25 gennaio 1507 Alfonso parte per Genova, lasciando alla moglie il governo del ducato. Nel frattempo (20 aprile), giunge la notizia della morte di Cesare Borgia, che addolora molto Lucrezia. 1508 Dopo ripetuti aborti e neonati morti a pochi mesi d’età, nasce un bambino 4 aprile sano e robusto, il futuro Ercole II. 1508 In seguito alle numerose azioni di guerra che portarono alla battaglia giugno di Agnadello e alla cattura di Francesco Gonzaga da parte dei Veneziani (9 agosto 1509), Lucrezia prende di nuovo le redini del ducato. 1509 Nascita di un altro erede: il futuro cardinale Ippolito d’Este. 25 agosto 1509-1513 Anni di guerra e di complicate alleanze politiche che vedono l’interdetto comminato da Giulio II contro Alfonso d’Este, e la sua continua assenza da Ferrara per le campagne militari. In questi anni Lucrezia governa il ducato. 1512 Morte del figlio tredicenne Rodrigo di Bisceglie, avuto dal secondo marito, Alfonso d’Aragona. 1513 Muore Giulio II e sale al soglio pontificio Leone X (Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico), il cui segretario particolare, Pietro Bembo, favorisce la riconciliazione tra la Santa Sede e Ferrara. Viene tolto l’interdetto al duca Alfonso. 1515-1516 Nascita di altri figli: Eleonora e Francesco. 1519 Il 24 giugno Lucrezia muore a Ferrara per le complicanze dell’ultimo parto.

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Dossier non soltanto come pedina nello scacchiere delle alleanze matrimoniali, ma anche come consanguinea fedele a cui delegare l’amministrazione di alcune terre della Chiesa. In questa occasione un pontefice affidò per la prima volta a una donna la carica di governatrice di alcuni territori papali, assegnandole nel 1499 (cioè all’età di 19 anni) il governatorato di Spoleto e di Foligno. Ma non si limitò a questo: nel 1501, fatto inaudito, il pontefice le affidò addirittura l’incarico di reggente dello Stato della Chiesa in sua assenza, con la facoltà di aprire e leggere la corrispondenza indirizzata al papa, e di intervenire, consigliandosi con un gruppo ristretto di cardinali, in caso di questioni urgenti. Le venne conferito da Alessandro VI il titolo di «vicariessa» (già appartenuto nel X secolo a due matrone romane che di fatto avevano governato per alcuni anni lo Stato Pontificio), e, per sottolineare meglio il suo ruolo, Lucrezia prese alloggio negli appartamenti del papa. Non disponeva del sigillo pontificio, dato che l’ambito spirituale non rientrava nelle sue prerogative, ma le competevano tutte le questioni civili e temporali, il disbrigo degli affari ordinari, l’esame della corrispondenza e delle suppliche. Redigeva personalmente documenti in latino, cosa che non le comportava alcuna difficoltà, dato che lo parlava correntemente insieme a greco, spagnolo, francese e italiano, ed era in grado di scrivere in tutte queste lingue. Nelle questioni piú delicate poteva giovarsi del supporto dell’ottantacinquenne cardinale di Lisbona Giorgio Costa, con il quale aveva instaurato un rapporto di amicizia e di fiducia reciproca. Evidentemente le sue capacità erano tali che il papa si fidava

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Nella pagina accanto papa Alessandro VI in un dipinto di scuola tedesca. XVI sec. Digione, Musée des Beaux-Arts. Qui sotto il profilo di Lucrezia Borgia su una medaglia in bronzo coniata in onore suo e del marito, Alfonso I d’Este. Manifattura mantovana, 1502.

completamente di lei, nonostante la giovanissima età (21 anni), ed era anche un modo per dimostrare a Ercole d’Este (con cui erano in corso le trattative matrimoniali), che Lucrezia era degna di diventare duchessa di Ferrara. La mossa ebbe pienamente successo: gli ambasciatori ferraresi inviati a Roma come osservatori rimasero conquistati dalla giovinetta coperta d’oro e di gemme che, con saggezza, impartiva direttive ai cardinali, guidando lo Stato della Chiesa, e si pronunciarono all’unanimità a suo favore. Qualche anno piú tardi il marito Alfonso d’Este agí allo stesso modo del papa, affidandole in piú occasioni la reggenza del ducato di Ferrara.

L’arrivo a Ferrara

Qui sopra il profilo di Alfonso I d’Este sul rovescio di un’altra medaglia in bronzo, opera di Niccolò Fiorentino (al secolo Niccolò di Forzore Spinelli). 1492.

Bionda, snella, dagli occhi color fiordaliso, le labbra carnose, i denti di eccezionale candore, i lineamenti aggraziati pervasi da un’espressione di dolcezza e da una volontà straordinaria di vita e di allegria, Lucrezia giunse a Ferrara il 2 febbraio 1502 come sposa di Alfonso d’Este, figlio del duca Ercole I. Indossava un abito di raso «morello» con frange d’oro, abbinato a un mantello in broccato d’oro foderato di ermellini, una cuffia trapunta d’oro, di gemme e di perle «grosse e preziosissime»; una collana di diamanti, rubini e perle grosse; un pendente con un grande rubino e una grossa perla, bellissima e di enorme valore. Cavalcava uno splendido destriero bianco, coperto di scarlatto con finimenti preziosi, sotto un baldacchino di raso cremisi, scortata da sei gentiluomini ferraresi. Ottantasei muli e magnifiche mule al suo seguito, bardati dei colori del papa, erano carichi di ogni sorta di oggetti preziosi. novembre

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Dossier La Didascalia versione di Dosso Dossi aliquatur adi odis que vero ent qui

Un simbolo doloreium conectu di purezza rehendebis eatur tendamusam L’immagine di Lucrezia è stata consent, perspiti ravvisata nei ritratti piú improbabili, ma conseque nis quelli che la raffigurano nella realtà maximcon eaquis certezza sono pochissimi (tre earuntia conesl’affresco del Pinturicchio medaglie, apienda. nell’appartamento borgiano in

Vaticano, che la rappresenta nelle vesti di santa Caterina d’Alessandria; un dipinto che la raffigura nei panni della beata Beatrice d’Este). Ciò è dovuto sia al fatto che molti sicuramente sono andati perduti, sia anche (e forse soprattutto) all’avversione nutrita dalla duchessa all’idea di farsi ritrarre, come ebbe modo di affermare in piú occasioni. Una delle rarissime immagini certe si trova in Australia, alla National Gallery di Victoria, e fu scoperta soltanto nel 2008, quando, dopo ricerche durate decenni, gli studiosi arrivarono alla conclusione che il quadro, risalente al 1518, è del pittore Dosso Dossi, attivo in quell’epoca alla corte ferrarese. La tela raffigura proprio la duchessa, vestita di nero, con i capelli raccolti, seduta davanti a una pianta di mirto, simbolo di purezza, come il pugnale che stringe tra le mani e il cartiglio che recita «la virtú che vi regna è piú splendida di questo pur bel corpo». La certezza dell’attribuzione viene dal fatto che il motto ricalca un passo degli Asolani in cui Pietro Bembo esprimeva lo stesso concetto, mentre la simbologia del mirto richiama la medaglia «dell’amorino bendato» (legato appunto a una pianta di mirto), fatta coniare da Lucrezia nel 1505. novembre

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spensierati. Le fonti la tramandano come persona dall’indole solare e vivace, dal carattere dolce, animata dalla gioia di vivere, socievole e sorridente. Un cronista ferrarese ricorda, per esempio, una fantastica giornata del 1505 in cui la duchessa, con sua cugina e altre damigelle di corte, portò in giro per la città in carretta gli ambasciatori veneziani tra mille risate e divertimenti.

Mecenate e committente

In alto Lucrezia Borgia nei panni di santa Caterina, particolare della Disputa di Santa Caterina (vedi alle pp. 90-91). Nella pagina accanto Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, olio su tavola di Dosso Dossi. 1518. Melbourne, National Gallery of Victoria.

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In quella data la ventiduenne Lucrezia, che aveva già alle spalle due matrimoni finiti per il mutare delle alleanze dei Borgia, diveniva di fatto la signora di Ferrara, portando un clima del tutto nuovo nella vita di corte. Gli anni 1502/1503, cioè quelli compresi tra l’arrivo a Ferrara e la morte di Alessandro VI (18 agosto 1503) furono tra i piú allegri e

La figlia del papa fu protagonista di un incontrastato rinnovamento culturale: grazie all’alto appannaggio con cui poteva mantenere una corte numerosa con varie presenze spagnole, si circondò di poeti, musici, letterati, rivaleggiando con la cognata Isabella d’Este, marchesa di Mantova. Fiorivano la composizione di commedie, poemi cavallereschi, scritti encomiastici, le dispute sui temi piú alla moda. Intrattenne rapporti di amicizia con Ludovico Ariosto che, nell’Orlando Furioso (1515) la collocò al primo posto tra le dame piú degne di ammirazione della sua epoca. Commissionò a Tiziano (giunto a Ferrara nel febbraio del 1516), gli affreschi del Palazzo Ducale, e pare che il pittore l’abbia raffigurata nelle vesti di santa Dorotea in una Madonna con Bambino ora al Prado. Lucrezia seppe animare l’antica e prestigiosa corte estense, tradizionalmente legata alla cultura francese, con l’influsso spagnolo, visibile soprattutto negli abiti e nella moda, nella musica e nelle danze: aveva portato con sé a Ferrara molti dei suoi musici, e lei stessa amava moltissimo danzare, era innamorata della poesia, e diffuse nella capitale del ducato estense la conoscenza della lirica spagnola, inviando all’amico Pietro Bembo versi in quella lingua perché glieli traducesse in italiano. Sebbene fosse nata nel Lazio, infatti, Lucrezia era stata educata da una nobildonna spagnola per volere di Rodrigo Borgia, la cui

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famiglia proveniva dalla Penisola Iberica (il futuro Alessandro VI era cardinale di Valencia). La corte di Lucrezia (giunta a Ferrara con un seguito di ben 700 persone), era una vera e propria azienda, in parte femminile. I libri contabili del 1506 testimoniano che dava lavoro a ben 21 donne, tra cameriere, inservienti e dame di compagnia, e a un totale di 60 persone. Tra i «salariati» c’erano il camerlengo, il suo medico personale, segretari, cancellieri, musici, cantori, pittori, il cappellano, i maestri dei paggi, gli addetti alla dispensa, alla mensa, alla cucina, alla camera

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della duchessa, alle scuderie, portinai, e facchini. Notevoli somme di denaro erano destinate ai pittori, ai quali venivano commissionati in continuazione dipinti per chiese e monasteri che Lucrezia proteggeva. Della corte facevano parte anche teologi e predicatori, tra cui il suo confessore Tommaso Caiani, fiorentino e discepolo del Savonarola.

Un’amicizia letteraria

Quella col Bembo (che fu alla corte di Ferrara proprio nei suoi anni migliori, dal dicembre 1502 all’autunno del 1503), fu un’amicizia prettamente letteraria, fatta di

scambi di sonetti, lettere e doni. Pietro aveva conosciuto Lucrezia nel 1502, poco dopo le sue nozze col duca Alfonso d’Este, e se ne era invaghito immediatamente. Al momento del loro primo incontro, Lucrezia indossava una veste di broccato d’oro, adorna di gioielli e perle di inestimabile valore, mentre una cuffia trapunta di pietre preziose agghindava il suo capo. Ci furono tra loro scambi di versi, intrattenimenti letterari, passeggiate e svaghi di corte, e un epistolario, fitto da parte di Bembo (40 lettere), e limitato a 9 circospette missive da parte della duchessa. novembre

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Sulle due pagine riproduzione di una placca in argento raffigurante Lucrezia Borgia che presenta il suo figlio ed erede Ercole a san Maurelio, compatrono di Ferrara. L’opera fu realizzata da Giannantonio da Foligno per un reliquiario dello stesso san Maurelio custodito nella chiesa di S. Giorgio fuori le mura. 1512. A destra Ritratto della Beata Beatrice II d’Este, olio su tavola di Bartolomeo Veneto. 1510 circa. South Bend (Indiana), The Snite Museum of Art. Sotto le sembianze dell’antenata estense, vissuta nel XIII sec., si cela in realtà Lucrezia Borgia all’età di circa quindici anni.

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A Lucrezia Pietro dedicò gli Asolani (1504), un immaginario dialogo sulla natura dell’amore, che definiva «desio di bellezza», da non intendersi come avvenenza fisica, ma come rettitudine dell’anima. Questo trattato sarebbe divenuto in seguito fondamentale nella legittimazione letteraria della lingua italiana sia in prosa che in poesia. Grazie a Bembo, la figlia di Alessandro VI potè conoscere e apprezzare l’opera di Aldo Manuzio, la cui scomparsa (1515) costituí per lei un autentico dolore. Sebbene la documentazione su Lucrezia sia andata in buona parte

perduta durante l’incendio del Palazzo di Giustizia di Ferrara (1945), un certo numero di atti notarili e, soprattutto, due suoi libri di conti del 1513 ne rivelano in modo straordinario le attività economiche e le strategie imprenditoriali. E come Eleonora d’Aragona, ma in misura maggiore, forní un supporto economico al marito nei periodi di guerra. Proprio gli anni del conflitto contro Venezia e il papato (15091513) costituirono un punto di svolta determinante per la vita economica di Lucrezia: dal 1513, infatti, spinta dalle necessità economiche del ducato, iniziò l’ambi-

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

zioso programma imprenditoriale che avrebbe portato avanti fino alla morte (1519). Un programma fatto di un’instancabile opera di bonifica finalizzata non tanto alla coltivazione, ma soprattutto all’allevamento, per realizzare il quale utilizzò sia i proventi dell’eredità di uno dei figli (1514), sia quelli derivanti dalla vendita dei propri gioielli: nel 1516 vendette una catena d’oro per sovvenzionare il rifaci-

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mento degli argini di un fiume e, poco dopo, impiegò una perla e un rubino per avviare un allevamento di bufale, della cui mozzarella era golosa (vedi box a p. 99). Seguendo una strategia del tutto originale, ben diversa da quella degli altri regnanti, Lucrezia non impiegava capitali nell’acquisto dei terreni da bonificare, ma pattuiva con i proprietari e le comunità la realizzazione dei lavori in cambio

di una parte dei terreni bonificati, sui quali impiantava successivamente molteplici attività (coltivazione del grano e, soprattutto, allevamento di ovini e bovini, con la produzione di tutti i possibili generi che ne derivavano: lana, pellami, formaggio). I proventi venivano portati a Ferrara e pesati nel palazzo della duchessa (vera e propria struttura commerciale, dotata anche di un forno per la cottura dei novembre

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Sulle due pagine l’esterno dell’Appartamento Borgia, l’ala più riservata del Palazzo Apostolico Vaticano voluta da papa Alessandro VI Borgia (oggi compresa nel percorso di visita dei Musei Vaticani).

la produzione delle mozzarelle

Quella passione trasformata in business... Una delle novità finanziate da Lucrezia fu l’allevamento di bufale per la produzione delle mozzarelle. Il prelibato formaggio, proveniente dal Medio Oriente, era stato importato a Napoli alla fine del Duecento, riscuotendo immediatamente un immenso successo nei banchetti di corte. Da Napoli appunto, Eleonora d’Aragona, moglie di Borso d’Este e suocera di Lucrezia, lo aveva fatto conoscere ai signori di Ferrara, stipulando al tempo stesso un contratto di soccida per l’allevamento di bufali e la produzione di ricotta e mozzarella (1485). Questi bovini erano infatti già abbondantemente diffusi nelle campagne romane fin dal XII secolo, in Sicilia sono testimoniati dal 1231 e dal 1239 a Salerno, diffondendosi poi nelle zone paludose

mattoni e di un filatoio), per poi essere ridistribuiti nelle botteghe cittadine. Da sottolineare, tra l’altro, anche l’importanza di questo edificio, fatto costruire appositamente dalla duchessa senza sfarzo, ma con molto senso pratico, per le sue attività commerciali. Lucrezia finanziava i lavori di bonifica, ma sapeva servirsi anche delle prestazioni obbligatorie e gratuite delle comunità residenti,

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della Toscana (in Maremma soprattutto), mentre nelle aree acquitrinose del delta del Po giunsero solo alla fine del Quattrocento, grazie appunto a Eleonora d’Aragona e a Lucrezia Borgia. Quest’ultima, a sua volta, doveva aver sviluppato la passione per la mozzarella di bufala a Roma, dove veniva prodotta col latte degli animali allevati nell’Agro Pontino, e dove gli ammalati dell’ospedale di Santo Spirito venivano nutriti appunto con questo cibo sostanzioso e prelibato. Per acquistare dieci bufale (che fece venire da Roma attraverso il banchiere Agostino Chigi), nel 1517 Lucrezia sacrificò un magnifico pezzo di oreficeria con una perla e un rubino. Da quel momento in poi, dunque, grazie alle due duchesse, la mozzarella entrò a pieno titolo e grande successo nei banchetti della corte di Ferrara.

con argomenti del tutto convincenti. In questo modo riuscí a ottenere in pochi anni ingenti guadagni e ad assicurarsi un notevole patrimonio fondiario. Un altro punto di forza della sua strategia imprenditoriale era rappresentato dai contratti a breve termine che stipulava affittando i terreni: in questo modo le rese erano molto piú alte, e frequente la possibilità di cambiare gli affit-

tuari o i soci che non la soddisfacevano. Anche in questo caso si trattava di una gestione del tutto originale rispetto a quella degli altri signori della Penisola (Alfonso d’Este compreso), che consideravano la terra soltanto il simbolo del potere, piuttosto che una risorsa economica, per cui stipulavano contratti a lungo termine assai poco redditizi (lasciando l’onere e gli utili delle bonifiche agli

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Dossier La camera da letto di Lucrezia Borgia nel Castello Caetani di Sermoneta, dove la duchessa dimorò piú volte durante il pontificato di Alessandro VI.

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affittuari), e basando invece i cespiti dello Stato su dazi e gabelle. A Lucrezia non mancavano neppure cognizioni tecniche molto approfondite e sofisticate, che le erano necessarie per gli affari da trattare: nelle sue lettere del 15071510 come reggente e duchessa di Ferrara, fece spesso riferimento a complicati problemi di bonifica e canalizzazione delle acque, entrando in modo approfondito e con cognizione di causa nei dettagli tecnici, dimostrando di essere perfettamente in grado di valutare se canali e scolmatori erano stati realizzati a regola d’arte.

Una fede profonda

Cosí come la sua vita economica e le sue capacità politiche, anche le pratiche religiose di Lucrezia sono state completamente ignorate fino ai recenti studi di Gabriela Zarri (2006), sebbene emergano copiosamente dalle sue lettere, da quelle del suo confessore, dalle affermazioni dei contemporanei, rivelando una straordinaria e inaspettata spiritualità. La sua religiosità, manifestatasi soprattutto durante la seconda parte della sua vita, assunse dimensioni concrete con atti importanti: in un anno imprecisato si fece terziaria francescana (come testimonia una sua lettera del 1511 al cognato Francesco Gonzaga), e fu sepolta con quella veste. Nel 1510 fondò con i propri mezzi S. Bernardino, convento di Clarisse osservanti votate alla regola della povertà assoluta, colmando di attenzioni anche i monasteri femminili di molte altre città: da Brescia a Mantova, da Milano a Firenze. Strinse rapporti di amicizia profonda con numerose religiose che avevano manifestato segni di santità. Distribuí elemosine, donò formaggi e altri generi di prima necessità ai conventi ferraresi e offrí regali ai monaci, cercando di mettere in pratica i principi della fede cristiana in

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ogni circostanza della sua vita. Difese e aiutò gli orfani del suo medico, donando loro denaro, stoffe e oggetti di pregio, e sostenendo i costi della bonifica di alcuni loro terreni, per metterli in grado di sopravvivere. Osservava assai spesso anche il digiuno, cosa di cui il marito la rimproverava, come emerge dalla sua corrispondenza. A differenza dell’arrogante cognata Isabella d’Este, il comportamento di Lucrezia era costantemente improntato alla gentilezza e alla cortesia nei confronti di chiunque, tanto che arrivò a difendere di fronte al marito un corriere arrivato tardi con una lettera. Ancora si conservano molti suoi biglietti di ringraziamento. Ampie notizie sulla sua religiosità emergono dalla corrispondenza con il suo confessore, frate Tommaso Caiani, seguace di Savonarola (1514-1519). A Ferrara, patria del frate domenicano infatti, la predicazione di quest’ultimo aveva avuto grande influsso, tanto che, all’inizio del Cinquecento, si era formato un vero e proprio movimento improntato alle sue idee. Le invettive contro il papato e la curia romana, lanciate nel 1494 a Firenze da Savonarola – che sarebbe stato messo al rogo proprio durante il pontificato di Alessandro VI –, dovevano aver impressionato notevolmente Lucrezia, che aveva trascorso l’infanzia in un monastero femminile domenicano, sviluppando una particolare devozione per Caterina da Siena. E ancor piú dovevano averla impressionata la condanna e la tragica fine del frate. Dal carteggio con il suo confessore emergono temi come il rapporto tra beni necessari e superfluo, o su come evitare i pettegolezzi che affliggevano la vita di corte; oppure la vita di madre di Lucrezia e la sua grande sofferenza per i tanti neonati che aveva perso (ebbe 16 o 17 gravidanze, di cui 6 o 7 con aborto spontaneo; una bimba nata

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morta, e dei 9 nati vivi soltanto 5 oltrepassarono l’adolescenza). Lucrezia esprimeva a Caiani anche le sue preoccupazioni a proposito del rapporto tra la ricchezza e la possibilità di ottenere la salvezza, ricevendone in risposta che è naturale che un regnante possegga di piú, e che importante è l’uso che si fa del denaro: non l’accumulo fine a se stesso o da spendere in beni voluttuari, ma una saggia gestione delle risorse da investire per

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il bene comune. E tale fu appunto il comportamento della dcuhessa, che, preferendo l’imprenditoria al collezionismo, agli abiti e ai gioielli, diede lavoro e possibilità di sopravvivenza a moltissime persone, rendendo al tempo stesso fertili terreni prima acquitrinosi.

Gioielli, libri e arazzi

Anche i gioielli di Lucrezia, di cui rimangono due inventari (15021504 e 1516-1519), ne rivelano

la religiosità intrisa di sofferenza per le prove durissime a cui la vita l’aveva sottoposta (la morte di tanti figli in tenerissima età e l’assassinio del secondo marito, Alfonso d’Aragona duca di Bisceglie, l’unico veramente amato). Come ebbe modo piú volte di affermare nelle sue lettere, apprezzava soprattutto gli oggetti «belli e insieme di devozione». Suscitano immensa tenerezza gli innumerevoli monili sacri che metteva al collo dei suoi bambini, nel tentativo disperato di proteggerli dalla malattia già avanzata e dalla morte imminente. Al collo di uno dei suoi neonati morente aveva posto appunto una Croce raffigurante da un lato la Passione, e dall’altro il Santo Sepolcro. I preziosi di Lucrezia la dipingono come donna molto religiosa, devota della Madonna e della Passione di Cristo, a differenza della cognata Isabella d’Este, i cui monili a soggetto mitologico, rispecchiavano il gusto per l’antichità classica. L’inventario del 1504 annoverava un buon numero di gioielli profani, tra cui la cuffia da sposa che Ercole d’Este le aveva inviato a Roma come regalo di nozze, carica di perle, diamanti, rubini, zaffiri, del valore di 30 000 ducati. Ben diverso l’inventario del 1516: i 435 gruppi di oggetti che lo compongono comprendevano invece cuffie, gorgiere, breviari, libri di preghiere, borse, segnalibri, coppe, medaglie, bottoni, sigilli, ma anche e soprattutto croci d’oro con perle e diamanti, raffigurazioni della Trinità smaltate, crocifissi con diamanti e rubini a indicare la ferita di Cristo, corone di spine con diamanti; rosari (in corallo, oro o ambra, il piú prezioso con rubini, oro e 3 perle), medaglie e Agnus dei da portare al collo (che faceva indossare ai figli); svariati «passetti» ovvero immagini da baciare prima della comunione. Tutto ciò che indossava ordinovembre

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nariamente era di natura sacra, riservando i monili profani esclusivamente alle occasioni di Stato. La sua contabilità non segnala l’acquisto di gioielli costosi, ma testimonia piuttosto che li aveva acquisiti per eredità e che li prestava o li dava in pegno. Acquistava invece piccole quantità di oro e argento, oppure faceva smontare e riutilizzare vecchi gioielli per fare doni sia alla sua corte, sia a persone importanti come la regina di Francia. Tra i libri (15 in totale), il piú prezioso era un offiziolo miniato in oro con episodi della vita della Madonna, rilegato in velluto cremisi con fermagli d’argento e custodito in una borsa di velluto rosso, oggi conservato alla Free Library di Filadelfia. Sebbene la sua biblioteca non potesse rivaleggiare con i 74 volumi di quella di Isabella d’Este, è comunque indicativa di una cultura piú varia ed eclettica. Possedeva infatti alcune edizioni della Divina Commedia, le opere del Petrarca, un libro di

Nella pagina accanto una pagina dell’offiziolo di Lucrezia Borgia. 1499. Filadelfia, Free Library. In basso, al centro, lo stemma della duchessa. In basso pendente di produzione francese raffigurante Lucrezia Borgia. XVI sec.

filosofia, due di storia, poemi e canzoni in spagnolo, la Grammatica di Donato, oltre a numerose opere religiose: la vita e le epistole di Caterina da Siena, una vita di Cristo in catalano, molte opere di meditazione. Di carattere religioso, anziché mitologico, sono anche i temi dei numerosi arazzi di Lucrezia: soprattutto episodi biblici riguardanti la giustizia e la rettitudine contrapposte all’arroganza, alla prevaricazione, all’abuso di potere, confidando nella giustizia divina come unica fonte di giustizia. Lucrezia morí di parto a soli 39 anni il 24 giugno 1519, lasciando nella disperazione il marito Alfonso d’Este , che cosí ne annunciava la morte al nipote Federico Gonzaga: «non posso scriverlo senza lachrime, tanto mi è grave il vedermi privo d’una sí dolce e cara compagna, quanto essa mi era per li boni costumi suoi e per il tenero amore che era fra noi». E il dolore fu grande in tutto il ducato.

Da leggere Pietro Bembo, Lucrezia Borgia, La grande fiamma. Lettere 1503-1517, a cura di Giulia Raboni, Archinto Editore, Milano 1989 Geneviève Chastenet, Lucrezia Borgia. La perfida innocente, Mondadori, Milano 1996 Gabriella Zarri, La religione di Lucrezia Borgia. Le lettere inedite del confessore, Roma nel Rinascimento, Roma 2006 Gabriella Zarri, Il Rinascimento di Lucrezia Borgia, in Scienza & Politica, 37, 2007; pp. 63-75 Diane Yvonne Ghirardo, Lucrezia Borgia, imprenditrice nella Ferrara rinascimentale, in Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel (a cura di), Donne di potere nel Rinascimento, Viella, Roma 2008; pp. 129-143 Diane Yvonne Ghirardo, Le bufale estensi e l’imprenditoria

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femminile ducale nella Ferrara del Rinascimento, in Studi in onore di Luciano Chiappini, Ferrariae Decus, 22, 2004; pp. 68-85 Diane Yvonne Ghirardo, Le duchesse, le bufale e l’imprenditoria femminile nella Ferrara rinascimentale, Scaranari Editore, Ferrara 2009 Diane Yvonne Ghirardo, Lucrezia Borgia duchessa, imprenditrice e devota, in Quaderni Estensi, II (2010); pp. 197-209 Diane Yvonne Ghirardo, I gioielli sacri di Lucrezia Borgia, in Revista Borja, 5, 2016; pp. 1-16 Tamar Herzig, Le donne del Savonarola, Carocci, Roma 2014 Lia Celi, Andrea Santangelo, Le due vite di Lucrezia Borgia: la cattiva ragazza che andò in Paradiso, UTET, Torino 2019

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Storie, uomini e sapori

L’ingordigia come regola di vita di Sergio G. Grasso

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nrico VIII Tudor, re d’Inghilterra e d’Irlanda dal 1509 al 1547, visse in un contesto europeo lacerato da guerre politiche e conflitti religiosi e regnò in un’Inghilterra appena uscita dalla sanguinosa guerra dinastica «delle Due Rose». Salí al trono, non ancora diciottenne, dopo la morte del fratello Arturo, forte di un’educazione umanistica e saldamente cattolica, che ne faceva il prototipo del principe rinascimentale. Strenuo oppositore dello «scisma» luterano, nel 1521 scrisse un Assertio Septem Sacramentorum, che gli fece guadagnare l’appellativo di Defensor fidei da parte del papa. Nel tempo libero leggeva Tommaso da Rotterdam e componeva musiche accompagnandosi col liuto e l’organo; era colto, affabile, amava la conversazione, parlava francese, latino, spagnolo e italiano. L’ambasciatore veneziano lo descrive, poco piú che trentenne, come «il piú bel monarca che abbia mai visto, con polpacci sagomati e un volto tondo, roseo, quasi femmineo». Stando alla sua prima armatura (1515), il giovane Enrico aveva un addome asciutto e muscoloso, con un torace di ottantuno centimetri. Nel 1520, un ritratto di anonimo lo raffigura magro e aitante in udienza da papa Leone X assieme all’imperatore Carlo V. Ballava con grazia ed eccelleva nello sport, in

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Enrico VIII (a sinistra) e Carlo V al cospetto di papa Leone X. Inizi del XVI sec. Londra, British Library. Il re d’Inghilterra tiene nella mano un rotolo che potrebbe essere la bolla con cui il pontefice, nel 1521, gli aveva attribuito il titolo di Defensor fidei. novembre

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Ritratto di Enrico VIII, olio su tavola di Joos van Cleve. 1530-1535 circa. Londra, Hampton Court Palace. particolare nel tennis, nella scherma, nel football. Aveva una passione innata per le sfide cavalleresche e, nel 1524, durante un torneo, la lancia avversaria gli penetrò la visiera e lo fece cadere al suolo inerte per qualche tempo. Due anni dopo un contendente lo disarcionò, conficcandogli l’asta nella gamba destra. La profonda ferita fu mal curata dal chirurgo di corte Thomas Vicary e, col tempo, si trasformò in una piaga ulcerosa e purulenta, che lo tormentò per tutta la vita. Gran giocatore di dadi, scommettitore, e bon vivant, Enrico VIII curava molto la propria immagine e faceva volentieri parlare di sé.

Il primo matrimonio Appena salito al trono, sposò Caterina d’Aragona, figlia dei reali di Spagna e vedova del fratello Arturo. Fu un’unione di convenienza politica, ma anche d’amore, dalla quale Enrico si aspettava l’erede maschio. In quindici anni, Caterina partorí due figli nati morti, uno spirato a poche ore dalla nascita e un quarto deceduto dopo soli 52 giorni. Sopravvisse solo una figlia, Maria – passata alla storia come «Bloody Mary» (Maria la Sanguinaria) –, che, però, non risolveva i problemi dinastici dei Tudor. Deluso e preoccupato, nel 1527 Enrico manifestò la volontà di divorziare da Caterina ma si scontrò con il reiterato rifiuto del papa. Per tutta risposta il Tudor soppresse gli Ordini religiosi cattolici e fece sue le proprietà e le rendite della Chiesa di Roma. Nel 1531 il re si proclamò capo della scismatica Chiesa anglicana e l’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer, poté quindi dichiarare nullo il precedente matrimonio cattolico. Finalmente, nel 1533, Enrico VIII

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sposò Anna Bolena, già dama di compagnia della regina e amante segreta del sovrano. Dal matrimonio nacque dopo pochi mesi una femmina, la futura regina Elisabetta I. Per Enrico fu un colpo durissimo: una seconda moglie «colpevole» di non avergli dato un erede maschio gli procurò una frustrazione incontenibile, aggravata dal riacutizzarsi della vecchia piaga alla gamba che gli limitava l’attività fisica. Cercò consolazione nel cibo, prese a mangiare compulsivamente, a guadagnare peso e a manifestarsi sempre piú collerico e intrattabile, finché, nel 1536, fece accusare la

Bolena di adulterio, stregoneria, incesto e alto tradimento e la costrinse a salire sul patibolo. Se intorno al 1530 il pittore Joos van Cleve di Anversa ritrae un Enrico VIII quarantenne e in carne, ma non ancora obeso, pochi anni dopo – all’epoca dell’esecuzione di Anna Bolena – Hans Holbein il Giovane lo immortalò come un monarca spento, appesantito e con una sorta di imbottitura all’altezza dei genitali, per esaltarne la virilità: dirà poi Charles Dickens, come «una macchia di sangue e grasso». Nel 1542, anno della condanna al patibolo della quinta moglie Catherine Howard –

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CALEIDO SCOPIO accusata di aver condotto una vita «abominevole, meschina e viziosa» – Enrico VIII pesava 130 chili e aveva già fatto allargare le proprie armature una mezza dozzina di volte. I medici di oggi collegano quella metamorfosi a una rara patologia congenita multisistemica nota come sindrome di McLeod. La malattia si manifesta in genere verso i quarant’anni, con lesioni al sistema nervoso e atteggiamenti paranoici, scompensi ormonali e alterazioni della capacità di giudizio, interferenze sulla capacità riproduttiva e voracità patologica. Sarebbe stata questa tara genetica a fare di un giovane principe educato, prestante e atletico, un despota paranoico e obeso.

Due pasti al giorno

Una delle copie, attribuita a Hans Eworth, del ritratto di Enrico VIII dipinto nel 1536-1537 da Hans Holbein il Giovane, che andò distrutto in un incendio nel 1698. La versione qui riprodotta si data a dopo il 1537. Liverpool, Walker Art Gallery.

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L’addetto alle pietanze di Enrico VIII fu per molti anni il suo Privy Master Cook John Bricket, che le preparava in una speciale cucina comunicante con gli alloggi reali, coadiuvato da un gruppo di fidati ed esperti aiutanti. Negli ultimi anni, Enrico VIII era solito mangiare nei suoi appartamenti alle 10 del mattino e alle 4 del pomeriggio, spesso in solitudine e in silenzio. In occasione dei banchetti ufficiali sedeva da solo a un tavolo posto su un’alta pedana con baldacchino nella Presence Chamber. John Bricket confessò che il sovrano aveva un debole per i timballi di carne, i cosci e i lombi di bue allo spiedo, le uova «ingrassate» o avvolte in macinato d’agnello, ma, soprattutto, per la cacciagione, che amava procurarsi partecipando con tutta la corte a imponenti battute di caccia nella campagna del Middlesex. Si narra che, quasi cinquantenne, riuscisse a ingurgitare in un solo pranzo tre dozzine di quaglie in umido e quattro fagiani arrosto, intervallati da vassoi di uova, salsicce e fagottini di pasta sfoglia ripieni di anguilla. Beveva vino con moderazione e preferiva il rosso di Toscana; novembre

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Le cucine di Hampton Court La residenza prediletta da Enrico VIII fu il palazzo di Hampton Court, nel Middlesex. Il potente cardinale Thomas Welsey, arcivescovo di York, Primo Ministro e beniamino del re, lo acquistò nel 1514 dai Cavalieri di Malta e spese cifre enormi per ingrandirlo e arredarlo. Nel 1528, quando Wesley non riuscí a ottenere dal papa il divorzio del re da Caterina d’Aragona, Enrico VIII lo destituí dall’incarico e gli confiscò il palazzo, che fu nuovamente ristrutturato e ampliato. Tra i molti lavori, particolare cura venne riposta nel raddoppio delle cucine (vedi foto a destra e in basso), in modo da renderle idonee a sfamare ogni giorno le oltre 800 persone (nobili, cortigiani, burocrati, servitori e adulatori) che contornavano il re. Lí si muoveva freneticamente uno staff di oltre 200 addetti in un labirinto di cinquanta reparti. Sovrintendeva al lavoro l’Officer of the Green Cloth, che coordinava i Sergeants, responsabili delle fiamme e dei forni, quelli addetti alle verdure e alle carni, al pesce e alle salse, alla pasticceria e alle bevande. I fornitori accedevano per un cancello di servizio dove le guardie annotavano provenienza, orario e quantità. Le

indulgeva volentieri con la birra. Il re trascorse i suoi ultimi mesi di vita nel palazzo di Whitehall, presso Westminster, circondato dagli arredi e dalle opere d’arte fatte confiscare ai traditori che aveva mandato al patibolo. Pesava circa 180 chili, aveva frequenti attacchi di gotta e soffriva di diabete. A causa dello scorbuto, dovuto al rifiuto di mangiare verdure, denti e gengive gli rendevano dolorosa la masticazione, mentre un’ostinata stipsi lo obbligava a sottoporsi a

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merci si scaricavano in un cortile nel quale i Clerks of the Green Cloth pesavano e verificavano la qualità, mentre altri impiegati protocollavano ogni singola partita prima di inviarla ai magazzini o alle cucine. Per dare un’idea degli appetiti della corte, nel 1541 i verbali di fornitura delle carni registrarono: 1420 tori, 880 cervi, 8300 pecore, 2600 daini, 2430 piccioni, 460 cigni e 110 cinghiali. Per accorciare i tempi di cottura, tutte le carni erano lessate nella Boiling House. Quelle destinate ai timballi venivano tritate e consegnate al Pastry Master, le altre prendevano la via della Great Kitchen per essere arrostite nei sei grandi focolari. Il consumo di vino e birra era enorme: mediamente cinque botti al giorno dell’uno e cinque dell’altra. L’acqua giungeva da una fonte distante una decina di chilometri. Stime attendibili hanno calcolato una media di 5000 calorie servite ogni giorno per ogni nobile o cortigiano. Camerieri, inservienti, apprendisti, facchini e pulitori avevano diritto a due pasti al giorno composti da pane, birra e carni. Il surplus di cibo e gli avanzi di cucina erano distribuiti ai poveri e ai bisognosi che si mettevano in coda ogni pomeriggio ai cancelli del palazzo.

continui e debilitanti enteroclismi. Nonostante l’inarrestabile declino fisico e mentale, ebbe la forza di lanciare accuse di eresia e tradimento contro la sesta e ultima moglie, Caterina Parr. Sovrappeso, deluso, afflitto da molte patologie, con il cuore pesante e incapace perfino di parlare, Enrico VIII morí di convulsioni nel suo letto al palazzo di Whitehall alle due del mattino del 28 gennaio 1547. Aveva 56 anni e lasciava il trono e la corona all’unico figlio maschio

Edoardo VI, avuto 10 anni prima dalla terza moglie Giovanna Seymour, che si era spenta poco dopo il difficilissimo parto. Cagionevole di salute, il re bambino Edoardo VI morí appena sedicenne nel 1553. Il corpo ormai deforme di Enrico VIII fu inumato nella Saint George’s Chapel del castello di Windsor. Le richieste di ricognizione scientifica sui suoi resti, avanzate da eminenti scienziati per indagare sulla sua rarissima sindrome, sono sempre state respinte dalla Corona inglese.

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Quando i santi prendevano le armi

Fedele, avvocato pentito di Paolo Pinti

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an Fedele da Sigmaringen, nato Markus Roy nel 1577 (o 1578), era figlio del locale borgomastro e venne avviato agli studi di filosofia presso il collegio gesuita di Friburgo. Sui passi successivi si può quindi trovare piú di una versione, ma tutte, grosso modo, concordano sul fatto che il giovane Markus fu scelto da un

In alto la spada che, secondo la tradizione, fu adoperata per il martirio di Fedele da Sigmaringen. È impossibile dire se si tratti effettivamente di quella impiegata per l’assassinio, ma la tipologia è coerente all’area (sia svizzera che austriaca) che fu teatro dell’evento; il pomo è infatti tipico di tale ambito geografico e in uso dalla metà del XVI sec.

nobile affinché istruisse un gruppo di ragazzi e, per qualche anno, lavorò quindi come precettore, dando vita a una sorta di scuola itinerante, che portò lui e i suoi allievi in Italia, Spagna e Francia. Rientrato in patria, ottenne la laurea in diritto civile ed ecclesiastico (in utroque jure) nel 1611 e intraprese l’attività forense. Dopo appena un anno, però, deluso da quell’esperienza, scelse di abbandonare le aule dei tribunali e, ricevuta l’ordinazione sacerdotale, chiese di poter entrare nell’Ordine dei Capuccini, che, dopo un primo rifiuto, lo accolse. Ribattezzato Fedele, svolse il noviziato a Friburgo e, dopo aver studiato teologia per quattro anni nei conventi di Costanza e Frauenfeld,

fu padre guardiano a Rheinfelden (dal 1618), a Friburgo in Brisgovia (1620-21) e a Feldkirch (1621). Si distinse ben presto per il suo fervore contro i calvinisti e gli zwingliani (da Huldreich Zwingli teologo svizzero, fra i fondatori delle Chiese riformate svizzere) e divenne superiore delle missioni nei Grigioni dell’appena istituita Pontificia Congregazione de Propaganda Fide, percorrendo la regione e ottenendo molte conversioni. Il 24 aprile 1622, uscendo dalla chiesa di Seewis (o Séwis o Sewis) im Prättigau, in Svizzera, dove aveva celebrato la messa, fu aggredito da un folto gruppo di autonomisti, animati da sentimenti anti-cattolici, ma soprattutto antiasburgici, e ucciso. Beatificato

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Qui sopra disegno di mazza ferrata, dal Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI secolo di EugèneEmmanuel Viollet-le-Duc. 1854-1868. A sinistra uno spiedo da guerra del XV sec. Loro Piceno, Collezione Luca Cimarosa. novembre

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Martirio di san Fedele da Sigmaringen, olio su tela di Pietro Tedeschi. 1799. Fano, Pinacoteca Civica. Nel dipinto si riconoscono le armi canoniche: una mazza ferrata, una spada e una storta. È invece assente lo spiedo da guerra. da Benedetto XIII nel 1729, fu canonizzato da Benedetto XIV nel 1746. È patrono dei giuristi (una scelta in qualche modo bizzarra, se pensiamo che aveva abbandonato subito la professione) e la sua ricorrenza cade il 24 aprile, cioè nel giorno del martirio.

Una ricca panoplia Detto cosí, non ci si aspetterebbe un collegamento particolare con le armi. Eppure, Fedele da Sigmaringen è uno dei santi piú dotati dal punto di vista oplologico (l’oplologia è la scienza che si occupa dello studio di armi antiche), con una panoplia fra le piú ricche e variegate. Le molteplici versioni che narrano del suo assassinio indicano sempre la spada quale arma del delitto, e solo raramente anche la mazza ferrata, ma l’iconografia arricchisce lo strumentario di morte con storte e spiedi. Occorre perciò spiegare che cosa sono queste armi. La mazza ferrata – certamente protagonista della scena, insieme alla spada – è un robusto bastone, non molto lungo, munito in testa di rinforzi metallici (ghiere di ferro spesso fornite di spunzoni acuminati) per appesantirla. Fa parte delle armi dette «da botta». Non va confusa con la mazza d’arme (il termine sta per «mazza per uomini d’arme»), normalmente tutta di ferro e con la testa costituita da coste sagomate, disposte longitudinalmente. Stante la sua semplicità, la mazza ferrata era un’arma alla portata di classi povere e, non per nulla, una sua versione con manico piú lungo e testa irta di lunghi chiodi, chiamata «Morgestern» (stella del mattino) è passata alla storia per

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aver armato molte rivoluzioni contadine. Quella che compare nei quadri con l’uccisione di san Fedele da Sigmaringen o col santo che tiene in braccio le armi del martirio, è appunto una mazza ferrata, dall’aspetto davvero terrificante. Ed è un’arma che, certamente, ben poteva essere nelle mani di gente comune, essendo di facile fabbricazione domestica, peraltro tipica delle zone in cui operò Fedele. La storta, invece, è un’arma vera e propria, simile – tanto per

intendersi – a una scimitarra orientale, di solito con lama larga e robusta, non troppo lunga. Morfologicamente, non è sempre facilmente distinguibile dal coltellaccio da cavallo o da guerra o da caccia e, tanto meno, dalla stortetta, che altro non è che una storta di piccole dimensioni, molto lavorata e usata come arma «da pompa». Gli artisti – probabilmente senza porsi il problema della sua esatta definizione – mettono spesso una storta in mano agli assassini di

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CALEIDO SCOPIO A sinistra il martirio di san Fedele da Sigmaringen nella versione di Fedele da San Biagio (al secolo, Fedele Tirrito; 1717-1801). San Lorenzo Nuovo (Viterbo), chiesa di S. Maria Assunta. Qui i sicari sono provvisti di spiedo, storta e mazza ferrata (sorta di corto morgenstern, essendo un grosso randello, tipo asso di bastoni, con numerosi spunzoni). Nella pagina accanto, a sinistra particolare di un ostensorio del 1765 con due angioletti ai lati di san Fedele da Sigmaringen che impugnano e mostrano gli strumenti del martirio: la spada e la mazza ferrata.

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In alto in questa tela conservata a Feldkirch (Austria), san Fedele tiene in braccio le tre armi: lo spiedo da guerra, la spada e la mazza ferrata. La terza, in questo caso, è munita anche di una cuspide apicale, come era in molti esemplari. santi per la sua valenza di arma morfologicamente riconducibile al mondo islamico e, quindi, nemico. Comuni cittadini ben difficilmente potevano possederne una o, comunque, spade, ma la storia ci dice che fra gli assalitori figuravano molti soldati e ciò spiega tale circostanza. Peraltro, è giunta fino a noi la spada per tradizione usata per l’assassinio, tipica del mondo svizzero-austriaco (vedi foto a p. 108, in alto). E ha la lama dritta a doppio taglio, squisitamente europea, con la sagoma che ricorda quella della Croce. Lo spiedo, infine, ha un nome poco guerresco e richiama piú che altro l’arnese da cucina per arrostire le carni. In realtà, si tratta di un’arma

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in asta per fanti, che in genere viene chiamata lancia: termine che compete a questo tipo di arma solo se adoperata da cavalieri.

Dagli arrosti ai duelli Naturalmente, esistono moltissimi tipi di spiedo, ma qui interessa soltanto ricordare che per il nostro santo nei quadri troviamo quasi sempre uno spiedo da guerra, caratteristico dei secoli XV-XVI. Ha il ferro a forma di triangolo isoscele molto allungato, con i lati obliqui taglienti, e, di solito, una nervatura longitudinale di rinforzo al centro. Quindi, quella che ora sappiamo non potersi piú chiamare semplicemente (ed erroneamente)

lancia, altro non è che uno spiedo da guerra, e figura di diritto nel novero degli strumenti di martirio di Fedele da Sigmaringen (vedi foto a p. 108, al centro, a sinistra). Arma che, nel 1622, è certamente obsoleta e che ben difficilmente sarà stata presente al fatto delittuoso, pur tenendo ben conto che gli Svizzeri sono piuttosto tradizionalisti. Pur essendo, indubbiamente, una figura poco conosciuta in Italia, non sono rarissime le opere pittoriche che rappresentano san Fedele nel momento del martirio – con le armi brandite dagli assassini – oppure in ritratto, mentre tiene in mano le armi stesse, con le quali è stato ucciso.

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Lo scaffale Franco Cardini L’avventura di un povero cavaliere del Cristo Frate Francesco, Dante, madonna Povertà Editori Laterza, Roma-Bari, 406 pp.

24,00 euro ISBN 9788858145111 www.laterza.it

Un giovane di Assisi di nome Francesco, nato probabilmente nel 1181 o nel 1182, che il padre aveva voluto chiamare cosí in omaggio alla terra di Francia, quella della cultura cortese, della lingua d’oc e d’oïl, delle chanson de geste e del fin amour. Pietro Bernardone era solito farsi accompagnare dal figlio alle fiere piú importanti che si svolgevano Oltralpe. Era un mercante, probabilmente un usuraio, aveva a che fare col denaro e ne spendeva molto, affinché Francesco, che non era nobile e, sembra, neppure bello, entrasse a far parte di quella élite cittadina fatta di nobili e cavalieri. Da qui Franco Cardini inizia il suo viaggio alla ricerca di Francesco d’Assisi, una ricerca che, come egli stesso testimonia, dura da decenni, gli è costata fatica, ha assorbito molte energie. L’avventura di un povero cavaliere

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del Cristo è il risultato di anni di lavoro che lo storico ha portato avanti consultando documenti, rappresentando la Assisi tra XII e XIII secolo, avanzando ipotesi e suggestioni, compreso il capitolo dedicato alle analogie con Dante Alighieri, analizzando le tante biografie, coeve e non, dedicate a Francesco. Il santo di Assisi è profondamente legato alla cultura cavalleresca e lo resterà per tutta la vita, sebbene in forme e modi diversi da quelli tradizionali. È questa la tesi che attraversa le pagine del volume: «Schiudendo alla spiritualità cristiana la cultura laica e cavalleresca dei trovatori e la cultura popolare del folklore paesano con i suoi animali, il suo universo naturale, il meraviglioso francescano – scrive l’autore – ha infranto le chiusure che la cultura clericale aveva imposto alla cultura tradizionale». La sua aventure di cavaliere si snoda tra la partecipazione alla guerra contro Perugia, con la conseguente prigionia, che patirà per alcuni mesi, e la conversio, che lo indirizzerà a una dimensione nuova,

attraverso una vera e propria prova iniziatica, un addobbamento sui generis, quello dell’incontro con il lebbroso a cui cede il suo mantello. Tornato ad Assisi, Francesco non è piú il rex juventutis delle allegre brigate, degli stravizi che i suoi coetanei nobili sí, ma spesso squattrinati,

condividevano con lui, che di soldi ne aveva. Il suo matrimonio mistico con madonna Povertà, secondo il costume feudal-cavallersco – come sottolinea Cardini –, è divenuto il vero scopo della sua vita: ora può raccogliere i suoi compagni in una fraternitas cavalleresca che si trasformerà in Ordine religioso, un esito che forse Francesco non desiderava. Ma allora chi era davvero Francesco di Pietro Bernardone da Assisi? Forse il

personaggio disegnato dall’agiografia di Tommaso da Celano, oppure quello di Bonaventura da Bagnoregio, che espunge ogni riferimento a veri o presunti difetti del santo nonché alcuni passaggi della sua vita? Cardini prova a rispondere a tali domande partendo proprio dalla sua formazione giovanile, dalla conoscenza del Perceval di Chretién de Troyes, del Lai de Lanval di Maria di Francia e, probabilmente, del De Amore di Andrea Cappellano. «È insomma – conclude Cardini – la storia dell’avventura di Galaad d’Assisi alla conquista del Vero Graal». Alessandro Bedini Marco Santagata Le donne di Dante il Mulino, Bologna,

412 pp., ill. col.

38,00 euro ISBN 978-88-15-29110-3 www.mulino.it

Beatrice Portinari, Francesca da Rimini, Pia dei Tolomei sono figure femminili tra le piú note della Divina Commedia, e le prime che vengono in mente pensando a Dante. Ma molte altre, legate alla biografia del poeta, sono pressoché

sconosciute, come Bella, la madre di Dante, la moglie Gemma Donati, la figlia Antonia, badessa a Ravenna col nome significativo di suor Beatrice; le due sorelle Tana, e l’altra di cui non si conosce neppure il nome. Su di loro, oltre che sulle protagoniste della Commedia, si focalizza l’attenzione Marco Santagata, il grande

studioso recentemente scomparso, che anche delle donne piú famose riesce ad approfondire gli aspetti meno noti, come le informazioni sulla realtà storica di Beatrice, di cui si conoscono soprattutto gli aspetti frutto della fantasia poetica di Dante. Nata tra il 1265 e il 1266, Beatrice apparteneva a un’importante famiglia mercantile, ed era figlia di Folco Portinari, che detenne a piú riprese cariche importanti ai vertici novembre

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Lo scaffale del governo fiorentino. Beatrice, le cui notizie storiche sono note grazie al Boccaccio e al figlio di Dante, Pietro Alighieri, sposò un altro mercante, Simone dei Bardi (presso la cui filiale napoletana il Boccaccio aveva lavorato), morendo a soli 24 anni, forse di parto, l’8 giugno 1290. Della madre di Dante, Bella, morta quando il poeta aveva poco piú di 5 anni, rimane quasi soltanto il nome. Era probabilmente di famiglia ragguardevole e figlia di un giudice. Tana, la maggiore delle due sorelle, nata intorno al 1250, sposò un mercante agiato la cui famiglia costituí un punto di riferimento e di sostegno materiale per l’esistenza errabonda del poeta. Scarsissime anche le notizie sulla figlia Antonia (suor Beatrice) monaca in S. Maria degli Ulivi a Ravenna verso il 1332, e incontrata personalmente da Boccaccio. Piú copiose, ancora una volta grazie a Boccaccio (che però ne travisò il ruolo), le informazioni sulla moglie dell’Alighieri, Gemma Donati, sposata nel 1283 e da cui il poeta ebbe quattro figli. Appartenente

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all’importante consorteria di parte nera (cioè guelfa) che guidava le sorti di Firenze contrapponendosi ai Cerchi, che rappresentavano invece i «bianchi», cioè i ghibellini, Gemma svolse un ruolo fondamentale nel tutelare i beni del poeta quando fu esiliato in quanto ghibellino (1301). Come esponente del principale casato guelfo, la moglie di Dante potè rimanere a Firenze (almeno per qualche anno), e impedire che i beni del marito venissero confiscati o saccheggiati. Ne mise al sicuro le cose piú preziose, tra cui i primi 7 canti della Divina Commedia, nascondendoli in forzieri conservati presso istituti religiosi. Contrariamente a quanto afferma Boccaccio, che traccia un profilo sarcastico di Gemma e dell’istituzione matrimoniale in genere, la donna ebbe dunque un ruolo fondamentale nel soccorrere il marito, che potè forse reincontrare ancora, a Bologna nel 1304. Relativamente abbondanti anche le informazioni su due

dei figli dell’Alighieri, Pietro e Iacopo, che contribuirono in modo determinante a diffonderne l’opera commentandone per primi il testo, in latino (Pietro) e in volgare (Iacopo). Altro tema di grande interesse è quello delle malattie di Dante: l’epilessia, da cui fu probabilmente affetto fin da bambino, e che emerge qua e là nella Commedia e nella Vita Nova; e l’astenopia accomodativa, patologia oculare dovuta a un periodo di studio eccessivo, descritta minuziosamente nel Convivio. Il volume è corredato da un ricco apparato iconografico che spazia dal XIV al XX secolo. Maria Paola Zanoboni Pierre Barnet Gurgand Il cammino del mondo Vita avventurosa e meravigliosa dei pellegrini di Santiago di Compostela

e Jean-Noël

con una nota di Enzo Bianchi, Libreria Pienogiorno, Milano, 317 pp.

18,50 euro ISBN 979-12-8022-903-8 www.pienogiorno.it

È originale e di piacevole lettura questo Cammino del mondo firmato da Pierre Barret e

Jean-Noël Gurgand, entrambi scrittori e giornalisti, che di uno dei grandi pellegrinaggi della cristianità, quello alla volta di Santiago de Compostela, non propongono una storia vera e propria, bensí una sorta di diario di viaggio collettivo. L’espediente narrativo su cui s’impernia il libro consiste infatti nella collazione delle testimonianze di alcuni pellegrini, vissuti in epoche diverse e anche molto lontane fra loro – si va dal XII al XVIII secolo –, intrecciate con osservazioni e considerazioni su cosa significasse, in concreto, mettersi in marcia verso la (presunta) tomba di san Giacomo Maggiore. Ne scaturisce cosí una ricostruzione senz’altro veritiera, alla cui vivacità contribuisce il costante succedersi di incontri immaginari con personaggi che avrebbero potuto effettivamente trovarsi

sulla strada della Galizia. Costante è anche il tentativo di immaginare le sensazioni di chi sceglieva di percorrere il cammino, messo a confronto con l’esperienza diretta degli autori, compiuta alla fine degli anni Settanta. Stefano Mammini Roberto Barbieri (a cura di) Atlante storico del Medioevo Cultura e società Jaca Book, Milano, 306 pp., ill. col.

50,00 euro ISBN 978-88-16-60650-0 www.jacabook.org

I mille anni del Medioevo vengono ripercorsi in cinquantasette capitoli, dedicati a tutte le sue tappe salienti, dal crollo dell’impero romano al fatidico 1492. E, pur nella indispensabile concisione, si ha modo di cogliere i multiformi aspetti sociali e culturali di un’epoca decisiva della storia. S. M. novembre

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