Medioevo n. 297, Ottobre 2021

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TE TE ’AQ RR SO E D RI UI ’A DA LA BR LL UZ E ZO

MEDIOEVO n. 297 OTTOBRE 2021

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

RADEGONDA E LE ALTRE

Mens. Anno 25 numero 297 Ottobre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

VITERBO UNA CITTÀ PER NOVE PAPI ORVIETO QUANDO DANTE PORTAVA LA BARBA

FERRARA LA CERTOSA RIVELATA DOSSIER ENRICO VII LA GRANDE ILLUSIONE

10297 9

771125

689005

www.medioevo.it

€ 5,90

MUSEO DI POPPI DONNE PAPI DI VITERBO DANTE A ORVIETO FRANCESCANI IN ABRUZZO DOSSIER ENRICO VII

Chiara Frugoni racconta le donne del Medioevo

IN EDICOLA IL 2 OTTOBRE 2021



SOMMARIO

Ottobre 2021

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ANTEPRIMA UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA A tu per tu col vicario di Cristo di Federico Canaccini

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MUSEI Scene da una battaglia

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di Luca Giannelli

RECUPERI Nardo e i suoi fratelli

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ITINERARI Un luogo di dolcezza serena

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ANTROPOLOGIA FORENSE Il poeta ci guarda

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

26

di Stefania Romani

di Andreas M. Steiner

VITERBO CAPITALE/2 Vent’anni in trasferta 46

di Elena Percivaldi

SCOPERTE Dante

STORIE

In «barba» alla tradizione di Giuseppe M. Della Fina

LA DONNA NEL MEDIOEVO Ai tempi che Radegonda scriveva… (…e Margherita gestiva l’azienda)

COSTUME E SOCIETÀ

incontro con Chiara Frugoni, a cura di Furio Cappelli

34

BIBLIOTECHE FRANCESCANE Tesori dalle terre d’Abruzzo

di Cristiana Pasqualetti

60

di Chiara Parente

68

102

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Morire per la troppa sapienza 108

di Paolo Pinti

LIBRI Lo Scaffale

112

MUSICA Nel segno di Svitino

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di Franco Bruni

UN’ILLUSIONE CHIAMATA ENRICO di Furio Cappelli

34 CALEIDOSCOPIO CARTOLINE Echi di un’antica gloria

Dossier 83


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TE TE ’AQ RR SO E D RI UI ’A DA LA BR LL UZ E ZO

MEDIOEVO n. 297 OTTOBRE 2021

MEDIOEVO www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

RADEGONDA E LE ALTRE

Mens. Anno 25 numero 297 Ottobre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

VITERBO UNA CITTÀ PER NOVE PAPI ORVIETO QUANDO DANTE PORTAVA LA BARBA

FERRARA LA CERTOSA RIVELATA DOSSIER ENRICO VII LA GRANDE ILLUSIONE

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€ 5,90

MUSEO DI POPPI DONNE PAPI DI VITERBO DANTE A ORVIETO FRANCESCANI IN ABRUZZO DOSSIER ENRICO VII

Chiara Frugoni racconta le donne del Medioevo

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Luca Giannelli è direttore di Scramasax Ideazioni. Chiara Parente è giornalista. Cristiana Pasqualetti è professoressa associata di storia dell’arte medievale all’Università degli Studi dell’Aquila. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Stefania Romani è giornalista. Luca Salvatelli è docente di storia dell’arte.

IN EDICOLA IL 2 OTTOBRE 2021

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20/09/21 23:25

MEDIOEVO Anno XXV, n. 297 - ottobre 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Veneranda Biblioteca Ambrosiana: copertina (e p. 59); AKG Images: pp. 34/35, 38-39, 43, 52, 83, 93; Electa/ Marco Ravenna: p. 37; Fototeca Gilardi: pp. 40, 50/51, 99; Album/Collection Jean Vigne/Kharbine Tapabor: p. 41; Electa/Paolo e Federico Manusardi: pp. 104/105; Album: p. 109 – Doc. red.: pp. 5, 36, 53, 54/55, 98 (basso, a sinistra), 100, 110-111 – Cortesia Museo L’Inferno a Campaldino, Poppi (Arezzo): pp. 6-10 – Galleria dell’Accademia, Firenze: pp. 12-13 – Holding Ferrara Servizi: pp. 16-17, 18/19 – Cortesia Chantal Milani: pp. 20-22 – Marco Farmalli: p. 35 – Paola Burla: pp. 46/47 – Cortesia degli autori: pp. 47, 68-81, 102-103, 106-107 – Vittorio Faggiani: pp. 56/57, 58/59 – Cortesia Fondazione «Claudio Faina», Orvieto: pp. 60-61, 62, 64-67 – Shutterstock: pp. 62/63, 85 – Stefano Mammini: pp. 86/87 – Università di Pisa, Ufficio Stampa e Comunicazione: pp. 88-91, 92, 94-97, 98 (alto e basso, a destra) – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 18. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano In copertina ritratto di Niccolò III (al secolo, Giovanni Gaetano Orsini), penultimo pontefice della serie dei papi «viterbesi», olio su tela di Giuseppe Franchi. 1617. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

Nel prossimo numero mostre

I bagliori del gotico

medioevo nascosto

Il Tempietto di S. Fedelino

dossier

Chi era davvero Lucrezia Borgia?


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

A tu per tu col vicario di Cristo

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o spessore culturale di Dante si può evincere dal fatto che incontrò personalmente le due piú grandi autorità del tempo, l’imperatore e il papa: Enrico VII, forse a Milano, nel 1310, in occasione dell’incoronazione, e Bonifacio VIII, nel corso di una delicatissima (e fatale) missione diplomatica, nel 1301. Papa Caetani aveva ordito un vero e proprio colpo di Stato ai danni di Firenze, assieme al leader dei neri, Corso Donati, al legato Matteo d’Acquasparta e al principe francese, Carlo di Valois. La condanna di tre congiurati fiorentini, comminata anche da Dante, nonché la revoca dall’esilio dei soli bianchi, confinati dopo gli incidenti di Calendimaggio, inasprí il contrasto col pontefice, la cui suscettibilità era ben nota. Ben presto, per le strade di Firenze iniziò a farsi sentire l’imminenza del pericolo: i neri avevano avuto un abboccamento a Bologna con il Valois e, il 5 settembre, Bonifacio lo aveva nominato capitano generale dei territori della Chiesa, nonché paciaro della Toscana. Firenze corse ai ripari, tentando una mossa tardiva, estrema e forse inopportuna: inviare una missione diplomatica dal papa. Ai primi di ottobre partí una delegazione composta da almeno tre ambasciatori, tra cui appunto «Dante Allighieri, che era anbasciadore a Roma», scrive Dino Compagni.

Il papa era malato e il cardinal Brancacci riportò che ormai «non aveva altro che la lingua e gli occhi, chè tutto il resto era come putrefatto». Ciononostante riusciva ancora a pungere! Compagni riporta le parole con cui l’altero pontefice avrebbe accolto i delegati fiorentini: «Giunti li ambasciatori in Roma, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse loro in segreto: “Perché siete voi cosí ostinati? Umiliatevi a me: e io vi dico in verità, che io non ho altra intenzione che di vostra pace. Tornate indietro due di voi e abbiano la mia benedizione, se procurano che sia ubbidita la mia volontà”». Ripartirono dunque Maso Minerbetti e Corazza del Signa, mentre Dante, per paura della sua influenza, fu trattenuto a corte per diversi giorni, presso «il principe de’ novi Farisei», sino a quando gli eventi non precipitarono. Il 1° novembre il Valois entrava in Firenze e, dopo neppure una settimana, faceva il suo ingresso Corso Donati, mettendo la città a ferro e fuoco. Alla fine del mese i neri prendevano ufficialmente il controllo di Firenze e il nuovo podestà, Cante dei Gabrielli, iniziava a stilare le famose liste di proscrizione che avrebbero condannato in contumacia molti bianchi, tra cui lo stesso Alighieri.

Busto di Bonifacio VIII, eseguito da Arnolfo di Cambio per il sacello del pontefice (1300 circa), smembrato nel XVII sec. Città del Vaticano, Grotte Vaticane.

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ANTE PRIMA

Scene da una battaglia MUSEI • È stato

inaugurato a Poppi, nel castello dei conti Guidi, il nuovo museo dedicato alla battaglia combattuta da guelfi e ghibellini a Campaldino nel 1289

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L’

Inferno a Campaldino: la denominazione del nuovo museo ospitato nel castello dei conti Guidi, a Poppi (Arezzo), evoca il giorno fatidico in cui nella piana casentinese, l’11 giugno 1289, si svolse la storica battaglia fra guelfi e ghibellini. E fu veramente un inferno! Un richiamo esplicito alla cantica dantesca della Commedia. Il viaggio espositivo rende infatti

omaggio non solo al sanguinoso scontro che si consumò nel giorno di san Barnaba e a cui partecipò come feditore il giovane Dante Alighieri, ma anche alla storia di Firenze e di Arezzo nella metà del Duecento, al territorio casentinese con i suoi tanti castelli, alle macchine da guerra e alle tecniche militari, cosí come si erano sviluppate alla fine del XIII secolo. Voluto dall’amministrazione comunale di Poppi, il nuovo museo è stato inaugurato proprio l’11 giugno del 2021. Il percorso espositivo si sviluppa al secondo piano del castello. Vi si accede da un antico e suggestivo ballatoio: tre grandi stanze precedute da una sala affrescata da Taddeo Gaddi, il

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pittore fiorentino ricordato come il discepolo prediletto di Giotto. Nella prima sala si rende omaggio ad alcuni castelli del Casentino, per illustrare come l’incastellamento medievale, nato in Italia tra i secoli VI e VII, abbia trasformato prima del Mille le fortificazioni in legno in strutture in muratura, caratterizzate da alte torri, dotate di poche finestre e porte edificate lontano dal suolo.

Nuove architetture A seconda dei luoghi, queste costruzioni, che comprendevano anche un recinto in muratura, si trasformarono, nei secoli successivi, in un maniero, in un castello, o in un palatium, arricchendosi poi di elementi architettonici caratteristici (ballatoi, terrazze, merlature, beccatelli, passa-volanti, ponti levatoi, bertesche, battifolli) e dando vita all’architettura chiamata «piombante» o «ossidionale». All’interno del recinto si aggiunsero cortili,

stanze «caminate», sale d’armi, magazzini, stalle, fondaci e, talvolta, cappelle; al piano terra era situata una cisterna per l’acqua, con filtri in rena e carbone. Nella parte esterna il castello era circondato da un fossato, bagnato o asciutto. Il castello di Poppi dei conti Guidi nasce tra i secoli VII e VIII, quando intorno al poggio vennero erette una torre in legno e una cisterna protetta da una palizzata. Tra l’VIII e il IX secolo la torre venne edificata in muratura, cosí come la cisterna. Il cassero all’interno del recinto è invece del X secolo. La torre era in origine piú alta rispetto a quella odierna e, com’era tipico dell’architettura a difesa piombante, la porta d’ingresso era in una posizione molto alta rispetto al piano di calpestio. La costruzione degli edifici in muratura all’interno del recinto (stalle e magazzini a piano terra; stanze con camino ai piani superiori) risalgono ai secoli XI-XII, cosí come lo sviluppo interno al cortile con ballatoi e scale in legno, la sala delle armi e di rappresentanza e il camminamento di ronda con merlature. Tra il 1272 e il 1274 Simone Guidi ristrutturò il fortilizio su progetto Il castello dei conti Guidi a Poppi (Arezzo) con il busto di Dante Alighieri collocato alla sinistra della facciata. L’edificio ospita il museo L’Inferno a Campaldino.

Avviso per mancanza di spazio, in questo numero non compare la nuova puntata della serie «Oltre lo sguardo», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente nel mese di novembre.

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ANTE PRIMA Il ritratto di Dante che compare nell’affresco della cappella della Maddalena, al primo piano dell’attuale sede del Museo Nazionale del Bargello di Firenze. L’opera viene attribuita a Giotto e alla sua bottega.

di Lapo di Cambio, trasformandolo in una vera e propria residenza signorile («palatium»). Proprio allora venne innalzata la torre maestra, che si arricchí di un’edicola con coronamento di beccatelli sporgenti (poi presa a esempio da Arnolfo di Cambio per la costruzione della torre di Palazzo Vecchio a Firenze) e che in seguito fu distrutta da un fulmine. Un’altra importante ristrutturazione fu realizzata nel 1470, con la costruzione della scala in muratura in pietra arenaria di fattura rinascimentale, attribuita al Turriani, che sostituí quella precedente, realizzata in legno. Poco dopo fu eretta l’antiporta della Munizione, che dà accesso al primo recinto, a difesa della bella Porta del Leone, che divenne cosí l’ingresso principale del castello.

immanicate (mazze, scuri). Accanto alle armi bianche, nei combattimenti e negli assedi si utilizzavano imponenti macchine da guerra: molto difficili da spostare per la loro mole e quindi anche da manovrare, necessitavano di un personale particolarmente addestrato. Nel museo sono esposti sette modelli in scala di macchine da guerra: la catapulta alla romana, l’onagro, il trabucco, lo scorpione, la scala a elementi, l’ariete e il mangano. Tutti realizzati dall’architetto, scenografo

e costumista Ferdinando Ghelli con minuziosa arte modellistica e ricostruttiva dopo un’accurata ricerca storica. L’assedio a un castello veniva in genere posto solo su un fronte, necessariamente nella parte piú debole della fortificazione, là dove era presente una porta principale o una postierla. All’assedio a una struttura fortificata, cosí come a una città, partecipavano soldati capaci di costruire e manovrare macchine da guerra: al loro seguito, i carri con le derrate alimentari, gli ovini e i bovini, e i beccai per macellare gli animali. Quando il castello assediato veniva conquistato, gli assedianti erano soliti procedere al saccheggio e alla distruzione; in caso contrario, se ne facevano uscire gli abitanti e alle truppe venivano «presentate le armi». Nell’ultima sala, interamente dedicata alla battaglia di Campaldino, sono illustrate a grandi linee le realtà politiche e militari fiorentine e aretine nella

Le armi bianche Il percorso espositivo prosegue nella seconda sala con la descrizione delle armi bianche, ossia di tutti gli strumenti capaci di nuocere, ferire e uccidere per mezzo di punte, lame di metallo o forme contundenti. Erano distinte in armi corte (daghe, pugnali) e lunghe o in asta (giavellotti, spiedi, lance), oppure

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La sala del museo L’Inferno a Campaldino con il plastico della battaglia. ottobre

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Arrivederci al 2022 Il castello dei conti Guidi come sede ideale di una grande manifestazione storica dedicata ogni anno, nel mese di giugno, ai guelfi e ai ghibellini. L’evento, che sarà organizzato in modo congiunto dal Comune di Poppi e dall’Associazione Festival del Medioevo, è stato annunciato in anteprima lo scorso 11 giugno, nell’anniversario della battaglia di Campaldino, combattuta il giorno di san Barnaba, nel 1289: da un lato, i Fiorentini e i loro alleati guelfi, dall’altro i ghibellini aretini e pisani. Fra i cavalieri, in prima fila, c’era anche Dante Alighieri che nel V canto del Purgatorio citò lo scontro che segnò per gli anni a venire il predominio di Firenze sulle altre città toscane. L’anteprima del Festival Guelfi e Ghibellini, organizzata da Marco Seri, assessore alla promozione del territorio, e Silvia Vezzosi, sua collega alla cultura nel comune casentinese, è stata aperta da una lectio magistralis di Franco Cardini intitolata Il secolo di Dante. A seguire gli interventi di altri autorevoli storici: Federico Canaccini (La battaglia di Campaldino); Maria Giuseppina Muzzarelli (Nei panni di Dante); Duccio Balestracci (Il tempo della guerra) e Riccardo Nencini (Il romanzo della guerra). L’incontro Tra storia e rievocazione, che ha visto come protagonisti Franco Franceschi e Alessio Bandini, ha concluso il ciclo degli «Incontri con gli autori». Il sindaco di Poppi Carlo Toni ha poi inaugurato il nuovo percorso espositivo del museo L’Inferno a Campaldino, realizzato da Scramasax Ideazioni di Luca Giannelli e Angelica Cortini. La tre giorni pioppese è stata arricchita dalla rievocazione Al Castello aspettando la battaglia, centrata su una serie attività didattiche in abito storico coordinate da Alessio Bandini e curate dalla Associazione Scannagallo. Nelle ampie sale del castello dei conti Guidi altri quattro incontri, di taglio didattico, hanno catalizzato l’attenzione del pubblico: Sergio Raveggi (Firenze e Arezzo al tempo della battaglia di Campaldino); Domenico Taddei (Poppi e i castelli del Casentino); Alberta Piroci (La figura di Bonconte) e Massimo Tosi (I luoghi di Dante). Il programma completo di Festival Guelfi e Ghibellini è on line: https://www.festivaldelmedioevo.it/portal/linferno-a-campaldino/ seconda metà del Duecento. Firenze stava allora vivendo uno sviluppo e un’espansione eccezionali: gli abitanti erano quasi raddoppiati e la città si accingeva a divenire una delle metropoli piú importanti d’Europa. Le fortune economiche conobbero una crescita esponenziale grazie al dinamismo delle Arti e attraverso le attività mercantile e bancaria. La città si stava trasformando e fu deliberata la costruzione della nuova cinta muraria, che l’avrebbe notevolmente ingrandita, mantenendo la suddivisione in sestieri. Dopo la battaglia di Campaldino furono edificati, oltre alle mura e alle porte, il nuovo Palazzo dei Priori (Palazzo Vecchio).

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E si dette inizio al cantiere per l’erezione della grande cattedrale di S. Maria del Fiore e della nuova basilica di Santa Croce.

Un nuovo assetto politico Se nei decenni precedenti i cambiamenti della vita politica e istituzionale erano stati frequenti e radicali, caratterizzati dalle alternanze dei governi dei guelfi, dei ghibellini e del Popolo, la città sembrava ora avere raggiunto un assetto politico stabile, con la definitiva affermazione del Popolo delle Arti, il cui governo dei Priori durerà per secoli. Non senza nuovi sussulti e turbamenti di politica interna, il primo dei quali fu la necessità di arginare l’ambizione dei

magnati (cioè degli esponenti della tradizionale aristocrazia comunale) che sostenevano di essere stati i veri protagonisti nella vittoria di Campaldino e che, in quanto tali, rivendicavano il diritto a un ruolo di primo piano nella guida di Firenze. La città di Arezzo, con minore presenza demografica, viveva a stretto contatto con il suo territorio, costituito di fatto da quattro vallate: il basso Casentino, il fertile Valdarno superiore, la Val Tiberina e la Val di Chiana; l’attività economica della città era strettamente connessa all’agricoltura e all’allevamento. Anche ad Arezzo la vita politica era caratterizzata dalle lotte tra guelfi e ghibellini, con l’importante presenza di famiglie di alto

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ANTE PRIMA La scalinata del castello dei conti Guidi a Poppi.

lignaggio con i loro possedimenti castellani nel contado. Dalla metà del Duecento anche ad Arezzo si verificarono continui cambiamenti di governo che, nel 1287, portarono alla conferma della guida della città il potente vescovo Ubertini, appoggiato dai magnati sia ghibellini che guelfi e, non ultime, anche dalle stirpi nobili dei Pazzi del Valdarno e dei Tarlati. La cacciata dei magnati guelfi fu una delle motivazioni che scatenarono la battaglia di Campaldino. Nella terza e ultima sala, il plastico ricostruttivo in scala di un ipotetico castello casentinese della metà del XIII secolo fa da preludio al racconto della grande battaglia. Nel 1289, dopo mesi di conflitti contro i ghibellini aretini, la Firenze guelfa decide di muovere un importante esercito. Nel consiglio di guerra, tenutosi in Battistero, si decise di non percorrere la strada consolidata del Valdarno, ma di affrontare l’aspro passo della Consuma. Il 2 giugno i primi armati uscirono dalla città e cominciarono la lunga marcia lungo l’Arno, fino a Pontassieve, per intraprendere la strada verso Borselli e il passo della Consuma. L’ultima tappa fu l’accampamento a Monte al Pruno, per disporsi al combattimento la

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mattina dell’11 giugno. Amerigo di Narbona era il comandante in capo, ma, di fatto, il ruolo di principale condottiero delle truppe era ricoperto da Guglielmo di Durfort.

Un errore fatale Mentre i Fiorentini stavano preparando l’attacco, i ghibellini, immaginando che essi avessero scelto il percorso lungo il Valdarno, inviarono un contingente di armati verso Laterina. Fra il 7 e l’8 giugno, in netto ritardo, gli Aretini presero atto che la realtà dei fatti era invece un’altra: in fretta e furia richiamarono tutti i cavalieri dal Valdarno e, insieme a tutte le masnade e i feudatari fedeli all’impero, compresi i fuoriusciti fiorentini ghibellini, mossero con l’intero esercito verso il Casentino, decidendo di appostarsi nella piana di Campaldino per affrontare l’esercito guelfo. Al comando degli Aretini c’era il vescovo, Guglielmino degli Ubertini. L’esercito aretino era in grande inferiorità numerica sia nella fanteria che nella cavalleria. Ma fu comunque deciso un attacco in forza, per cercare di sbaragliare il fronte guelfo. L’impatto dello scontro fu violentissimo; nella prima linea dei feditori fiorentini,

guidati da Vieri de’ Cerchi, c’era il giovane Dante Alighieri. Lo sfondamento in parte riuscí, ma le seconde linee fiorentine, soprattutto i fanti e i balestrieri, riuscirono a reggere l’urto e a colpire mortalmente moltissimi cavalieri aretini, fra cui Bonconte da Montefeltro. Il colpo finale lo dette l’intervento della cavalleria di riserva fiorentina guidata da Corso Donati che, disobbedendo agli ordini ricevuti, intervenne nella mischia della battaglia. I due condottieri, il Durfort e il vescovo Ubertini, morirono; i Fiorentini a fine giornata riportarono l’importante vittoria che fu dedicata a san Barnaba, il santo del giorno. Dopo la battaglia di Campaldino Dante Alighieri cominciò la sua appassionante partecipazione alla vita politica. Tornò in Casentino solo dopo la sentenza di condanna a morte, nel suo triste esilio. L’esposizione museale dedica alla battaglia uno scenografico plastico con oltre 4000 soldatini in scala in stagno e piombo, tutti dipinti a mano, che illustrano gli schieramenti all’inizio dello scontro che segnò l’avvio del processo di progressiva affermazione dell’egemonia di Firenze nella Toscana del XIII secolo. I pannelli illustrativi degli schieramenti degli eserciti con le insegne araldiche e le fasi della battaglia descrivono con affascinante chiarezza i principali protagonisti dello scontro. Nell’allestimento sono compresi anche due dipinti: I colori della battaglia di Silvano Campeggi, noto cartellonista del cinema, attivo nei decenni dopo il secondo conflitto mondiale, e Gli eroi di Campaldino di Luca Ferrotti. Luca Giannelli Il nuovo percorso espositivo del museo L’inferno a Campaldino è stato realizzato da Scramasax ideazioni di Luca Giannelli e Angelica Cortini. ottobre

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La fruizione virtuale: una risorsa preziosa L

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

a XXIII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgerà a Paestum presso il Tabacchificio Cafasso, la Basilica, il Parco Archeologico e il Museo Nazionale da giovedí 25 a domenica 28 novembre. Patrocinata dal Ministero della Cultura e dal Ministero del Turismo e riconosciuta quale unico appuntamento al mondo dalle organizzazioni governative internazionali UNESCO e UNWTO, la manifestazione è un rilevante momento di approfondimento e divulgazione di temi inerenti il turismo culturale e la valorizzazione dei beni culturali per la comunità scientifica internazionale, il business professionale, gli addetti ai lavori, i viaggiatori e appassionati, il mondo scolastico e universitario, i media. Immagine di repertorio della mostra ArcheoVirtual. La Borsa è sede del primo e piú grande Salone espositivo al mondo dedicato al patrimonio archeologico e di Generale per la Cultura dell’UNESCO, quale esempio ArcheoVirtual, l’innovativa mostra internazionale di eccellente per rendere la cultura accessibile attraverso la tecnologie multimediali, interattive e virtuali al servizio digitalizzazione del patrimonio, urgente necessità di cui dei beni culturali. ArcheoVirtual, da oltre 10 anni fiore si è fatta promotrice l’UNESCO lanciando nel 2020 le all’occhiello della BMTA, è realizzata in collaborazione campagne «Share Culture» e «Share Our Heritage». con il Digital Heritage Lab del CNR ISPC, l’Istituto del Oltre alla mostra, al workshop tematico i protagonisti del Consiglio Nazionale delle Ricerche dedicato alle Scienze mondo della ricerca, della pubblica amministrazione e del Patrimonio Culturale. La mostra dell’imprenditoria si confronteranno intende valorizzare le soluzioni sull’evoluzione del nostro rapporto tecnologiche che rendono i luoghi con i musei e il patrimonio culturale: Errata della cultura piú appetibili per il grande introducono Costanza Miliani, pubblico e piú leggibili in termini di Direttore CNR ISPC, e Augusto corrige con comprensione e sensibilità culturale, Palombini, riferimento CNR ISPC, Coordinatore presentando tradizionalmente due Scientifico al Dossier di ArcheoVirtual; sezioni: una parte audiovisiva, in cui intervengono Davide Borra, L’umanista si proiettano video relativi a progetti imprenditore digitale No.Real e che andò di particolare originalità, innovazione Coordinatore alle crociate Dipartimento di «Digital e rilievo, e un’altra dedicata alle Communication design» IAAD Istituto (vedi applicazioni interattive. d’Arte Applicata e Design; Amedeo «Medioevo» Il tema di ArcheoVirtual 2021 «nuove Cesta, n. 220,Direttore Dipartimento Scienze interAzioni» è sui mutamenti in atto Umane e Sociali, Patrimonio Culturale aprile 2015) degli strumenti di fruizione del patrimonio,desideriamo anche in precisare del che CNR; Forte, docente di studi classici, storia la Maurizio medaglia in bronzo relazione all’esperienza legata alla pandemia da Coviddell’arte studiMalatesta visivi della Duke University; Anna riprodotta a p. 93 (in basso) eritrae 19, che ha probabilmente modificato in modo definitivo Marras, Coordinatore Novello (al secoloMaria Domenico Malatesta, 1418- Commissione «Tecnologie alcune nostre abitudini, e sui fenomeni di piú ampia Digitalie per beni culturali» di ICOM Italia; concludono 1465) signore di Cesena, noni Sigismondo portata, come le tecnologie di Intelligenza Artificiale Onofrio Direttore Generale per la Creatività Malatesta, come indicato in Cutaia, didascalia. Dell’errore e di sensoristica diffusa, che incideranno sul Contemporanea MiC, e Laura Moro, Direttore ci futuro scusiamo con l’autore dell’articolo edel con i nostri approccio del pubblico a siti e musei. Istituto Centrale per la Digitalizzazione del Patrimonio lettori. Proprio durante la pandemia, ArcheoVirtual ha ricevuto Culturale-Digital Library del MiC. il plauso di Ernesto Ottone Ramírez, Vice Direttore Info www.borsaturismoarcheologico.it


ANTE PRIMA

Nardo e i suoi fratelli RECUPERI • Grazie allo sventato espatrio di un Cristo

Benedicente dipinto da Nardo di Cione, la Galleria dell’Accademia ha arricchito il corpus delle opere riconducibili a una delle piú attive famiglie di artisti che operavano a Firenze nel Trecento

A sinistra Cristo Benedicente, la tavola su fondo oro dipinta da Nardo di Cione e ora entrata a far parte della collezione permanente della Galleria dell’Accademia di Firenze. Sulle due pagine immagini dell’allestimento della sezione tardo-medievale della Galleria dell’Accademia, in cui è confluito il Cristo Benedicente.

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razie a un’operazione condotta dal Reparto Operativo del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, la Galleria dell’Accademia di Firenze ha potuto salutare l’ingresso di una nuova opera, un prezioso fondo oro con Cristo Benedicente, attribuito a Nardo di Cione (1320-1366), esponente

della pittura fiorentina del Trecento, formatosi in un clima culturale che guardava alla bottega di Giotto. Appartenente a una congregazione religiosa che la custodiva presso la sua sede romana, la tavola era stata ceduta nel 2003 a un mercante d’arte con uno stratagemma: il contratto di cessione, attribuendone la proprietà a un membro dell’ente ecclesiastico, aggirò le normative di tutela. L’anno successivo il dipinto fu venduto a un gallerista londinese ma, in seguito alle indagini sul suo espatrio senza la corretta documentazione, sono scattati il sequestro e la successiva confisca. Nel 2018 la tavola è stata rimpatriata ed è ora entrata a far parte del nucleo tardo-medievale della raccolta fiorentina. ottobre

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Cecilie Hollberg, direttrice del museo toscano, manifesta grande soddisfazione per «la new entry, un Redentore nell’atto di benedire. Un’ulteriore opera dei fratelli di Cione arricchisce le nostre raccolte, che documentano il notevole livello qualitativo della pittura fiorentina del Trecento. La Galleria dell’Accademia conserva già al piano terra lo splendido trittico della Trinità di Nardo di Cione». Hollberg spiega che quest’ultima opera, con uno stile vicino a quello della nuova acquisizione, fu

dipinta da Nardo nel 1365, anno in cui scrive il testamento «corpore languens», affidando ai fratelli un lascito per la Compagnia della Misericordia, già effettuato nel maggio dell’anno successivo.

Uno stile piú dolce e soave Nardo, sulla cui vita e attività le notizie sono molto scarne, fa parte di una famiglia di artisti: lavora con i fratelli Jacopo e Matteo nella bottega del piú anziano Andrea, detto l’Orcagna, con il quale dipinge per una commissione prestigiosa come la cappella Strozzi nella chiesa di S. Maria Novella a Firenze. La direttrice della Galleria sottolinea che «rispetto ai suoi fratelli, Nardo ha un ruolo diverso, perché il suo stile pittorico è piú dolce, soave, lirico, con file di figure che hanno

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forme e movimenti di tradizione giottesca. Queste caratteristiche, che si trovano nel Cristo Benedicente, ricorrono anche nella predella del Museo Bandini di Fiesole e nella cappella Strozzi di Mantova all’interno di S. Maria Novella a Firenze, dove gli affreschi sono attribuiti a Nardo da una fonte

di spessore quale il Ghiberti». Hollberg trova affinità fra lo stile di Nardo e quello di Giovanni del Biondo, che dipinge per la cappella Tosini in Santa Croce un Cristo Benedicente, con il libro della vita nella mano sinistra, una corona e la stola, secondo un’iconografia non frequente nel tardo Medioevo. Il dipinto di Nardo, che ha le stesse caratteristiche iconografiche, nonostante sia entrato al museo con una cornice da «dipinto autonomo», fa parte secondo la direttrice di un complesso ancora da individuare ed è un’opera di grande qualità pittorica, della quale si parlava già negli anni Cinquanta, quando ne circolavano foto, nelle quali si riscontravano i ritocchi apportati nella parte superiore. Stefania Romani

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ANTE PRIMA

Ferrara riparte dal Rinascimento D

opo un anno di sosta forzata a causa del Covid-19, alla luce anche del successo riscosso nel mese di luglio da «Armi & Bagagli» a Piacenza Expo, Ferrara Fiere si appresta a ospitare il 6 e 7 novembre prossimi «Usi & Costumi-Viaggio nel tempo tra luoghi, sapori, rievocazioni storiche», fiera internazionale che da nove edizioni porta a Ferrara Fiere migliaia di visitatori dall’Italia e dall’estero. Focus centrale di quest’anno è un tema particolarmente e storicamente caro alla città di Ferrara: quello del Rinascimento. Un Rinascimento che non si dovrà intendere solo come disamina del passato che, a cavallo tra XV e XVI secolo, vedremo indossato, ricostruito o cucinato in alcuni degli stand allestiti in fiera, bensí anche come declinazione di quanto nel presente della città estense si sta realizzando per rilanciare il tessuto socio-culturale e produttivo dopo il tragico lockdown. Con uno sguardo rivolto però anche al futuro, a cui guarda con particolare fiducia l’ente fieristico del presidente Andrea Moretti che

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Due immagini di repertorio della fiera «Usi & Costumi», la cui edizione 2021 è in programma a Ferrara il 6 e 7 novembre. proprio in fiera annuncerà un nuovo appuntamento cittadino dedicato al Rinascimento. Ecco, quindi, che il tradizionale ritrovo di storici, artigiani, sportivi (a loro è dedicata principalmente la nuova area destinata al tiro con l’arco «Sagitta Expo»), appassionati di musica, arte, spettacolo di strada o di enogastronomia tradizionale, apre nel 2021 a una nuova mission collettiva: quella di recuperare il passato, per declinarlo al presente cosí da costruire delle solide basi per il futuro delle nuove generazioni. Un futuro che veda nella cultura, nella storia e nella valorizzazione dei beni culturali la base solida su cui costruire nuove, concrete opportunità occupazionali. «Usi & Costumi» ospiterà anche quest’anno l’area dedicata al Piccolo Salone del Romanzo Storico «Scripta Manent», prima iniziativa in Italia dedicata a questo particolare settore dell’editoria, che sta riscuotendo sempre maggiore successo. Info: tel. 345 7583298 o 333 5856448; e-mail: info@usiecostumi.org

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ANTE PRIMA

Un luogo di dolcezza serena ITINERARI • Oggetto di

un impegnativo progetto di valorizzazione, oggi la Certosa di Ferrara rivela i suoi tesori. Offrendosi come vera e propria guida alla scoperta della storia e degli angoli piú reconditi della città degli Estensi

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icorda Paola Bassani che suo padre «la prima cosa che faceva, quando andava in una città, era visitarne il cimitero, pensava fosse essenziale per comprendere la città stessa, la sua storia e la sua identità» (Se avessi una piccola casa mia. Giorgio Bassani, il racconto di una figlia, La Nave di Teseo, Milano 2016). Ora, il sublime cantore moderno di Ferrara è sepolto nella sua città, nel cimitero ebraico di via delle Vigne, nell’estremo lembo nord-orientale dell’«Addizione Erculea», l’ampliamento urbanistico dell’originario nucleo medievale ottobre

MEDIOEVO


Da monastero a cimitero dei Ferraresi 1438 In occasione del Concilio di Basilea, in quell’anno trasferito a Ferrara, viene proposta l’accoglienza in città alla comunità dell’Ordine dei Certosini. 1452 Borso d’Este, futuro primo duca di Ferrara, dispone e finanzia la costruzione del monastero e del complesso ad uso dei monaci certosini, che si insedieranno nel 1461. Le spoglie di Borso sono ancora oggi conservate nell’esedra in asse con l’ingresso del Primo Gran Claustro. 1498 Ercole I d’Este dispone l’inglobamento del complesso all’interno dell’Addizione Erculea e affida al grande architetto di corte Biagio Rossetti la monumentalizzazione della Chiesa di S. Cristoforo. 1799 Per volere napoleonico, la Certosa viene destinata a caserma di cavalleria e il monastero secolarizzato. 1813 Avviene la riduzione del complesso certosino in cimitero monumentale, ora di proprietà del Comune, su progetto di Ferdinando Canonici, con il contributo di Antonio Foschini, Giuseppe Campana, Leopoldo Cicognara, Giovanni Pividor, Niccolò Matas e Antonio Diedo. 1962 Viene completato il Secondo Gran Claustro, ultimo di una serie di interventi di ampliamento avvenuti tra l’Ottocento e l’età fascista.

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In alto la tomba di Borso d’Este (1413-1471), primo duca di Ferrara e patrono della Certosa. Nella pagina accanto e in basso, sulle due pagine due vedute della Certosa di Ferrara, con, al centro, la chiesa di S. Cristoforo.

voluto dal duca Ercole d’Este alla fine del XV secolo. A poche centinaia di metri da quel luogo di struggente suggestione, inoltre, sorge il piú vasto e imponente complesso monumentale di Ferrara, il cimitero della Certosa.

Custode delle memorie La fondazione del principale luogo di sepoltura della città risale al predecessore di Ercole, il fratellastro Borso, che nel 1452 fece costruire in questo luogo – all’epoca ancora situato fuori dalla cinta muraria – un monastero certosino, dominato dalla chiesa di S. Cristoforo (completata nel 1498). Da quell’anno, il complesso accompagnerà le fasi salienti della storia di Ferrara (vedi box in questa pagina), accogliendo le memorie – e facendosi custode delle stesse – di personaggi e vicende cittadine. Danneggiato dal terremoto del 2012, il complesso è stato sottoposto a lavori di restauro e messa in sicurezza. Inoltre, a partire dal 2019 – anno in cui la Certosa è tornata agibile – il Comune di Ferrara ha avviato, in collaborazione con la Holding Ferrara Servizi, un’opera di valorizzazione del suo patrimonio storico-artistico e culturale, grazie alla quale, oggi, la Certosa si presenta come un museo della città «a cielo aperto». Le sue architetture, le numerose

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delimitanti i grandi orti di cui ancora adesso questa estrema zona nord della città è abbastanza ricca (...) Nell’ambito dello spazio compreso fra tali limiti, c’è ben poco, ripeto, che parli della morte. (...) Sarà per la dolcezza serena del luogo, ed anche, s’intende, per la sua quasi perfetta e perpetua solitudine, fatto sta che piazza della Certosa è sempre stata meta di convegni di innamorati» (Giorgio Bassani, Cinque storie ferraresi, Torino 1956). Andreas M. Steiner DOVE E QUANDO

Certosa di Ferrara Via Borso, 1 (entrata principale) Orario nov-mar: 7,00-18,00; apr-ott: 7,00-19,00 Info www.certosadiferrara.it

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Casa di Ludovico Ariosto

tombe monumentali – quasi una cinquantina, tra cui quelle dello stesso Borso d’Este, mecenate e patrono della Certosa e che qui volle essere tumulato, e di Benvenuto Tisi, detto il Garofalo (1481-1559), «genio» del Rinascimento ferrarese – sono oggi visitabili con l’ausilio di percorsi che evidenziano il legame tra i monumenti funerari e i luoghi della città: «Una vera e propria mappa da sfogliare – come spiega Luca Cimarelli, presidente di Holding Ferrara Servizi – per chi voglia immergersi nella storia della città». L’invito, dunque, è quello di visitare il cimitero della Certosa (una prima impressione del suo rinnovato fascino possiamo ricavarla dai brevi filmati e dai cortometraggi di presentazione dei percorsi visibili

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sul sito www.certosadiferrara. it), seguendo la consuetudine di quel suo illustre cittadino citato in apertura di queste righe. Il quale di quel luogo incantato ci ha offerto una descrizione indimenticabile: «Per avere un’idea di che cosa sia piazza della Certosa, si pensi ad un prato aperto, pressoché vuoto, sparso come è a distanza di rari monumenti funebri (...) una specie di piazza d’armi, insomma. A destra, la scabra facciata incompiuta della chiesa di San Cristoforo, nonché, flettendosi in ampio semicerchio fin sotto le mura urbane, un rosso porticato del primo Cinquecento contro il quale certi pomeriggi il sole batte davvero a gloria; A sinistra, soltanto basse casette di tipo semirustico, soltanto muriccioli ottobre

MEDIOEVO


Storia, arte e bellezza: tre itinerari alla scoperta di Ferrara STORIE DI FERRARA 2 Giorgio Cini 6 Severino e Gustavo Navarra 10 Francesco Mayr 18 Giuseppe Agnelli 19 Carlo Grillenzoni 21 Gregorio Boari 24 Borso d’Este 28 Carlo Mayr 29 Giulio Righini 32 Celio Calcagnini 34 Alda Costa

42 Fausto Beretta 43 Girolamo Savonuzzi 44 Chiesa di S. Cristoforo 47 Ferdinando Canonici LE SETTE ARTI 3 Gaetano Previati 7 Filippo Tibertelli De Pisis 16 Giuseppe Mazzolani 22 Antonio Boldini 27 Giuseppe Mentessi 31 Antonio Foschini

32 Vincenzo Monti 32 Benvenuto Tisi, detto il Garofalo 33 Antonio Sturla 36 Michelangelo Antonioni 37 Lanfranco Caretti 38 Florestano Vancini 39 Giovanni Boldini 40 Corrado Govoni 44 Chiesa di S. Cristoforo LA SACRA BELLEZZA 1 Tomba del marchese Villa Lancellotti 4 Tomba Filippo Dotti 5 Arco Vincenzo Bonetti 8 Busto di Francesco Bonaccioli 9 Via Crucis 11 Tomba di Paolo Bergami 12 Monumento a Teodoro Bonati

13 Busto di Ambrogio Zuffi 14 Cella Massari Zavaglia 15 Tomba Lattuga 17 Tomba Zagatti 20 Tomba Galloni 23 Tomba di Lilia Magnoni Monti 25 Tomba di Alessandro Strozzi 26 Monumento funebre di Giovanni Battista Costabili Containi 30 Tomba Avogli-Trotti 32 Cella dei ferraresi illustri 35 Famedio dei Caduti 41 Primo monumento a Giovanni Boldini 44 Chiesa di S. Cristoforo 45 Monumento sepolcrale di Roberto Fabbri 46 Monumento sepolcrale di Alfred Lowell Putnam

Mappa della Certosa di Ferrara, con l’indicazione dei piú importanti monumenti sepolcrali, la cui visita può seguire i percorsi tematici indicati in alto.

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ANTE PRIMA

Il poeta ci guarda ANTROPOLOGIA FORENSE • Di

Dante Alighieri è stata accreditata nel tempo un’immagine forse non del tutto corrispondente alla realtà. Un dubbio dal quale ha preso le mosse la ricostruzione virtuale del volto dell’autore della Divina Commedia che qui presentiamo in anteprima

In questa pagina due vedute del risultato finale del processo che ha portato alla ricostruzione virtuale del volto di Dante. Nella pagina accanto le varie fasi dell’operazione.

P

oco dopo aver preso parte a un’ambasceria a Venezia, per conto di Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna, Dante Alighieri si ammalò e, nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321, morí. Fin da allora, la sua figura e la sua opera sono state oggetto di grande interesse e non sono mancati gli studi che hanno cercato di ricostruirne l’aspetto fisico e le sembianze fisionomiche. Le prime informazioni sull’aspetto fisico del poeta e, in particolare, sul suo volto, ci sono state trasmesse da Giovanni Boccaccio, che, nel Trattatello in laude di Dante, lo descrisse cosí: «Il suo volto fu lungo e il naso aquilino, gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia melanconico e pensoso». Al riguardo, è bene ricordare che non poteva trattarsi di una conoscenza diretta, poiché, all’epoca della morte di Dante, Boccaccio aveva solo otto anni e non lo conobbe personalmente. Caratteri simili si possono riconoscere anche in alcuni dipinti trecenteschi, come, per esempio, nel ritratto conservato a Firenze nel Palazzo del Bargello e attribuito a Giotto e alla sua bottega (vedi foto a p. 8, in alto). Vi sono poi numerose, e presunte, maschere funerarie, che, come tali, dovrebbero derivare dal calco del volto di Dante appena morto. Ma anche queste rivelano caratteristiche e segni che inducono a escluderne l’autenticità. Con la scoperta delle ossa di Dante nel 1865, furono condotti i primi studi scientifici volti a determinare i tratti del volto su basi anatomiche. «In particolare – spiega Giorgio

Gruppioni, già professore di antropologia presso l’Università di Bologna – dopo la ricognizione dei resti eseguita nel 1921, sesto centenario della morte del poeta, dagli antropologi Giuseppe Sergi dell’Università di Roma e Fabio Frassetto dell’Università di Bologna, quest’ultimo poté comparare l’iconografia dantesca piú accreditata e le ipotetiche maschere funerarie, con il profilo del cranio del poeta che rivelarono delle evidenti incompatibilità».

Il «profilo dantesco» Nessuna effigie di Dante risultava pienamente corrispondente allo scheletro cranio-facciale del poeta e quindi nessuna di esse poteva ritenersi una riproduzione fedele del volto di Dante. Eppure, nonostante i dubbi sulla sua attendibilità, quel viso allungato, quel naso ottobre

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aquilino, il mento prominente sono diventati emblematici di quello che chiamiamo «profilo dantesco», che ricorre nella sterminata iconografia giunta fino a noi, arrivando a interessare perfino il campo della fumettistica; un fenomeno unico che non ha pari per nessun altro personaggio, anche fra i piú grandi della storia. Frassetto fu anche il primo a ricostruire, con la collaborazione dello scultore bolognese Antonio Borghesani, il volto del poeta mediante modellazione sullo scheletro cranio-facciale dei tessuti molli, ispirandosi alle tecniche di ricostruzione facciale messe a punto in quegli anni. E nel 2006, VII centenario dell’ideazione della Commedia (1306-2006), Francesco Mallegni (Università di Pisa) ha eseguito una nuova ricostruzione del volto di Dante, attraverso un approccio metodologico che ha unito competenze antropologiche, capacità tecnologiche e abilità artistiche con il coinvolgimento di specialisti del Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna e dell’allora Facoltà di Ingegneria aerospaziale di Forlí (dell’Università di Bologna).

Tecniche di identificazione Se escludiamo ritratti, sculture e maschere funerarie, altre rappresentazioni di volti vengono create attraverso la cosiddetta «Ricostruzione Facciale Forense», un metodo cosí denominato poiché viene applicato nei contesti giudiziari qualora si debba identificare un cadavere sconosciuto, al fine di creare un identikit che possa essere diffuso per ottenere segnalazioni di un potenziale riconoscimento (successivamente da verificare con i metodi identificativi ufficiali: denti o DNA). Ciò si applica, con alcuni adattamenti, anche ai contesti storico-archeologici, col fine di ricreare scientificamente il possibile volto di un personaggio storico.

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Ed è questa la procedura ora applicata nel caso di Dante Alighieri da Chantal Milani, antropologa e odontologa forense, esperta nell’analisi di volti, che spiega: «Sebbene negli anni siano state sviluppate diverse tecniche, i metodi di ricostruzione si basano sul principio che il cranio, come la gran parte delle strutture anatomiche è connotato da elementi fortemente caratterizzanti l’individuo a cui è appartenuto: i tessuti molli manifesteranno un insieme di proporzioni, forme e dettagli del cranio sottostante, che traspariranno in parte anche nel volto che scaturirà: le nostre ossa raccontano molto di noi». Come ricordato, gli antropologi Frassetto e Sergi furono gli ultimi, nel 1921, ad avere accesso alle spoglie di Dante, conservate a

Ravenna. Essendo stato loro impedito, durante la ricognizione dei resti del poeta, di realizzare il calco completo del cranio, Frassetto ne creò un modello in gesso in base alle fotografie e alle misure rilevate sull’originale e al calco del palato e della parte mediana della faccia che, abusivamente, era riuscito a realizzare. Grazie al lavoro dei due studiosi, oggi disponiamo di numerose fotografie, misure antropometriche e risultati delle analisi effettuate, nonché di alcuni calchi del cranio. E proprio da questi ultimi ha preso avvio il lavoro che qui si presenta.

La mandibola mancante Dagli scritti dei due antropologi sappiamo che lo scheletro non è completo e in alcune parti frammentato. Fra le ossa mancanti

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ANTE PRIMA Un’altra immagine della ricostruzione virtuale del volto di Dante Alighieri. Per giungere a questo risultato si sono rivelati decisivi i dati acquisiti dagli antropologi Giuseppe Sergi e Fabio Frassetto che, nel 1921, nel sesto centenario della morte, ebbero la possibiltà di esaminare i resti del poeta, conservati a Ravenna. vi è la mandibola, che sappiamo essere di fondamentale importanza per la ricostruzione di un volto. È stato quindi necessario ricostruire una mandibola compatibile con le altre ossa presenti. Nel caso di Dante Alighieri, previa verifica della corrispondenza delle misure reali (riportate da Frassetto e Sergi) sul calco riprodotto attraverso scansione 3D e importato in un software dedicato, Milani ha proceduto all’applicazione delle formule matematiche ricavate da Josie Ide e Christopher Rynn alle misurazioni effettuate virtualmente. Ciò ha consentito di modellare e ricostruire tridimensionalmente seppur con ovvi limiti, una mandibola maschile «generica» e posizionarla in relazione alla base cranica. Questo lavoro preliminare ha permesso di dare completezza al cranio per poter procedere alla ricostruzione del volto.

In ambiente virtuale, cranio e mandibola sono stati articolati anatomicamente fra loro e sono state dapprima scelte, sulla base del profilo antropologico, le tabelle degli spessori dei tessuti molli piú idonee per un individuo caucasico di sesso maschile, di età compresa fra i 50-60 anni, ipotizzandone una costituzione medio-robusta, come si è potuto evincere dall’esame delle ossa riportato anche da Frassetto. Sono stati quindi collocati 52 piccoli cilindri di misura predeterminata, in base alle tabelle scelte, in

La ricostruzione I calchi parziali e il modello cranico realizzato da Frassetto sono stati alla base anche della ricostruzione attuale. La scelta dei giusti parametri numerici su cui effettuare il lavoro necessita del Profilo Antropologico (origine razziale, sesso, età, costituzione fisica) ottenuto dai resti umani. Grazie alla documentazione giunta sino a noi e agli studi di Frassetto, infatti, sappiamo che le ossa corrispondevano a un uomo caucasoide, morto all’età di 56 anni. Come già accennato, è stato necessario ricostruire la mandibola andata perduta, ricreandone una compatibile con quel cranio.

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altrettanti punti di riferimento anatomici che hanno avuto la funzione di guidare gli spessori finali nella riproduzione dei tessuti molli adagiati sul cranio. Quanto alla forma del naso, le strutture ossee, sebbene non perfettamente integre, hanno permesso di determinare una possibile morfologia del dorso e della base. Il naso che ne è risultato, forse la componente piú nota e suggestiva del volto di Dante, si è rivelato effettivamente «importante» e a dorso convesso o gibbuto, confermando le informazioni giunte

sino a noi. I muscoli del volto sono stati modellati dopo lo studio delle loro diverse inserzioni sull’osso, andando via via a riempire gli spazi fra i diversi cilindri di riferimento. I bulbi oculari sono stati collocati nelle cavità anatomiche. Il piano cutaneo ha ricoperto il tutto, sempre nel rispetto dello spessore determinato dai marcatori.

Un risultato non definitivo Conclude Chantal Milani: «Dal punto di vista scientifico, la ricostruzione facciale forense si ferma a questo livello, dal momento che ogni step è supportato da passaggi studiati dalla letteratura di settore che richiede di non spingersi in modo eccessivo nell’inserimento di dati non verificati o ottenibili in modo oggettivo. Al di fuori di un contesto forense, ma trattandosi di settore storico-archeologico, che richiede di rendere maggiormente fruibile al pubblico l’opera finale e consci del fatto che ogni passaggio successivo inserisce elementi artistici, col supporto di fonti documentali, si è deciso di ultimare la ricostruzione con quanto descritto dal Boccaccio e riprodotto in alcune opere pittoriche. Il volto è quindi stato ultimato con capigliatura e copricapo a tutti noi noti e, dulcis in fundo, una versione con barba “spessa nera e crespa”. Come già detto, l’immagine cosí ottenuta non può considerarsi la fotografia del volto definitivo di Dante Alighieri. Ci sono ancora molti aspetti che rimangono sconosciuti o incerti, prima fra tutti la morfologia della mandibola, che resta la parte piú aleatoria della ricostruzione del volto del poeta, ma anche la forma definitiva del naso e delle labbra come pure i caratteri pigmentari. È certo che l’affinamento delle conoscenze e delle metodologie scientifiche potranno consentire di scoprirne in futuro nuovi dettagli». (red.) ottobre

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È (di nuovo) tempo di palio! D

ue edizioni del Palio dei Fanciulli e una edizione del Palio delle Contrade; sono quelle che la pandemia ci ha letteralmente «rubato». Ora la luce in fondo al tunnel sembra farsi piú vicina e anche l’Associazione Sforzinda è pronta a ripartire per poter festeggiare, questa volta davvero, la quarantesima edizione del Palio delle Contrade. In realtà, la macchina del Palio non si è mai fermata del tutto. I soci e le contrade hanno continuato a lavorare, a pensare e in questo anno e mezzo, compatibilmente con le restrizioni che sono state progressivamente imposte per far fronte al diffondersi dei contagi, sono state organizzate iniziative per ricordare che il Palio c’è. Ma ora è

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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il momento di pensare davvero a festeggiare in maniera appropriata due anniversari importanti. La quarantesima edizione del Palio delle Contrade e la ventesima del Palio dei Fanciulli. L’appuntamento sarà, come sempre, per il secondo week end di ottobre, in concomitanza con la ricorrenza liturgica del beato Matteo Carreri, protettore di Vigevano. Durante quel fine settimana i «grandi» e i «bambini» saranno chiamati a disputare il Palio per conquistare un cencio dal doppio valore: quello dell’anniversario e quello della ripartenza. L’Associazione infatti sta mettendo a punto il programma dettagliato che ovviamente terrà conto delle misure di sicurezza anti Covid per permettere di stare insieme e festeggiare nel migliore dei modi il ritorno alla normalità che piano piano stiamo vivendo. Oltre a pianificare e a studiare il programma l’Associazione in questi mesi è stata impegnata in un importante passaggio della sua vita sociale ovvero l’adeguamento dello Statuto al Codice del Terzo Settore che ha visto l’Associazione Sforzinda confermarsi quale ODV (Organizzazione di Volontariato) e rimarcare il carattere di divulgazione culturale delle tradizioni storiche della nostra Città. Appuntamento quindi per il secondo fine settimana di ottobre per festeggiare degnamente questo Palio della ripartenza! Aggiornamenti sui programmi sono disponibili sul nostro sito e sui canali social Facebook e Instagram. Anna Maria Barbagia


ANTE PRIMA

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MEDIOEVO


IN EDICOLA

GLI ARGOMENTI

DANTE

• Fra guelfi e ghibellini • La cerchia del poeta

Un destino tra amore e politica

• L’esilio • Tra fede e fanatismo E LATA NTRIVE A A D RI

A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

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N°46 Settembre/Ott obre 2021 Rivista Bimestrale

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In filigrana, c’è naturalmente spazio anche per le grandi creazioni letterarie, culminate nella Divina Commedia, ma il filo conduttore è innanzi tutto legato alle turbolenze e alla sanguinosa divisione fra guelfi e ghibellini che condizionarono la vita di Dante, obbligandolo a dolorose rinunce e a vivere da esule per un ventennio. La sua storia, tracciata a partire dalle testimonianze di Dino Compagni, diviene lo specchio di una realtà piú ampia e si rivela in molti momenti sorprendentemente attuale. Perché, allora come oggi, essere «tutto d’un pezzo» poteva costare molto caro.

In alto particolare di una miniatura a corredo del canto I dell’Inferno, da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Priamo della Quercia. 1442-1450. Londra, The British Library. Nella pagina accanto Dante Alighieri in un disegno a penna e inchiostro bruno di Raffaello. 1509-1510 circa. Londra, Royal Collection Trust.

MEDIOEVO DOSSIE R

el settimo centenario della morte, sottolineare la statura di Dante in quanto poeta e letterato non smette d’essere un’operazione certamente lecita, se non doverosa. Tuttavia, esiste un «altro» Alighieri, la cui vicenda non è meno importante e si dipana nel panorama politico della Firenze e dell’Italia del Trecento: questo alter ego è dunque il protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo» e la sua parabola viene magistralmente ripercorsa da Chiara Mercuri, che ricostruisce, passo dopo passo, il percorso di un uomo rivelatosi ben presto «scomodo» e condannato a pagare un prezzo altissimo per la sua integrità morale.

• Suggestioni dantesche

IN EDICOLA IL 16 SETTEMB RE 2021

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• Essere di parte

06/09/21 16:32

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AGENDA DEL MESE

Mostre SUSA-TORINO IL RINASCIMENTO EUROPEO DI ANTOINE DE LONHY Susa, Museo Diocesano fino al 7 novembre (prorogata) Torino, Palazzo Madama, Sala Senato fino al 9 gennaio 2022

L’esposizione punta a ricomporre la figura di Antoine de Lonhy, un artista poliedrico – era pittore, miniatore, maestro di vetrate, scultore e

a cura di Stefano Mammini

Rogier van der Weyden. Prima del 1450 era già in contatto con uno dei piú straordinari mecenati di ogni tempo, il cancelliere del duca di Borgogna Nicolas Rolin, per il quale eseguí delle vetrate istoriate, purtroppo perdute. Si conoscono poi tutte le tappe del suo percorso attraverso l’Europa, che si concluse nel ducato di Savoia, dove lavorò per la corte e per numerose chiese e monasteri del territorio e dove si spense, probabilmente, prima della fine del secolo. Il percorso espositivo della mostra, articolato nelle due sedi di Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica di Torino e del Museo Diocesano di Susa, vuole mettere in evidenza i viaggi, gli spostamenti e la carriera itinerante attraverso l’Europa di un artista che nelle sue opere riuní insieme elementi e influssi dalla Borgogna, dalla Provenza, dalla Catalogna e dalla Savoia. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it NEW YORK

autore di disegni per ricami – che ebbe un impatto straordinariamente importante per il rinnovamento del panorama figurativo del territorio dell’attuale Piemonte nella seconda metà del Quattrocento. Venuto a contatto con la cultura fiamminga, mediterranea e savoiarda, fu portatore di una concezione europea del Rinascimento, caratterizzata dalla capacità di sintesi di diversi linguaggi figurativi. Lonhy visse e lavorò in tre Paesi diversi. Originario di Autun, in Borgogna, si formò sui testi della pittura fiamminga, tra Jan van Eyck e

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I MEDICI: RITRATTI E POLITICA, 1512-1570 The Metropolitan Museum of Art fino all’11 ottobre

Fra il 1512 e il 1570, Firenze visse una stagione tumultuosa della sua storia e, da repubblica governata da funzionari eletti, si trasformò in un ducato, retto dalla famiglia Medici. Figura chiave di questo passaggio fu Cosimo I, il quale, all’indomani della morte del suo predecessore, Alessandro, divenne duca nel 1537. Per rafforzare l’immagine di uno Stato dinastico, il nuovo signore della città si serví della cultura anche in chiave politica, ingaggiando le migliori

menti e i piú valenti artisti del tempo. Riflesso di questa temperie è la nuova mostra allestita dal Met, nella quale sono riunite opere di maestri del calibro di Raffaello, Jacopo Pontormo, Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini, solo per citare alcuni dei nomi piú illustri. Oltreoceano è giunto anche il pregevole ritratto della poetessa Laura Battiferri, un olio su tavola dipinto da Agnolo Bronzino fra il 1555 e il 1560, concesso in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio e restaurato per l’occasione grazie al supporto di Friends of Florence. info www.metmuseum.org TIVOLI ECCE HOMO: L’INCONTRO FRA IL DIVINO E L’UMANO PER UNA DIVERSA ANTROPOLOGIA Villa d’Este-Santuario di Ercole Vincitore fino al 17 ottobre

Ecce homo: sono le parole

dette da Pilato nel Vangelo di Giovanni (XIX, 5) nel presentare alla folla Gesú, dopo averlo fatto flagellare e lasciato rivestire per dileggio con un manto rosso e una corona di spine. La scena, sommamente tragica, diviene una delle piú rappresentate della Passione, il cui racconto si snoda in mostra attraverso opere e prestiti illustri da prestigiose collezioni pubbliche e private. L’esposizione intende infatti accostarsi al significato profondo e universale ottobre

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dell’incarnazione e della morte di Cristo, consentendo di intrecciare a essa differenti percorsi antropologici e artistici, trasversali alle epoche e alle sensibilità culturali. Al centro della mostra si pongono la fragilità e la ricerca di senso, quali condizioni profondamente connaturate all’essere umano e al rapporto con il divino. Il ciclo statuario antico dei Niobidi, rinvenuti a Ciampino (Roma) e ora nelle collezioni dell’Istituto Villa Adriana e Villa d’Este, consente di esplorare il tema del dolore e del lutto, raccontando la strage dei figli di Niobe, uccisi per punire l’alterigia della madre. L’innocenza delle vittime e il trauma della perdita sono il cuore di un racconto che ha attraversato i secoli giungendo ai nostri giorni e interpellando la coscienza e la sensibilità dei moderni. All’opposto cronologico, Nicola Samorí (Forlí, 1977), rappresentato da Monitor, indaga i temi della vulnerabilità, della debolezza della carne, della rottura dell’integrità, lavorando su uno stratificato archivio iconografico, depositato per accumulo nella memoria collettiva e profondamente rielaborato dall’artista attraverso squarcianti intuizioni. info www.coopculture.it; e-mail: villaexhibitions@beniculturali.it SIENA MASACCIO, MADONNA DEL SOLLETICO. L’EREDITÀ DEL CARDINAL ANTONIO CASINI, PRINCIPE SENESE DELLA CHIESA Cripta del Duomo fino al 2 novembre

Antonio Casini, vescovo di Siena tra il 1408 e il 1426, fu un principe della Chiesa al centro della politica religiosa del suo tempo, tanto da essere definito «l’altro papa» da un

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ottobre

diplomatico. Insigne umanista e teologo, possedette numerose opere, tra cui la Madonna col Bambino, detta «del solletico», di Masaccio, tangibile segno del suo intenso legame con la Vergine Maria. Antonio Casini nacque, per via paterna, da una eminente famiglia di archiatri pontifici, mentre la madre era imparentata con la famiglia Colonna, la medesima di Martino V, il papa dal quale fu creato prete cardinale del titolo di San Marcello nel 1426. Come ha osservato Antonio Paolucci, «è ragionevole pensare che la Madonna del solletico sia stata dipinta in quella occasione o poco dopo. In quel dipinto si incontrano due destini. Da una parte il potente prelato, ricco e sagace protagonista del suo tempo, già vescovo di Siena che con la nomina cardinalizia tocca il culmine della sua fortuna

politica. Dall’altra Masaccio, un giovanissimo artista che sta affermandosi faticosamente sulle piazze artistiche di Firenze e della Toscana». info https://operaduomo.siena.it ROMA IL MONDO SALVERÀ LA BELLEZZA? PREVENZIONE E SICUREZZA PER LA TUTELA DEI BENI CULTURALI Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 4 novembre

In un momento cosí particolare e delicato, nel quale tutto il mondo si trova a convivere con una pandemia, cercando gli strumenti per vincere questa «guerra invisibile», è sembrato opportuno mettere in risalto come la bellezza, intesa come il meglio della produzione artistica e spirituale, sembri essere l’unica arma utile a salvare le nostre coscienze e saziare il nostro innato desiderio di bello.

In un certo modo oggi sembra necessario che la bellezza salvi il mondo. Ma siamo in grado, noi, di salvaguardare questo prezioso bene? E in che modo mettiamo in sicurezza questo immenso patrimonio, del quale siamo custodi, per poterlo tramandare nel futuro? Rivisitando il concetto, ci chiediamo: il mondo salverà la bellezza? Da questa domanda è nata l’idea di realizzare la mostra, che vuole essere non solo una esposizione di reperti recuperati dal Comando Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri, da anni in prima linea nella difesa dei nostri tesori storico-artistici, ma anche la presentazione dei sistemi di prevenzione e salvaguardia adottati dai Musei e dai luoghi della cultura di appartenenza statale. La scelta del materiale esposto, con opere importanti attribuite ad artisti come Brueghel, all’ambito del Veronese e affascinanti reperti come un frammento

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AGENDA DEL MESE dell’obelisco collocato a Montecitorio, frutto del lavoro svolto dal Comando TPC dell’Arma dei Carabinieri, rispecchia proprio quest’idea di percorso narrativo. info www.castelsantangelo. beniculturali.it SPOLETO INCANTO TARDOGOTICO. IL TRITTICO RICOMPOSTO DEL MAESTRO DELLA MADONNA STRAUS Museo Diocesano fino al 7 novembre

In occasione del restauro dei due sportelli laterali della Collezione Vaticana, raffiguranti due sante poco note – Paola Romana ed Eustochio –, madre e figlia che vissero all’epoca di san Girolamo (fine del IV secolo), se ne è approfondito lo studio e si è cercato di trovare lo scomparto centrale perduto: ora individuato al Museo Diocesano di Spoleto in una tavola frammentata, che raffigura una Madonna in trono col Bambino tra due angeli reggicortina. Sebbene mutilo della parte inferiore, il dipinto

appare stilisticamente affine ed è stato riconosciuto come centro del trittico. L’opera ornava in origine l’altare della cappella di S. Maria presso il castello di Abeto di Preci, da cui l’appellativo di «Maria Santissima di Piè di Castello». Al fine di approfondire lo studio di un pittore di elevatissima qualità non abbastanza noto, è stata selezionata anche un’opera piú tarda da mettere a confronto, la Madonna in trono col Bambino tra due angeli, oggi custodita nel Museo di Arte Sacra e Religiosità Popolare «Beato Angelico» di Vicchio del Mugello. E proprio grazie a questo accostamento è possibile intuire le dimensioni originarie della Madonna di Spoleto, gravemente danneggiata nel terremoto del 1703. Due momenti del percorso del Maestro della Madonna Straus, attivo a Firenze tra il 1385 e il 1415, un pittore che, da un iniziale neogiottismo, lentamente si apre al nuovo stile internazionale,

accogliendo in parte i modi di Lorenzo Monaco e di Gherardo Starnina, ma mantenendo sempre una sua originale arcaicità. info tel. 0577 286300; e-mail: duomospoleto@operalaboratori. com; www.duomospoleto.it

sono state riunite oltre 80 opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e medaglie, provenienti da collezioni pubbliche e private, in dialogo con il percorso permanente della casa-museo di Paolo Tosio. Opere che documentano

BRESCIA

l’interesse largamente diffuso per i due grandi personaggi: Alighieri in quanto riferimento delle aspirazioni civili e identitarie della nazione, della quale il poeta era considerato l’unificatore dal punto di vista linguistico; Bonaparte in quanto percepito come colui che, grazie alla costituzione della Repubblica prima e del Regno italico poi, aveva avviato un processo di formazione della coscienza nazionale che diede vita al Risorgimento e all’unificazione della Penisola. info www.ateneo.brescia.it, www.bresciamusei.com

DANTE E NAPOLEONE Palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 15 dicembre

La mostra è compresa nel piú vasto programma di iniziative organizzate dall’Ateneo di Brescia-Accademia di Scienze Lettere e Arti con Fondazione Brescia Musei per celebrare due miti, a 700 anni dalla morte di Dante e, al contempo, a 200 da quella di Napoleone. Il progetto indaga valori, ideali e sentimenti che si addensarono intorno ai due personaggi, descrive un’epoca, i suoi protagonisti, il collezionismo, le tendenze, all’insegna di un comune denominatore: l’Europa. Per la mostra «Dante e Napoleone»

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AREZZO OMAGGIO AL SOMMO POETA. PER I 700 ANNI DALLA MORTE

ottobre

MEDIOEVO


DI DANTE ALIGHIERI Palazzo della Fraternita dei Laici fino a dicembre

La mostra propone documenti d’archivio e testi a stampa che inseriscono a pieno titolo la città di Arezzo nell’itinerario delle vicende dantesche. Il percorso, volutamente circoscritto, ma scientificamente documentato, è organizzato nelle sale del prestigioso e antico palazzo di Fraternita (XIV-XV secolo). L’esposizione si apre con una sezione che, attraverso documenti notarili e autorevoli

fonti, illustra il legame di Dante e della sua famiglia con Arezzo: il soggiorno del poeta tra il 1303 e il 1304 e la presenza del fratello Francesco in città per la stipula di un contratto.

MEDIOEVO

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Nel nucleo centrale appare egemone il ruolo svolto in quegli anni dall’antica Fraternita dei Laici, che vive allora il passaggio da istituzione religiosa e assistenziale a organismo laico riconosciuto dal Comune. Sono quindi esposti gli antichi Statuti, l’elenco dei confratelli iscritti, le riforme e i lasciti testamentari. È poi la volta dalle splendide edizioni a stampa della Commedia e volumi un tempo appartenuti alla stessa Fraternita che, riccamente illustrati, testimoniano dal XV al XVI secolo, l’enorme fortuna dell’opera dantesca. Tra queste, spicca la pregiata edizione della Commedia (1481), illustrata, secondo l’attribuzione di Giorgio Vasari, da Sandro Botticelli. L’esposizione si conclude con il ritratto a stampa di Dante proveniente dalla Collezione Bartolini ed eseguito da Angelo Volpini nel XIX secolo (stampa di Carlo Lasinio), icona e simbolo della mostra: l’immagine si distingue da altre effigi del poeta in virtú del cartiglio esplicativo, che ne ricorda la genesi da una maschera originale del poeta. info e-mail: info@ fraternitadeilaici.it; www. fraternitadeilaici.it; Fb: Fraternita dei Laici

BELLUNO ACQUA FERRO FUOCO. ARTE DELLE SPADE NEL BELLUNESE Museo Civico fino al 9 gennaio 2022

Nel 1578, a Belluno, il mercante inglese Lancillotto Rolanzon, residente a Venezia, e il gentiluomo Giovanni Brone, suo conterraneo, stipularono un contratto con i maestri spadai Andrea e Zandonà Ferrara per la fornitura di 7200 spade all’anno, per i successivi dieci anni. Il documento attesta l’esistenza, alla fine del Cinquecento, di un’attività molto importante, per il volume di spade che una sola fucina era in grado di assicurare e per il mercato di riferimento di questa attività, che, varcando i confini della Serenissima e aprendosi all’Europa, poteva competere con i piú famosi centri spagnoli e tedeschi. Una realtà protagonista della mostra allestita nel Museo Civico bellunese, il cui percorso segue la filiera produttiva dall’estrazione del minerale di ferro nelle miniere, alla prima lavorazione nei forni e nelle fusine grosse, alla produzione delle lame nelle fucine da

spade, per gettare uno sguardo alla commercializzazione e all’uso delle armi nella società del tempo. info tel. 0437 956305 MODENA DANTE ILLUSTRATO NEI SECOLI. TESTIMONIANZE FIGURATE NELLE RACCOLTE DELLA BIBLIOTECA ESTENSE UNIVERSITARIA Biblioteca Estense Universitaria, Sala Campori, Gallerie Estensi fino all’8 gennaio 2022

La Biblioteca Estense presenta una mostra unica per la ricchezza del suo fondo dantesco, tra i piú prestigiosi esistenti in Italia e forse nel mondo, attingendo allo

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AGENDA DEL MESE straordinario patrimonio relativo al poeta. Allestita nella sala Campori, la rassegna presenta cimeli di estrema rarità, dai manoscritti alle opere a stampa, documenti dalle caratteristiche preziose e diversissime che permettono di ripercorrere l’intera storia del «Dante figurato», compreso un video realizzato ad hoc dall’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dalla sequenza quasi cinematografica di acquarelli papyrus style nel margine superiore di tutti i fogli del celebre Dante Estense, alle xilografie delle prime edizioni a stampa, alle rappresentazioni di Gustave Doré, Francesco Scaramuzza, William Blake, fino ai recenti Salvator Dalí e Renato Guttuso, passando per le «imagini» di Amos Nattini, il materiale custodito presso la Biblioteca Estense, rappresentativo, nella sua ricchezza, dell’immensa produzione dantesca, riesce a documentare i diversi modi di leggere la Divina Commedia illustrando «un capitolo della storia secolare del commento e della «fortuna» dell’Alighieri, oltre che della storia del libro e, piú in generale, dell’arte figurativa. info www.gallerie-estensi. beniculturali.it GUBBIO OTTAVIANO NELLI E IL ‘400 A GUBBIO. ORO E COLORE NEL CUORE DELL’APPENNINO Palazzo Ducale e Palazzo dei Consoli fino al 9 gennaio 2022

L’arte caleidoscopica di Ottaviano Nelli è protagonista della mostra ospitata nei due luoghi espositivi piú emblematici di Gubbio, il Palazzo Ducale e il Palazzo dei Consoli. Per l’occasione sono state riunite le opere piú importanti del pittore

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eugubino, quali polittici, anconette e affreschi strappati e al contempo viene proposta una lettura del legame profondo dell’artista con la città e il territorio di cui fu espressione massima nel suo tempo. Formatosi nell’ambito della cultura tardo-gotica, Ottaviano di Martino Nelli (1375 circa-1444 circa) seppe fondere la tradizione locale con elementi desunti dalla pittura lombarda e dalla miniatura francese, sviluppando un linguaggio personale vicino alle soluzioni di Lorenzo Salimbeni e di Gentile da Fabriano. A Gubbio,

dove venne ripetutamente nominato console della città, fu a capo di un’attivissima bottega che esercitò una certa influenza in Umbria e nelle Marche. Tematica centrale della mostra, pertanto, è quel Quattrocento eugubino di cui Nelli fu protagonista indiscusso. info www.mostranelligubbio.it ROMA INFERNO Scuderie del Quirinale fino al 9 gennaio 2022 (dal 15 ottobre)

Prima grande rassegna d’arte dedicata a questo tema, Inferno racconta la persistenza dell’iconografia

del mondo dei dannati dal Medioevo ai nostri giorni. Accompagnati dalla parola dantesca, i visitatori attraverseranno i luoghi terrifici e le visioni laceranti dell’Inferno cosí come sono stati rappresentati dagli artisti di tutte le epoche, dalle schematiche scene medievali alle sublimi invenzioni rinascimentali e barocche, dalle tormentate visioni romantiche fino alle spietate interpretazioni psicoanalitiche del Novecento. Un’intera sezione sarà dedicata alle varie traslitterazioni dell’esperienza dell’Inferno in terra: la follia, l’alienazione, la guerra, lo sterminio. Oltrepassato il culmine del Male, la mostra troverà la sua conclusione con l’evocazione dell’idea di salvezza, affidata da Dante all’ultimo verso della cantica: e quindi uscimmo a riveder le stelle. Grazie al

supporto straordinario della Biblioteca Apostolica Vaticana, per le prime settimane della mostra sarà concesso in prestito il capolavoro piú celebre ed emblematico di tale iconografia, la voragine infernale di Sandro Botticelli. info www.scuderiequirinale.it ottobre

MEDIOEVO


BOLOGNA

purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it

DANTE E LA MINIATURA A BOLOGNA AL TEMPO DI ODERISI DA GUBBIO E FRANCO BOLOGNESE Museo Civico Medievale fino al 9 gennaio 2022 (prorogata)

Richiamandosi al rapporto, intenso e fecondo, che Dante Alighieri ebbe in vita con la città di Bologna, le ragioni della mostra muovono dallo sguardo curioso e dalla attenta sensibilità critica che egli dovette rivolgere verso le arti figurative, di cui dimostrò di essere a conoscenza nei piú importanti sviluppi coevi al suo tempo. Il sommo poeta soggiornò a Bologna in piú occasioni: una prima volta probabilmente intorno al 1286-87, quando forse frequentò, come studente «fuori corso», l’Università. Piú prolungato dovette essere invece il secondo soggiorno, che lo vide trattenersi in città per almeno due anni, dal 1304 al 1306. Dopo aver lasciato Verona, e poi Arezzo, Dante ricercava ora nella scrittura e nello studio il motivo del suo riscatto che l’avrebbe risollevato dall’ignominia dell’esilio, iniziato nel 1302. Ed è probabile che in queste circostanze abbia scelto proprio Bologna come possibile nuova meta, atta a garantirgli le necessarie risorse per vivere e anche per studiare e scrivere. Una presenza che dovette consentirgli di entrare in contatto con alcuni di quei luoghi deputati alla produzione e alla vendita dei libri, dove probabilmente aveva avuto notizia dello stesso miniatore Oderisi da Gubbio di cui racconta l’incontro, tra i superbi, nell’XI canto del Purgatorio: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi,

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ROMA LA «BIBLIOTECA» DI DANTE Palazzo Corsini fino al 16 gennaio 2022 (dal 7 ottobre)

Nell’opera dantesca, e nella Commedia in particolare, la tradizione della cultura classica, cristiana e medievale si ricapitola come in una

/ l’onor d’ Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’ all uminar chiamata è in Parisi?” / “Frate”, diss’elli, “piú ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte”». info tel. 051 21939.16-30; e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; facebook: Musei Civici d’Arte Antica; twitter: @MuseiCiviciBolo; www.museibologna. it; instagram: @bolognamusei FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 16 gennaio 2022

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra

organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo:

summa: autori, libri, scuole di poeti e filosofi, enciclopedie, mitologie antiche e dogmi cristiani, scrittori canonici e autori piú eccentrici vengono tutti riattraversati dallo sguardo di Dante, che scrivendo il suo testo ne riscrive simultaneamente la tradizione d’appartenenza. In tal senso sapere di quali letture, di quali libri, si siano materialmente nutrite la cultura e la fantasia poetica dell’Alighieri ha da sempre costituito un interrogativo

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AGENDA DEL MESE anche di tanti architetti, talentuosi uomini d’arte, letterati e musicisti che hanno accompagnato il suo divenire. info https://palazzoducale. visitmuve.it; facebook visitmuve ducalevenezia; twitter visitmuve_it, visitmuve_en, ducalevenezia; instagram visitmuve ducalevenezia

Appuntamenti PAVIA PROGETTO DANTE Castello Visconteo e Broletto fino al 22 ottobre

profondo tanto per i critici che per i lettori per arrivare a una comprensione piú profonda della Commedia. Nella mostra sono dunque esposte per la prima volta tutte le opere da Dante esplicitamente citate e presumibilmente lette, quindi parte d’una sua «biblioteca», secondo i piú recenti accertamenti e secondo un percorso rappresentativo del suo iter intellettuale e poetico. Sono stati per lo piú selezionati codici dei secoli XIII e XIV, ovvero libri che corrispondono alle tipologie manoscritte che Dante potrebbe aver praticato; e si possono inoltre ammirare codici provenienti dal fondo duecentesco della biblioteca di Santa Croce, il convento fiorentino che, secondo gli studi piú recenti, potrebbe aver ospitato la prima formazione del poeta. info www.lincei.it VENEZIA VENETIA 1600. NASCITE E RINASCITE

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Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25 marzo 2022

«L’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedí Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fú dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...»: il mito di Venezia sta anche nella leggenda della sua fondazione, raccontata cosí nel Chronicon Altinate (XI-XII secolo) e coincidente con la posa della prima pietra della chiesa di S. Giacometo a Rivoalto il giorno dell’Annunciazione alla Madonna. Una leggenda che, tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise insieme racconti che si erano intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del valore di Venezia: città eletta da Dio. Che ora celebra i suoi 1600 anni anche con una mostra messa in scena – è il caso di dire – nel luogo simbolo del potere e della

gloria della Serenissima: il Palazzo dei Dogi in piazza San Marco. L’esposizione vuole raccontare – attraverso oltre 250 opere d’arte, manufatti antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno segnato la storia di Venezia, scegliendo un punto di vista inedito, cioè quello degli innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle altrettante rigenerazioni e rinnovamenti che hanno segnato la sua esistenza. «Nascite e rinascite»: tappe salienti della storia e dell’identità di Venezia piú volte chiamata a ridisegnare il suo futuro e ripensare il suo destino, testimoniate dalle opere e dai documenti dei massimi artisti che in laguna hanno operato nell’arco di quasi un millennio – Carpaccio, Bellini, Tiziano, Veronese, Tiepolo, Rosalba Carriera, Guardi e Canaletto, fino a Canova, Hayez, Appiani; e poi Pollock, Vedova, Tancredi, Santomaso – ma

Pavia rende omaggio al sommo poeta con un ricco calendario di iniziative, fra cui un ciclo di incontri, organizzato con la consulenza del Comitato di Pavia della Società Dante Alighieri, che mira ad approfondire la figura dell’autore della Divina Commedia e a scoprire le ragioni del suo successo, immutato dopo 700 anni. 22 ottobre, ore 18,00, Castello Visconteo «Dal peccato alla virtú: l’amore in tre canti della Commedia», commento di Mirko Volpi (ricercatore di linguistica italiana, Università di Pavia), lettura di Davide Ferrari (attore). info tel. 0382 399343; e-mail: cultura@comune.pv.it; www.vivipavia.it

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MEDIOEVO



la donna nel medioevo

Ai tempi che

Radegonda scriveva...

incontro con Chiara Frugoni, a cura di Furio Cappelli

(...e Margherita gestiva l’azienda)

Quando nasce l’immagine della donna «incapace, volubile e cedevole al peccato»? Una nuova indagine condotta da Chiara Frugoni svela genesi e risvolti storici di uno stigma di perdurante attualità e duro da sradicare. E ci racconta come, contro quella «mentalità medievale», si ergono, luminose, alcune straordinarie figure femminili 34

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I

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l nuovo libro di Chiara Frugoni, Donne medievali. Sole, indomite, avventurose, ci guida alla scoperta della condizione femminile in un’epoca – il Medioevo, appunto – che, secondo la nostra visione della storia, ha fissato alcuni luoghi comuni sul ruolo e sulla capacità della donna stessa, tanto da condizionarne l’immagine e l’esistenza fino ai nostri giorni. Senza negare l’effettiva responsabilità di uomini e istituzioni del tempo (per prima la Chiesa) nel creare lo stigma di una donna incapace e volubile, l’indagine riscopre spazi di libertà e di espressione nei quali proprio la donna medievale poté giocare un ruolo da protagonista. E il racconto, nello stile ormai consolidato della studiosa, si giova di un armonico connubio tra i testi letterari e le immagini dell’epoca. Abbiamo dunque incontrato Chiara Frugoni, per discutere con lei dei temi portanti di questo suo nuovo saggio.

In alto Chiara Frugoni. A sinistra, sulle due pagine Venanzio Fortunato legge le sue poesie a Radegonda VI, olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1862. Dordrecht, Dordrechts Museum.

rofessoressa, a partire dal titolo, apP pare evidente il suo coinvolgimento personale, ben al di là degli interessi specificamente storici. C’è una forte dimensione di attualità, proprio perché il problema della condizione femminile è tutt’altro che risolto... «Incombe un senso perdurante d’inferiorità o di alterità, e lo si avverte anche nel mondo degli studi, che riserva al tema un’attenzione specifica. Georges Duby e Michelle Perrot hanno curato una Storia delle donne, come se si trattasse di una specie a parte. Uno dei titoli possibili che avevo preso in considerazione per il mio libro era La metà sprecata, perché mi sembra che nel mondo – anche in Occidente – tante donne piene di talenti non vengano valorizzate abbastanza. Lo si vede, per esempio, anche nel linguaggio, sempre declinato al maschile, soprattutto in contesti di rappresentanza. Si sente parlare di “presidente” e poi magari si scopre

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la donna nel medioevo rico, fornendo una chiave di lettura della realtà attuale... «Sí, è un libro che ho scritto pensando di indagare sulla condizione delle donne in generale, per prendere poi come campione alcuni personaggi. Ho cercato di mostrare tipi diversi, ma sempre con un occhio rivolto anche al presente, perché mi sembra che ci sia un filo ininterrotto che parte dal Medioevo e arriva fino ai nostri giorni. Non si tratta solo di emarginazione, perché incontriamo persone – intendo uomini e donne –, che vogliono invece difendere le donne e cercare di portarle alla parità di genere».

che a ricoprire quel ruolo è una donna. D’altro canto, se una donna ricoprisse un ruolo tipicamente maschile, trovandosi a capo di un governo, per esempio, avrebbe nella mentalità comune la stessa autorità? Io vorrei vedere che effetto farebbe se dicessimo “la presidente Draghi”».

damentalmente maschile nei secoli, anche nella scienza, perché, in fondo, tutti gli esseri viventi sono classificati da Linneo al maschile, cosicché l’intera evoluzione dell’uomo preistorico è scandita dal termine Homo, come se non ci fossero mai stati donne e bambini. Io continuo a sostenere che sarei felice se non ci fosse piú la festa della donna e che quindi non ci fosse piú bisogno di festeggiarla, proprio perché non esiste la festa dell’uomo. Se questa ricorrenza venisse abolita, saremmo davvero arrivati alla parità».

S i tratta di un problema di mentalità che ha una lunga storia... «Questo linguaggio è rimasto fon-

I l tema affrontato nel libro, in fondo, riporta il problema della condizione femminile a un preciso contesto sto-

Miniatura raffigurante Matilde di Canossa, in trono, tra il monaco Donizone e il suo vassallo Arduino della Palude, dal manoscritto originale della Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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er capire come certi stereotipi si P siano affermati nel tempo, è sicuramente molto importante partire dalla Bibbia... «La Bibbia è senz’altro il fondamento, però direi che occorre soprattutto soffermarsi sulla scelta che la Chiesa ha operato in merito al racconto della creazione. Infatti, nella Bibbia ci sono uno accanto all’altro due racconti del Genesi. In uno si dice che Dio creò l’uomo maschio e femmina, e non si parla di Adamo ed Eva. Sia gli uomini che gli animali sono vegetariani, e questo è detto molto chiaramente. Si tratta quindi di una rappresentazione del creato in cui non c’è violenza, non c’è morte, non c’è alcun divieto, e, soprattutto, non c’è alcun peccato. Finisce in maniera del tutto positiva, con l’invito a moltiplicarsi e a crescere. Poi c’è un altro racconto, che risale a un’epoca diversa, piú antico e per cosí dire piú rozzo, in cui un Dio imperfetto crea e continuamente sbaglia, tanto che, dopo aver generato Adamo, lo mette a lavorare, ma lui sostiene di non farcela da solo. E allora Dio crea gli animali, perché lo aiutino, ma, a quel punto, Adamo si lamenta di non avere qualcuno accanto a sé. Da una sua costola Dio crea quinottobre

MEDIOEVO


Formella marmorea raffigurante Dio che crea Eva, facendola nascere da una costola di Adamo, particolare della decorazione realizzata dal Maestro Nicolò per la basilica di S. Zeno, a Verona. 1140-1150 circa.

MEDIOEVO

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la donna nel medioevo di Eva, ma crea anche l’albero del bene del male e già stabilisce un divieto. Il fatto stesso che il serpente si sia rivolto a Eva, rivela come si pensasse che la donna fosse piú cedevole, e quindi, fin all’inizio, non c’è una parità. Comunque questo secondo racconto è stato sempre prescelto dalla Chiesa, dimenticando assolutamente il primo, con la conseguenza che si caricava su Eva tutto l’onere del peccato. Ma non c’è solo un aspetto riconducibile alle Scritture. Io direi che il grandissimo peggioramento di mentalità verificatosi nel Medioevo nei riguardi delle donne risale all’epoca di papa Gregorio VII (1073-1085), quando i sacerdoti non poterono piú sposarsi. Tale divieto fu imposto dalla Chiesa, soprattutto per poter rientrare in possesso dei terreni di propria giurisdizione, dal momento che i preti che si sposavano mettevano al mondo figli che, spesso, diventavano a loro volta preti, cosicché tutti i possedimenti passavano di padre in figlio. Per porre fine a tutto ciò, c’è stata quindi un’azione molto violenta e crudele allo scopo di cacciare mogli e figli. Molti preti – asserendo di non essere angeli – hanno anche tentato di opporsi con una vera e propria rivolta, ma sono stati sconfitti, e si sono dovuti cosí adeguare alla norma. E quindi che cosa succede da quel momento? Quella che era la compagna del prete diventa l’occasione del suo peccato. Il prete deve fuggire dalla donna e aumenta di conseguenza la misoginia della Chiesa».

mente come pedine per unire i patrimoni. Le unioni, per lungo tempo, d’altro canto, erano stabilite esclusivamente in forma di contratto. Ricordiamo infatti che il matrimonio è l’ultimo dei sacramenti che la Chiesa riconosce, e ciò avviene soltanto alla fine del XII secolo. Ebbene, con questa logica che mette in primo piano le esigenze patrimoniali, si giunge facilmente a situazioni limite. Per esempio, racconto di una bambina inglese, di nome Grazia, che, all’età di 11 anni, agli inizi del XIII secolo, era stata già sposata quattro volte: comincia a sposarsi a quattro anni e viene continuamente ceduta, se non rivenduta, con l’appoggio del re in persona, che riceve notevoli quantità di denaro per acconsentire a tutto ciò. Si tratta senz’altro di una

storia terribile, spero abbastanza rara, che dimostra come le donne fossero appunto manovrabili come i pezzi di un gioco da tavolo. Potevano essere anche rimandate a casa se una famiglia trovava una sposa migliore e, in generale, rimanevano fondamentalmente persone estranee. Erano guardate a vista, quasi come prigioniere, e certamente non erano amate». er sdrammatizzare, possiamo riP cordare che questo concetto dell’estraneità della donna in casa è stato espresso in tempi a noi vicinissimi da un personaggio molto popolare... «Sí. A questo proposito ho riportato una frase di Alberto Sordi che

Miniatura raffigurante Christine de Pizan nel suo studio, da un’edizione della Cité des Dames illustrata dal Maestro di Margherita di York. Bruges, 1475. Londra, British Library.

n ruolo molto importante era anU che giocato dalla società laica, che ostentava una certa rigidezza nei riguardi della donna... «Di fianco alla Chiesa abbiamo infatti una società feudale molto attenta ad accrescere la propria ricchezza. In un tale contesto le donne sono percepite semplice-

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Miniatura raffigurante la Giustizia che fa il suo ingresso nella «città delle dame», una società ideale in cui le donne si distinguono per le loro doti, da una raccolta degli scritti di Christine de Pizan nota come The Book of the Queen e illustrata dal Maestro della Cité des Dames. 1410-1414 circa. Londra, British Library.

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la donna nel medioevo mi aveva molto colpito. Non si era mai sposato e aveva detto: “E che so’ matto? Me metto n’estranea dentro casa?”. Questo per dire come una certa mentalità, sia pure in un modo ben piú lieve, si sia protratta nel tempo». questa situazione si aggiungeva A l’emarginazione culturale della donna: una triste realtà, ampiamente rilevata nella sezione introduttiva del libro... «La situazione della donna nel Medioevo era estremamente svantaggiata anche per il fatto che predicatori e pedagoghi di quell’epoca si affannano a dire che le bambine Miniatura raffigurante la papessa Giovanna che partorisce nel corso di una processione, da un’edizione in lingua francese del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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non devono andare a scuola. Secondo la loro concezione, la formazione culturale per le donne è completamente inutile perché devono diventare solo buone spose e, soprattutto, buone madri, a meno che non entrino in monastero. La loro intelligenza quindi non era minimamente valorizzata». assiamo alle cinque figure chiave P illustrate nel libro... «Ho cominciato con una monaca, ex regina, vissuta circa 1500 anni fa: Radegonda (520-587). Mi è sembrata estremamente interessante, perché di costei abbiamo delle fonti coeve che ci permettono di vederla come attraverso un prisma. Ognuna di queste fonti, infatti, ha un punto di vista diverso. Prima di tutto era molto amica di un poeta, Venanzio Fortunato (540 circa-600 circa), che le dedica una biografia nella quale tende

a sottolinearne l’estrema ascesi, dicendo che era stata costretta a sposarsi con il re merovingio Clotario I (511-561). Il suo disgusto per questo matrimonio e per questa unione carnale, le penitenze spaventose con cui si procurava ustioni terribili, fanno sí che venga presentata come una santa, dedita tutta a penitenza, ascesi e autopunizione. Tuttavia, mentre la biografia è molto legata a un certo stereotipo delle vite dei santi, abbiamo anche le poesie che Venanzio si scambiava con la monaca, come pure con la giovane badessa Agnese. Purtroppo, le poesie di risposta di Radegonda sono andate perdute, dal momento che scriveva su tavolette di cera, però, dai riferimenti del poeta, emerge tutto un altro lato della sua personalità. Venanzio era golosissimo, era un amante della buona tavola, e le due monache incoraggiavano e andavano incontro ai suoi desideri inviando manicaretti sopraffini, molto curati anche nella presentazione. C’è anche uno scambio di doni, di fiori e di primizie, dove le due monache sono ben liete di accogliere tutti gli omaggi che il poeta invia. Come possiamo vedere nell’altra biografia scritta dalla consorella Baudonivia, agli inizi del VII secolo, Radegonda ha peraltro condotto nel monastero un’azione politica molto benefica e forte in un’epoca estremamente brutale, nella quale nascevano continuamente conflitti e delitti efferati. Si vede bene come lei abbia cercato continuamente di portare pace. E questa biografia – molto rara, proprio perché scritta da una donna, per di piú di una epoca tanto lontana – ci permette quindi di vedere ancor meglio un altro aspetto del personaggio. Il desiderio di sottolineare l’importanza del suo operato è legato a una congiuntura molto particolare. Il corpo di Radegonda non era conservato nel monastero di S. Croce ottobre

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Miniatura raffigurante un padre che obbliga sua figlia a sposarsi, contro la volontà della madre, chiedendo la mano del futuro sposo, che la tende senza alcuna esitazione, da un’edizione del Decretum Gratiani. Metà del XIII sec. Tours, Bibliothèque municipale.

di Poitiers, bensí nella chiesa in cui venivano sepolte le monache, fuori dalle mura urbane. Poiché, dopo la sua morte, era scoppiata una grande rivolta, istigata da due monache di stirpe principesca, la biografa vuole riportare in auge la figura di Radegonda e, non potendo disporre del santo corpo, tutte le cose che la monaca aveva toccato diventano sue reliquie miracolose. Abbiamo inoltre un codice, databile tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo, che è una biografia figurata, con tutta la sua storia e una ulteriore interpretazione del personaggio. Mettendo insieme queste immagini e le diverse voci della narrazione letteraria, ricaviamo il profilo di una personalità tutt’altro che scontata e ricca di risvolti, al di là della qualifica di santa e di asceta di Radegonda, che si dispiace di non aver potuto preservare la propria purezza. Attraverso le sue visioni emerge poi tutta la sua affettività. Vi sono, per esempio, racconti molto belli, in cui Cristo le chiede perché sia sempre cosí insicura, dal momento che lui è sempre vicino a lei e la cinge con le sue braccia».

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anno seguito due donne che hanno F fatto parlare molto di sé... «Dopo Radegonda, ho pensato di rivolgere lo sguardo a due donne molto importanti, legatissime alla Chiesa. La prima, nota in tutti i manuali scolastici, è Matilde di Canossa, resa famosa dall’azione condotta durante il dissidio tra l’imperatore Enrico IV e papa Gregorio VII. Riuscí a propiziare una pace, sia pure di breve durata, tra il sovrano e il pontefice e, di solito, viene appunto studiata per la sua azione politica e per l’aiuto alla Chiesa, mentre io ho cercato di metterne in luce la vicenda personale. Ho dunque portato in primo piano i due matrimoni di Matilde, estremamente sfortunati, e come lei si sia comportata nei riguardi dei due mariti (Goffredo il Gobbo, duca di Lorena, e Guelfo V di Baviera, n.d.r.). E, per capire come fosse percepita, in tutta la sua regalità e “virilità”, ci aiutano le immagini, come la miniatura che la ritrae nell’atto di donare un pallio mentre presenzia alla traslazione delle reliquie di san Geminiano, patrono di

Modena, e poi proprio nella Porta dei Principi della cattedrale emiliana – secondo una mia nuova lettura – lei è rappresentata in una storia in veste di regina, e credo di averlo potuto dimostrare. L’altra donna, in realtà, non è mai esistita, ma la sua storia è stata creduta come veritiera e quindi ha ossessionato per secoli la Chiesa. Si tratta della papessa Giovanna. Grazie a questa figura possiamo vedere quanto la Chiesa stessa fosse terrorizzata dalla possibilità che la donna arrivasse al sacro, in modo da toccare un calice, fino a dire messa per poi ascendere addirittura alla cattedra di san Pietro. Anche qui troviamo un legame con l’attualità, poiché anche oggi alle donne è proibito diventare sacerdoti, e neanche possono aspirare al rango di diaconi. Resiste quindi l’idea che la donna debba essere lontana dai sacri riti. Tornando a Giovanna, attraverso una serie di cronache è possibile vedere i diversi modi con cui questa figura è stata trattata. In un racconto si evidenzia che era estremamente colta, ma, quando diventa

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la donna nel medioevo papessa, il diavolo interviene, cosicché cede alla carne. Si torna cosí allo stereotipo di Eva peccatrice. Giovanna viene scoperta allorché, durante una processione, partorisce un bambino. Ci sono poi diverse varianti: in una viene lapidata e uccisa, ma in un’altra si pente, diventa monaca e addirittura compie alcuni miracoli. Di lei parla anche Giovanni Boccaccio. Il fatto che fosse cosí colta e avesse scelto di vestire i panni di un uomo per poter continuare a studiare, fa emergere l’ammirazione dello scrittore per questo personaggio, ma ben presto questa luce positiva si dissolve. Boccaccio infatti, si sente in obbligo di far concludere la storia in un modo del tutto negativo, secondo una modalità narrativa che potremmo definire di maniera». e ultime due donne che incontriaL mo sono sicuramente autentiche sorprese per molti lettori, per l’estrema ricchezza della loro personalità e della loro esistenza... «Christine de Pizan (1364 circa-1430 circa) era rimasta vedova estremamente giovane. Aveva avuto in questo caso un matrimonio felice. Proveniva da una famiglia che vantava connessioni con i re di Francia, tanto che il padre era medico e astrologo di corte. Alla morte del marito, dopo un periodo di smarrimento, decide di mantenere sé e i propri familiari (i suoi bambini, la madre e una nipote) grazie alla scrittura, e ci riesce, conseguendo un grande successo. Ho cercato di mostrare la sua grande bravura non solo nello scrivere, ma anche nel far leva in maniera molto oculata sulle sue amicizie a corte. Offre le sue opere al re, alla regina e ai fratelli del re, e ha il coraggio di entrare nel dibattito sul valore letterario del Roman de la rose: attacca in modo molto violento Jean de Meung, l’autore della seconda parte del poema (fine del

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XIII secolo), che mostra una certa volgarità e una forte misoginia. Con un colpo di genio, Christine raccoglie in un pamphlet tutti i pro e i contro sulla questione e, quando questo suo lavoro viene presentato a corte, il dibattito diviene pubblico e lei stessa diviene un personaggio pubblico. A quel punto, non è piú la donna che scrive e offre poesie di maniera per mantenersi, perché assume in questo modo una dimensione politica. Tra le sue opere mi sono soffermata su La città delle Dame, scritta in difesa delle donne. Contiene idee veramente geniali, con una grande vena di humour e di sarcasmo. È un libro divertente, che si legge veramente con piacere. Vi si manifesta una grande intelligenza. Christine si chiede come mai le donne siano trattate come sciocche e vanitose e trova la causa di ciò nel fatto che non vanno a scuola, e quindi non vengono istruite. C’è quindi una disparità di educazione, che comporta una disparità anche nella vita. Credo anche di aver detto qualche cosa di nuovo su come lei si fosse organizzata con una vera e propria azienda, con uno staff di miniatori e copisti che erano fondamentali per la divulgazione delle sue opere, non esistendo ancora i libri a stampa». proposito di Christine, per poter A esaltare le sue qualità intellettuali nel modo migliore, occorreva dire sul suo conto che era «un vero uomo», come se una donna, per poter aspirare ad avere un minimo di riconoscimento, possa e debba rinunciare alla propria femminilità... «Lei invece non vi rinuncia affatto, ma pensa di essere uomo nel senso che diventa capofamiglia come se fosse un uomo, al posto del marito, tanto da recuperare tutti i crediti che lui non era riuscito a riscuotere. Christine decide di non risposarsi piú, tanto che, in una visione molto signi-

ficativa che racconta, perde un anello che allude alle nozze. Decide in tal senso proprio perché è estremamente fiera e pensa di non aver bisogno di un marito. In una situazione in cui si pensa che la donna debba essere custodita, che qualcuno debba proteggerla, lei, invece, si sente a tal punto padrona dei propri mezzi e delle sue capacità intellettive che rinuncia ad avere un marito, ma non nel senso della rinuncia di una monaca. Il suo matrimonio è stato breve e felice, ma racconta di quanto gli uomini fossero estremamente brutali e violenti con le donne. In questo senso si sente equiparata a un uomo che può tranquillamente decidere di non sposarsi». rriviamo cosí alla tenace e intraA prendente moglie di un mercante... «Concludo con Margherita Datini, moglie di Francesco (1335 circa-1410), grande mercante di Prato. Questi era preso da compravendite di ogni genere, stava quasi sempre lontano, era molto infedele, però scriveva quasi tutti giorni alla moglie, dandole indicazioni su come gestire il suo enorme palazzo, con circa una trentina di persone a cui dover badare. Le diceva, per esempio, quando innaffiare l’aranceto, quello che doveva fare a proposito del vino o dell’agresto (che si produceva con la cottura del mosto di uve acerbe); le chiedeva il pane, la biancheria, e queste lettere sono sempre cadenzate dall’espressione: “ricordati... ricordati... ricordati...”. Lei, che all’inizio sapeva leggere solo le preghiere scritte in gotico e non la grafia mercantesca del marito, ma non sapeva scrivere, detta queste lettere e risponde sempre molto a tono, e alla fine, per dimostrare al marito quanto fosse brava, riesce a imparare a scrivere utilizzando la scrittura mercantesca. E ci riesce da sola. Purtroppo, Margherita non poteva avere figli e se ne rammaottobre

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Da leggere Chiara Frugoni, Donne medievali. Sole, indomite, avventurose, il Mulino, Bologna, 424 pp., ISBN 978-88-15-29410-4 www.mulino.it

La Trinità con Francesco Datini, la piccola Ginevra e Margherita, tempera su tavola. 1405-1410 circa. Roma, Musei Capitolini, Pinacoteca.

ricava. Tale circostanza indusse il marito ad avere vari figli naturali dalle schiave che aveva in casa, che muoiono tutti, tranne Ginevra, l’ultima, che la moglie accetta in casa come fosse una figlia. Le si affeziona molto, ed emerge cosí una Margherita in veste di madre che si preoccupa della bambina, che si accerta che sia ben vestita con un certo tipo di bottoni. Quando Ginevra è fuori casa, a Firenze, si premura di inviare gli ingredienti per delle frittelle che piacciono molto alla piccola. Questa donna infelice ma innamorata del proprio marito, si rivela insomma molto abile nel gestire l’azienda, e però anche molto conscia della propria bravura. Lei dice che si sentirebbe già in pace se venisse riconosciuta solo la metà di tutto quello che fa». er concludere, a proposito della viP sione della donna in relazione alla Bibbia e alla interpretazione che ne fa la Chiesa, nel libro è citata una frase del filosofo trecentesco Egidio Romano: le donne vengono definite «instabili e mobili nella volontà e nel desiderio». È un superconcentrato di luoghi comuni, che sembra preludere alla donna «mobile» del Rigoletto di Giuseppe Verdi, testimoniando l’esistenza di uno stereotipo senza tempo... «Sí, è vero! E accadeva cosí già nel Medioevo per una serie di premesse culturali, poiché se a una donna non viene insegnato nulla oltre a filare e a cucinare e le si inculca l’idea che è portatrice di peccato e inferiore all’uomo, non si danno le basi affinché possa fiorire. Deve essere eccezionalmente intelligente per poter avere successo, oppure deve farsi monaca».

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Ci t t àdi Vi t er bo As s es s or a t oa l l aCul t ur a a l T ur i s moea l l oS por t


VITERBO, UNA CAPITALE DEL XIII SECOLO

Vent’anni in trasferta

di Elena Percivaldi

Un suggestivo scorcio del centro di Viterbo, visto dall’interno della loggia detta «delle Benedizioni» del Palazzo dei Papi.

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Alla metà del Duecento, con mezzo secolo d’anticipo su Avignone, Viterbo fu scelta come sede papale per sfuggire ai tumulti che agitavano la città di Roma. E il capoluogo della Tuscia vide avvicendarsi al soglio di Pietro ben nove pontefici

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el 1257 Alessandro IV, al secolo Rinaldo dei conti di Ienne, trasferí la curia papale a Viterbo, stabilendosi nel ricco palazzo del vescovo, in posizione panoramica a strapiombo sulla valle di Faul (nome derivato dalla fantasiosa ipotesi del domenicano Annio da Viterbo, secondo il quale sarebbe formato dalle iniziali dei quattro centri etruschi da cui avrebbe avuto origine Viterbo, e cioè Fano, Albano, Vetulonia e Longula, n.d.r.). Il ritiro del pontefice in Tuscia era stato dettato dalla pe-

sante situazione politica in cui si dibatteva allora Roma, sede tradizionale del papato. Nell’agosto del 1252, regnante Innocenzo IV, il ghibellino bolognese Brancaleone degli Andalò, conte di Casalecchio era infatti divenuto podestà dell’Urbe, inviatovi dal Consiglio della città felsinea su richiesta del Comune romano, intenzionato a darsi propri ordinamenti per sottrarsi alla sempre piú soffocante anarchia baronale. A Roma, Brancaleone era stato nominato senatore e poi capitano del popolo per un triennio, ma

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viterbo capitale/2 aveva accettato la carica a condizione di ricevere, a salvaguardia della propria incolumità personale, alcuni membri delle famiglie baronali romane e inviarli a Bologna nelle mani dei suoi parenti in qualità di illustri ostaggi. L’aver adottato questa precauzione, cosí come la pur riconosciuta imparzialità di giudice e l’acclarata abilità di politico che egli poteva vantare, non aveva tuttavia impedito il serpeggiare di un crescente malcontento da parte dei baroni romani, che consideravano Brancaleone il campione delle classi popolari contro l’egemonia esercitata per secoli dall’aristocrazia. Nel novembre del 1255, dopo una breve prigionia nel castello di Passerano (nei pressi dell’odierna Gallicano nel Lazio, n.d.r.) Brancaleone aveva dovuto lasciare la città nelle mani del nuovo podestà imposto dalla fazione nobiliare, il bresciano Emanuele de’ Maggi. La situazione era rimasta incandescente grazie all’appoggio che Brancaleone godeva sia dentro che fuori in città e nemmeno il nuovo papa Alessandro IV, salito al soglio di Pietro dopo la morte di Innocenzo IV avvenuta il 7 dicembre 1254, riuscí a riportare la pace nell’Urbe: troppo forti i suoi legami con la ricca e potente famiglia nobiliare degli Annibaldi, alla quale era imparentato, invisa ai seguaci dell’Andalò. Nel maggio del 1257 era scoppiata in città una nuova rivolta. Maggi era stato deposto (e forse eliminato) dal popolo e il Comune aveva richiamato il ghibellino Brancaleone, eleggendolo senatore, questa volta senza limiti di tempo. Vista la mala parata – Brancaleone aveva fatto distruggere un centinaio di torri baronali e impiccare due membri degli Annibaldi –, Alessandro IV preferí a quel punto fuggire a Viterbo, dando avvio alla teoria dei papi «viterbesi» – nove in tutto, lui compreso – cosí chiamati non in quanto originari della

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città, ma perché mantennero, durante il loro pontificato la sede del papato nel capoluogo della Tuscia, con l’unica eccezione dell’ultimo, Martino IV, che preferí lasciare la città subito dopo l’elezione. Alessandro IV morí il 25 maggio 1261 e venne sepolto in gran segreto, per evitare possibili profanazioni alle spoglie, nella cattedrale di S. Lorenzo, in un luogo rimasto a tutt’oggi ignoto. La delicata situazione politica impedí ai pochi cardinali presenti in quel momento a Viterbo, sette in tutto, di procedere con sollecitudine alla scelta del successore; non riuscendo a trovare un accordo, i porporati scelsero dunque di affidarsi a due dei loro colleghi piú influenti, i cardinali Riccardo Annibaldi e Giovanni Gaetano Orsini, chiedendo loro di proporre un candidato su cui convergere.

Un’ascesa inarrestabile

Alla fine di agosto, dopo quasi tre mesi di vacanza del soglio, essi scelsero il francese Jacques Pantaléon, nativo di Troyes, estraneo al Sacro Collegio, ma presente in quel momento in città per dirimere, in quanto patriarca di Gerusalemme, una spinosa questione che riguardava i cavalieri di San Giovanni. La scelta del prelato, che pur non essendo nobile di nascita era riuscito a scalare i vertici delle gerarchie ecclesiastiche, dimostrando notevoli capacità politiche, trovò il gradimento degli altri aventi diritto al voto. L’elezione di Pantaléon avvenne il 29 agosto e, il 4 settembre, il nuovo papa poté insediarsi con il nome di Urbano IV. Il suo pontificato sarebbe stato ricordato non solo per la solerzia con cui ricambiò i favori dei suoi due «grandi elettori» – dei 14 nuovi cardinali da lui nominati, ben quattro erano loro consanguinei –, ma anche per aver continuato la ferrea politica antisveva già iniziata dai suoi predecessori. Urbano IV osteggiò infatti con forza Manfredi, re di Sicilia, rinno-

vandone la scomunica già in essere: il figlio dell’imperatore Federico II, infatti, era ritenuto dalla Santa Sede un usurpatore in quanto si era impadronito del regno senza la sua approvazione. Manfredi fu dichiarato deposto e sul cruciale trono siciliano il papa brigò per collocare un sovrano piú influenzabile: un piano, il suo, che decapitando il riferimento dei ghibellini in Italia andava a coincidere con quello elaborato dal cardinale Annibaldi, il quale a sua volta stava cercando di scalzare il partito ghibellino dal governo dell’Urbe per sostituirlo con uno piú vicino alle posizioni guelfe. In risposta alla scomunica, Manfredi e i suoi sostenitori tentarono una serie di operazioni militari tra Umbria, Marche e il litorale laziale, tese a isolare o addirittura imprigionare il pontefice. Per sfuggire a una possibile cattura, Urbano IV fu dunque costretto a lasciare Orvieto, dove soggiornava momentaneamente, per rifugiarsi a Perugia e da qui inviare a Carlo d’Angiò, fratello di re Luigi IX di Francia, un accorato messaggio di aiuto, sollecitandone la discesa in Italia cosí da porre fine alla minaccia sveva. Urbano non fece però in tempo ad assistere agli esiti della spedizione di Carlo: spirò infatti nel convento di S. Francesco di Deruta, non lontano da Perugia, il 2 ottobre 1264, a causa di un malore improvviso. Sotto l’ormai incombente minaccia sveva, il Collegio cardinalizio, riunitosi proprio a Perugia, elesse nuovo papa un altro cardinale francese, Gui Foucois, che salí al soglio di Pietro con il nome di Clemente IV. La scelta fu motivata dalla necessità di affidare la Santa Sede, visto il momento travagliato, a un uomo di polso ed esperienza: Gui infatti, oltre che un fine giurista, era stato consigliere di Luigi IX e, fino alla sua morte, anche dello stesso Urbano. (segue a p. 52) ottobre

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A sinistra ritratto di Alessandro IV, il pontefice che inaugurò la serie dei papi «viterbesi».

In alto e in basso grosso in argento battuto dalla zecca di Roma al tempo di Brancaleone degli Andalò, che fu senatore e capitano del popolo della città capitolina.

Dopo la morte di Alessandro IV, i cardinali faticarono ad accordarsi sul nome del suo successore, che fu infine individuato, dopo tre mesi di vacanza del soglio pontificio, nel francese Jacques Pantaléon MEDIOEVO

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I papi di Viterbo 1. Alessandro IV al secolo, Rinaldo dei conti di Segni († 1261); eletto papa il 15 dicembre 1254. 2. U rbano IV al secolo, Jacques Pantaléon († 1264); eletto papa nel 1261. 3. C lemente IV al secolo Gui Faucois († 1268); eletto papa il 5 febbraio 1265. 4. G regorio X al secolo, Tebaldo Visconti († 1276); eletto papa il 1° settembre 1271. 5. Innocenzo V al secolo, Pietro di Tarantasia († 1276); eletto papa nel gennaio 1276. 6. A driano V al secolo, Ottobono dei Fieschi († 1276); eletto papa l’11 luglio 1276. 7. G iovanni XX al secolo, Pietro di Giuliano (portoghese Pedro Julião; † 1277); eletto papa nel settembre 1276. 8. N iccolò III al secolo, Giovanni Gaetano Orsini († 1280); eletto papa nel 1277. 9. M artino IV al secolo, Simone de Brion († 1285); eletto papa il 12 febbraio 1281.

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viterbo capitale/2 Lasciata la Francia ed entrato in Italia in incognito a causa del blocco navale imposto sulle coste dalle armate sveve, Clemente IV si insediò il 15 febbraio 1265 provvedendo subito a rinnovare la scomunica di Manfredi e a gettare le basi per favorire l’avanzata di Carlo d’Angiò verso il trono di Sicilia. Ricevuta nell’Epifania del 1266 la corona in S. Giovanni in Laterano alla presenza di cinque cardinali, tra i quali l’Annibaldi, l’Angiò giurò quindi obbedienza alla Chiesa e si

accinse a marciare contro Manfredi, sconfiggendolo definitivamente il 26 febbraio 1266 nella decisiva battaglia di Benevento. La morte dello svevo, caduto dopo un’eroica resistenza, pose fine alle velleità ghibelline in Italia, che con poche eccezioni passava da quel momento sotto l’influenza guelfa.

Rigoroso e inflessibile

Oltre che per la «crociata» contro Manfredi e suo nipote Corradino, sconfitto dallo stesso Carlo a Ta-

gliacozzo (23 agosto 1268) e decapitato a Napoli con l’approvazione papale, il mandato di Clemente IV è ricordato per il rigore con cui perseguitò gli eretici – sua l’autorizzazione, nel 1265, all’uso della tortura nei processi – e per il trasferimento della corte nel palazzo vescovile di Viterbo, da quel momento in poi Palazzo dei Papi, ampliato e ristrutturato mediante l’aggiunta della celebre «Loggia delle benedizioni». Anche per questo fu amatissimo dai Viterbesi, che lo consideravano alla stregua di un santo. La sua morte improvvisa, il 29 novembre 1268 a causa di un malore, mise però di nuovo il Collegio cardinalizio in difficoltà a causa della scarsa concordia esistente tra i porporati, suddivisi per appartenenza familiare o per opportunità politica tra il partito filoangioino e quello, mai sopito, dei filoimperiali. La conseguenza di ciò fu la piú problematica e accidentata elezione papale mai sperimentata dalla Santa Sede, conclusasi dopo quasi tre anni nel primo conclave della storia. Dopo sempre piú pesanti, e anche poco ortodosse, pressioni ai cardinali perché trovassero un accordo – non si esitò a scoperchiare il tetto dell’aula dove i prelati erano riuniti e a tagliar loro i viveri perché accelerassero le operazioni di voto – e

A sinistra il ritratto di Gregorio X che sormonta la tomba del pontefice nella cattedrale dei Ss. Pietro e Donato ad Arezzo. Nella pagina accanto Pernes-lesFontaines, Tour Ferrande. Particolare del ciclo pittorico che narra la conquista della Sicilia da parte di Carlo I d’Angiò: il sovrano riceve il diploma papale con il quale viene consacrato re di Sicilia. XIII sec.

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viterbo capitale/2 Manfredi riconosciuto davanti ai suoi familiari da Carlo d’Angiò, olio su tela del pittore vicentino Pietro Roi. 1855. Sandrigo (Vicenza), Municipio. Figlio naturale di Federico II e di Bianca Lancia, poi legittimato, Manfredi trovò la morte nella battaglia combattuta a Benevento contro l’Angioino nel 1266.

dopo un efferato delitto (il principe Enrico di Cornovaglia, in città per scortare il passaggio a Viterbo del feretro di Luigi IX, morto crociato in Terra Santa, fu assassinato sacrilegamente in chiesa da Guido di Montfort, suo parente), il 1° settembre 1271 i cardinali si decisero a uscire dall’impasse scegliendo il piacentino Tedaldo Visconti, uomo estraneo al collegio cardinalizio e per di piú semplice arcidiacono. Precipitatosi a Viterbo dalla Terra Santa, dove si trovava, Tedaldo fu ordinato prete il 13 marzo e il 27 incoronato pontefice con il nome di Gregorio X, ponendo cosí fine alla vacanza del soglio pontificio piú lunga e travagliata della storia ecclesiastica.

Chiusi a chiave

Onde evitare il ripetersi di simili disguidi e lungaggini, Gregorio X volle riformare le procedure dell’elezione papale, istituendo ufficialmente tre anni piú tardi, durante il secondo concilio di Lione, il «Conclave» (il nome deriva dalla stanza chiusa a chiave, «cum clave» appunto, in cui i votanti si radunavano). In virtú delle nuove disposizioni, contenute nella costituzione apostolica Ubi periculum del 16 luglio 1274, i cardinali avrebbero dovuto recarsi entro dieci giorni nel palazzo dove era avvenuto il decesso del pontefice, accompagnati da un solo attendente. Per tutta la durata delle procedure avrebbero condiviso un’unica sala chiusa a chiave – la sala del Conclave, appunto – per evitare contatti e ingerenze esterne: tutti gli spazi sarebbero stati in comune,

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Viterbo. Uno scorcio del quartiere medievale di San Pellegrino.

salvo i servizi igienici. Durante i lavori, la somministrazione di cibo e bevande sarebbe avvenuta esclusivamente attraverso un’apposita apertura. Trascorsi tre giorni dall’inizio del conclave, qualora l’elezione non si fosse ancora conclusa, il vitto sarebbe stato ridotto a una sola pietanza a pranzo e una a cena; dopo altri cinque, a solo pane, vino e acqua. Per tutta la durata dei lavori nessuno dei porporati avrebbe potuto ricevere messaggi, pena la scomunica. Infine, durante la vacanza della sede pontificia, tutti i proventi ecclesiastici spettanti ai cardinali sarebbero stati trattenuti dal camerlengo per essere poi messi a disposizione del nuovo pontefice una volta eletto. Le nuove normative, per quanto severe (o forse proprio per quello), sortirono il loro effetto. Alla morte di Gregorio X, il 10 gennaio 1276 ad Arezzo, il conclave – il primo davvero «ufficiale» dopo l’entrata in vigore della costituzione – elesse il nuovo pontefice al primo scrutinio, scegliendo il teologo domenicano Pierre de Tarentaise, che il 2 febbraio fu insediato con il nome di Innocenzo V. Il nuovo pontefice si incontrò subito dopo a Viterbo con Carlo d’Angiò, da lui confermato senatore di Roma e vicario di Toscana, e durante il suo breve pontificato, durato cinque mesi e concentrato sulla crociata e sul tentativo di riunificazione con la Chiesa d’Oriente, si trattenne nel capoluogo della Tuscia in tutto soltanto un paio di settimane. Morto Innocenzo, nel luglio 1276 si aprí il nuovo conclave, questa volta a Roma, in S. Giovanni in Laterano, da cui uscí eletto il genovese Ottobono Fieschi con il nome di Adriano V. La sua fu, almeno apparentemente, una scelta di ripiego: anziano e malato, Ottobono venne

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scelto come «papa di transizione», per far cessare le vessazioni operate sul conclave da Carlo d’Angiò, il quale aveva addirittura segregato i prelati riducendo loro i viveri nel tentativo di controllare l’elezione. Adriano V sospese, una volta eletto, la Ubi periculum, per evitare il ripetersi di simili situazioni, ma morí dopo appena un mese nel convento francescano adiacente alla basilica viterbese di S. Francesco alla Rocca, senza avere avuto il tempo di riformare, come pure intendeva, la prassi elettorale.

Un teologo raffinato

Il 3 settembre 1276 si aprí dunque il terzo conclave di quell’anno tribolato, assemblea che si chiuse con l’elezione del lusitano Pedro Julião (noto anche come Pietro Ispano, il primo e unico di origine portoghese), intronizzato il 20 di quello stesso mese con il nome di Giovanni XXI. Anch’egli sospese la Ubi periculum, memore degli abusi subiti nel conclave lateranense. Personalità forte e originale – oltre che raffinato teologo, coltivava la medicina e le scienze, il che fece nascere in seguito dicerie, tra cui quella che si dedicasse alle arti magiche –, Giovanni XXI non fu meno sfortunato dei suoi immediati predecessori, morendo dopo soli otto mesi – ma la cosa non è affatto certa – a causa delle ferite provocate dal crollo del soffitto della stanza che si era fatto costruire nel palazzo papale con vista sulla valle di Faul. Gli ultimi due papi del periodo viterbese furono Niccolò III, nato Giovanni Gaetano Orsini, e Martino IV, al secolo Simon de Brion, di origine francese. Nessuno dei due, però, ebbe stretti legami con la città di Viterbo. Se Niccolò III, da buon esponente della nobile e potente famiglia romana degli Orsini, scelse – e fu il primo a farlo – come sede stabile il Vaticano, dovendo soggiornare in Tuscia preferí sempre Soriano nel Cimino,

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In alto ritratto di Niccolò III (al secolo, Giovanni Gaetano Orsini), olio su tela di Giuseppe Franchi. 1617. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. A sinistra la terrazza del Palazzo dei Priori di Viterbo, con la fontana coronata da una coppia di leoni che sorreggono una palma, simbolo dell’antica città di Ferento.

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dove fece costruire l’imponente fortezza che ancora oggi domina l’abitato (e qui morí il 22 agosto 1280 per un colpo apoplettico). Quanto a Martino IV, la sua elezione avvenne dopo l’ennesimo concitato conclave, durante il quale i due cardinali della famiglia Orsini, Giordano e Matteo, vennero addirittura arrestati dai Viterbesi con l’accusa di voler ritardare i lavori; in realtà, si trattava di una manovra orchestrata da Carlo d’Angiò per liberarsi di due suoi influenti antagonisti, cosí da favorire l’elezione, ancora una volta, di un papa francese a lui vicino. Martino IV, succube di Carlo e sgradito ai Romani, fu incoronato a Orvieto (23 marzo 1281) e si stabilí a Perugia, decretando l’abbandono definitivo di Viterbo come sede papale e segnando cosí la fine, per il capoluogo della Tuscia, di un periodo che, nel bene e nel male, si era rivelato irripetibile.

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In «barba» alla

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di Giuseppe M. Della Fina

Naso aquilino, sguardo corrucciato e severo, ma, soprattutto, guance lisce e glabre: cosí, da sempre, siamo abituati a vedere Dante Alighieri. Ma piú di una testimonianza – nonché il dipinto su cui è incentrata una mostra ora allestita nel Museo «Claudio Faina» di Orvieto – propongono una versione inedita e barbata del sommo poeta

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a mostra «Il vero volto di Dante Alighieri. L’avventura di un quadro» ruota attorno a un singolare ritratto del poeta con la barba. Un’iconografia che non riuscí ad affermarsi, sebbene Giovanni Boccaccio, nel suo Trattatello in laude di Dante, scritto nel 1355 circa, avesse cosí descritto l’illustre collega: «Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso». E di un Dante con la barba parlano, nelle loro opere, anche Filippo Villani, Giannozzo Manetti e Marcantonio Nicoletti. Una tela conservata nell’Ufficio del Sindaco di Orvieto presenta appunto tale caratteristica e il suo ignoto committente sembra avere letto il testo di Boccaccio – di certo la fonte di riferimento per gli altri autori appena ricordati – e aver suggerito al pittore di seguirne la descrizione, considerata evidentemente veritiera. Il dipinto è stato studiato in maniera approfondita per la prima volta in occasione dell’esposizione e, a giudizio dello storico dell’arte Michele Maccherini (Università degli Studi dell’Aquila), il pittore tenne presente il frontespizio del libro Dante con l’espositione di Christoforo Landino et di Alessandro Vellutello.

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In alto frontespizio dell’opera Dante con l’espositione di Christoforo Landino et di Alessandro Vellutello..., stampata a Venezia nel 1564. Il ritratto di Dante che compare nell’ovale avrebbe ispirato il dipinto che mostra il volto del poeta incorniciato dalla barba (vedi foto alla pagina accanto). Nella pagina accanto ritratto di Dante barbato, olio su tela di autore ignoto. Decenni finali del XVI sec. Orvieto, Palazzo Comunale.

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scoperte dante Sopra la sua Comedia dell’Inferno, del Purgatorio et del Paradiso. Con tavole, argomenti e allegorie, e riformato, riveduto e ridotto alla sua vera lettura, per Franc.Sansovino fiorentino, stampato a Venezia «Appresso Giovambattista, Marchionne Sessa et fratelli» nel 1564. Un testo che ebbe una fortuna notevole, tanto che, nel giro di una trentina di anni, si ebbero altre due edizioni, nel 1578 e 1596. Se si escludono l’inclinazione della testa e l’assenza della barba, ha notato Maccherini: «si può verificare come tutti gli altri elementi concordino, a iniziare dalla

corona di alloro che si infittisce sulla fronte diminuendo la dimensione delle foglie, al largo risvolto della camicia, dalla veste ad ampie pieghe, fino alla corda del collo». L’ovale in cui è inserito il Dante barbato prova la sua derivazione da un frontespizio. La differenza principale è proprio la barba, ma, nello stesso volume, in una xilografia interna, posta in apertura del primo canto, il poeta viene cosí raffigurato. La data del dipinto dev’essere quindi successiva a una delle tre edizioni della Comedia di Francesco Sansovino e appare ragionevole ipotizzare che la tela ab-

Sulle due pagine una veduta della città di Orvieto. A sinistra, nel riquadro lapide collocata sulla Torre del Moro con alcuni versi della Divina Commedia.

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bia come ulteriore termine post quem la pubblicazione della Vita Nuoua di Dante Alighieri. Con 15. canzoni del medesimo. E la vita di esso Dante scritta da Giouanni Boccaccio, edita a Firenze nel 1576. Quanto al contesto storico-artistico, Maccherini ha ipotizzato che il pittore si muovesse nell’ambito dei fratelli Zuccari e sia autore anche di un ritratto di Francesco Petrarca – conservato anch’esso nell’Ufficio del primo cittadino di Orvieto – frutto di uno stesso progetto intellettuale. La mostra è stata l’occasione per esaminare il rapporto tra Dante Alighieri e la città di Orvieto, che si

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basa essenzialmente su alcuni versi (106-108) del canto VI del Purgatorio della Divina Commedia, non a caso ricordati su una lapide affissa sulla centralissima Torre del Moro: Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color già tristi, e questi con sospetti! È, peraltro, il medesimo canto che contiene la descrizione dello stato in cui versava l’Italia (versi 76-78):

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scoperte dante Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello! La citazione s’inserisce nel quadro della descrizione della crisi che la Penisola stava attraversando e la città di Orvieto sembra essere considerata un esempio significativo per tentare di comprenderla. La citazione rinvia alle due famiglie protagoniste della politica locale: la prima, i Monaldi (i Monaldeschi), schierati sul fronte guelfo, e i Filippeschi, tra i ghibellini. Confrontati con le due celebri famiglie dei Montecchi e Capuleti (Cappelletti), rispettivamente ghibellina e guelfa, il cui scontro caratterizzò la storia della Lombardia alla metà del Duecento. È interessante analizzare il giudizio storico e contemporaneamente politico formulato da Dante: la parabola discendente dei Montecchi e dei Capuleti ha avuto inizio, mentre quella dei MonalLa statua che ritrae Bonifacio VIII realizzata per la Porta Maggiore di Orvieto da Ramo di Paganello. 1297. L’opera è attualmente esposta nella mostra «Il vero volto di Dante».

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di (Monaldeschi) e dei Filippeschi sta per iniziare. Il che dimostra la sua conoscenza delle due realtà. Soffermiamoci allora su quella orvietana. Da dove può nascere la consapevolezza del caso emblematico rappresentato da Orvieto e del momento che stanno attraversando le due famiglie?

Un impegno significativo

La conoscenza nasce con ogni probabilità dall’impegno politico del poeta, culminato con la nomina a priore nel 1300 e sul quale, in occasione del centenario della sua morte, si è tornati a indagare. Un impegno – sino, almeno, alla condanna all’esilio – significativo nella sua vita: è stato osservato che dei 42 atti giunti sino a noi con il nome di Dante Alighieri, 23 sono stati redatti entro il 1301 e quasi tutti riguardano l’attività politica. In particolare, in base ai documenti, è stato osservato che l’impegno nelle istituzioni si articola in due momenti: tra il 1295 e il 1296 segnato da quattro incarichi, e tra il 1300 e il 1301 caratterizzato da sei incarichi. Negli anni tra le due fasi ebbe forse un incarico nel 1297. La sua carriera avanzò con una progressione rapida e costante: iniziata all’interno dei consigli piú ampi e consultivi nel 1295, passò attraverso il consiglio dei Cento e il collegio dei Savi per l’elezione dei priori nel 1296 e culminò con il priorato nel 1300. Le sue posizioni politiche iniziali sono state avvicinate a quelle sostenute da Remigio de’ Girolami (1240 circa-1319), un domenicano, docente di studi biblici, priore di S. Maria Novella a Firenze e membro di una delle famiglie piú in vista delle Arti Maggiori. Egli si era formato a Parigi, dove era stato allievo di Tommaso d’Aquino nello studium del convento domenicano di Saint-Jacques. Sosteneva un programma moderato, in risposta alle proposte introdotte da Giano della Bella nella vita politica fiorentina, che avevano cercato di ridimensionare in profondità il peso dei magnati. Il rinnovato impegno politico di Dante Alighieri si accompagnò all’avvicinamento alla fazione guelfa dei «bianchi» guidata dalla famiglia dei Cerchi, mentre i «neri», capeggiati dai Donati, al cui interno aveva un peso notevole Corso Donati, divenivano i fedeli alleati di Bonifacio VIII. Dante venne eletto priore nel bimestre 15 giugno-15 agosto 1300. Decaduto dall’incarico, restò vicino alla fazione in quel momento vincente; all’interno del consiglio dei Cento, dove fu cooptato per il semestre aprile-ottobre 1301, sappiamo che prese la parola in piú occasioni. Nella seduta del 19 giugno 1301 tentò di convincere il consiglio a non inviare truppe a sostegno di Bonifacio VIII durante la guerra in corso contro Margherita Alottobre

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dobrandeschi. La decisione assunta fu contraria a quella sostenuta da Alighieri e la scelta segnala che, sotto la pressione esercitata dal pontefice, il clima politico a Firenze stava cambiando. Il suo successivo atto politico fu la probabile partecipazione a una missione diplomatica a Roma presso il pontefice, per cercare di dissuaderlo dal considerare Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo IV il Bello e chiamato in Italia dallo stesso Bonifacio VIII, come il pacificatore della Toscana: un incarico che gli avrebbe affidato un ruolo di primo piano negli equilibri politici di Firenze e avvicinato la Toscana allo Stato della Chiesa minando le mire espansionistiche fiorentine. La missione diplomatica non raggiunse lo scopo e, di lí a poco, la fazione avversa dei guelfi neri prese il sopravvento. Uno dei cavalieri arrivati con Carlo di Valois, Cante Gabrielli da Gubbio, venne nominato podestà a Firenze e, durante il suo mandato, si decise di aprire un’inchiesta sulle irregolarità commesse dai governi degli anni precedenti, a cui Dante Alighieri aveva preso parte. Si tratta dell’indagine che portò al suo bando nel gennaio del 1302.

Al fianco di Firenze

Va tenuto presente – a supporto dell’idea che la conoscenza del momento storico vissuto da Orvieto sia frutto dell’impegno politico del poeta – che le due città erano alleate sin dal 1221, quando il Comune orvietano aveva rotto i rapporti con Siena e si era avvicinato a Firenze. Un’alleanza ribadita piú tardi, dopo la scomparsa dell’imperatore Federico II (1250) e segnata dall’ingresso di Orvieto, accanto a Firenze, nella lega guelfa insieme a Perugia, Narni, Assisi e Spoleto. Una collaborazione politica e militare, che vide Orvieto al fianco di Firenze nella battaglia di Montaperti (settembre del 1260), che si concluse con una sconfitta pesante per entrambe le città. Va segnalato che, a partire dagli anni Sessanta del Duecento, per la posizione strategica e la difficoltà a essere espugnata, la città della rupe divenne una sede privilegiata dei pontefici e della curia pontificia. Ciò la rese un punto di riferimento per la parte guelfa. La vicinanza a Firenze venne ribadita ancora una volta, in occasione della discesa in Italia dell’imperatore Enrico VII nel 1310, quando la città toscana temeva il suo arrivo, mentre Dante Alighieri, in esilio, guardava con interesse e favore al ruolo che l’imperatore avrebbe potuto assumere. Vi sono, inoltre, almeno tre personaggi che fungono da anello di congiunzione tra Dante e Orvieto: il pontefice Bonifacio VIII è il piú celebre. Egli ebbe un peso considerevole – seppure indiretto – nella vita del poeta che lo inserí nell’Inferno, tra i simoniaci, e lo citò piú volte, sempre in negativo, nella Divina Commedia.

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La Porta Maggiore di Orvieto. Nella nicchia che sovrasta l’arco è oggi collocata una replica della statua di Bonifacio VIII scolpita da Ramo di Paganello (vedi foto alla pagina precedente).

I versi piú duri nei suoi confronti si trovano nel Paradiso, con la vibrante accusa fatta pronunciare a san Pietro (canto XXVII, versi 22-27): Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio, fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso che cadde di qua sú, la giú si placa Bonifacio VIII – come è noto – ebbe un’influenza considerevole nella vita politica di Orvieto: momenti di forte tensione si alternarono ad altri di distensione. In uno di questi – in vista di un suo arrivo – furono fatte scolpire due sue statue da collocare sulle porte principali di accesso alla città: Porta Maggiore e Porta Postierla. Entrambe si possono vedere lungo il percorso espositivo della mostra.

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Il ritratto di Dante realizzato ad affresco da Luca Signorelli nella Cappella di S. Brizio (o Cappella Nova) del Duomo di Orvieto. 1499-1504.

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Da leggere Lucio Riccetti, La cultura artistica in Orvieto all’epoca dei papi (1260-1310), in Vittoria Garibaldi, Bruno Toscano (a cura di), Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell’Umbria medievale, catalogo della mostra, Silvana Editoriale, Milano 2005; pp. 163-171 Claudio Regni, Il comune di Orvieto nel Medioevo (11571400), in Giuseppe M. Della Fina, Corrado Fratini (a cura di), Storia di Orvieto. II. Medioevo, Orvieto Arte-CulturaSviluppo, Orvieto 2007; pp. 13-33 Alberto Satolli, Il Duomo mascherato ovvero l’antica cattedrale di Orvieto, Provincia di Terni 2010 Nicolangelo D’Acunto, Monaldeschi Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Roma 2011; anche on line su treccani.it Alessandro Barbero, Dante, Laterza, Roma-Bari 2020 Silvia Diacciati, Il Barone. Corso Donati nella Firenze di Dante, Sellerio Editore, Palermo 2021 Elisa Brilli, Giuliano Milani, Vite nuove. Biografia e autobiografia di Dante, Carocci editore, Roma 2021

Vi sono altri due personaggi meno noti – ma al tempo influenti – in grado di segnalare i possibili legami tra l’Alighieri e Orvieto. Il primo è Corso Donati, a lungo una figura di spicco nella vita politica di Firenze e capo dei guelfi neri. Fu uno degli avversari politici principali di Dante Alighieri, che in gioventú era stato amico del fratello, Forese Donati. Va tenuto presente, inoltre, che la moglie del poeta era una Donati: Gemma, figlia di Manetto Donati, un lontano cugino di Corso. Vicino alle posizioni di Bonifacio VIII, in un passaggio complicato della sua vita politica – bandito da Firenze – il pontefice nominò proprio Corso Donati podestà di Orvieto nel 1299, città nella quale si trattenne per il secondo semestre di quell’anno. Siamo all’inizio del periodo in cui Alighieri esercitò un peso maggiore nella vita politica fiorentina culminato – come si è ricordato – nell’incarico di priore nel bimestre 15 giugno-15 agosto 1300. Statua di Bonifacio VIII realizzata per la Porta Postierla da Rubeus, scultore attivo nella bottega di Ramo di Paganello. 1297.

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L’altro personaggio che si può ricordare è Francesco Monaldeschi, nato probabilmente intorno alla metà del Duecento a Bagnoregio. La sua appartenenza alla potente famiglia citata da Dante non è del tutto sicura, ma è certo che fu vescovo di Melfi (1278-1280) su nomina di papa Niccolò III, di Orvieto (1280-1295), su indicazione dello stesso pontefice e subito dopo, e sino alla morte, a Firenze (1295-1302) per decisione di Bonifacio VIII. A Firenze venne nominato il 13 settembre 1295 quale successore di Andrea de’ Mozzi, trasferito alla cattedra di Vicenza, e che Dante colloca all’Inferno (canto XV, verso 112-114).

Le imprese del vescovo

Fu un vescovo di particolare rilievo per entrambe le città, dato che promosse la costruzione sia del Duomo di Orvieto (1290) che della cattedrale di S. Maria del Fiore a Firenze (1298). Fu presente alla posa della prima pietra di entrambe le cattedrali, accanto a papa Niccolò IV, nel primo caso, e al cardinale Pietro Valeriano, legato pontificio, nel secondo. A Firenze, nel 1299, benedisse anche la prima pietra di una nuova cinta muraria – alla cui costruzione aveva contribuito vendendo alcune terre della mensa episcopale – e promosse l’edificazione del convento di S. Marco. Nelle dinamiche della vita politica fiorentina si mosse seguendo le indicazioni di Bonifacio VIII che, nell’aprile del 1300, aveva minacciato sanzioni per il processo avviato contro gli agenti del banco della famiglia Spini, attivi in Curia, e accusati di alto tradimento dai Fiorentini. Accompagnò, inoltre, l’azione del cardinale legato Matteo d’Acquasparta, che fu oggetto anche di un attentato, e fu presente alla cerimonia del 1° novembre 1301 con la quale Carlo di Valois ottenne la balía della città. Sono i mesi – come si è visto – del pieno impegno politico di Dante Alighieri e non appare solo una supposizione ipotizzare loro incontri diretti.

Dove e quando «Il vero volto di Dante Alighieri. L’avventura di un quadro» Orvieto, Museo «Claudio Faina» fino al 14 novembre Info tel. 0763341511; www.museofaina.it Catalogo Intermedia Edizioni.

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abruzzo biblioteche francescane

Tesori dalle terre d’Abruzzo

di Cristiana Pasqualetti

Uno straordinario corpus di manoscritti corredato da splendide miniature: è il patrimonio librario delle comunità francescane abruzzesi. Conservati sin dal Settecento nella Biblioteca Nazionale di Napoli, quei preziosi codici – oggi al centro di un progetto di ricerca – sono esposti in mostra nel Palazzo dell’Emiciclo dell’Aquila

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ormidabili veicoli di testi e immagini, i codici miniati tramandano anche le vicende di amanuensi e miniatori, di lettori e bibliotecari che, in momenti diversi e in luoghi lontani, si sono incontrati fra le pagine di uno stesso libro. Esemplare in tal senso è la storia dei volumi della Provincia francescana abruzzese, confluiti a Napoli dalla fine del Settecento per iniziativa di Francesco Saverio Gualtieri e di altri funzionari dell’allora Real Biblioteca, i quali, per vanto dell’istituzione e finalità conservative, si adoperarono affinché nell’antica capitale del Regno fossero trasferiti i tomi di maggior pregio dai conventi del territorio. Fra questi spicca un nucleo di oltre cinquanta manoscritti, miniati fra i secoli XII e XV e acquisiti dai frati per esigenze di studio, di insegnamento e di predicazione. A questi e altri codici decorati e illu-

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strati, provenienti dalle librerie, dai cori e dalle sacrestie degli insediamenti minoritici d’Abruzzo, è stato recentemente dedicato un progetto di ricerca, da cui sono scaturiti un libro e una mostra (vedi box a p. 83).

Osservanti bibliofili

La maggior parte dei codici miniati prelevati in Abruzzo e rintracciati sugli scaffali della Biblioteca

Nazionale di Napoli appartenne agli insediamenti che l’Osservanza francescana aveva stabilito all’Aquila (S. Giuliano e, soprattutto, S. Bernardino) e a Capestrano. Strettamente legati all’Aquila e all’Abruzzo furono due dei massimi alfieri di questa formazione interna all’Ordine minoritico: Bernardino da Siena e Giovanni da Capestrano, entrambi ottobre

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A destra pagina ornata con miniatura tabellare (Dedica del volume al vescovo Gerardo Bianchi da parte dell’autore) e iniziale figurata, da un esemplare del Rosarium decretorum di Guido da Baisio (ms. XII.A.5, f. 1). 1329. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III». Nella pagina accanto miniatura tabellare (lezione universitaria) e iniziale figurata, da un esemplare dello Speculum iudiciale di Guillaume Durand (ms. I.H.8, f. 3). 1320-1330. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III».

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abruzzo biblioteche francescane I Francescani, i libri, lo studio

L’usus pauper Numerosi studi hanno ripercorso la faticosa ricerca di un difficile equilibrio fra il voto di povertà e l’accesso ai libri necessari per l’assolvimento dei compiti pastorali, che caratterizzò gli esordi del movimento francescano. Un passo della Regula bullata del 1223 sembrava oltretutto opporsi allo studio dei frati. La preoccupazione di conciliare istanze apparentemente contrastanti è testimoniata dalla complessa vicenda redazionale delle Costituzioni dell’Ordine. Il criterio dell’usus pauper (ossia il semplice uso senza possesso) implicitamente esteso ai libri nelle Costituzioni di Narbonne del 1260 consentí di superare la contraddizione, perché i libri – acquisiti o assegnati ai frati idonei allo studio soltanto se indispensabili alla loro attività –, non rimanevano nella personale disponibilità dei singoli religiosi, ma sempre e soltanto dell’Ordine.

bibliofili e attivissimi copisti. Per volontà espressa in punto di morte, sopraggiunta a Ilok (nell’odierna Croazia) nel 1456, i volumi raccolti da Giovanni nel corso della sua avventurosa esistenza in giro per l’Italia e l’Europa furono trasferiti nella pulchra libraria del convento di Capestrano, edificata su richiesta del frate dalla contessa Cobella da Celano, signora del luogo e sua devota amica. I volumi miniati oggi a Napoli riflettono la natura multidisciplinare delle librerie conventuali: dai testi di diritto ai commenti biblici e ai sermonali, dai libri per la recita individuale degli uffici liturgici alle bibbie. Numerosi sono i manoscritti giuridici, particolarmen-

In basso nota di possesso della Chronica XXIV Generalium Ordinis Fratrum Minorum di Arnaldus de Serrano (ms. VIII.C.7, f. III). Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III».

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Miniatura raffigurante la consacrazione di una chiesa, da un esemplare del Rosarium decretorum di Guido da Baisio (ms. XII.A.5, f. 289v). 1329. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III».

te importanti anche per l’attività inquisitoriale dei frati. Alla biblioteca di Capestrano appartennero, fra gli altri, lo Speculum iudiciale di Guillaume Durand (vedi foto a p. 68) e il Rosarium decretorum di Guido da Baisio (vedi foto alle p. 69 e 71) – ambedue trecenteschi e miniati da maestri bolognesi.

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Da S. Bernardino provengono invece le Mercuriales di Giovanni d’Andrea (vedi foto a p. 75), che Giacomo Donadei da Roio comprò ad Ascoli Piceno prima di diventare, nel 1391, vescovo dell’Aquila. Qui o a Roma, dove visse fra il 1395 e il 1401, egli fece decorare la pagina d’inizio del testo con un capolette-

ra e un fregio elegantissimi, eseguiti a penna con inchiostri rossi e blu. L’origine bolognese di molti codici giuridici un tempo riposti negli armadi e nelle scansie dei conventi del territorio è da porre in relazione alla mobilità universitaria degli studenti abruzzesi. Esemplare al riguardo è la vicenda

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abruzzo biblioteche francescane In basso pagina ornata di un esemplare dei Commentaria in Decretales (l. II, pars II) di Niccolò Tedeschi (ms. XIII.A.7, f. 1). 1469. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III».

A destra la lastra sepolcrale di Niccolò Colachia († 1494). L’Aquila, basilica di S.Bernardino. Nella pagina accanto pagine di due esemplari del trattato noto come

De arte illuminandi. A sinistra, dal ms. S 57, f. 225 dell’Archivio di Stato dell’Aquila (1432); a destra, dal ms. XII.E.27, f. 10 della Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» di Napoli.

di Niccolò Colachia († 1494), preposto di S. Giusta all’Aquila. Nei suoi anni universitari egli acquisí a Bologna un esemplare dei Commentaria in Decretales di Niccolò Tedeschi (vedi foto in questa pagina, in basso), che, nel 1469, era stato trascritto in città da un copista oriundo della Scozia. Colachia lo fece decorare da un miniatore locale di gusto ferrarese, al quale affidò anche la decorazione del De officio et potestate iudicis delegati di Andrea Barbazza (ms. I.H.5). Per testamento tutti i libri del giurista aquilano passarono dopo la sua morte al convento di S. Bernardino.

Varietà di stili

Acquisti, donazioni e lasciti furono le principali modalità con le quali i frati si procurarono i libri utili per lo studio, la predicazione e la preghiera individuale. Di qui la varietà stilistica degli esemplari confluiti a Napoli, spesso piú antichi della fondazione stessa dei conventi o addirittura dell’Ordine. Da S. Giuliano, primo insediamento osservante in Abruzzo (1415), vengono (segue a p. 77)

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il de arte illuminandi

Il manuale del buon miniatore

Il piú celebre trattato tecnico-artistico dedicato alla miniatura è noto con il titolo convenzionale di De arte illuminandi assegnatogli nell’Ottocento. Per oltre un secolo l’opera è stata studiata attraverso l’unico esemplare conosciuto, il ms. XII.E.27 della Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» di Napoli. Nel 2007 dall’Archivio di Stato dell’Aquila è riemerso un secondo e piú completo esemplare del trattato (ms. S 57), datato 1432, che appartenne al beato Bernardino da Fossa (L’Aquila), morto nel 1505 nel convento di S. Giuliano all’Aquila. La salma del religioso fu trasferita insieme ai suoi libri nello stabilimento osservante di S. Angelo d’Ocre, da cui proviene il nuovo testimone dell’opera, denominata dallo stesso Bernardino Libellus ad faciendum colores dandos in carta. Grazie alle comuni peculiarità anche linguistiche dei due esemplari del trattato, anche il codice oggi a Napoli può ricondursi a un copista di estrazione sabina, in anni prossimi al manoscritto

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dell’Aquila. È addirittura possibile che il ms. XII.E.7 abbia fatto parte del gruppo dei volumi requisiti nel 1789 per la Real Biblioteca di Napoli, e che sia identificabile con il n. 2 del catalogo stilato nell’occasione, conservato nel convento di S. Giuliano. Pressoché coevo al Libro dell’Arte di Cennino Cennini, il De arte illuminandi è una raccolta organizzata di ricette per preparare pigmenti e coloranti, leganti e sostanze adesive indispensabili per il miniatore. A differenza di Cennini, l’autore del De arte illuminandi fu un religioso, come suggeriscono, fra gli altri indizi, l’uso del latino e i riferimenti alla filosofia scolastica. Il trattato riserva ampio spazio alla preparazione delle tempere dei pigmenti azzurri e rossi ad florizandum, destinati cioè alla realizzazione dei sottili ornati a penna e a inchiostro delle rubriche e delle iniziali filigranate. In questo tipo di decorazione furono particolarmente abili i calligrafi abruzzesi del tardo Medioevo, fra i quali Stefano dall’Aquila, documentato al servizio della cancelleria apostolica fra il 1381 e il 1407. Fra i miniatori abruzzesi che furono attivi come scribi della cancelleria papale spicca il nome del poliedrico Antonio Berardi da Teramo, detto Zàccara, grande polifonista, cantore della cappella musicale di Bonifacio IX e poi magister di quella dell’antipapa Giovanni XXIII.

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Tradizioni

Il ritratto dell’autore Le decorazioni e le illustrazioni dei manoscritti medievali non erano sempre sontuose e abilmente condotte, soprattutto se i volumi erano destinati allo studio e alla preghiera individuale. I codici miniati provenienti dalle biblioteche minoritiche abruzzesi hanno una veste decorativa per lo piú sobria. La miniatura si limita in genere al primo foglio e a pochi capilettera in corrispondenza di determinate sezioni del testo. Non di rado la decorazione è esclusivamente aniconica, affidata a iniziali ornate e a fregi fitofloreali. Se figurati, i capilettera di questo tipo di codici rientrano spesso nell’antica tradizione del «ritratto d’autore». Questi è effigiato ora a mezzo busto, ora a tre quarti, ora a figura intera, e, in tal caso, anche entro una vignetta, e reca sovente fra le mani il proprio volume – un libro testamentario oppure un testo di natura esegetica, teologica, e di ogni altro ambito disciplinare rappresentato negli scaffali delle biblioteche conventuali. A volte l’autore è rappresentato nell’atto di insegnare o, se religioso, anche di predicare. Nonostante l’alto grado di convenzionalità dell’immagine dell’autore nel Medioevo, non mancano esempi interessanti di adattamento dello schema di base alla natura del testo e alla biografia del personaggio effigiato. Nell’iniziale Q(uis putas) a f. 1 della Postilla di Bertrand de La Tour (vedi foto a p. 77), il teologo francese è rappresentato come un autorevole anziano, con mitria e mantello scarlatto cardinalizio indossato sopra il saio francescano (il religioso fu infatti arcivescovo di Salerno dal 1320 e cardinale del titolo di S. Vitale). Egli è inoltre assiso in cattedra nell’atto di insegnare a un giovane confratello: in tal modo l’anonimo miniatore è riuscito a sintetizzare ingegnosamente il curriculum vitae dell’autore e l’importanza che la sua raccolta di sermoni ebbe nella formazione dei predicatori dell’Ordine minoritico.

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In alto pagina ornata con iniziale figurata V(enerabilibus et discretis) raffigurante Guido da Baisio in cattedra con un gruppo di discepoli, da un esemplare del Commentarius super Sexto Decretalium dello stesso Guido da Baisio (ms. XIII.A.8, f. 1). Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III», , A sinistra iniziale figurata A(pparuit gratia) con l’immagine di san Bonaventura, da un esemplare della Legenda maior dello stesso Bonaventura da Bagnoregio. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III». ottobre

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Iniziale di filigrana, da un esemplare dei Mercuriales di Giovanni d’Andrea (ms. I.A.13, f. 1). Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III».

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abruzzo biblioteche francescane Iniziale figurata D(ixit Dominus), con l’immagine del Cristo, da un esemplare dell’Expositio Psalmorum di Bruno di Würzburg (ms. VII.AA.7, f. 101). Fine del XIV sec. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III».

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infatti un codice di origine tedesca della seconda metà del XII secolo, che reca i testi necessari alla devozione quotidiana di un chierico (ms. VI.E.23), e una Bibbia parigina duecentesca riccamente miniata (ms. VI.AA.11), forse giunta al seguito di un frate mandato a completare la sua formazione oltralpe. Ancora da S. Bernardino proviene un esemplare della Postilla super Evangelia dominicalia di Bertrand de la Tour (ms. VII.AA.24), miniato a Padova da un anonimo seguace del bolognese Nerio. Una nota apposta sul codice informa che il volume fu ad usum di Giovanni da Capestrano. Fra i volumi provenienti dalla biblioteca capestranese si annovera anche un esemplare del commento ai salmi

In alto iniziale figurata Q(uis putas) con l’immagine di Bertrand de la Tour in cattedra, da un esemplare della Postilla super Evangelia dominicalia dello stesso Bertrand de la Tour (ms. VII. AA.24, f. 1). Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III». A sinistra iniziale figurata I(n principio) con la Creazione, da un esemplare della Bibbia (ms. VII.AA.7, f. 3v). Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III».

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di Bruno di Würzburg, decorato a Praga sul finire del Trecento da Nicholas Kuthner, miniatore alla corte di Venceslao IV (vedi foto alla pagina accanto).

Libri ad usum chori

La propagazione in Abruzzo dell’Osservanza francescana ebbe ricadute rilevanti anche sulla committenza artistica della regione. Evento catalizzatore fu la morte all’Aquila di Bernardino da Siena (20 maggio 1444), rapidamente seguita dal processo di canonizzazione, celebrato in città dal 1445 e concluso nel 1450 con l’iscrizione dell’Albizzeschi nel novero dei santi. Soprattutto grazie all’infaticabile Giovanni da Capestrano, coadiuvato da Giacomo della Marca, nel 1454 si giunse alla posa della prima pietra della basilica aquilana inti-

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abruzzo biblioteche francescane Pagina ornata con iniziale figurata R(equiem eternam) con la Celebrazione delle esequie, e stemma del cardinale Amico Agnifili, da un Graduale (Corale 5, f. 54v). Seconda metà del XV sec. L’Aquila, Biblioteca «Salvatore Tommasi».

nati alle celebrazioni nei cori delle chiese e spesso caratterizzati dalla presenza della notazione musicale, peraltro non indispensabile poiché i cantori eseguivano il repertorio a memoria.

Una vera e propria «campagna acquisti»

tolata al santo: benché non ancora compiuta, il 17 maggio 1472 essa accolse il corpo di Bernardino traslato con solenne processione dalla chiesa di S. Francesco. Piú volte procuratore della fabbrica e sponsor del mausoleo che custodisce tuttora la spoglia del santo senese, il ricco mercante Iacopo di notar Nanni finanziò al-

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meno uno dei 28 corali manoscritti oggi conservati nella Biblioteca «Salvatore Tommasi» dell’Aquila, recentemente studiati sul piano liturgico-musicale da Giacomo Baroffio con Eun Ju Anastasia Kim. Le grandi dimensioni dei tomi, l’accuratezza del layout e la ricchezza decorativa sono correlate all’uso dei volumi stessi, desti-

Nel 1606 il convento di S. Bernardino all’Aquila fu dichiarato Studio Generale francescano anche in virtú della sua ben fornita biblioteca, fondamentale per i professori e studenti dell’Ordine. Da questa libreria, nel 1789, l’abate Francesco Saverio Gualtieri (1740-1817), originario di Lucoli presso l’Aquila, aiuto-bibliotecario della Real Biblioteca di Napoli e dal 1792 vescovo della natía diocesi, prescelse 214 manoscritti da inviare nella capitale del Regno, ove in pochi anni confluirono i codici e gli incunaboli di molti altri conventi abruzzesi. Assieme ad Andrea Belli e a Pasquale Baffi, Gualtieri aveva collaborato col padre domenicano Eustachio d’Afflitto, prefetto della Real Biblioteca, nell’impresa del sistematico ordinamento della libreria sorta negli anni Settanta del secolo XVIII dalla riunione della biblioteca farnesiana con i tomi requisiti ai Gesuiti e altri nuclei librari. Morto il d’Afflitto nel dicembre 1787, Gualtieri, Baffi e Belli proseguirono il complesso lavoro anche durante la non breve vacanza della carica prefettizia, periodo in cui ricade un’importante missiva datata 2 settembre 1788 e indirizzata a un destinatario non specificato. Nella lettera i tre aiuto-bibliotecari implicitamente caldeggiavano ottobre

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salteri e graduali

Opere di grande pregio Alcuni dei corali provenienti dalla basilica di S. Bernardino erano destinati alla liturgia delle Ore, come i Salteri-innari 4 e 16, ambedue in mostra all’Aquila. Di grande effetto, nel quattrocentesco Salterio-Innario 16, è il Cristo crocifisso raffigurato nell’iniziale T dell’inno Te Deum laudamus – lettera che, per la sua forma, viene tradizionalmente associata alla Croce. Il pavone che si sviluppa per metamorfosi dalla curva

superiore dell’iniziale è un antico simbolo di immortalità, qui collegato alla morte e alla resurrezione di Cristo. Nel Salterio-innario 4 si riconosce l’intervento del prolifico miniatore fiorentino Attavante degli Attavanti, attivo per grandi committenti come Mattia Corvino, re d’Ungheria, e Lorenzo de’ Medici. La decorazione del corale aquilano poté essergli affidata in occasione di un soggiorno romano agli inizi del Cinquecento, quando lavorò per il figlio di Lorenzo, il cardinale Giovanni, futuro papa Leone X. Splendida l’iniziale D(ixi custodiam) del salmo 39, ove ancora una volta protagonista

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è David, qui raffigurato come anziano sovrano sullo sfondo di un paesaggio azzurrognolo con la veduta di Gerusalemme dominata da una grande cupola, che forse allude a quella della basilica di S. Bernardino, da pochi anni ultimata. Ricchissimo è il fregio marginale, formato da motivi vegetali dai colori smaltati e risaltati dall’oro: lo popolano volatili, figure metamorfiche, robusti putti con il trigramma

bernardiniano IHS e l’effigie di un giovane santo francescano recante nella destra l’attributo della palma, simbolo del martirio. Altri corali fra quelli provenienti da S. Bernardino erano invece destinati alla liturgia eucaristica, come il Graduale 5 e il Graduale 11, anch’essi in mostra. Il primo fu commissionato dal cardinale Amico Agnifili, vescovo dell’Aquila dal 1431 al 1476 – salvo una breve interruzione. Il suo stemma appare sul margine inferiore della pagina recante l’iniziale figurata R(equiem eternam) con la Celebrazione delle esequie di un vescovo, forse suo nipote Francesco. Il Graduale 11 si apre con la raffigurazione di David orante nell’iniziale A(d te levavi) del salmo 24. Prima di venir rilegati, i fascicoli di entrambi i codici poterono essere miniati almeno in parte a Roma, perché nei capilettera descritti si riconosce l’intervento di un maestro formatosi a contatto col francese Jacopo Ravaldi, attivo a partire dalla metà degli anni Sessanta del Quattrocento presso la curia romana, ove l’Agnifili trascorreva lunghi periodi. In alto iniziale figurata A(d te levavi) con David orante, da un Graduale (Corale 11, f. 1). L’Aquila, Biblioteca «Salvatore Tommasi». Al centro, a sinistra iniziale figurata T(e Deum) con la Crocifissione, da un Salterioinnario (Corale 16, f. 44v). L’Aquila, Biblioteca «Salvatore Tommasi». Qui accanto pagina ornata con iniziale figurata D(ixi custodiam) con l’immagine di David orante, da un Salterio-innario (Corale 4, f. 40v). L’Aquila, Biblioteca «Salvatore Tommasi».

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abruzzo biblioteche francescane Iconografia

Quando David è psalmificus Protagonista dei grandi volumi liturgici miniati è David, il salmista per antonomasia. Fra Medioevo e Rinascimento egli viene raffigurato frequentemente come sovrano e autore dei salmi, di solito accompagnato da uno strumento musicale: l’arpa o la lira, ma anche altri cordofoni. È quanto si vede nel SalterioInnario della Biblioteca «Melchiorre Delfico» di Teramo, proveniente dal convento osservante di S. Maria delle Grazie e databile nel penultimo decennio del Quattrocento. Nell’iniziale B(eatus vir) del salmo 1, David appare come giovane re recante una vihuela de mano, strumento di origine iberica in voga anche in Italia con la dominazione aragonese. Per il disegno del David il miniatore locale si avvalse del modello di un’incisione tedesca del sesto-settimo decennio del Quattrocento, segno della concomitante ascesa dell’arte tipografica, che portò al declino, sia pure lentissimo, della miniatura. Nei medaglioni del fregio marginale, dai colori smaglianti arricchiti dall’oro, sono ospitati i «ritratti» di Francesco d’Assisi, in basso al centro, e degli altri santi dell’Ordine: Ludovico di Tolosa sul margine destro, Bernardino da Siena e Giovanni da Capestrano, benché non ancora canonizzato, rispettivamente in basso a destra e a sinistra. Al centro del margine superiore un tempo figurava anche Bonaventura da Bagnoregio.

l’estensione del divieto d’esportazione degli oggetti d’arte e antichità del Regno introdotto dalle Prammatiche LVII e LVIII di Carlo di Borbone (1755) ai manoscritti e agli incunaboli, di cui lamentavano scarsa rappresentanza sugli scaffali della Real Biblioteca, oltretutto da poco resa «comune e pubblica».

Libertà d’azione

Pagina ornata con iniziale figurata B(eatus vir) che mostra David con la vihuela de mano, da un Salterio-Innario. Teramo, Biblioteca «Melchiorre Delfico».

Gualtieri, Baffi e Belli erano ben consapevoli che il costo degli acquisti sarebbe andato crescendo in breve tempo per l’agguerrita e organizzata concorrenza delle biblioteche straniere, dalla Reale Biblioteca di Francia alla Biblioteca Vaticana, che andavano attingendo alle librerie religiose del Regno di Napoli. Occorreva dunque fare

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Dove e quando

La mostra e il libro

La mostra «Per la biblioteca e per il coro. Codici miniati dai conventi francescani d’Abruzzo» ha sede nel Palazzo dell’Emiciclo all’Aquila e resterà aperta al pubblico fino all’8 dicembre. L’esposizione, promossa dall’Università degli Studi dell’Aquila e dalla Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» di Napoli, con il contributo dei fondi del Progetto di Eccellenza 2018-2022 del Dipartimento di Scienze Umane, è curata da Andrea Improta e Cristiana Pasqualetti. L’iniziativa prende le mosse dal volume «Abbondano di cosí fatte rarità». Codici miniati dai conventi francescani d’Abruzzo (Campisano, Roma 2021), con saggi dei curatori, di Giacomo Baroffio con Eun Ju Anastasia Kim, di Maria Alessandra Bilotta, Alessia Di Stefano, Angela Pinto, Filippo Sedda, Laura Zonetti. Il libro è corredato dal catalogo di tutti i codici miniati di provenienza francescana abruzzese oggi nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Info tel. 371 3192253; e-mail: semisottolapietra@gmail.com In alto lettera di Francesco Saverio Gualtieri, Pasquale Baffi, Andrea Belli, 2 settembre 1788. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III».

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presto. I tre chiedevano pertanto libertà d’azione nel proporre ai frati un proficuo scambio con i doppioni della Real Biblioteca, anche fissando un prezzo per gli esemplari di particolare pregio, in modo da non incontrare resistenza da parte dei religiosi. I manoscritti giunsero dall’Abruzzo a Napoli a piú riprese a partire dal 1789. La «campagna acquisti» abruzzese inaugurata da Gualtieri e portata avanti dai suoi colleghi nei decenni iniziali dell’Ottocento realizzò la «messa in sicurezza» di un patrimonio librario destinato a piú che probabile dispersione nel giro di pochi anni. Proprio a partire dalla fine del secolo decimottavo, con le occupazioni francesi seguite dalle confische dei beni ecclesiastici, si registrò infatti un’impennata del mercato librario, con conseguente commercializzazione dei singoli fogli o anche dei ritagli miniati, bramati da collezionisti non piú mossi dalle finalità enciclopediche e classificatorie della bibliofilia settecentesca, bensí attirati dal lusso delle miniature stesse, che, estrapolate dal libro, erano ormai diventate oggetti d’arte al pari dei quadri.

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di Furio Cappelli

Un’illusione chiamata Enrico

L’imperatore nel quale Dante aveva riposto le speranze per il «riscatto» dell’Italia (nonché per il suo rientro dall’esilio) ebbe un rapporto privilegiato con la città di Pisa. Che, non a caso, ne accolse le spoglie mortali in un magnifico monumento funebre realizzato da Tino di Camaino Miniature raffiguranti l’imperatore Enrico VII a corte (in alto) e mentre combatte alla guida delle sue truppe, dal Codex Balduini Trevirensis. 1340 circa. Coblenza, Staatsarchiv.


Dossier

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nrico VII di Lussemburgo – meglio noto come Arrigo, cosí come è evocato nei versi che Dante gli dedica nella Commedia – soggiornò per ben due volte a Pisa, roccaforte dei ghibellini, e, in entrambe le occasioni, ricevette un’accoglienza calorosa. Era ancora soltanto re d’Italia quando, giunto via mare da Genova, vi si stabilí dal 6 marzo al 26 aprile 1312. Poi, incoronato imperatore a Roma e reduce dal fallimentare assedio di Firenze, vi tornò il 10 marzo 1313, per restarvi fino all’8 agosto, quando partí per una campagna militare che si interruppe con la sua morte, il 24 agosto, dopo pochi giorni di marcia, a Buonconvento (Siena). Il primo soggiorno, in particolare, fu nel segno delle grandi speranze, e dette luogo a espressioni di gioia collettiva, oltre che a significative attestazioni di forza militare. Come attesta il cronista Giovanni Villani (1280 circa-1348), appena giunto alle mura, venne accolto come signore della città «faccendogli grande festa e processione». Alcuni giorni piú tardi si tenne una solenne parata, verosimilmente lungo la strada dell’Arengo, dove si tenevano solitamente gli esercizi a cavallo della milizia cittadina, a sud dell’attuale piazza dei Miracoli. Come riportano le fonti con una certa enfasi, i Pisani poterono cosí fare sfoggio di «1000 cavalieri, 4000 balestrieri e 6000 uomini con scudo e lancia», oltre a un «numerus infinitus» di fanti armati alla leggera. Il 17 marzo, nella piazza prospiciente la facciata del duomo, il re ricevette poi l’omaggio delle magistrature civiche e dell’intera cittadinanza. Pisa non esitò a corrispondere al sovrano una cifra ragguardevole, che pare ammontasse a oltre 200 000 fiorini (una somma pari alla metà gli era stata versata in precedenza da Milano, grazie ai maneggi del ghibellino Matteo Visconti). Secondo l’ipotesi dello

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storico Knut Görich, i Pisani gli regalarono per giunta un leone, che fu poi trasportato a Roma come araldo del futuro imperatore e lí, probabilmente, venne affidato al Senato, sul Campidoglio. Infine, destino volle che proprio nel duomo di Pisa, che aveva fatto da scenario al suo trionfo, Arrigo venisse sepolto. Agli inizi del 1315 si intraprese un solenne monumento che desse lustro all’imperatore, l’ultimo a essere tumulato in terra italica. Fu scelta una posizione di massima visibilità, al centro dell’abside maggiore, in asse con il mosaico del Cristo pantocratore (giudice). Si ebbe al tempo stesso l’accortezza di combinare il mausoleo con un altare dedicato a san Bartolomeo, nella cui ricorrenza Arrigo era spirato. In questo modo l’elemento liturgico attenuava la celebrazione dell’autorità sovrana.

Uno stile personalissimo

L’opera venne affidata allo scultore senese Tino di Camaino (1280 circa-1336), ben lontano dalla forza visionaria e dal virtuosismo di Giovanni Pisano. Rappresentava un’alternativa al grande rivale, anche perché era giunto a Pisa in precedenza (1306-10), per realizzare l’arca di san Ranieri su commissione di Burgundio di Tado. Questi era l’Operaio del Duomo che si era duramente scontrato proprio con Giovanni, durante la lavorazione del celebre pergamo (pulpito). D’altronde, come si vede nelle figure superstiti dell’assetto centrale della tomba di Arrigo – oggi al Museo dell’Opera del Duomo –, Tino possiede uno stile tutto proprio, spoglio e severo, che esprime bene le virtú morali del defunto. La presenza forte del sovrano, in trono, al centro della composizione, ribadiva al contempo l’importanza di queste virtú su un piano tutto terreno, facendo perdurare il senso del suo ruolo nell’aldiquà. Proprio all’indomani della mor-

Nella pagina accanto l’attuale assetto del sarcofago di Arrigo VII nel Duomo di Pisa, opera di Tino di Camaino. 1315. L’apparato originario è in parte conservato nel Museo dell’Opera del Duomo (vedi foto alle pp. 86/87).

te di Arrigo, le forze ghibelline di Pisa espressero un podestà e capitano del popolo, Uguccione della Faggiuola (1250-1319), già vicario imperiale, che si fece in sostanza signore di Pisa. E fu lui a capitanare le forze della sua parte vincendo sui guelfi a Montecatini (agosto 1315). Dal canto suo, Tino, preso da un sussulto di amore patrio, rinunciò all’ultimo pagamento della mercede e abbandonò i lavori del mausoleo, correndo a dare man forte ai Senesi impegnati nella battaglia, e insieme a loro si trovò dalla parte degli sconfitti. Le fortune dei ghibellini si esaurirono ben presto, e proprio Uguccione finí cacciato da Pisa (aprile 1316), ma il mausoleo di Arrigo era stato comunque completato dagli aiuti di Tino, e rimase intatto fino al 1494. A quella data si decise di rimuoverlo, riducendone l’apparato originario al solo sarcofago. La tomba, cosí riallestita, venne posta nel transetto sud, ma conobbe poi ulteriori spostamenti, sino a giungere nel Camposanto. Fu infine ricollocata nel transetto sud della chiesa, grazie all’opera meticolosa di Pèleo Bacci (1869-1950), che ha legato il proprio nome anche alla ricomposizione del pergamo di Giovanni Pisano. Si realizzava cosí un voto da tempo espresso dagli eruditi pisani, e l’occasione propizia era fornita dalle celebrazioni dantesche di cento anni or sono (1921). Nell’epigrafe in latino allestita nell’occasione, leggiamo infatti: «Seicento anni dopo la morte di Dante in questo sepolcro sono ricomposte le reliquie e le ossa dell’imperatore Enrico cantato dal poeta» (traduzione di Roberto Paolo Novello). ottobre

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Dossier Le statue e gli ornati superstiti che erano parti integranti del ricco apparato apparato decorativo del monumento funebre di Arrigo VII. 1315. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo. L’imperatore figura al centro, in posizione preminente, seduto in trono.

Segue la citazione d’obbligo: «l’alto Arrigo ch’a drizzare Italia / verrà in prima ch’ella sia disposta» (Paradiso, XXX, 137-138). All’interno del sarcofago, la cassa con le spoglie imperiali fu aperta in piú occasioni, scandite dai vari spostamenti che si sono susseguiti nel tempo. Sono state cosí effettuate ben tre ricognizioni: nel 1727, nel 1828, nel 1921. Oltre ai frammenti ossei, venne

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registrata la presenza di corredi metallici e tessili, ma questi non vennero restaurati e analizzati come meritavano, neanche nell’ambito dell’ultima sistemazione. L’occasione per riconsiderare questi e tanti altri aspetti è giunta infine con la ricognizione «definitiva», condotta nell’ottobre 2013, nel settimo centenario della morte del sovrano, quando l’intero contenuto è stato attentamente vaglia-

to. È stato cosí possibile studiare i manufatti procedendo al loro restauro, e gli stessi resti del corpo di Arrigo sono stati sottoposti a esami scientifici, per sciogliere i tanti dubbi sulle circostanze della sua morte. Tutti gli oggetti rinvenuti erano contestuali alla deposizione, tranne una carta avvolta in un tubo di piombo, legata alla ricognizione settecentesca. Si è potuto cosí ricomporre un corredo funebre di ottobre

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LE DATE DA RICORDARE 1270-80 Nascita di Arrigo. 1294 Percepisce una rendita fissa dal re di Francia Filippo IV il Bello. 1308, 27 novembre Viene designato re di Germania. 1309, Epifania Incoronazione ad Aquisgrana. 1309, 29 luglio Papa Clemente V esprime il suo plauso per l’ascesa al trono di Arrigo. 1310, 23 ottobre Dopo aver valicato le Alpi sul Moncenisio, Arrigo giunge a Susa (Torino). 1310, 23 dicembre Entrata a Milano. 1311 Epifania Incoronazione nella basilica di S. Ambrogio. 23 gennaio Arrigo promulga la cassazione delle condanne per motivi politici. Nomina vicario generale Amedeo V di Savoia e diversi vicari nelle città. 10 maggio Si conclude l’assedio di Cremona, ribelle al sovrano. ottobre Arrigo conquista Brescia ed entra a Genova. inverno Ribellione e successiva pacificazione di Milano e di molte altre città padane. 13-14 dicembre Muore la regina Margherita di Brabante. 24 dicembre Firenze, capofila della lega guelfa, è dichiarata ribelle all’Impero. 1312 6 marzo Arrigo entra trionfalmente a Pisa. 23 aprile Parte per Roma con un ampio seguito di truppe. 7 maggio Giunto in città, ha un primo scontro con i soldati angioini. 26 maggio Le forze angioine sconfiggono gli imperiali e sbarrano la strada che conduce alla basilica di S. Pietro. 29 giugno Arrigo viene incoronato imperatore a S. Giovanni in Laterano. 1° luglio Stringe un’alleanza matrimoniale con Federico III d’Aragona, re di Sicilia. settembre-ottobre Assedio di Firenze, smontato prima del completamento.

evidente significato storico, oggi osservabile nella sua interezza in una sala del nuovo allestimento del Museo dell’Opera del Duomo. Gli oggetti metallici componevano le insegne regali di Arrigo: la corona gigliata, lo scettro e il globo (vedi box alle pp. 94-95). Le insegne effettive erano prerogativa del sovrano nell’esercizio della sua autorità, e dovevano pertanto essere tramandate al successore, Ludovi-

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1313 10 marzo Arrigo si ritira a Pisa. aprile Promulga le Costituzioni pisane, che respingono la Donazione di Costantino e sanciscono la sudditanza di tutti gli uomini all’Impero. Il 26 aprile Roberto d’Angiò, re di Napoli, è riconosciuto ribelle all’autorità del sovrano. 8 agosto Arrigo lascia Pisa volgendo verso Siena, nella prospettiva di condurre le truppe a Roma e a Napoli. 24 agosto Muore presso Buonconvento (Siena). 25 agosto Giovanni Pisano, all’opera sul monumento alla regina Margherita, riceve 80 fiorini per la copertura delle spese di acquisto dei materiali.

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co il Bavaro, all’atto della sua incoronazione nella Cappella palatina di Aquisgrana. Quelle rinvenute nella tomba erano repliche semplificate nel disegno e nel decoro, e dovevano perpetuare i segni del potere assunto da Arrigo. La loro presenza era tanto piú significativa in questa sepoltura quanto piú il corpo di Arrigo era ridotto a ben poca cosa. Non si trattava quindi di comporre una salma con un certo qual senso «scenico», qualora la si potesse esporre prima della tumulazione. In questo caso, proprio le insegne imperiali facevano, per cosí dire, le veci di Arrigo, visto che il ca-

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davere, quando giunse a Pisa, era ridotto a un mucchio di cenere e frammenti d’ossa.

Sotto la polvere

Mancando un corpo intatto, non c’era vestiario, ma la cassa, in origine, era in compenso rivestita esternamente da un telo policromo istoriato. Il suo recupero costituisce il risultato piú eloquente delle recenti indagini. La sua presenza nel sepolcro era stata già appurata, ma si trovava ripiegato su se stesso e illeggibile, con uno strato di polvere che non lasciava minimamente percepirne la qualità. Dopo le operazioni delicate di stendimento e

restauro, è «emerso» un drappo serico di alta manifattura, e dalle dimensioni piuttosto vistose: 3,20 x 1,20 m. Si tratta di uno sciàmito (letteralmente, «tessuto a sei licci», dal greco esamitos, n.d.r.), che si compone di fasce orizzontali di colore alternato, a tal punto integro (senza aver conosciuto adattamenti o tagli di sorta) da conservare ancora il segno della piega centrale. Esiste in realtà un capo di vestiario che fa da pendant al telo recuperato, ma è puramente virtuale. Osservando infatti la statua di Arrigo sull’urna, nella tipica posizione del dormiente (gisant), si evidenzia che Tino di Camaino – con ottobre

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Due momenti della ricognizione della tomba di Arrigo VII, effettuata nel 2013, nel settimo centenario della morte del sovrano.

senso di eleganza e grande perizia tecnica – ha «ricreato» la salma, avvolgendola con un manto di seta tutto intessuto dagli animalisimbolo della maestà imperiale, il leone rampante e l’aquila. Peraltro erano le stesse insegne araldiche presenti nel finto velario ad affresco nell’abside centrale del duomo, proprio ai fianchi del monumento, nella sua collocazione originaria. La scelta del telo funebre dovette essere favorita proprio dalla presenza dei leoni passanti, unico elemento figurato dell’insieme. Disposti a coppie, e con una coda dal tipico ciuffo sull’apice, i felini erano per giunta rifiniti in oro, con trame me-

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talliche costituite da budello bovino rivestito da una membrana aurea.

Il colore dei re

La qualità regale del tessuto, d’altronde, era esaltata dall’adozione della porpora, tipico contrassegno della sovranità perpetuato da Bisanzio sin dall’epoca tardo-antica. La preziosa tintura era riservata a una fascia sulla parte alta, di colore violaceo, e su una fascia contigua si leggeva in origine un’iscrizione eseguita a filato metallico. Era in caratteri arabi del tipo naskh (una scrittura corsiva), e ripeteva piú volte la parola «Gloria». Si tratta quindi di una manifattura islamica riconducibile a un laboratorio ispanico. Ma come giunse nella tomba di Arrigo? Le circostanze della sua morte non lasciano molto spazio a sue eventuali disposizioni, con scelte specifiche di manufatti che fossero nella sua disponibilità. In altre circostanze, questo sarebbe potuto avvenire. È il caso del cavaliere inglese Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), che dal suo letto di morte, nel suo castello di Ca-

versham, dispose che due drappi di seta riportati dalla Terra Santa fossero distesi sopra il suo feretro, durante il trasporto al Tempio di Londra (luogo di sepoltura). Guglielmo si curò persino di predisporre un robusto tessuto grigio protettivo da stendere sopra alle preziose sete in caso di pioggia. È pure il caso di Cangrande della Scala (1291-1329), vicario imperiale di Arrigo in persona, che alla propria sepoltura riservò un ricco campionario di tessuti persiani. Arrigo però, a differenza di questi personaggi, fu colto in modo quasi imprevedibile dalla morte, lontano dalle sue residenze e nel mezzo di un’ambiziosa operazione militare. Era partito da Pisa e fu proprio quella fedele città a fornire con ogni probabilità il prezioso manufatto. Come ha notato la studiosa Anna Rosa Calderoni Masetti, esistono attestazioni di oggetti personali del sovrano confluiti nel tesoro del duomo (per esempio un drappo rosso), ma nessuno di questi è ricollegabile al telo della tomba. Piuttosto, proprio

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la chiesa, custode di tante preziosità del mondo antico e dell’Islam, conservava nel 1299 un pallium virgatum pro coopertura sepulcri, vale a dire un drappo decorato a strisce, destinato a foderare esternamente la cassa di un sepolcro. Altri tessuti preziosi erano poi utilizzati per abbellire gli altari minori, come risulta dagli antichi inventari. Da qui l’ipotesi che il telo provenisse proprio dal duomo dell’Assunta. Non solo dovette essere prodotto in un atelier di alto livello dell’Andalusia, ma poté essere impiegato già in precedenza in una sepoltura illustre. I Pisani, d’altronde, compirono varie imprese contro i presidi islamici delle isole Baleari tra il 1113 e il 1115, e profanarono il sepolcro dell’emiro di Maiorca al-Murtada (morto nel

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1094), da cui riportarono un frammento della sua lapide, oggi conservato nella chiesa di S. Sisto. Il telo proveniva proprio da quel sepolcro? La datazione al C14 consente di ipotizzarlo, visto che stabilisce come cronologie-limite le date 970 e 1215, il che indica una probabile datazione al XII secolo, estensibile alla fine dell’XI. D’altra parte è comprovato che tra le spoglie delle Baleari dovettero essere annoverati diversi manufatti tessili di pregio, sicuramente presenti nelle dotazioni delle residenze di corte.

La veglia notturna

Le analisi hanno poi rivelato ulteriori aspetti suggestivi, come ha osservato la restauratrice Moira Brunori. Il telo ha la prerogativa di essere double face, e per la preci-

sione ripete sul verso, in negativo, il disegno e l’effetto cromatico del recto. Ebbene, sul verso sono state individuate lungo i bordi gocciolature di cera vergine d’api, utilizzata per fabbricare candele. Poiché le macchie sono simmetriche e a cadenze regolari, si può ipotizzare che in una fase di esposizione pubblica della cassa fossero presenti 4 candelabri o ceri per lato, perfettamente in linea con i modi e i concetti della camera ardente. Si può cosí ipotizzare una veglia notturna prima del funerale, con preghiere e intonazioni di canti liturgici. L’osservazione permette anche di sottolineare che il telo fu posizionato in modo da rivolgere il suo lato piú importante (il recto) verso la cassa, in considerazione del defunto. Gli esami sui materiali della ottobre

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tomba hanno poi riguardato ciò che resta di Arrigo. Si tratta di una coltre di ceneri e carboni spessa 15 cm e di una miriade di frammenti dello scheletro, in larga misura deformati dall’azione del fuoco, come ha evidenziato l’analisi dell’antropologo Francesco Mallegni. La salma era in queste condizioni già all’atto della deposizione. Per giunta sul fondo della cassa sono stati recuperati resti di un tessuto in tela di lino, del tipo «sbiancato», sottoposto cioè a un processo di affinamento tipico di un guardaroba nobiliare, per esaltarne il candore. Grazie alla datazione fornita dal C14, il telo risulta coevo alla deposizione. Apparteneva forse ad Arrigo e, probabilmente, fu comunque utilizzato per raccoglierne e trasportarne le spoglie. Siamo ben informati su come e perché il corpo fu ridotto in ceneri.

Come spiega per esempio il retore Boncompagno da Signa (1170 circa-1250 circa), si tratta di un uso di lungo corso, molto diffuso tra le genti di origine germanica. Quando un personaggio illustre perde la vita lontano dalla patria e gli si vuole dare una degna sepoltura, si sottopone il cadavere a un vero e proprio processo di scarnificazione. In questo modo viene agevolato il trasporto sulla lunga distanza, e si rimedia soprattutto agli inevitabili disagi determinati dalla decomposizione, specialmente in periodo estivo.

Una pratica proibita

Poiché comportava il vilipendio del corpo, la procedura era stata severamente vietata da una recente disposizione papale di Bonifacio VIII (1299), ma si procedette senza indugio per ragioni di forza maggiore. C’era d’altronde l’illustre

Due immagini della cassa che custodisce le spoglie di Arrigo VII e gli oggetti deposti insieme ai suoi resti. Nel tempo, la tomba era stata già oggetto di tre ricognizioni: nel 1727, nel 1828 e nel 1921.

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Dossier Le insegne

Le tappe del cerimoniale Il globo (ossia la «mela d’oro») con la croce, la corona, lo scettro o la spada, componevano gli attributi «classici» della maestà del Sacro Romano Impero. Questo aspetto è ancora evidente nei ritratti di Albrecht Dürer, sia che rievochi Carlo Magno, sia che metta in scena un imperatore scomparso alcuni decenni prima, Sigismondo di Lussemburgo (1433-1437). In quest’ultima fase storica, le insegne erano custodite a Norimberga. La corona, in particolare, oggi conservata a Vienna, fu adottata in tutte le cerimonie d’investitura che si tenevano in Germania sin dall’epoca di Ottone I (962-973). In quella circostanza, come si verificò nel caso di Arrigo, si compiva il primo passo verso la definitiva assunzione del titolo, il cui conferimento era prerogativa del pontefice. Il nuovo sovrano, eletto dai grandi feudatari, riceveva l’autorità sulla Germania, ma assumeva anche il titolo di re dei Romani, in qualità di imperatore designato. Seguiva di norma l’attraversamento delle Alpi, con l’incoronazione a re d’Italia, che Arrigo conseguí a Milano, nella basilica di S. Ambrogio (6 gennaio 1311), senza tuttavia cingere la storica corona ferrea riservata a tale onore, di probabile origine tardo-antica. Essa infatti, conservata a Monza (dove si trova tuttora), era stata ceduta in pegno nel 1273 dai Della Torre, signori di Milano, per un cospicuo prestito ottenuto dall’ordine degli Umiliati. Fu cosí necessario predisporre una corona «ferrea laurea» ad hoc che Arrigo in persona commissionò all’orafo Lando di Pietro da Siena, e che poi affidò all’abate di S. Ambrogio. Proprio questa corona di Arrigo, – vista la perdurante indisponibilità dell’antica corona ferrea (frattanto trasferita al Palazzo dei Papi di Avignone) –, fu utilizzata nel 1327 per l’investitura regia del successore di Arrigo, Ludovico IV il Bavaro (1328-1347).

precedente di Federico Barbarossa, morto in Cilicia, e il cui corpo, nel 1190, finí anch’esso nel bollitoio. Grazie alle analisi sui resti di Arrigo, è possibile persino ipotizzare l’assetto della salma all’inizio dell’operazione. Il cadavere venne probabilmente disteso sul fianco sinistro. La testa, con il viso rivolto verso l’alto, fu rimossa con cura. Fu l’unica operazione attuata con strumenti da taglio. Fece seguito la bollitura del corpo decapitato, a una temperatura di circa 100°. A quel punto era possibile la rimozione delle parti molli, ma si dovette procedere senza troppa meticolosità, lasciando residui di tessuti nelle parti piú difficili da raggiungere operando a mano. Venne cosí

Il globo in argento dorato facente parte delle insegne deposte insieme ai resti di Arrigo VII. La sua realizzazione può essere assegnata a una bottega pisana.

Nella pagina accanto miniature raffiguranti Enrico VII condotto in Laterano dai cardinali (in alto) e incoronato imperatore, dal Codex Balduini Trevirensis. 1340 circa. Coblenza, Staatsarchiv. Dopo aver cinto la corona ferrea a Milano, nel 1311, Enrico poté cingere quella imperiale a Roma, il 29 giugno 1312, dopo aver affrontato senza successo le milizie angioine arroccate sul Vaticano, ripiegando cosí su S. Giovanni in Laterano come sede alternativa della cerimonia, celebrata da tre cardinali con il beneplacito del popolo romano.

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Dossier le insegne

A sinistra la terminazione dello scettro di Arrigo VII. Qui sotto la «cintola» in seta rossa che ogni anno, in occasione della Pasqua e della grande festa dell’Assunta, veniva appesa intorno al duomo di Pisa.

Oro, argento e una Come è risultato dalle analisi condotte dallo storico dell’arte Marco Collareta, il corredo rinvenuto nella tomba di Arrigo VII possiede requisiti di evidente qualità, sebbene si tratti di oggetti che dovevano svolgere una funzione puramente allusiva. Non sappiamo tuttavia se furono destinati esclusivamente alla deposizione. Rimane cioè la possibilità che abbiano svolto un ruolo in quei momenti di esposizione del feretro che dovettero svolgersi prima e durante le esequie solenni. Magari, in

«cintola» di seta quei momenti, le insegne furono disposte proprio sopra alla bara. Si tratta, in ogni caso, di oreficerie messe a punto per l’occasione, con ogni probabilità, da una bottega pisana. L’accuratezza è resa evidente dal ricorso all’argento dorato e dall’attenzione alle giunzioni chiodate e alle saldature (il globo è costituito da due semisfere). La doratura era di buona qualità, eseguita con una modalità che prevedeva l’uso del mercurio, cosí da esaltare un particolare effetto

La corona in argento dorato di Arrigo VII. Come per le altre insegne, la doratura fu realizzata utilizzando il mercurio, che conferisce all’oro un colore verdastro, all’epoca molto apprezzato.

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cromatico che era molto apprezzato. In questo modo, cioè, l’oro tendeva al verde piuttosto che all’arancione. Nella corona, in luogo delle pietre preziose, si utilizzarono cristalli di rocca tagliati a tavola anziché a cabochon (senza sfaccettature), come era invece richiesto negli oggetti di apparato. Collareta ipotizza al riguardo che, per abbreviare i

tempi di lavorazione, si utilizzassero castoni già predisposti per i guardaroba di pregio. Decorazioni del genere erano infatti adottate nelle cinture, e simili lavori ornavano anche la «cintola», un nastro di seta rossa che veniva appeso tutt’intorno al duomo di Pisa, in occasione della Pasqua e della grande festa dell’Assunta. In quel modo, la chiesa cingeva le vesti della Vergine in persona, e ne costituiva perciò un’immagine concreta e coinvolgente. Il suo uso risale probabilmente agli anni 1270, e la «cintola» è comunque attestata per la prima volta nel 1313, proprio nell’anno della morte di Arrigo. I frammenti superstiti sono conservati nel Museo dell’Opera del Duomo, nella sala che mostra il corredo funebre del sovrano.

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allestita una pira per completare l’opera. Lo scheletro «spolpato» venne cioè adagiato su un tappeto di rami cui si dette fuoco, e si concluse cosí la procedura, producendo le stesse evidenze studiate in laboratorio settecento anni dopo, fatta salva la testa, l’unica parte che fu soggetta al normale corso della decomposizione. Nel tappeto di ceneri e carboni sono stati persino

costituzione robusta ma possedeva una muscolatura normale. Andava a cavallo, spesso e per lunghi periodi, e questo continuo esercizio ha lasciato chiari segni di logorio. Era noto per la sua indole mite e silenziosa, ma doveva provare in sé una certa inquietudine, come si può supporre dai presumibili segni di bruxismo sulla sua dentatura. Soffriva anche di un tic all’occhio,

trovati i residui dei rami impiegati per alimentare il rogo finale.

secondo una fonte. La descrizione di un testimone oculare, il biografo Albertino Mussato (1261-1329), ci permette di completare il quadro: «Uomo magro, di statura giusta, rosso di capelli e di incarnato, grandi le arcate sopraciliari, con l’occhio sinistro che scopre piú del giusto la sclera. Il naso appuntito si erge su una bella bocca e su un mento regolare; pettinatura alla francese con i capelli sciolti che coprono la nuca nella misura di un pollice. (…) Lento e conciso nel parlare, di lingua gallica ma abbastanza comprensibile per i Latini» (traduzione di Gabriella Albanese). Questo era dunque il sovrano su cui Dante aveva riposto le sue speranze di pacificazione dell’Italia, cosí come le sue aspettative di un ritorno trionfale in patria. Alla vigilia della venuta di Arrigo in Italia scrisse infatti: «Rallegrati ormai,

L’amatissima moglie

Se prestiamo poi fede a una suggestiva credenza diffusa nel XVI secolo, Arrigo dispose che il suo cuore venisse tumulato nella tomba di sua moglie, Margherita di Brabante (vedi box alle pp. 100-101). Non c’è naturalmente alcuna chiara attestazione di questa volontà, e nulla prova, tantomeno, che venisse rispettata, ma è comunque piacevole sottolineare che, a distanza di secoli, fosse ancora vivo il senso di un legame profondo. Arrigo stesso la definí «carissima al suo cuore». Le spoglie di Arrigo ci danno anche qualche dato utile sulla sua fisionomia, dopo accurati esami. Era alto all’incirca 1 m e 78 cm ed era sulla quarantina. Non era di

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Due immagini del prezioso telo di seta rinvenuto nella tomba di Arrigo VII e sottoposto a restauro. L’intervento ha permesso di accertarne l’elevatissima qualità e di attribuirne la realizzazione a un atelier islamico dell’Andalusia.

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o Italia, (…) perché lo sposo tuo, conforto del mondo e gloria del tuo popolo, il clementissimo Enrico, divo Augusto e Cesare, s’affretta alle nozze» (Epistola V, traduzione di Clario Di Fabio). Sembra ormai agevole sostenere che il Fiorentino passò un lungo periodo della sua vita in quella Pisa, a cui pure dedicò terribili parole. La congiuntura determinata dalla venuta di Arrigo consentí quella circostanza che pochi anni prima sarebbe sembrata inconcepibile, come ha evidenziato il compianto dantista Marco Santagata (1947-2020). Il «vituperio de le genti» (Inferno, XXXIII, 79) fu scenario di uno snodo profondo della sua vita, allorché si trovò in un momento di slancio e di riflessione profonda. Fu a Pisa, e sull’onda dell’esperienza pisana, che presero rispettivamente forma

il trattato De Monarchia e la seconda cantica della Commedia.

Colto e «pacifico»

L’incontro con Arrigo fu la fonte di tutto questo, e non certo per un fatto di mera politica. Si trattava sicuramente di un personaggio che emanava equilibrio, autorevolezza e un certo grado di cultura. Non parlava bene il latino, ma era comunque intriso di una raffinata cultura di corte. In rapporti di amicizia con Filippo IV il Bello (che al momento opportuno gli volgerà le spalle), Arrigo aveva persino nell’acconciatura una chiara predisposizione per la Francia, ed è facile pensare che fosse sensibile alla poesia, alla musica e all’arte in generale, in perfetto accordo con la sua fama di rex pacificus.

Questo poteva far presagire la rinascita di un concetto della regalità che non solo facesse giustizia dei particolarismi che frammentavano l’Italia, ma ricreasse il senso di un’armonia universale nel segno delle scienze, delle lettere e delle arti. L’ispirazione profetica di Dante, tutto proteso a una rinascita trionfale delle glorie antiche di Roma nel segno della cristianità, trovava cosí il suo perno in una concezione dell’impero che era al tempo stesso radicata nella tradizione e proiettata in un futuro denso di aspettative. Un punto di contatto tra Dante e Arrigo ci riconduce infine al monumento funebre del sovrano. Tra gli elementi dispersi del complesso c’erano due Angeli reggi(segue a p. 101)

Particolare della decorazione del telo di seta (sciàmito) raffigurante una teoria di leoni passanti, disposti a coppie e con una coda dal tipico ciuffo sull’apice.

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In alto un’altra immagine dei resti di Arrigo VII, avvolti nel telo di seta. A sinistra i due Angeli reggicartiglio che in origine facevano parte dell’apparato decorativo del monumento funebre del sovrano. In basso il teschio di Arrigo VII.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante le esequie di Arrigo VII, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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La morte di Arrigo

Un giallo risolto Che cosa determinò la fine prematura di Arrigo? Scampato alla peste che nel 1311 colpí sua moglie, Arrigo iniziò a manifestare problemi di salute nell’autunno 1312, mentre era accampato a Firenze. Se si esclude la malaria, poté essere affetto da un’infezione diffusa da animali erbivori come i cavalli, l’antrace (dal Bacillus anthracis), noto come carbonchio perché nella sua forma cutanea dà luogo a delle lesioni nerastre sulla pelle. Il carbunculus è chiamato in causa dal medico personale di Arrigo, Bartolomeo da Varignana, e un indizio in tal senso è fornito indirettamente dai resti ossei. Questi, infatti, conservano vistose quantità di arsenico, il che può essere spiegato con il fatto che proprio questa sostanza era utilizzata per curare la malattia. Si può anche

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supporre che gli effetti dell’infezione accelerassero la decomposizione, con un fetore insopportabile, suggerendo il ricorso alla scarnificazione del cadavere. L’accumulo di arsenico, somministrato «a fini benefici» per lunghi periodi, causò senz’altro la morte di Arrigo, a prescindere dal pur grave decorso della malattia. A questo punto, può essere accantonata la pista dell’avvelenamento per mano di un religioso. Il domenicano fra’ Bernardino di Montepulciano, in base a questa ricostruzione, avrebbe approfittato di una funzione privata per somministrare ad Arrigo un’ostia adulterata con estratto di napello. Si tratta di una pianta erbacea che contiene una sostanza, l’aconitina, in grado di provocare una sfilza di reazioni a catena, dalla nausea all’arresto cardiaco.

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Dossier margherita di brabante

Alle soglie del paradiso Margherita di Brabante sposò Arrigo nel 1292, all’età di 17 anni. Come ha evidenziato lo storico dell’arte Clario Di Fabio, «le cronache coeve la descrivono bionda, di statura piú bassa della media, minuta di complessione; nel suo viso, quasi fanciullesco, spiccavano la bocca, piccola, e l’espressione degli occhi, sempre ridente». Era a fianco del marito nella sua discesa in Italia e soggiornò a Genova, dove ad Arrigo fu tributata un’accoglienza trionfale. Fu una donna molto devota, con una particolare predilezione per i Francescani, e lasciò il segno grazie ai suoi numerosi atti di pietà e di generosità. Venne colpita da una epidemia di peste e perse la vita nella dimora suburbana degli Zaccaria, nobili genovesi, nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1311, all’età di 36 anni.

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In un primo momento, l’affranto marito dispose le spoglie in un sarcofago di piombo, all’interno di un catafalco che fungeva da sepolcro provvisorio, nella chiesa di S. Francesco di Castelletto, con l’idea di traslare il corpo in Germania. Giunto a Pisa, però, Arrigo rimase colpito dalla sapienza e dall’abilità dello scultore Giovanni Pisano. Poté ammirarlo al culmine della sua attività, in un ampio raggio di opere presenti in duomo. La Madonna con il Bambino eseguita in avorio per un trittico perduto (1298-99), di gusto prettamente francese, era in linea con la raffinata cultura «gotica» del sovrano, mentre il pergamo – all’epoca sotto la cupola – era un saggio fascinoso e potente di talento e inventiva (1302-10). Lo stesso Giovanni, del resto, aveva realizzato, proprio in onore di Arrigo, un gruppo scultoreo

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per la lunetta della Porta di S. Ranieri (1312-13), in cui la Madonna con il Bambino era affiancata dal re e dalla personificazione di Pisa, presentati alla Vergine da un Angelo per parte. Di tutto ciò rimangono solo due elementi, frammentari, oggi al Museo dell’Opera del Duomo: il gruppo centrale, privo di teste e di braccia, e la stupenda allegoria della città, nella forma di una matrona che allatta due pargoli (oggi perduti). Dal contatto con tali e tante opere, scaturí l’idea di un monumento sepolcrale in onore di Margherita, che Giovanni avrebbe realizzato nella stessa chiesa dei Francescani di Genova, dove il suo corpo era depositato. Proprio l’allegoria di Pisa avrebbe dato l’ispirazione per l’immagine della sovrana che ci rimane. Il monumento funebre di Margherita fu un’opera articolata e di grande originalità, ultimo ed estremo capolavoro dell’artista, giunto nella città ligure nel 1313, alla soglia dei 70 anni. Purtroppo, possiamo solo immaginare a larghe linee quella sontuosa «macchina celebrativa», grazie ai frammenti pervenuti e a diverse testimonianze. Già smontata nel 1602, la tomba ha seguito infatti il destino della chiesa, progressivamente trasformata in abitazioni e via via demolita nel corso del XIX secolo. Il perno drammatico e formale dell’insieme era al centro della struttura. Al di sopra del sarcofago – dove solitamente andava collocata l’immagine del «dormiente» (gisant), completamente rigido e composto –, Margherita era invece rivolta allo spettatore nell’atto di stendersi, assistita da due figure, con la naturalezza di chi si appresta a dormire. Lo schema delle tre figure era riproposto nel gruppo soprastante, che è possibile oggi ammirare, sia pur frammentario, nel Museo genovese di S. Agostino. Si tratta della composizione nota come elevatio animae sommitale. Margherita si desta dal sonno, e compie un movimento perfettamente inverso a quello descritto dall’afflosciarsi del corpo al momento del trapasso. Il suo sguardo è illuminato e pervaso dalla luce celeste, e tutto il suo corpo si rianima, sotto l’effetto di una energia lieve ma inesorabile. Giovanni esprime l’estasi con l’abbandono dello sguardo e con la bocca appena socchiusa, in un sorriso lieve e impalpabile. Non è un ritratto di Margherita, tanto che – come si è accennato – quel volto si ricollega all’allegoria di Pisa per lo schema fisionomico, espressione di una femminilità trasfigurata in un concetto sublime. Non ha nulla dei tratti minuti e infantili della sovrana, ma ne incarna in pieno l’anima devota a Dio, alle soglie del paradiso.

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Nella pagina accanto il gruppo scultoreo che costituiva l’elemento centrale del monumento funebre realizzato da Giovanni Pisano per Margherita di Brabante. 1313. Genova, Museo di Sant’Agostino.

cartiglio, che finirono per migrare sulla facciata del duomo, proprio sugli attacchi degli spioventi del timpano. Sono stati poi trasferiti al Museo dell’Opera, per rientrare nel gruppo degli altri elementi precedentemente dispersi. Le epigrafi in versi che corrono sui cartigli recitano: «Lussemburghese fu questo conte, celebre spada / esempio, stirpe, nobiltà, bellezza / Enrico settimo, virtú e atteggiamento aperto / e re dei re per grazia del divino apostolo. | Luce, fiore, maestà, forza del mondo, / speranza e potere e dignità e vita ora giace cosí qui dentro / da dove, solo, insegna agli uomini anche mirabili: / ogni uomo viene chiuso nella tomba» (traduzione di Anna Rosa Calderoni Masetti). Se non fu opera di Dante, l’epitaffio è perfettamente in linea con la sua concezione dell’impero – propugnata da Arrigo stesso – come realtà universale ricondotta all’autorità celeste, senza mediazione pontificia. In perfetta coerenza con lo stile delle figure, i versi esprimono poi una visione classica della morte, che non si affida alla rinascita ultraterrena, bensí alla memoria dei presenti. Arrigo era già ridotto a una coltre di ceneri, e quell’idea di un impero universale, che aveva tenacemente difeso, era ormai al tramonto. Ma poté resistere fino a noi, trasfigurata nella visione profetica del poeta fiorentino.

Da leggere Ovidio Capitani, Enrico VII, in Enciclopedia Dantesca, Treccani, Roma 1970; anche on line su treccani.it Clario Di Fabio (a cura di), Giovanni Pisano, la tecnica e il genio, 1. Novità e approfondimenti sul monumento a Margherita di Brabante, Museo di Sant’Agostino, Genova 2001. Giuseppe Petralia, Marco Santagata (a cura di), Enrico VII, Dante e Pisa, Longo Editore, Ravenna 2016. Anna Rosa Calderoni Masetti, Prede belliche dai paesi dell’Islam nelle fonti pisane dell’XI e del XII secolo, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», LXI (2019), n. 2; anche on line su academia.edu

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Echi di un’antica gloria CARTOLINE • Quando

i suoi membri ancora si chiamavano Cavalieri di San Giovanni, l’Ordine di Malta fissò a Venezia la piú antica delle sue sedi italiane. Un complesso ricco di storia, custode di straordinari tesori d’arte

In alto Venezia. Una veduta esterna del complesso che ospita il Gran Priorato dell’Ordine di Malta.

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una Venezia piú intima, quasi segreta all’eterogenea folla accalcata in piazza San Marco, quella riscoperta percorrendo le calli, le salizade e i rami secondari che conducono al Gran Priorato di Lombardia e Venezia del Sovrano Militare Ordine di Malta. Penetrando nella zona orientale del sestiere Castello, passo dopo passo i turisti si diradano, l’odore salmastro dell’acqua prende il sopravvento e la parlata locale si fa sempre piú accentuata. Ad annunciare quanto si è prossimi alla meta è l’identità melitense rivelata nei toponimi Corte San Giovanni di Malta e Ponte de la Comenda. L’origine del complesso monumentale, ritenuto la sede

piú antica dell’Ordine giovannita in Italia e dalla quale si governa la circoscrizione territoriale piú numerosa – circa 1200 membri, divisi in 10 Delegazioni –, risale a una donazione fatta nel 1187. Ripercorriamone allora le tappe fondamentali della storia e dell’architettura. Il 1° ottobre 1187 papa Urbano III perde la Città Santa, riconquistata dal leggendario condottiero curdo Salah al-Din, Saladino. Al fine di tornare a occupare Gerusalemme, il pontefice decide di istituire la Santa Alleanza, alla quale aderiscono, oltre ai maggiori regni europei, anche gli Ospedalieri di San Giovanni Battista, che, dal 1530, con la cessione da parte ottobre

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Quel Battesimo al cospetto del priore Fra i capolavori che impreziosiscono la chiesa figura il Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini. L’imponente tavola (216 x 199 cm), ordinata per decorare l’altare maggiore dal priore fra’ Sebastiano Michiel, fu consegnata dal maestro nel 1504. San Giovanni vi è ritratto mentre battezza Gesú nelle acque del Giordano, al cospetto di un Cavaliere giovannita e di due angeli. La composizione e i personaggi, eccetto l’immagine del committente, riprendono il modello impiegato da Bellini nel Battesimo di Cristo realizzato per la chiesa di S. Corona a Vicenza. Nel quadro veneziano, però, l’inserimento del patrizio veneto in sostituzione del terzo angelo, dipinto invece nell’iconografia tradizionale del Battesimo rispettata nella pala vicentina, comportò un mutamento nella gerarchia delle figure, il cui schema compositivo rimanda al Battesimo di Cristo eseguito da Cima da Conegliano fra il 1492 e il 1494 per la chiesa veneziana di S. Giovanni in Bragora. Secondo la convenzione figurativa del donatore, nel quadro in S. Giovanni del Tempio il priore appare inginocchiato di profilo e in preghiera, mentre il Salvatore è sopraelevato su una pedana naturale. Il primo piano appartiene perciò a Cristo, al Battista e al Cavaliere giovannita. Tutti e tre sono disposti sulla diagonale della tavola, sottolineata anche dagli elementi del paesaggio, rendendo quasi marginale la presenza dei due angeli in posizione arretrata. Con la soppressione napoleonica del Gran Priorato l’opera d’arte finí nei magazzini dell’Accademia. Nel 1822 alcuni registri la attestano in cattivo stato di conservazione nel «deposito della Commenda di Malta». Spedita a Vienna, nel 1838 era esposta nel museo di Corte. Fu riconsegnata solo nel 1919. Ricollocata nella chiesa di S. Giovanni Battista dell’Ordine di Malta, per cui era stata originariamente eseguita, è stata restaurata di recente.

Battesimo di Cristo, dipinto su tavola di Giovanni Bellini. 1504. L’opera era in origine collocata sopra l’altare maggiore della chiesa di S. Giovanni.

dell’imperatore Carlo V delle isole di Malta, Gozo e Cumino, saranno chiamati Cavalieri di Malta.

La fondazione Per il soccorso prestato, grazie all’intercessione papale, il 9 novembre 1187 i Giovanniti, stanziati a Venezia almeno dal 1144, ottengono dal vescovo di Ravenna un appezzamento di due ettari, denominato Fossaputrida, nel quale innalzare una domus ospitalis, destinata ad accogliere i cavalieri che sarebbero giunti dal Nord-Est dell’Europa. Il primo nucleo a essere eretto fu quello a ovest, perché il canale della Pietà, che costeggia il Gran Priorato, con un pescaggio di quattro metri, era il corso d’acqua navigabile piú vicino all’Arsenale e, di conseguenza, il piú idoneo al transito e alla sosta delle imbarcazioni cariche dei materiali destinati alla costruzione. Su questo terreno furono innalzati Il pozzo collocato nel cortile del complesso, decorato con una vera donata dalla famiglia Arimondo.

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Un protagonista della vita veneziana Artefice dei restauri quattrocenteschi il priore Sebastiano Michiel, ritratto da Gentile Bellini nella Processione della Croce in piazza San Marco (1496, Venezia, Gallerie dell’Accademia) e da Vittore Carpaccio nel Miracolo

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della reliquia della Croce a Rialto (1494, Venezia, Gallerie dell’Accademia) e nella Vocazione di San Matteo (1502, Venezia, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni), fu un importante personaggio nella Venezia rinascimentale e anche fuori di essa.

Citato piú volte nei Diarii (1496-1533) del cronista Marin Sanudo, Michiel ricoprí la carica di priore dal 1490 al 1498 e ottenne dai papi Innocenzo VIII e Alessandro VI di poter usufruire dei benefici ecclesiastici del Priorato, nonostante ottobre

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Le «Scuole» e i loro tesori Un tempo la chiesa di S. Giovanni al Tempio ospitava anche alcune «Scuole», vale a dire sodalizi che avevano fini di culto e beneficenza, posti sotto la protezione di un santo patrono e dotati di una mariègola (= madre-regola). Tra le associazioni annesse la piú antica fu quella di San Giovanni Battista, trasferitasi nel 1425 dalla vicina chiesa di S. Giovanni Laterano. Nel 1445 essa ottenne anche una parte dell’ospizio di S. Caterina, proprietà dell’Ordine, da sempre seguace del duplice carisma giovannita riassunto nel motto: «tuitio fidei et obsequium pauperum», testimonianza di fede e servizio ai piú deboli. Probabilmente, i confratelli accedevano alla struttura attraverso la porta sormontata dal bassorilievo col Battesimo di Gesú, che ancora oggi si ammira in Corte San Giovanni di Malta. Un’altra congregazione a ottenere l’accesso fu la Scuola dalmata dei Ss. Giorgio e Trifone, detta Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni, poiché i Dalmati era chiamati Schiavoni. Nel Quattrocento i coloni provenienti dalla Dalmazia (= Schiavonia) erano numerosi. Si trattava soprattutto di marinai, che si stabilivano a Venezia o vi sostavano di frequente. Cosí, il 19 maggio 1451, il doge Francesco Foscari, con un decreto del Consiglio dei Dieci, ne approvò la mariègola. La comunità ricevette in enfiteusi perpetua dal priore, fra’ Lorenzo Marcello, un altare e l’ospizio di S. Caterina, per erigervi la propria sede, dietro corresponsione di un tributo annuo di quattro ducati d’oro, di cera e di pani, da consegnare nel giorno della festa del patrono san Giorgio. La scultura raffigurante la Madonna in trono, con ai lati San Giovanni Battista, Santa Caterina d’Alessandria (patrona della Lingua d’Italia) e un devoto, forse un Cavaliere giovannita, in mostra nel salone dell’archivio priorale, in passato ornava probabilmente l’ospitale di S. Caterina. Ma c’è molto di piú. Tra il 1502 e il 1507 il pittore Vittore Carpaccio dipinse uno stupendo ciclo di teleri, che tuttora decorano la Scuola Dalmata. Una delle tele illustra l’episodio di san Girolamo mentre conduce nel convento un leone ammansito, provocando la rapida fuga dei monaci. Secondo la tradizione, sullo sfondo appaiono gli edifici granpriorali, come si presentavano prima dei restauri condotti alla fine del Quattrocento. Sulla sinistra, si vede la chiesa preceduta da un nartece, uno spazio porticato a ridosso della facciata, ove coloro che non erano battezzati assistevano alla celebrazione della messa. Il quadro ritrae anche un plurisecolare particolare edilizio veneziano: le pietre svuse, ossia bucate. Nelle antiche costruzioni, in prossimità delle finestre, si era infatti soliti collocare assi in legno, inserite su davanzali bucati di marmo, con la biancheria stesa ad asciugare.

qualunque disposizione contraria. Inoltre a Roma partecipò al Concilio Lateranense aperto da papa Giulio II nel 1512 nella basilica di S. Giovanni in Laterano, in contrapposizione con quello indetto a Pisa da un gruppo di cardinali dissidenti.

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San Girolamo e il leone nel convento, telero di Vittore Carpaccio. 1502-1504. L’opera fa parte del ciclo realizzato dal pittore per la Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni (o Scuola Dalmata) e mostra il santo che conduce con sé la fiera a cui ha tolto una spina dalla zampa e che perciò si è fatta mansueta, ma semina comunque il terrore fra i monaci.

lo «spedale», il chiostro, la chiesa e tutte le palazzine che prospettano sul lato destro della Corte San Giovanni di Malta, sulla Calle dei Furlani e sul Campo delle Gatte, adiacenti all’orto. Quest’ultimo, concepito nel Duecento come hortus conclusus del convento e trasformato nel Seicento in spazio aperto all’italiana – traboccante di

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In alto la Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni (o Dalmata). A destra particolare di una delle monofore del chiostro del complesso. In basso la pietra tombale di fra’ Bertucci Contarini, Gran Priore di Venezia, morto nel 1490 circa, ricollocata lungo la parete della navata sinistra della chiesa.

messaggi allegorici ispirati alla storia melitense o alla religione – occupa 3500 mq ed è ritenuto la piú estesa area verde privata esistente nel centro storico di Venezia.

Un’architettura superba La fisionomia che i fabbricati dovevano avere nei tempi piú antichi ci è per lo piú ignota. I peducci in pietra alla base del distrutto campanile, il chiostro che appare sostanzialmente quello originale, qualche traccia di affreschi riapparsa nel 1957 e ampliata nel

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2009 nel corso dei restauri sul lato esterno della chiesa, sono le remote vestigia di quei secoli lontani. L’attuale definizione della superba architettura si delinea durante il notevole rimaneggiamento della fine del XV secolo, commissionato dal priore fra’ Sebastiano Michiel. Da allora, eccetto piccolissimi interventi di modifica, la struttura delle fabbriche è rimasta invariata. La xilografia con la pianta di Venezia, disegnata da Jacopo de’ Barbari nell’anno 1500, riproduce la chiesa e il convento di S. Giovanni ottobre

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del Tempio, detto poi di Malta o, dai Veneziani, dei Furlani (per la folta presenza in zona della comunità friulana), nell’aspetto planimetrico e volumetrico mantenuto tuttora. La visita al Gran Priorato, restaurato nel biennio 2013-2014, inizia dal chiostro, affacciato su una corte vasta e luminosa. Nell’uso del colore bianco, caratteristico dell’architettura tradizionale mediterranea, ma insolito nello stile costruttivo veneziano, sembrerebbe richiamare stilemi d’ispirazione spagnola. Un’ipotesi che sembrerebbe confermata dalla presenza di un cavaliere

In alto uno scorcio del cortile della commenda. L’aspetto attuale del complesso è in larga parte frutto degli interventi di restauro promossi alla fine del Quattrocento. A sinistra rilievo raffigurante san Giorgio che uccide il drago, collocato all’esterno dell’edificio della Scuola dalmata dei Ss. Giorgio e Trifone, detta anche degli Schiavoni.

proveniente dalla Spagna tra i fondatori del monastero. Circondato su tre lati da portici, il cortile è decorato con una vera da pozzo che, regalata dalla famiglia Arimondo – titolare della Commenda di Treviso nel 1565 –, orna a sua volta un sottostante pozzo duecentesco alla veneziana, costituito da una cisterna per il filtraggio e la raccolta dell’acqua piovana, posizionata a quattro metri di profondità e contenente circa seicento litri. Un breve corridoio collega il lungo porticato, dedicato

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alla quiete e alla meditazione, alla chiesa. Quest’ultima era in origine suddivisa in tre navate, terminanti con tre absidi, e possedeva sette altari. Sul finire del XV secolo le due navate laterali scomparvero, riadattate ad altre funzioni, e il tempietto si configurò ad aula unica monoabsidata. Sostituí la precedente copertura un tetto ligneo a due falde, articolato in quattordici capriate decorate a tempera con tema floreale e ricavato da uno «squero», un dismesso cantiere navale dell’Arsenale, scoperchiato per assemblare galee dall’alberatura piú elevata, allora in voga.

La confisca e la riconsacrazione Della chiesa, matrice delle altre chiese del Priorato, era titolare il Gran Priore di Venezia. Non soggetta alla giurisdizione del Patriarca, vi officiavano i Cappellani d’Obbedienza, e dopo la caduta di Malta, i Cappellani Conventuali Professi. Confiscata da Napoleone

il 30 aprile 1806, fu restituita all’Ordine di Malta nel 1839 e riconsacrata il 24 giugno 1843. Di fianco all’edificio sacro si erge il cinquecentesco palazzo priorale, in passato destinato anche ai ricevimenti ufficiali. Talvolta risulta indicato come palazzo ministeriale, poiché in aggiunta ad alcuni Gran Priori, vi abitarono anche i luogotenenti. Costoro riunivano le cariche di Ricevitore e di Ministro, ossia ambasciatore dell’Ordine presso la Repubblica veneta. Tra gli ambienti piú solenni del Palazzo vi è il salone in cui è collocato l’archivio, custode di oltre otto secoli di vita dell’Ordine nella Serenissima. Catalogato in trentacinque classi, probabilmente rappresenta l’unica raccolta di documenti riguardanti i Priorati, sopravvissuta alla devastazione dell’epoca napoleonica, ancora in possesso di un organismo dell’Ordine. Chiara Parente

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Quando i santi prendevano le armi

Morire per la troppa sapienza di Paolo Pinti

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aterina è ricordata come fanciulla di stirpe regale (secondo la Legenda Aurea, era figlia del re Costa, o del re di Costa, che la lasciò orfana giovanissima), ma, in realtà, nulla sappiamo di preciso sulla sua famiglia e la sua nascita, che si ritiene avvenuta nell’anno 287. Piú sicura è, invece, la data di morte, il 305: in seguito alle dimissioni degli augusti Diocleziano e Massimiano, il cesare Galerio fu nominato augusto e, a sua volta, attribuí il titolo di cesare al nipote Massimino Daia. Questi, ad Alessandra d’Egitto, si fece allora celebrare con grandi feste, proprio nell’anno 305. Ed ecco allora che incontriamo la stessa scena, ripetuta per un gran numero di sante martiri: durante i festeggiamenti, che prevedevano sacrifici di animali agli dèi pagani, la nostra Caterina si presentò all’imperatore, invitandolo a desistere dall’idolatria. Sempre secondo la Legenda Aurea, il sovrano (che nel testo è designato come Massenzio, ma molti ritengono che vi sia stato un errore di trascrizione, dovendosi trattare invece di Massimino Daia) rimase affascinato dalla bellezza di Caterina, tanto da chiederle di sposarlo, ma fu colpito anche dalla sua sapienza e incaricò numerosi sapienti di convincere la giovane a rinunciare alla fede: i quali, però, di fronte alle sue risposte e alle sue argomentazioni, finirono con il

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convertirsi. Massimino fece allora giustiziare i sapienti e condannò Caterina a essere straziata da una ruota provvista di uncini acuminati. Seguendo un canone ricorrente, la ruota si ruppe e le schegge uccisero i carnefici. Salvatasi dalla tortura, Caterina riuscí a convertire persino la moglie dell’imperatore, il quale dovette con ogni probabilità disapprovare la cosa, dal momento che era un noto anticristiano.

Dottore della Chiesa Alla fine, Caterina venne fatta decapitare e gli angeli portarono il suo corpo sul Sinai, su un’altura chiamata da allora Gebel Katherin (la Montagna di Caterina), accanto a Gebel Musa (la Montagna di Mosè). Fu dichiarata «Dottore della Chiesa», per la disputa vittoriosa con i sapienti pagani, e viene ricordata come una dei quattordici Santi Ausiliatori. Santa Caterina viene quasi costantemente raffigurata come una giovinetta in abiti principeschi e con corona regale, non diversamente da altre sante, quali Barbara. A volte vediamo Gesú che le infila al dito l’anello da sposa, a ricordare le nozze mistiche, in quanto, pur chiesta in sposa da molti uomini importanti, ebbe in sogno la visione della Madonna con il Bambino che le infilava l’anello al dito facendola sponsa Christi e tale divenne. In realtà, la sua stessa esistenza è

Nella pagina accanto Martirio di Santa Caterina, olio su tela del Guercino (al secolo, Giovanni Francesco Barbieri). 1653. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. Nel dipinto il carnefice sta per decapitare la santa servendosi di una storta, un tipo di spada molto diffuso e che il Guercino inserí in molte sue opere, e dietro di lui si vede la ruota dentata con la quale Caterina era stata in precedenza sottoposta a tortura. stata messa in discussione e due studiose (Anna Brownell Jameson e Silvia Ronchey) ritengono che vi fu una martire, Ipazia, la cui vicenda è simile a quella di Caterina e che ne sarebbe stata la vera (e unica) protagonista. Occorre tuttavia osservare che Ipazia era pagana e fu uccisa (martirizzata) ad Alessandria d’Egitto, nel 415, da monaci parabolani, che erano cristiani fanatici. Piú esattamente, Ronchey ipotizza che la storia di Ipazia sia stata nel tempo rielaborata, fino a trasformarla in Caterina.

Descrizioni puntuali Gli attributi che accompagnano la santa sono il libro, simbolo della sapienza, la ruota dentata, spesso spezzata, e la spada, usata per la decapitazione. È interessante notare che nei dipinti la spada è costantemente, o quasi, di modello europeo e mai orientale: in molti casi, l’arma è descritta perfettamente, con ottobre

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CALEIDO SCOPIO cura dei particolari della lama e del fornimento, come nella tela Santa Caterina d’Alessandria del Caravaggio, eseguita nel 1598-1599 e oggi conservata al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, oppure in un’opera meno conosciuta, ma interessante, del Museo Diocesano di Spoleto, con la santa, insieme alla Madonna e al Bambino e a san Carlo Borromeo e, in primo piano, un pezzo della ruota uncinata e una spada splendidamente rappresentata. Nel Martirio di Santa Caterina d’Alessandria del Guercino, conservato al Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo (vedi foto a p. 109), il carnefice, con alle spalle la ruota strutturalmente sana, ma senza piú gli uncini, si accinge a decapitare la giovane con una robusta storta, arma peraltro molto cara all’artista, che la inserisce piú volte nei suoi lavori, soprattutto nei disegni.

Un repertorio completo Questa martire è caratterizzata, dal punto di vista della sua raffigurazione artistica, con una varietà impressionante di spade, tutte rispondenti fedelmente alle tipologie in voga all’epoca della realizzazione dell’opera pittorica. Riunendo in un volume le centinaia di immagini della santa, otterremmo una panoplia incredibilmente ricca dei tipi di spada esistiti dal XIV al XVIII secolo e tale da costituire un valido supporto per la datazione dei reperti dello stesso modello. È patrona delle giovinette e in special modo, delle sartine, da lei dette «Caterinette». Per le sue doti di sapiente è patrona delle arti liberali in genere, mentre per il supplizio della ruota lo è delle professioni che, in qualche modo, hanno a che fare con ruote, o con ferri acuminati: fabbricanti di carri, mugnai, tornitori, arrotini, barbieri, e, soprattutto, ceramisti.

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A sinistra, sulle due pagine Santa Caterina d’Alessandria, olio su tela del Caravaggio (al secolo, Michelangelo Merisi). 1598-1599 circa. Madrid, Museo Nazionale ThyssenBornemisza. Ricorrono nel dipinto gli attributi tipici della santa: la ruota dentata (in questo caso spezzata), la spada e la palma del martirio. A destra Sposalizio mistico di Santa Caterina, tempera su tavola di Michelino da Besozzo. 1420 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale. La Vergine sorregge il Bambino proteso verso Caterina nell’atto di metterle al dito l’anello nuziale; ai lati, fanno da testimoni san Giovanni Battista e sant’Antonio Abate, quest’ultimo accompagnato da un maialino, che lo identifica quale protettore degli animali domestici.

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Santa Caterina d’Alessandria e santa Barbara sarebbero confondibili fra loro nell’iconografia religiosa, in quanto entrambe raffigurate con abiti principeschi e la corona, la palma del martirio e (spesso) una spada, ma per santa Caterina è presente (non sempre, in verità) la ruota dentata spezzata, mentre per santa Barbara abbiamo la torre e, spesso, un pezzo d’artiglieria (vedi «Medioevo» n. 296, settembre 2021; anche on line su issuu.com). Come per san Sebastiano e molti altri, fra i simboli figurano sia gli strumenti di tortura utilizzati contro

il martire – spesso inutilmente – sia l’arma che, alla fine, è stata usata per ucciderlo, molto spesso una spada. Ma vi può essere confusione con altri strumenti (o armi) legati non al martirio, bensí alla professione esercitata o a miracoli compiuti in vita. Per esempio, san Leonardo di Noblac è costantemente identificabile perché tiene in mano una catena o dei ceppi da carcerato, ma non perché sia mai stato imprigionato, bensí perché era lui che liberava i prigionieri che riteneva innocenti, a ciò autorizzato dal Clodoveo, re dei Franchi Salii.

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Lo scaffale Gianpaolo Serone, Alessio Patalocco La Cattedrale di Viterbo Rilettura di un manufatto architettonico Edizioni ArcheoAres, Viterbo, 175 pp.

18,00 euro ISBN 9788899822576 www.archeoares.it

Come si legge fin dalle prime pagine del volume, l’archeologo Gianpaolo Serone e l’architetto Alessio Patalocco hanno inteso superare il paradosso critico, i numerosi interrogativi e gli sviluppi problematici che ancora oggi segnano il palinsesto architettonico proprio della Cattedrale di Viterbo, edificio nodale dal punto di vista topografico e urbanistico nello sviluppo storico artistico della città. Facendo dialogare le scarse, reticenti, e spesso elusive fonti documentali con i recenti dati autoptici di carattere stratigrafico – desumibili dall’apparecchiatura muraria oppure derivanti dal rilievo metrico dell’intero monumento –, gli autori riescono non solo a contestualizzare la storia dell’edificio

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all’interno delle complesse dinamiche dello sviluppo dell’odierno Colle del Duomo, ma anche a illustrare le molteplici fasi di modificazione e trasformazione del complesso – sovrappostosi alla primigenia pieve altomedievale di S. Lorenzo – succedutesi ininterrottamente dal XII secolo fino al ripristino del 1952. Questa analitica e salda rilettura dell’impianto architettonico interno e della facciata permette ulteriori essenziali acquisizioni, quali, per esempio, la definitiva conferma della diretta relazione tra l’omogenea edificazione della Cattedrale e l’elevazione della città a sede vescovile; la definizione del braccio fiorentino quale unità di riferimento nella progettazione dell’impianto planimetrico originario; cosí come la stretta interrelazione delle sue articolazioni e partiture interne con la serie di Fibonacci; nonché il delinearsi, nel cosiddetto «Maestro della facciata», sulla base di numerosi indizi e accorgimenti architettonici adottati, di una personalità assai vicina a Jacopo

Barozzi o al Vignola. L’apparato iconografico e l’appendice documentaria chiarificano, ampliano e sviluppano il denso portato del testo, come attestano i rimandi alle molteplici planimetrie, prospetti e rilievi atti a tratteggiare lo studio dei moduli geometrici di costruzione oppure le

dodici fasi del cantiere, o, ancora, l’ampia sezione fotografica antecedente il ripristino postbellico dell’edificio, cosí come le tabelle in appendice, volte a schematizzare le differenti attestazioni delle cappelle e le fasi del restauro. Il volume si impone quindi come contributo imprescindibile alla conoscenza della Cattedrale viterbese, e, come auspicato nell’introduzione, offre un innovativo ed essenziale spunto per ulteriori ricerche e indagini. Luca Salvatelli

Fabrizio Ricciardelli I Medici Il potere di una dinastia

Mauro Pagliai Editore, Firenze, 111 pp., ill. col.

15,00 euro ISBN 978-88-564-0466-1 www.leonardolibri.com

Il binomio MediciFirenze ha fatto storia, ben oltre i confini della città del giglio e questo volume ripercorre in maniera concisa, ma puntuale, la straordinaria parabola di una delle piú celebri casate d’Italia e d’Europa. Nei capitoli iniziali, Fabrizio Ricciardelli definisce il contesto sociale, politico e culturale che fece da sfondo all’ascesa, a lungo irresistibile, di una famiglia che, originaria del Mugello, già ai primi del Duecento risultava impegnata nel prestito di denaro. E proprio tale attività, oltre a favorirne l’arricchimento, diede modo ai suoi membri di profilarsi in maniera sempre piú netta. La svolta decisiva si lega all’avvento di Giovanni di Bicci de’ Medici, primo artefice dei successi medicei, il quale, muovendosi abilmente in un contesto politico pieno di insidie e divisioni, riesce ad assumere una posizione di

preminenza, che rinsalda grazie al mecenatismo, inaugurando una tradizione destinata a caratterizzare anche i suoi discendenti. Sfilano quindi i grandi protagonisti del Rinascimento, non soltanto fiorentino: Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico, con i quali la dinastia medicea tocca il suo momento forse piú

fulgido. Ma anche i secoli successivi vedono avvicendarsi personaggi di primissimo piano, fra i quali non manca piú di un pontefice e che continuano a dare lustro alla nobile schiatta, per esempio negli anni in cui si afferma il regime granducale. In chiusura, l’autore torna alla Firenze tre-quattrocentesca, che, come scrive, divenne grazie ai Medici una vera e propria «città ideale». Stefano Mammini ottobre

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Nel segno di Svitino MUSICA • La Narratio metrica de S. Swithuno

scritta dal cantore Wulfstan e il Tropario di Winchester fanno da filo conduttore al nuovo progetto discografico realizzato dall’Ensemble Dialogos. Che conferma la propria maestria nel misurarsi con le piú antiche forme di polifonia

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on Swithun!, l’Ensemble Dialogos torna a occuparsi di polifonie primitive: un repertorio con il quale si è già cimentato con successo. La registrazione propone alcuni brani tratti dal Tropario di Winchester, redatto nei primi anni dell’XI secolo nell’omonima abbazia benedettina. Queste musiche, oggi conservate in due codici – il Corpus Christi College 473 di Cambridge e il Bodleian Library, Bodley 775 di Oxford –, costituiscono una ricca fonte per lo studio delle prime forme polifoniche che, all’inizio del Mille, iniziarono a essere praticate assecondando l’esigenza, sempre piú sentita, di arricchire il canto liturgico, sino ad allora costituito da una singola voce melodica (canto monodico liturgico). Attraverso forme improvvisative e la sperimentazione, i monaci cantori cominciarono dunque a unire alla singola voce del repertorio monodico (vox principalis) una seconda voce (vox organalis), creando un canto a due, con andamento melodico, che vede privilegiare intervalli di quarta, quinta e ottava; si vennero cosí delineando le basi di quella che sarebbe stata di lí a poco la straordinaria stagione della polifonia. La scelta dei brani confluiti nel CD è stata ispirata da Svitino, vescovo di Winchester nel IX secolo, divenuto poi santo in seguito ai numerosi miracoli attribuitigli. Alla sua figura,

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il cantore Wulfstan dedicò, tra il X e l’XI secolo, la Narratio metrica de S. Swithuno, il piú ampio poema anglo-latino in esametri virgiliani precedente la conquista normanna che sia giunto fino a noi.

In balía di «tre furie» La presente silloge si ispira, in particolare, al miracolo delle tre furie, creando una sorta di trama narrativa, incentrata sulla storia di un vecchio che assalito appunto da «tre furie», impersonate da tre donne, viene infine salvato da Svitino. Grazie ai testi della Narratio e alle melodie del Tropario di Winchester viene creata una narrazione in cui si esalta la figura del santo attraverso un paesaggio sonoro particolarmente suggestivo, con bellissimi passaggi a due voci, a tratti caratterizzati da andamenti melismatici che rievocano quasi un atteggiamento orientaleggiante di grande fascino. Ai passaggi in contrappunto si alternano quelli a voce sola, in un contrasto senza soluzione di continuità, dove il canto a voce sola trova una naturale predisposizione nello sdoppiarsi in due, creando un intreccio polifonico primitivo, ma, al tempo stesso, intessuto di grande modernità. Le antiche melodie del Tropario, notate con l’antico sistema dei neumi, lasciano evidentemente

Swithun! Demons and Miracles from Winchester around 1000 Arcana A 491, 1 CD Ensemble Dialogos direzione di Katarina Livljanic https://outhere-music.com spazio a una certa libertà interpretativa ed è qui che subentra l’approccio creativo, con le voci che intervengono con improvvisazioni sull’antica melodia dando luogo, in alcuni momenti, a un linguaggio moderno. Questo progetto discografico nasce dalla collaborazione della musicologa Susan Rankin e le improvvisazioni musicali di Katarina Livljanic, direttrice e componente del quartetto vocale, tutto al femminile, Dialogos. Voci raffinatissime, voluttuose, che si lanciano con grazia estrema nei delicati contrappunti di un repertorio che è alle origini del linguaggio musicale occidentale, con un approccio interpretativo che riesce a fondere atmosfere antiche e moderne in un affascinante continuum temporale. Franco Bruni ottobre

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