Medioevo n. 294, Luglio 2021

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DA NT FIR EA E L B NZ AR E GE LL O

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

GLI UBALDINI

SIGNORI DELL’APPENNINO OLTRE LO SGUARDO I SEGRETI DEL GRIFONE DI PISTOIA SLAVI ORIENTALI LA RUS’ DI KIEV TEMPLARI · OSPITALIERI · TEUTONICI LA GRANDE AMBIGUITÀ DELLE ARMATE DI DIO

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Mens. Anno 25 numero 294 Luglio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 294 LUGLIO 2021

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 3 LUGLIO 2021



SOMMARIO

Luglio 2021 ANTEPRIMA

36 COSTUME E SOCIETÀ

UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA La legge è uguale per tutti

OLTRE LO SGUARDO/6 Quell’animale ibrido e divino

MOSTRE Ritratto di un esule illustre

STORIE, UOMINI E SAPORI Delizie bizantine sul Monte Athos di Sergio G. Grasso 104

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QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Il tragico errore di Giuliano di Paolo Pinti 108

STORIE L’INTERVISTA Gli Ordini religioso-cavallereschi

Con la spada e con la croce

incontro con Giuseppe Ligato, a cura di Roberto Roveda

26

26

STORIE Pia dei Tolomei Siena mi fe’, disfecemi Maremma... testi di Piero Simonetti e Roberto Farinelli

36

LIBRI Lo Scaffale

a cura di Stefano Mammini

MUSICA Dall’isola del discanto di Franco Bruni

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Dossier

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CALEIDOSCOPIO

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di Mila Lavorini

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

di Furio Cappelli

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di Federico Canaccini

RUS’ DI KIEV Il trono conteso di Rus’ di Francesca Zago

Ubaldini della Carda I SIGNORI DEGLI APPENNINI testi di Leonello Bei, Federico Fioravanti ed Elisabetta Carlino

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MEDIOEVO n. 294 LUGLIO 2021

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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MEDIOEVO Anno XXV, n. 294 - luglio 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Presidente Federico Curti

Hanno collaborato a questo numero: Leonello Bei è presidente dell’Associazione Amici della Storia di Apecchio. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Elisabetta Carlino è curatrice della mostra «Ubaldini. Signori degli Appennini». Francesco Colotta è giornalista. Roberto Farinelli è ricercatore e professore aggregato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Federico Fioravanti è giornalista e ideatore del Festival del Medioevo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Marino Pagano è giornalista. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Roberto Roveda è cultore della materia in storia medievale all’Università di Bergamo. Piero Simonetti è studioso della storia della Toscana. Francesca Zago è storica dell’arte medievale. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Fine Art Images/Heritage Images: copertina (e p. 90); AKG Images: pp. 36/37, 59, 60, 64-65, 66, 68/69, 69, 106/107; Archivio Vasari/Alessandro Vasari: p. 39; Fototeca Gilardi: p. 41: Album/Fine Art Images: p. 57; Album: p. 61; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 67; CM Dixon/Heritage Images: p. 68 (alto); Erich Lessing/Album: p. 72; Electa/Bruno Balestrini: p. 76; Electa: p. 95 – Shutterstock: pp. 5, 33, 42/43, 44/45, 46/47, 48, 52/53, 54, 62/63, 74-75 – Opera Laboratori, Ufficio Stampa-Firenze Musei: pp. 6-8, 10-12 – Doc. red.: pp. 27, 28-31, 34, 38, 40, 70 (basso), 71, 73, 87, 89 – Cortesia degli autori: pp. 42, 45, 79, 80 (alto), 81, 84/85, 86, 88, 96-103, 108-111; ex asta Artemide Kunstauktionen, 06.10.2019, e-live Auction 9, lotto 829: p. 58 – da: Guida alle chiese romaniche di Ascoli Piceno, Ascoli Piceno, 2007: Domenico Oddi: p. 70 (alto) – Ferruccio Cucchiarini: ricostruzioni grafiche alle pp. 82, 93 – County Museum of Art, Los Angeles: pp. 82/83 – Alamy Stock Photo: pp. 104-105, 106 – Cippigraphix: cartina a p. 56 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 80, 93. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Ritratto di Guidobaldo da Montefeltro, olio su tavola di Raffaello. 1507-1508. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Nel prossimo numero 20 agosto 636 I califfi sul fiume Yarmuk

ecologia

medioevo nascosto

Quando la Pianura Padana Carinola, una era una foresta cittadella nella Campania Felix

oltre lo sguardo

L’Albero di Jesse


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

La legge è uguale per tutti

N

ota è la vicenda che vede Dante esule: senza le pene dell’esilio, del resto, è difficilmente immaginabile la genesi stessa della Commedia. Si deve però ricordare che l’Alighieri, nel suo bimestre come priore, si trovò a dover prendere decisioni draconiane, mandando in esilio persino gli amici. Il 13 giugno del 1300 risultarono eletti, in qualità di priori, Goffo di Guido, Nello d’Arrighetto Doni, Ricco Falconetti, Bindo di Donato Bilenchi, Neri di Iacopo del Giudice e, appunto, Dante Alighieri: due giorni dopo si insediarono e dovettero affrontare immediatamente una questione assai spinosa. Del resto il poeta farà risalire il suo esilio e i suoi patimenti alle decisioni assunte nel corso del suo priorato: «Tutti li mali e l’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato abbono cagione e principio», ci assicura Leonardo Bruni. Prima dell’insediamento dei neoeletti nel Palazzo del Bargello, era stata emessa una sentenza contro tre congiurati i quali, in accordo con papa Bonifacio VIII, avevano tramato contro Firenze e la sua autonomia politica. I nuovi priori dovettero dare esecuzione alla sentenza: Dante, dunque, assieme ai colleghi, sottoscrisse la condanna al

pagamento di duemila lire, nonché al taglio della lingua contro Noffo di Quintavalle, ser Cambio da Sesto e Simone di Gerardo. L’uso di amputare parti del corpo (dita, mani, piedi, lingua, naso, orecchie) trova le sue origini medievali nel diritto germanico: il taglio della lingua veniva utilizzato soprattutto nel caso di crimini legati alla diffamazione, allo spergiuro e alla blasfemia. Poche settimane piú tardi, in ossequio alle leggi e guidato dall’amore per la sua città, l’Alighieri si trovò poi a dover firmare (e forse addirittura a proporre) un provvedimento che avrebbe messo al confino otto capi di Parte Nera, e sette di Parte Bianca, tra cui, il suo amico Guido Cavalcanti. Il provvedimento fu motivato da gravi incidenti scoppiati alla vigilia della festa di san Giovanni, quando alcuni magnati avevano preso a malmenare i consoli delle Arti: la punizione doveva essere esemplare, con l’obiettivo di ripristinare ordine e pace in città. Dante non poteva però immaginare che i Neri, con la complicità di Bonifacio VIII, Matteo d’Acquasanta e Carlo di Valois, avrebbero preso il potere di lí a poco, decretando la rovina di molti guelfi Bianchi, nonché l’esilio dell’Alighieri.

Uno scorcio del Palazzo del Bargello a Firenze, realizzato come sede delle istituzioni cittadine e nel quale esercitavano le proprie funzioni anche i priori, carica alla quale Dante Alighieri venne eletto nel 1300.

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ANTE PRIMA

«D

Ritratto di un esule illustre MOSTRE • Non tutti sanno che la piú antica effigie di

Dante, dipinta nientemeno che da Giotto, si trova nel Museo del Bargello. Oggi, dopo un articolato restauro conservativo e conoscitivo, l’affresco accoglie i visitatori in apertura di una mostra dedicata a quell’«onorevole e antico cittadino» di Firenze 6

ante Alighieri, poeta chiarissimo (...) di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto (...) Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso». Con queste parole, Giovanni Boccaccio delinea fisicamente uno dei personaggi piú illustri della letteratura italiana, nel Trattatello in laude di Dante, redatto nel 1362 e in cui la Commedia viene per la prima volta definita Divina. L’autore del Decameron può essere considerato il primo biografo del rimatore fiorentino, sebbene non lo avesse mai incontrato e, quindi, avesse dovuto raccogliere le testimonianze luglio

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di chi, invece, lo aveva conosciuto nei luoghi in cui lo «scomodo» esule aveva vissuto. Grazie alle informazioni recuperate, Boccaccio poté fornire una verosimile descrizione anche comportamentale e morale dell’Alighieri che «ne’ costumi domestici e publici mirabilemente fu ordinato e composto, e in tutti piú che alcuno altro cortese e civile (...): li dilicati lodava, e il piú si pasceva di grossi, oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con somma diligenzia apparare; affermando questi cotali non mangiare per vivere, ma piú tosto vivere per mangiare». Eppure, nonostante i dati in suo possesso, Giovanni non menzionò mai il ritratto di Dante, ritrovato da Antonio Marini nel 1840 nella cappella della Maddalena, al primo

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piano dell’attuale sede del Museo del Bargello. Intenzionale oppure per ignoranza, il silenzio su quella effigie, ritenuta la piú antica ed eseguita da Giotto e dalla sua bottega, resta un quesito su cui gli specialisti discutono da decenni.

Qui sopra un particolare dell’allestimento della mostra dedicata a Dante. In alto, sulle due pagine l’affresco, attribuito a Giotto e alla sua bottega, nel quale compare il ritratto di Dante (particolare sopra il titolo). Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

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ANTE PRIMA In occasione delle celebrazioni dantesche, è stato organizzato un articolato piano di studio e restauro conservativo dell’affresco, oltre alla ricostruzione del rapporto tra il poeta e la sua città natale, che ha portato alla mostra «Onorevole e antico cittadino di Firenze. Il Bargello per Dante».

Incontro di discipline Bandito dal luogo natío e costretto a un allontanamento quasi ventennale, il politico fu oggetto di grande interesse, tanto che già lo storico Giovanni Villani lo considerava un «grande letterato, quasi in ogni scienza», elogiandolo nella sua Novella cronica proprio con l’espressione che si ritrova nella prima parte del titolo di questa ricercata esibizione; l’evento espositivo è il risultato di un progetto nato al fine di creare un dialogo tra varie discipline, in una narrazione polifonica. Gli argomenti in esame riguardano gli anni immediatamente successivi alla morte di Dante, sino a giungere alla metà del Trecento, con la presentazione di personalità, iniziative, luoghi e temi, attraverso oltre cinquanta pezzi, tra cui pregiati manoscritti e codici miniati, esposti in sei sezioni, allestite appunto nel Palazzo del Bargello, che fu il primo edificio pubblico della storia fiorentina. Acquistando terreni e stabili, alcuni di proprietà della vicina Badia, e inglobando la preesistente torre della Volognona, nel 1255 si procedette all’edificazione dell’imponente e severa struttura in pietraforte, con lo scopo di alloggiare il Capitano del Popolo, incarico istituito essenzialmente per contenere il potere delle famiglie nobili. Nel Cinquecento, Giorgio Vasari attribuí il progetto del nucleo originario a Lapo Tedesco, ipotetico padre e maestro di Arnolfo di Cambio, architetto di punta al termine del XIII secolo,

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Frontespizio del Paradiso, da un’edizione della Divina Commedia copiata da Francesco di ser Nardo da Barberino e miniata dal cosiddetto Maestro delle effigi domenicane. Milano, Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana.

in una Firenze economicamente all’apice in Europa. Molte e complesse furono le attività, talvolta devastanti, che interessarono il fabbricato, nelle epoche successive, a partire dai cambi di destinazione d’uso; nel 1260, infatti, arrivò un nuovo inquilino, il Podestà, magistrato straniero, con il compito di dirimere le dispute tra le tante fazioni cittadine, amministrando la giustizia civile e penale. Al contempo, si assistette all’inizio degli ampliamenti, a piú riprese, del palazzo, con la realizzazione di cortile interno, verone e scalone e l’aggiunta di nuovi corpi di fabbrica. Abolita tale carica, al principio del XVI secolo, diventò sede dei giudici, fino a quando Cosimo I decise di trasformarlo in carcere, dando il via a gravi danneggiamenti strutturali. L’attuale nome gli fu imposto in quel frangente, visto che divenne, contemporaneamente, la residenza

del Bargello, titolo assegnato al capo dell’antica magistratura, denominata Otto di Guardia e Balia, con funzione di mantenere l’ordine. Per estensione, il termine indicava anche l’edificio in cui, dopo essere stati catturati dagli sbirri, criminali e traditori venivano interrogati e talvolta giustiziati. Ecco che avvenne uno stravolgimento a livello architettonico e decorativo, sia esternamente che interiormente; negli spazi piú ampi si ricavarono trentadue celle, mentre altre zone furono adibite a vari utilizzi. Le modifiche comportarono, inoltre, l’occultamento mediante scialbatura delle esistenti pitture su muro, nel 1570, e la successiva perdita del loro ricordo, nella memoria collettiva, seppure vi siano tracce di quegli ambiti nelle dissertazioni di autori come Lorenzo Ghiberti e Giorgio Vasari. (segue a p. 10) luglio

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ANTE PRIMA Lignum vitae, tempera e oro su tavola di Pacino di Bonaguida. 1315-1320. Firenze, Galleria dell’Accademia. Nella pagina accanto frontespizio del Purgatorio, da un’edizione della Divina Commedia miniata dal Maestro delle Effigi domenicane. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. effettuata «a secco», ricca di rifiniture a tempera con pigmenti molto preziosi, come il cinabro, il minio, la biacca, il giallorino e l’azzurrite applicata su una preparazione a morellone, un ossido molto scuro, non comuni nella pittura murale. Sull’intonaco antico è stata rinvenuta una decorazione anteriore a quella giottesca, eseguita a mo’ di specchiature in finto marmo dalla tricromia giallo, verde e nero mentre, sulla malta stesa al di sopra, è emerso un disegno preparatorio realizzato con un tratto rosso identificabile con la sinopia.

Tecniche non invasive

Furono le ricerche dello storico Seymour Kirkup, nell’Ottocento, a risvegliare l’attenzione per l’icona dantesca e a far partire una gara appassionante per ritrovare il capolavoro nascosto; la vicenda ebbe risvolti complessi e forte spirito competitivo che, però, contribuirono alla fondazione, nel 1865, del primo museo nazionale del Regno d’Italia, grazie allo spostamento alle Murate del complesso carcerario e al ripristino dell’originario schema edilizio dello stabile. Il recupero del ciclo ornamentale,

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tramite un difficile e controverso descialbo, inclusa la maldestra estrazione di un chiodo in corrispondenza dell’occhio sinistro del presunto volto di Dante, e i successivi provvedimenti dettero il via a una lunga serie di polemiche sull’azione del restauratore, come il trattamento a neutro dei «vuoti». Effettuato nel biennio 2003-2004 e limitato a un terzo dell’intera area, l’ultimo, parziale intervento permise di approfondire la conoscenza della tecnica, raffinata ed eterogenea, in gran parte

La recente pulitura, imposta dalle alterazioni cromatiche della superficie e di fissativi organici, ha visto l’impiego di una metodologia che non coinvolgesse a fondo gli strati originali della pittura, limitandone la penetrazione, optando per il mantenimento delle lacune neutre. Durante le due fasi comprese tra il 1321 e il 1337 circa, in cui si lavorava agli abbellimenti, nella Cappella venivano tenuti i condannati a morte in attesa della loro esecuzione, assistiti nel cammino verso il patibolo dai confratelli della Compagnia dei Neri, cosí chiamata per via del colore della veste indossata e della «buffa», il cappuccio che copriva loro interamente testa e faccia. Ciò ci introduce al tema degli affreschi, incentrato sulla vita di Maddalena, penitente esemplare, e di san Giovanni Battista, protettore della città, figure accompagnate da scene relative all’Inferno e al Paradiso, tra i cui eletti, nel giorno del Giudizio luglio

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Universale, è collocato il profilo di Dante, con la sua Commedia e un ramo di pomi tra le mani, dalla probabile finalità meditativa. L’intento ritrattistico, però, pare essere provato da alcuni personaggi dalle sembianze riconducibili al re Salomone e all’imperatore Traiano.

Condanna a morte In quella stessa Sala dell’Udienza del Palazzo del Podestà, oggi nota come Salone di Donatello, che lo aveva visto dinamico protagonista per gli affari politici, il 10 marzo 1302, il letterato fu condannato al rogo «per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estorsive, proventi illeciti, pederastia», insieme ad altri quattordici esponenti dei guelfi di parte Bianca, come riportato nel Registro, in prestito dall’Archivio di Stato. La sentenza che decretava la pena capitale, confermata nel 1315, questa volta tramite decapitazione, significava l’esilio perpetuo da Firenze per lo scrittore, la cui riabilitazione definitiva si è avuta soltanto nel 2008, sebbene il processo per il riscatto della sua grandezza avesse preso avvio subito dopo la sua scomparsa, di cui ricorre quest’anno il settecentenario. E fra le manifestazioni organizzate in tutta Italia, il Bargello ha curato una rassegna in cui le vicende professionali e umane di copisti, miniatori, commentatori, lettori e volgarizzatori si intrecciano fittamente, offrendo l’immagine di una città, culla di vitalità letteraria e sperimentazione codicologica, che sembrò dilatarsi in uno scriptorium diffuso, proprio intorno alla Commedia. Perduta la prima fase di trasmissione dell’opera, già a partire dagli anni Venti del XIV secolo, si assiste a un fenomeno insolito nella letteratura medievale,

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cioè la produzione quasi seriale di esemplari da parte di vari amanuensi, tra cui Pacino di Bonaguida e il Maestro delle Effigi domenicane che, sostanzialmente, nel secondo quarto del Trecento, monopolizzarono il mercato fiorentino. Di quest’ultimo non conosciamo l’identità, se non il nome convenzionale originato da una tavola con raffigurazioni di santi e beati dell’Ordine domenicano, da lui compiuta per

la chiesa di S. Maria Novella. Due personalità artistiche versatili, che si riflettono nei riquadri di carattere narrativo, talvolta dai contenuti teologici complessi, tradotti in illustrazioni che facilitano la comprensione, come testimoniano le Chiose Palatine, miniature antecedenti al 1333, eseguite da Pacino: si tratta di antiche annotazioni in volgare all’Inferno, con trentacinque iniziali

decorate e trentasette vignette. I primi commenti fiorentini alla composizione dantesca, spesso anonimi, si contraddistinguono per l’uso di scritti classici per spiegare i versi. Tra quelli in mostra, troviamo un raro manuale di istruzioni per un miniatore di una lussuosa copia, recentemente scoperto. Pacino di Bonaguida è, però, presente anche con il Lignum Vitae, pala a tempera e oro, prestata dalla Galleria dell’Accademia, presumibilmente databile tra 1315 e 1320. Dipinta per il convento delle Clarisse di Monticelli, è la trasposizione pittorica di una elaborata iconografia ispirata dal Lignum Vitae del francescano san Bonaventura da Bagnoregio, opuscolo di meditazioni sulla vita di Cristo, a cui qui si aggiunge la storia della Genesi per meglio comprendere il significato del sacrificio di Gesú e della salvezza. Fra i manoscritti, spicca lo Specchio Umano di Domenico Lenzi, noto come Libro del Biadaiolo, dal mestiere del suo autore, ma di trascrittore anonimo, conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana. Lenzi fu un mercante di grano, vissuto nel capoluogo toscano, nella prima metà del XIV secolo, del quale non si hanno molti dati biografici e che scrive sugli avvenimenti che riguardavano il mercato di Orsanmichele; nel suo diario riporta, accanto ai prezzi delle granaglie, la politica annonaria del comune e i tumulti scoppiati in circostanza della carestia degli anni Trenta. In mezzo alle preziose miniature che ornano il testo, vi

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ANTE PRIMA sono componimenti poetici che si legano ai principali soggetti sviluppati, dando cosí vita a un unicum composito che ci dà un interessante quadro di storia sociale. Valorizzazione e rielaborazione della memoria portarono alla nascita di una stagione fondamentale per la storia del libro in volgare, che vide la partecipazione di differenti professionalità e collaborazioni, incluso quelle legate al mondo notarile, che si ritrovarono ad agire insieme anche in contesti di natura diversa. E cosí fu per Francesco di ser Nardo da Barberino, nativo della Valdelsa, unico a firmare i suoi lavori, e per tre ignoti colleghi, i cosiddetti copisti di Parm, Lau e Cento, che, tra l’altro, furono in grado di differenziare le loro trascrizioni, variando lo stile, secondo le richieste dei committenti. A Francesco è attribuita la paternità del frontespizio del Paradiso di una Commedia, conservata a Milano, nell’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana, uno dei piú antichi e importanti documenti del settore, in cui Dante è incoronato poeta, dopo aver chiesto l’aiuto di Apollo. Risale probabilmente a una sua iniziativa, la creazione di una laboriosa «officina scrittoria», editrice del cosiddetto gruppo del Cento, e cioè di circa un centinaio di codici facenti capo alla tradizione testuale espressa dal Gaddiano. Queste pergamene hanno caratteri materiali simili, col testo su due colonne, senza commento e con

decorazione miniata limitata al frontespizio delle tre cantiche, con grafia che denota la mano di un notaio, come si evince dal Pluteo 40.12, dalla Biblioteca Medicea Laurenziana. Secondo un’antica tradizione, riferita da Vincenzo Borghini, Francesco si procurò il denaro per maritare le figlie copiando, appunto, «cento Danti».

Prestiti eccellenti Arriva dalla Pierpont Morgan Library di New York, invece, il commento dell’Amico dell’Ottimo, copiato dal notaio Andrea Lancia che ci ha lasciato una raffinata pagina, dove Lucifero al fondo dell’Inferno, diavolo alato con tre teste, in piedi, con le gambe nel ghiaccio, divora le nude anime di Bruto, Giuda, e Cassio; intanto, Virgilio e Dante, con cappello, scalano il suo torso e sette spiriti contorti lo fiancheggiano. Lancia ha inoltre autografato il piú antico codice di lavoro in carta giunto a noi, denso di note. Anche la Spagna ha voluto omaggiare il «sommo» vate, inviando dall’Archivio e Biblioteca Capitolare di Toledo, l’opera autografa di Giovanni Boccaccio, Vita di Dante e raccolta di opere dell’Alighieri, piú conosciuto come Trattatello in laude di Dante. Il pregevole libro fa parte della ricca collezione del cardinale Francisco Javier de Zelada, che, nel Settecento, ebbe un ruolo importante nella politica

ecclesiastica e nella cultura del suo tempo, arrivando a spendere ingenti somme di denaro per la sua biblioteca che contava oltre 6000 pregiati volumi. Un esemplare, con disegni in nero e annotazioni marginali, si trova alla biblioteca Nazionale di Madrid, mentre la Capitolare di Toledo ne custodisce uno con lo stemma del religioso che contiene, oltre al testo del poema con gli Argomenti del Boccaccio in terza rima, la Vita Nuova, le quindici canzoni della tradizione boccacciana e la Vita di Dante del Boccaccio stesso. Riconducibile al biennio 1357-59, è questa la prima delle tre trascrizioni autografe della Commedia che ci rimangono dell’ideatore del Decameron, il quale racconta che Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna, aveva fatto deporre il corpo del cantore in un’arca di pietra. E il grammatico bolognese Giovanni del Virgilio ne disegna una, alla fine del Paradiso, come cornice a un carme in onore del poeta fiorentino, che fa parte dei pezzi in esposizione. Custode permanente di capolavori di Donatello e Michelangelo, il Bargello alberga un repertorio di oggetti in avorio, qualificato come uno dei piú prestigiosi al mondo. In occasione della mostra dedicata a Dante, la sala si presenta in una nuova veste, piú moderna e, soprattutto, piú adeguata alla conservazione e alla fruizione dei delicati manufatti eburnei. Mila Lavorini

DOVE E QUANDO

«Onorevole e antico cittadino di Firenze. Il Bargello per Dante» Firenze, Museo Nazionale del Bargello fino all’8 agosto Orario lu-ve, 8,45-13,30; sa, 8,45-19,00; domenica: prima, terza e quinta del mese, 8,45-13,30; seconda e quarta del mese, 9,00-14,00 Info tel. 055 0649440; www.bargellomusei.beniculturali.it

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ANTE PRIMA

Una sede nuova e di grande valore simbolico L

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

a XXIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, in programma dal 30 settembre al 3 ottobre, avrà luogo al Tabacchificio Cafasso, il sito di archeologia industriale che Gillo Dorfles definí «simbolo della Piana del Sele». Il complesso dell’ex Tabacchificio, a soli 1000 metri dall’area archeologica e ubicato nel Borgo Cafasso – centro rurale sorto agli inizi del secolo scorso e sviluppatosi intorno agli impianti produttivi – è finalmente a disposizione della città di Capaccio Paestum. «Capaccio Paestum – ha dichiarato il Sindaco Franco Alfieri – ha a disposizione una struttura in piú. Abbiamo manifestato interesse all’acquisizione del complesso dell’ex Tabacchificio mediante locazione, con l’obiettivo preciso di acquistare l’immobile, appena sarà possibile. Lo abbiamo fatto non solo per l’importante valore storico-culturale dell’edificio, ma anche per poter mettere a disposizione della collettività un altro spazio, un contenitore prestigioso e imponente da utilizzare per realizzare attività di pubblico interesse all’altezza della storia e dello splendore della Città di Capaccio Paestum, sin dalla prossima edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico». La prestigiosa testimonianza di archeologia industriale è resto materiale del passato, che attesta la progressiva evoluzione della tecnologia e il conseguente mutamento del paesaggio agricolo circostante. L’archeologia industriale, infatti, fa riscoprire le origini della società moderna, ripercorrendo l’iter dell’attuale

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In basso l’ex Tabacchificio Cafasso, destinato ad accogliere la XXIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. progresso: le vecchie fabbriche possono cosí far rivivere il ricordo degli uomini che vi lavoravano e, soprattutto, il lavoro femminile delle «tabacchine». Oltre vent’anni fa una indagine storico-urbanistica e progettuale, nata su proposta dell’architetto Fausto Martino nell’ambito di una ricerca di tesi della Facoltà di Architettura di Napoli e sviluppata secondo gli indirizzi forniti dalla stessa Soprintendenza BAPPSAE, formulava per il manufatto industriale una proposta di intervento di restauro e riconversione a polo fieristico-espositivo per la promozione delle filiere produttive locali. L’ex Tabacchificio rappresenta un esempio mirabile di come agli inizi degli anni Venti l’iniziativa imprenditoriale, dapprima nel settore ortofrutticolo, poi con l’introduzione dell’industria del tabacco, abbia rappresentato un significativo stimolo per lo sviluppo di insediamenti nella Piana del Sele. La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico nacque nel 1998, grazie alla Provincia di Salerno, presieduta allora da Alfonso Andria, che volle sostenere fortemente l’intuizione del Fondatore e Direttore Ugo Picarelli, intravedendo nell’iniziativa una strategica opportunità di valorizzazione dell’area archeologica di Paestum, che era stata riconosciuta, proprio in quell’anno, Patrimonio dell’Umanità, grazie allo straordinario impegno dello stesso Andria. Le prime edizioni fino al 2012 e le ultime, nel 2018 e 2019, si erano svolte in strutture ricettive alberghiere a circa 6 km dall’area archeologica, mentre dal 2013 al 2017 in tensostrutture e cupole geodetiche nei pressi del sito UNESCO. La nuova location, che in occasione dello sbarco durante il secondo conflitto fu utilizzata dalle Forze Alleate quale Quartier Generale del Comandante Clark e poi come Ospedale militare, rappresenta la storia economica e sociale del territorio e dunque pienamente appropriata a svolgere la nuova funzione di infrastruttura culturale al suo servizio e per il suo sviluppo. Info www.borsaturismoarcheologico.it luglio

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AGENDA DEL MESE

Mostre RAVENNA LE ARTI AL TEMPO DELL’ESILIO Chiesa di San Romualdo fino al 4 luglio

Secondo appuntamento del ciclo espositivo «Dante. Gli occhi e la mente», la mostra riunisce testimonianze emblematiche delle tappe dell’esilio dantesco, proponendo ciò che il poeta

ebbe occasione di ammirare nel suo lungo peregrinare per l’Italia, opere la cui eco influenzò la sua Commedia, straordinario «poema per immagini». Ad aprire il percorso espositivo è l’effigie in bronzo dorato raffigurante Bonifacio VIII, cioè di colui che condannò Dante all’esilio. L’ambiente di origine e formazione del poeta, Firenze, è quindi documentato da opere di Cimabue e di Giotto, che con ogni probabilità egli ebbe modo di ammirare. Negli anni successivi l’Alighieri, dopo essere stato costretto ad abbandonare anche Roma, soggiorna in diverse città, tra cui Arezzo, Verona, Padova,

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a cura di Stefano Mammini

Bologna, Lucca e Pisa, in una fase di profonde mutazioni e novità nell’arte, che la mostra documenta attraverso dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie. Intorno al 1319, Dante giunge a Ravenna, mentre in città operavano Giovanni e Giuliano da Rimini, chiamato quest’ultimo a decorare la cappella a cornu epistulae della chiesa di S. Domenico, seguito anche da Pietro da Rimini, di cui la città conserva ancora oggi varie testimonianze. Ed è ai capolavori di questi due artisti che la mostra riserva ampio spazio nella sua sezione conclusiva, intervallandoli a testimonianze legate alla cultura figurativa veneziana, a documentare l’ultima impresa diplomatica svolta nella Serenissima dal poeta. Chiude il percorso la Madonna con Bambino che in origine proteggeva il modesto sarcofago dell’Alighieri e che, per questa occasione, torna per la prima volta a Ravenna, concessa in prestito dal Museo del Louvre, del quale è ora patrimonio. info www.mar.ra.it FORLÍ DANTE, LA VISIONE DELL’ARTE Musei San Domenico fino all’11 luglio

La mostra non vuol essere solo l’occasione per celebrare l’anniversario dantesco, ma, nel momento difficile che tutto il mondo vive, anche un simbolo di riscatto e di rinascita. A Forlí Dante trovò rifugio, lasciata Arezzo, nell’autunno del 1302, rimanendo per oltre un anno presso gli Ordelaffi, signori ghibellini della città. Per la mostra gli Uffizi hanno concesso in prestito alla città romagnola il ritratto dell’Alighieri e quello di

TORINO RITRATTI D’ORO E D’ARGENTO. RELIQUIARI MEDIEVALI IN PIEMONTE, VALLE D’AOSTA, SVIZZERA E SAVOIA Palazzo Madama, Sala Atelier fino al 12 luglio

Farinata degli Uberti di Andrea del Castagno, nonché un altro ritratto, dipinto da Cristofano dell’Altissimo per la serie commissionata da Cosimo I de’ Medici dedicata agli uomini illustri. Si possono inoltre ammirare la Cacciata dal Paradiso terrestre di Pontormo e un disegno di Michelangelo che ritrae un dannato nell’Inferno della Divina Commedia, oltre a una scelta di disegni di Federico Zuccari per l’edizione cinquecentesca illustrata del testo. E poi i personaggi: un busto marmoreo di Virgilio, realizzato dallo scultore settecentesco Carlo Albacini, e una delle piú recenti acquisizioni degli Uffizi, la tela ottocentesca del protoromantico toscano Nicola Monti intitolata Francesca da Rimini all’Inferno. A questa pregevole selezione si aggiungono le opere prestate da musei di tutto il mondo. «Dante, la visione dell’arte» intende dunque essere un momento di riflessione sulla figura del poeta, simbolo dell’Italia, e sul suo immenso lascito: in un rispecchiamento unico tra linguaggio dell’arte e figura letteraria. info www.mostradante.it

La mostra presenta una galleria di busti reliquiario dal Duecento al primo Cinquecento, provenienti da tutte le diocesi del Piemonte e raffiguranti santi legati alle devozioni del territorio e alle titolazioni di determinate chiese locali, oltre ad alcuni esemplari dalla Svizzera e dall’Alta Savoia. Documentati già dall’XI secolo per contenere la reliquia del cranio di certi santi, i busti sono a tutti gli effetti dei ritratti in oreficeria, solitamente in rame o in argento dorato, spesso arricchiti da pietre preziose, vetri colorati e smalti. Una produzione specificatamente medievale, in cui convivono il gusto per il ritratto di tradizione classica – di qui la presenza di dettagli relativi all’acconciatura o all’abbigliamento – e le pratiche devozionali teorizzate da alcuni ecclesiastici e filosofi del XII secolo, secondo cui la contemplazione dell’immagine di un santo, realizzata con

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materiali preziosi, poteva condurre il fedele verso l’elevazione spirituale. I busti e le teste reliquiario si configurano quindi come opere di valenza doppia: sia opere d’arte sia ricettacolo delle reliquie dei santi che rappresentano e in quanto tali oggetto della venerazione dei fedeli. Il Piemonte e l’area alpina contano un numero molto elevato di queste testimonianze per il periodo XII-XVI secolo, soprattutto in rapporto alle altre regioni d’Italia. La mostra vuole documentare questa ricchezza, anche stilistica, cercando di comprendere le ragioni del successo di questa tipologia nel nostro territorio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it RAVENNA INCLUSA EST FLAMMA. RAVENNA 1921: IL SECENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE Biblioteca Classense fino al 17 luglio

«Inclusa est flamma» è un percorso di documentazione storica che ha il suo nucleo centrale nelle celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate l’anno prima proprio in Classense alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce. Vengono esposti libri, manifesti, fotografie, dipinti, manoscritti e numerosi oggetti d’arte conferiti come omaggio a Dante e alla città «ultimo rifugio» del poeta. Ciascuno degli oggetti, testimonianze della storia «ufficiale», offre spunti per raccontare anche storie particolari, spesso sconosciute al grande pubblico e a volte sorprendenti. Il

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Secentenario del 1921 fu preceduto da altri momenti celebrativi di valenza nazionale, come per esempio le «Feste dantesche» del settembre 1908, organizzate dalla Società Dantesca Italiana, che riunirono a Ravenna rappresentanti di città e territori allora sotto la sovranità dell’impero asburgico. Fra i pezzi piú importanti riuniti per l’esposizione vi sono il modello in bronzo del monumento di Dante a Trento, realizzato da Cesare Zocchi nel 1896; Dante nella pineta e I funerali di Dante, opere del triestino Carlo Wostry (1865-1943) e i celebri sacchi donati da Gabriele D’Annunzio e decorati da Adolfo De Carolis col motto «Inclusa est flamma» («la fiamma è all’interno») che dà il titolo alla mostra. I sacchi in tela di juta, contenenti foglie di alloro in omaggio a Dante, furono trasportati in aereo a Ravenna da tre aviatori che avevano partecipato a famose imprese militari di D’Annunzio, come il volo su Vienna del 1918 o l’Impresa di Fiume. Il Vate stabilí un parallelo tra la fiamma che ardeva sulla tomba di Dante e la fiamma perenne che veniva custodita presso il santuario di Apollo a

Delfi, considerato dagli antichi Greci il cuore vivo della loro civiltà. Una simbologia iniziatica che intendeva rappresentare Dante come profeta della Nazione oltre che padre della lingua italiana. info tel. 0544.482112; e-mail: informazioni@classense.ra.it; www.classense.ra.it TORINO LA MADONNA DELLE PARTORIENTI DALLE GROTTE VATICANE Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 20 luglio

vaticana. Si tratta di un affresco – o, meglio, del frammento di un affresco – di grande importanza per la fede e per l’arte. Realizzato da Antoniazzo alla vigilia del Giubileo del 1500, si trovava in origine nel transetto meridionale della vecchia basilica, sopra l’altare della cappella Orsini. Durante i lavori per la costruzione del nuovo S. Pietro, fu staccato dalla parete e collocato nel 1574 in una nicchia dietro un altare, a ridosso del muro che divideva l’antica chiesa dal cantiere della nuova basilica. Qui continuò a raccogliere la devozione dei fedeli e, soprattutto, delle donne in attesa del parto. Rimosso anche da questo luogo nel 1605, venne poi portato nelle Grotte Vaticane e, nel 1616, trovò definitiva collocazione in una cappella ricavata sotto il pavimento della basilica. L’immagine della Madonna delle Partorienti – o «degli Angeli» come veniva chiamata nel Cinquecento - fu allora ridotta di dimensione, perdendo l’originaria mandorla con variopinte figure di cherubini, che tuttavia possiamo ammirare nell’inedita e attendibile proposta ricostruttiva presentata in mostra. info www.palazzomadamatorino.it FIRENZE

Dipinta da Antoniazzo Romano nell’ultimo decennio del XV secolo, la Madonna delle Partorienti viene esposta in anteprima assoluta dopo un lungo e complesso restauro, e la mostra è l’occasione per ammirarla, prima che faccia definitivamente rientro nelle Sacre Grotte della Basilica

«ONOREVOLE E ANTICO CITTADINO DI FIRENZE». IL BARGELLO PER DANTE Museo Nazionale del Bargello fino all’8 agosto

Articolata in sei sezioni, la mostra riunisce oltre cinquanta tra manoscritti e opere d’arte provenienti da biblioteche, archivi e musei e presenta le tappe e i protagonisti della ricostruzione postuma del

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AGENDA DEL MESE ritratto, la prima effigie a noi nota del padre della lingua italiana, si delinea cosí quel processo di costruzione della memoria che permetterà a Firenze di riappropriarsi dell’opera e della figura dell’Alighieri. info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei. beniculturali.it LONDRA THOMAS BECKET: DALL’ASSASSINIO ALLA SANTIFICAZIONE The British Museum fino al 22 agosto

rapporto tra Firenze, l’Alighieri e la sua opera, nel secondo quarto del Trecento. Si tratta di copisti, miniatori, commentatori, lettori, volgarizzatori, le cui vicende professionali e umane si intrecciano fittamente, restituendo l’immagine di una città che sembra trasformarsi in uno scriptorium diffuso, al centro del quale campeggia la Commedia, e in cui i libri circolano con abbondanza e prendono vita nuove soluzioni artistiche e codicologiche proprio in relazione al poema dantesco. Il Museo Nazionale del Bargello è la sede ideale per una mostra che ripercorre il complesso rapporto tra Dante e la sua città natale: nella Sala dell’Udienza dell’allora Palazzo del Podestà (oggi Salone di Donatello), il 10 marzo 1302, il sommo poeta venne condannato all’esilio definitivo; nell’attigua Cappella del Podestà, solo pochi anni piú tardi (entro il 1337), Giotto e i suoi allievi ritraevano il volto di Dante includendolo tra le schiere degli eletti nel Paradiso. Proprio attorno a questo

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La raccolta londinese propone la prima, grande rassegna sulla vita, la morte e il lascito di Tommaso Becket, il cui brutale assassinio, nel 1170,

fu uno degli eventi piú scioccanti dell’intero Medioevo. Cardine del percorso espositivo è l’eccezionale prestito di una delle vetrate policrome della Cattedrale di Canterbury, una delle sette finestre superstiti delle dodici realizzate agli inizi del XIII secolo per fare da corona al (perduto) monumento in onore

dell’arcivescovo nella Cappella della Trinità. A questo capolavoro si affiancano reliquiari, gioielli, medaglie di pellegrini e sculture scelti nella ricca collezione permanente del museo, nonché altri importanti prestiti, che comprendono oggetti forse appartenuti allo stesso Becket, come i manoscritti dal Trinity College e dal Corpus Christi College di Cambridge. info www.britishmuseum.org RAVENNA DANTE NELL’ARTE DELL’OTTOCENTO. UN’ESPOSIZIONE DEGLI UFFIZI A RAVENNA Chiostri Francescani fino al 5 settembre

Dante in esilio è un olio su tela di Annibale Gatti, pittore

forlivese che si formò a Firenze, raggiungendo l’apice della sua carriera artistica nel momento in cui la città divenne la nuova capitale del Regno. Proveniente dagli Uffizi di Firenze, è un’opera notevole sotto il profilo artistico e fondamentale per valore simbolico. La sua presenza a Ravenna nasce, infatti, dal progetto di stretta

collaborazione pluriennale tra il Comune di Ravenna e le Gallerie degli Uffizi, definito con un protocollo ufficiale di intesa. Il documento prevede prestigiosi prestiti per la mostra «Dante. Gli occhi e la mente. Le Arti al tempo dell’esilio» e la concessione da parte degli Uffizi – in un deposito a lungo periodo – di un nucleo di opere ottocentesche dedicate alla figura di Dante Alighieri, da esporre a Ravenna come parte integrante del progetto Casa Dante. Inoltre ogni anno, in concomitanza con l’annuale cerimonia del dono dell’olio da parte della città di Firenze, gli Uffizi presteranno alla città di Ravenna un’opera a tema dantesco. Rinnovando, cosí ancora una volta, il profondo legame tra Firenze, città natale del sommo poeta, e Ravenna, città che lo accolse e suo «ultimo rifugio». All’interno di questo accordo ha preso forma anche il progetto che ha portato all’esposizione della tela a tema dantesco di Annibale Gatti nei Chiostri Francescani. Nel dipinto il poeta è ritratto in un momento di intima riflessione, in compagnia del figlio, nella luglio

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pineta di Classe, citata da Dante nel Purgatorio e luogo a lui caro. E la pineta classense rivive, in questa mostra, oltre che nel dipinto, anche in una selezione di fotografie storiche provenienti dal Fondo «Corrado Ricci» della Biblioteca Classense. info tel. 0544 482.477-356; e-mail: info@museocitta.ra.it; www.mar.ra.it

fama conquistata a Roma, una volta tornato in Friuli si trovò pressato dalle committenze e venne meno al suo intento. Tra le realizzazioni di maggiore importanza vanno annoverate la decorazione di due camerini in Palazzo Grimani a Venezia e l’esecuzione di un lungo fregio a stucco e ad affresco nel castello di Spilimbergo. info www.civicimuseiudine.it/

URBINO

CLASSE (RAVENNA)

SUL FILO DI RAFFAELLO. IMPRESA E FORTUNA NELL’ARTE DELL’ARAZZO Palazzo Ducale fino al 12 settembre

CLASSE E RAVENNA AL TEMPO DI DANTE Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio, Parco Archeologico di Classe fino al 26 settembre

Realizzata in collaborazione con i Musei Vaticani e con il Mobilier National di Parigi, la mostra è dedicata a Raffaello e al mondo degli arazzi e indaga sia l’apporto che il pittore forní in questo specifico settore – per il quale sperimentò invenzioni e realizzò cartoni poi tessuti nelle botteghe fiamminghe –, sia la fortuna che le opere dell’Urbinate conobbero nel corso dei secoli nella produzione di arazzi. Con dodici grandiose pezze tessute nelle migliori arazzerie europee, raffiguranti principalmente le pitture delle Stanze Vaticane, Urbino può esibire, nel maestoso salone del Trono,

Quale città incontra Dante quando arriva a Ravenna nel 1318? Il rapporto con il mare e con le vie d’acqua riveste ancora la stessa importanza che aveva durante l’epoca romana? Che cosa è cambiato e qual è la relazione con

tutta la monumentale opera pittorica del suo cittadino piú illustre, la potenza e l’equilibrio classico che Raffaello raggiunse a Roma, circa 25 anni dopo aver lasciato la sua città natale. Gli spazi nei quali l’artista aveva camminato da bambino accompagnato dal padre Giovanni Santi accolgono la sua opera piú grandiosa, realizzata a Roma per i papi, apprezzata da artisti, critici, conoscitori e dai turisti di tutte le epoche. info www.galleria nazionalemarche.it UDINE ZVAN DA VDENE FVRLANO. GIOVANNI DA UDINE TRA RAFFAELLO E MICHELANGELO (1487-1561) Castello-Gallerie d’Arte Antica fino al 12 settembre

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Giovanni Ricamatore, o meglio, Giovanni da Udine «Furlano», come si firmò all’interno della Domus Aurea, riuniva in sé l’arte della pittura, del disegno, dell’architettura, dello stucco e del restauro. Il tutto a livelli di grande eccellenza. A Roma, dove era stato uno dei piú fidati collaboratori di Raffaello, rimase anche dopo la scomparsa dell’Urbinate. Conquistandosi, per la sua abilità, dapprima il titolo di Cavaliere di San Pietro e quindi una congrua pensione da pagarsi sull’ufficio del Piombo. Alla metà degli anni Trenta del Cinquecento, Giovanni decise di abbandonare la città che gli aveva garantito fama e onori e rientrare nella sua Udine con il proposito di «non toccar piú pennelli». Preceduto dalla

Classe? Qual è la città e quali sono i monumenti che Dante vede? Queste sono le domande alle quali intende rispondere la mostra documentaria allestita al Museo Classis Ravenna. All’epoca di Dante il centro abitato distava circa due miglia dalla costa, era delimitato a est dalla fitta fascia dei pineti, a nord dal fiume Montone, a sud dal Ronco e a ovest da terreni solo

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AGENDA DEL MESE in parte bonificati; attraversata da una fitta rete di fiumicelli e canali limacciosi, la città viveva in una sorta di precario equilibrio fra acque dolci e acque marine. La pineta costituiva una vasta area boschiva che dal Reno arrivava fino a Cervia, correndo parallelamente alla costa adriatica. Alle case povere e per lo piú pedeplane, si affiancavano i rari palazzi signorili, quelli dei Traversari e dei Polentani. Le chiese sono numerosissime, per una popolazione di circa 10 000 abitanti. Ravenna, che aveva tratto profitto dall’attività edilizia in epoca romana, conservava un complesso, unico nel suo genere, di monumenti del V e VI secolo di cui non esisteva l’eguale in altra città. L’unicità, di cui godiamo tuttora, considerando la quasi totale scomparsa delle chiese erette in quei secoli a Costantinopoli, in Palestina e in Siria, era al tempo di Dante ancora piú significativa. La mostra si propone di ricostruire, anche attraverso una ricerca originale e mirata, monumenti e paesaggi di Ravenna e di Classe ai tempi di Dante. Oltre al recupero e alla interpretazione/sistemazione dei documenti disponibili, vengono proposte anche ricostruzioni complessive sia della città che di singoli monumenti, allo scopo di fornire un quadro generale della città e delle sue strutture urbanistiche e architettoniche ai tempi di Dante, con soluzioni fortemente evocative. info https://classisravenna.it/ MILANO LA FORMA DEL TEMPO Museo Poldi Pezzoli fino al 27 settembre

Tema della mostra è il

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rapporto dell’uomo con il tempo, dall’antichità alle soglie dell’età moderna, sviluppato attraverso una trentina di opere tra orologi, sculture, codici e dipinti (tra gli autori: Tiziano, Gian Lorenzo Bernini, Andrea Previtali, Bernardino Mei e Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio). Fulcro dell’esposizione – che si articola in quattro sezioni: La misura del Tempo e dello spazio, Le immagini del Tempo e Nottetempo, Ombre magiche – è una serie di preziosi orologi notturni italiani del Seicento, invenzione dei fratelli Campani per papa Alessandro VII Chigi, con i quadranti dipinti con allegorie del tempo

da famosi artisti barocchi. Accanto ai due esemplari del Museo Poldi Pezzoli, l’uno di Giovan Pietro Callin e l’altro di Wendelinus Hessler, dodici sono provenienti da collezioni private. Da segnalare, nella prima sezione, dedicata alle tappe fondamentali dell’evoluzione tecnologica degli strumenti di misurazione del tempo, la presenza di un rarissimo – praticamente l’unico – svegliatore monastico originale risalente al XV secolo, l’antenato dei primi orologi a

pesi e di una replica dell’Astrario di Giovanni Dondi, la piú complicata macchina astronomica ideata nel Medioevo europeo. Per tutta la durata dell’esposizione sono in programma attività didattiche collaterali: visite guidate con tagli diversi su prenotazione, itinerari didattici e laboratori per bambini e famiglie, un ciclo di conferenze sui temi della mostra affidate a specialisti degli argomenti affrontati. Il calendario degli appuntamenti è consultabile sul sito web del Museo. info www.museopoldipezzoli.it BOLOGNA DANTE E LA MINIATURA A BOLOGNA AL TEMPO DI ODERISI DA GUBBIO E FRANCO BOLOGNESE Museo Civico Medievale fino al 3 ottobre 2021

Richiamandosi al rapporto, intenso e fecondo, che Dante Alighieri ebbe in vita con la città di Bologna, le ragioni della mostra muovono dallo sguardo curioso e dalla attenta sensibilità critica che egli dovette rivolgere verso le arti figurative, di cui dimostrò di essere a conoscenza nei piú importanti sviluppi coevi al suo tempo. Il sommo poeta soggiornò a Bologna in piú occasioni: una prima volta probabilmente intorno al 1286-87, quando forse frequentò, come studente «fuori corso», l’Università. Piú prolungato dovette essere invece il secondo soggiorno, che lo vide trattenersi in città per almeno due anni, dal 1304 al 1306. Dopo aver lasciato Verona, e poi Arezzo, Dante ricercava ora nella scrittura e nello studio il motivo del suo riscatto che l’avrebbe risollevato dall’ignominia dell’esilio, iniziato nel 1302. Ed è

probabile che in queste circostanze abbia scelto proprio Bologna come possibile nuova meta, atta a garantirgli le necessarie risorse per vivere e anche per studiare e scrivere. Una presenza che dovette consentirgli di entrare in contatto con alcuni di quei luoghi deputati alla produzione e alla vendita dei libri, dove probabilmente aveva avuto notizia dello stesso miniatore Oderisi da Gubbio di cui racconta l’incontro, tra i superbi, nell’XI canto del Purgatorio: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’ Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’ all uminar chiamata è in Parisi?” / “Frate”, diss’elli, “piú ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte”». info tel. 051 21939.16-30; e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo; www.museibologna. it; instagram: @bolognamusei VERONA TRA DANTE E SHAKESPEARE. IL MITO DI VERONA Galleria d’Arte Moderna A. Forti fino al 3 ottobre

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L’esposizione è uno dei fulcri dell’articolata mostra diffusa ideata per le celebrazioni del centenario del 2021, che prevede il duplice omaggio al Poeta e alla città di Verona, che gli diede «lo primo tuo refugio e ’l primo ostello» (Paradiso, XVII, 70). La città scaligera, infatti, non è semplicemente lo sfondo della vicenda dantesca, ma ne diventa essa stessa protagonista. Questa specificità, che la caratterizza rispetto alle altre città dantesche, viene valorizzata attraverso un itinerario cittadino che, tramite l’ausilio di una mappa cartacea, porta il visitatore alla riscoperta di ventun luoghi – tra piazze, palazzi, chiese, emergenze monumentali in città e nel territorio – direttamente legati alla presenza del poeta, dei suoi figli ed eredi, e a quelli di tradizione dantesca. La

Galleria d’Arte Moderna propone una selezione di oltre 100 opere, tra dipinti, sculture, opere su carta, tessuti e testimonianze materiali dell’epoca scaligera, codici manoscritti, incunaboli e volumi a stampa in originale e in formato digitale provenienti dalle collezioni civiche, dalle biblioteche cittadine, da biblioteche e musei italiani ed esteri. Nel percorso espositivo,

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che copre un arco cronologico compreso tra Trecento e Ottocento, c’è spazio per la fortuna iconografica dei personaggi danteschi, a partire da Beatrice e Gaddo, ma anche di altre figure femminili e delle tragiche vicende, legate al tema dell’amore e degli amanti sfortunati, di Pia de’ Tolomei e Paolo e Francesca. E proprio quest’ultimo tema introduce il mito di Giulietta e Romeo, giovani innamorati nati dalla penna di Luigi da Porto nel Cinquecento e resi celebri da William Shakespeare in tutto il mondo. info www.danteaverona.it, gam.comune.verona.it PERUGIA RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi fino al 3 ottobre

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione

della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile,

interpretando quel gusto neorinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte. it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria NEW YORK I MEDICI: RITRATTI E POLITICA, 1512-1570 The Metropolitan Museum of Art fino all’11 ottobre

Fra il 1512 e il 1570, Firenze visse una stagione tumultuosa della sua storia e, da repubblica governata da funzionari eletti, si trasformò in un ducato, retto dalla famiglia Medici. Figura chiave di questo passaggio fu Cosimo I, il quale, all’indomani della morte del

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AGENDA DEL MESE

suo predecessore, Alessandro, divenne duca nel 1537. Per rafforzare l’immagine di uno Stato dinastico, il nuovo signore della città si serví della cultura anche in chiave politica, ingaggiando le migliori menti e i piú valenti artisti del tempo. Riflesso di questa temperie è la nuova mostra allestita dal Met, nella quale sono riunite opere di maestri del calibro di Raffaello, Jacopo Pontormo, Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini, solo per citare alcuni dei nomi piú illustri. Oltreoceano è giunto anche il pregevole ritratto della poetessa Laura Battiferri, un olio su tavola dipinto da Agnolo Bronzino fra il 1555 e il 1560, concesso in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio e restaurato per l’occasione grazie al supporto di Friends of Florence. info www.metmuseum.org SIENA MASACCIO, MADONNA DEL SOLLETICO. L’EREDITÀ DEL CARDINAL ANTONIO CASINI, PRINCIPE SENESE DELLA CHIESA Cripta del Duomo fino al 2 novembre

Antonio Casini, vescovo di Siena tra il 1408 e il 1426, fu un principe della Chiesa al centro della politica religiosa del suo tempo, tanto da essere definito «l’altro papa» da un diplomatico. Insigne umanista

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e teologo, possedette numerose opere, tra cui la Madonna col Bambino, detta «del solletico», di Masaccio, tangibile segno del suo intenso legame con la Vergine Maria. Antonio Casini nacque, per via paterna, da una eminente famiglia di archiatri pontifici, mentre la madre era imparentata con la famiglia Colonna, la medesima di Martino V, il papa dal quale fu creato prete cardinale del

titolo di San Marcello nel 1426. Come ha osservato Antonio Paolucci, «è ragionevole pensare che la Madonna del solletico sia stata dipinta in quella occasione o poco dopo. In quel dipinto si incontrano due destini. Da una parte il potente prelato, ricco e sagace protagonista del suo tempo, già vescovo di Siena che con la nomina cardinalizia tocca il culmine della sua fortuna politica. Dall’altra Masaccio, un giovanissimo artista che sta affermandosi faticosamente sulle piazze artistiche di Firenze e della Toscana». info https://operaduomo.siena.it SPOLETO INCANTO TARDOGOTICO. IL TRITTICO RICOMPOSTO

DEL MAESTRO DELLA MADONNA STRAUS Museo Diocesano fino al 7 novembre

In occasione del restauro dei due sportelli laterali della Collezione Vaticana, raffiguranti due sante poco note – Paola Romana ed Eustochio –, madre e figlia che vissero all’epoca di san Girolamo (fine del IV secolo), se ne è approfondito lo studio e si è cercato di trovare lo scomparto centrale perduto: ora individuato al Museo Diocesano di Spoleto in una tavola frammentata, che raffigura una Madonna in trono col Bambino tra due angeli reggicortina. Sebbene mutilo della parte inferiore, il dipinto appare stilisticamente affine ed è stato riconosciuto come centro del trittico. L’opera ornava in origine l’altare della cappella di S. Maria presso il castello di Abeto di Preci, da cui l’appellativo di «Maria Santissima di Piè di Castello». Al fine di approfondire lo

studio di un pittore di elevatissima qualità non abbastanza noto, è stata selezionata anche un’opera piú tarda da mettere a confronto, la Madonna in trono col Bambino tra due angeli, oggi custodita nel Museo di Arte Sacra e Religiosità

Popolare «Beato Angelico» di Vicchio del Mugello. E proprio grazie a questo accostamento è possibile intuire le dimensioni originarie della Madonna di Spoleto, gravemente danneggiata nel terremoto del 1703. Due momenti del percorso del Maestro della Madonna Straus, attivo a Firenze tra il 1385 e il 1415, un pittore che, da un iniziale neogiottismo, lentamente si apre al nuovo stile internazionale, accogliendo in parte i modi di Lorenzo Monaco e di Gherardo Starnina, ma mantenendo sempre una sua originale arcaicità. info tel. 0577 286300; e-mail: duomospoleto@operalaboratori. com; www.duomospoleto.it BRESCIA DANTE E NAPOLEONE Palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 15 dicembre

La mostra è compresa nel piú vasto programma di iniziative organizzate dall’Ateneo di Brescia-Accademia di Scienze Lettere e Arti con Fondazione Brescia Musei per celebrare due miti, a 700 anni dalla morte di Dante e, al contempo, a 200 da quella di Napoleone. Il progetto indaga valori, ideali e sentimenti che si addensarono intorno ai due personaggi, descrive un’epoca, i suoi protagonisti, il collezionismo, le tendenze, all’insegna di un comune denominatore: l’Europa. Per la mostra «Dante e Napoleone» sono state riunite oltre 80 opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e medaglie, provenienti da collezioni pubbliche e private, in dialogo con il percorso permanente della casa-museo di Paolo Tosio. Opere che documentano l’interesse largamente diffuso per i due luglio

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grandi personaggi: Alighieri in quanto riferimento delle aspirazioni civili e identitarie della nazione, della quale il poeta era considerato l’unificatore dal punto di vista linguistico; Bonaparte in quanto percepito come colui che, grazie alla costituzione della Repubblica prima e del Regno italico poi, aveva avviato un processo di formazione della coscienza nazionale che diede vita al Risorgimento e all’unificazione della Penisola. info www.ateneo.brescia.it, www.bresciamusei.com AREZZO OMAGGIO AL SOMMO POETA. PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI Palazzo della Fraternita dei Laici fino a dicembre

La mostra propone documenti d’archivio e testi a stampa che inseriscono a pieno titolo la città di Arezzo nell’itinerario delle vicende dantesche. Il percorso, volutamente circoscritto, ma scientificamente documentato, è organizzato nelle sale del prestigioso e antico palazzo di Fraternita (XIV-XV secolo). L’esposizione si apre con una sezione che, attraverso documenti notarili e autorevoli fonti, illustra il legame di Dante e della sua famiglia con Arezzo: il soggiorno del poeta tra il 1303 e il 1304 e la presenza del fratello Francesco

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in città per la stipula di un contratto. Nel nucleo centrale appare egemone il ruolo svolto in quegli anni dall’antica Fraternita dei Laici, che vive allora il passaggio da istituzione religiosa e assistenziale a organismo laico riconosciuto dal Comune. Sono quindi esposti gli antichi Statuti, l’elenco dei confratelli iscritti, le riforme e i lasciti testamentari. È poi la volta dalle splendide edizioni a stampa della Commedia e volumi un tempo appartenuti alla stessa Fraternita che,

FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 16 gennaio 2022 (prorogata)

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre

spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it

Appuntamenti riccamente illustrati, testimoniano dal XV al XVI secolo, l’enorme fortuna dell’opera dantesca. Tra queste, spicca la pregiata edizione della Commedia (1481), illustrata, secondo l’attribuzione di Giorgio Vasari, da Sandro Botticelli. L’esposizione si conclude con il ritratto a stampa di Dante proveniente dalla Collezione Bartolini ed eseguito da Angelo Volpini nel XIX secolo (stampa di Carlo Lasinio), icona e simbolo della mostra: l’immagine si distingue da altre effigi del poeta in virtú del cartiglio esplicativo, che ne ricorda la genesi da una maschera originale del poeta. info e-mail: info@ fraternitadeilaici.it; www. fraternitadeilaici.it; Fb: Fraternita dei Laici

POPPI (AR)

PAVIA

DANTE ESULE TRA GLI ESULI Castello dei conti Guidi 23-25 luglio

PROGETTO DANTE Castello Visconteo e Broletto fino al 22 ottobre

Il Comune di Poppi celebra il settecentenario dantesco in modo originale, con uno sguardo aperto sull’oggi e sul tema degli esclusi. Se, infatti, il poeta fu un grande escluso del suo tempo, esule assieme a molti altri, nel Medioevo furono diverse le categorie di esclusi dalla società: disabili, mendicanti, maghi, omosessuali. Oggi come allora, il pregiudizio è un ostacolo da affrontare e non da aggirare. Se ne parlerà in un convegno internazionale che vedrà, tra gli altri, la partecipazione Franco Cardini, Paolo Cammarosano e Marco Bartoli. info tel 0575 502221; www. comune.poppi.ar.it

Pavia rende omaggio al sommo poeta con un ricco calendario di iniziative, fra cui un ciclo di incontri, organizzato con la consulenza del Comitato di Pavia della Società Dante Alighieri, che mira ad approfondire la figura dell’autore della Divina Commedia e a scoprire le ragioni del suo successo, immutato dopo 700 anni. 22 luglio, ore 18,30, Castello Visconteo: Dante. Un’epopea pop, conferenza di Giuseppe Antonelli (professore ordinario di linguistica italiana, Università di Pavia). info tel. 0382 399343; e-mail: cultura@comune.pv.it; www.vivipavia.it

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

IL MILLENNIO DEGLI ANIMALI

Storie di uomini, fiere e lupi mannari Miniatura raffigurante un segugio che, tenuto da un valletto, segue una pista, da un’edizione del Livre de la chasse di Gaston Fébus illustrata sotto la direzione del Maestro dell’Épître d’Othéa. 1408-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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GLI ARGOMENTI LI O MA EV NI IO A D I E GL L M NE

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N°43 Maggio/Giugno 2021

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STORIE DI UOMINI, FIERE E LUPI MANNAR I

IL MILLENNIO DEGLI ANIMALI

Ma il Medioevo è anche l’epoca in cui molti animali assumono valori simbolici potenti, fino a diventare, spesso, l’incarnazione di principi filosofici e religiosi. E, naturalmente, accanto a questo universo immateriale e spesso onirico, c’è invece la concretezza della vita quotidiana, fatta di allevamento, sfruttamento e, soprattutto, caccia. Il nuovo Dossier di «Medioevo» offre dunque l’occasione di scoprire questa realtà multiforme, che assume anche il valore di specchio della società. Proponendo un vivace e variopinto «serraglio», tutto da sfogliare, per vedere da vicino sua maestà l’orso (perché il leone venne dopo), i nobili destrieri dei cavalieri, ma anche l’inafferrabile fenice…

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ascino, ammirazione, curiosità… ma anche terrore e repulsione: sono questi i sentimenti suscitati, da sempre, dal mondo animale e che, nel millennio medievale, trovano nuove forme d’espressione, prime fra tutte l’arte della miniatura e la scultura. I secoli dell’età di Mezzo, infatti, ci appaiono letteralmente affollati dalle creature che con noi abitano la terra e, non a caso, proprio in quel tempo prendono forma i bestiari, vivacissime raccolte in cui sfilano esseri reali e fantastici, resi con tratti ora realistici, ora grotteschi.

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• NOI E GLI ANIMALI Insieme da sempre • IL CANE Compagni di caccia • L’ORSO Cosí bestiale, cosí umano! • LA LEPRE O la fuga o la vita • IL CAVALLO Una storia al galoppo • ANIMALI SELVATICI ED ESOTICI Liberi per natura • LA SCIMMIA Quel «parente» poco amato • IL LEONE Sia lode al re! • ANIMALI FANTASTICI Prodigi viventi • I LUPI MANNARI Stregati dalla luna • LA FENICE La magnifica illusione MEDIOEVO

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ordini religioso-cavallereschi

Con la spada e con la croce

incontro con Giuseppe Ligato, a cura di Roberto Roveda

Destinati a segnare le sorti del proprio tempo, gli Ordini militari dei Templari, degli Ospitalieri e dei Cavalieri Teutonici compaiono in Terra Santa nel XII secolo, per difendere i possedimenti dei Latini durante le crociate e assistere i pellegrini. In parte monaci e in parte guerrieri, questi «milites Christi» sconvolsero l’ordinamento etico-morale della cristianità latina. Un’ambiguità su cui, come rivela lo storico Giuseppe Ligato, c’è ancora molto da scoprire...

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manuali scolastici riservano solitamente poche righe agli Ordini militari che, nel corso delle crociate, andarono a combattere in Terra Santa per difendere i luoghi santi e i possedimenti latini. I testi che piú spazio dedicano all’argomento si limitano in genere a riportare i nomi di queste istituzioni: i Templari, gli Ospitalieri e i Cavalieri Teutonici. Eppure questi Ordini religiosocavallereschi, composti cioè da cavalieri che, pur avendo preso i voti, erano autorizzati a portare le armi, furono tra i protagonisti del movimento crociato. La loro nascita è legata alla cura degli infermi, alla protezione dei pellegrini e alla difesa dei luoghi santi, ma, dal punto di vista teorico, essi vanno inquadrati nella volontà delle gerarchie ecclesiastiche di controllare i ceti cavallereschi. Grazie al collegamento diretto con il papato, questi nuovi Ordini divennero rapidamente molto potenti e si rivelarono assai utili ovunque si combattevano gli «infedeli». La loro presenza negli Stati latini d’Oriente finí, però, con il costituire un altro elemento di con-

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correnza politica in un ambiente già di per sé fragile. Ma perché nacquero gli Ordini militari? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Ligato, autore del recente saggio Le armate di Dio. Templari, ospitalieri e teutonici in Terra Santa. rofessor Ligato, quali ragioni deP terminarono la nascita degli Ordini religioso-cavallereschi? E a quale esigenza rispondevano? «La vittoria della prima crociata, con la conquista di Gerusalemme e la costituzione di una monarchia alquanto estesa e di altri Stati latini (principato di Antiochia, contea di Edessa) in mezzo a potentati islamici divisi tra loro, era parsa un miracolo in Occidente. E, in effetti, ne aveva tutto l’aspetto, anche perché, per l’intera durata delle crociate, i cristiani furono pressoché costantemente in inferiorità numerica davanti ai sultani d’Egitto e Siria. Questi ultimi, del resto, oltre ad avere risorse demografiche illimitate, disponevano di linee di rifornimento incomparabilmente piú corte rispetto a quelle degli invasori europei (basti ricordare che i

In alto Giuseppe Ligato. Lo studioso si occupa di storia delle crociate e dei pellegrinaggi in Terra Santa, è membro della Society for the Study of the Crusades and the Latin East, ha collaborato con lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme e ha partecipato ad alcune delle missioni archeologiche dell’Università di Firenze per la tutela dei castelli crociati in Giordania. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’assedio di Gerusalemme, dal codice Descriptio Terrae Sanctae. XIV sec. Padova, Biblioteca del Seminario.

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ordini religioso-cavallereschi musulmani non ebbero quasi mai bisogno di vere e proprie flotte, con l’annessa logistica). I crociati realizzarono pertanto un sistema di governo e controllo territoriale che, senza rischiare forzature, ha fatto parlare di colonialismo e apartheid, per quanto non privo di collaborazioni spesso spregiudicate, come nel caso dei cavalieri ausiliari musulmani reclutati anche dagli Ordini militari. Nelle cronache delle sempre piú rare vittorie dei crociati si parla comunemente di miracoli divini, ma, a parte le convenzioni e la certezza del costante rapporto fra l’impresa umana e il trascendente, i successi erano ottenuti contro queste difficoltà, sempre presenti. Già all’indomani della conquista di Gerusalemme del 1099 il patriarca Daimberto da Pisa lamentava la carenza di combattenti in Oriente, da dove i crociati quasi sempre tornavano in Europa dopo avere onorato il proprio impegno di cavalieri di Cristo e lasciando sguarnita la difesa territoriale. Entro una generazione, ossia prima del concilio di Troyes del 1129 – che sancí la nascita dell’Ordine templare –, si misero in atto le prime sperimentazioni di cavalieri al servizio del patriarcato, in particolare i Templari, che erano un ente del tutto nuovo, in quanto coniugava i voti monastici con l’uso delle armi. Si trattava, tuttavia, di cavalieri che vivevano da monaci e non di monaci che combattevano, perché cavalieri si diventava

presto, essendo necessario formare i giovani sin dalla piú tenera età (come si sosteneva da secoli). Monaci in armi si videro anche in Terra Santa, per esempio sul Tabor, nel 1183, contro l’attacco di Saladino, ma erano eccezioni imposte dalle emergenze a uomini quasi sempre inadatti alla guerra. Resta significativo il fatto che, ancora negli ultimi decenni del Levante crociato, la necessità di

difendere i castelli, unico argine possibile contro le masse nemiche, avesse imposto agli stessi Ordini militari l’ingaggio di mercenari, teoricamente fuori luogo nelle “guerre di Cristo”. Alla penuria di uomini si poneva rimedio anche aumentando lo spessore delle mura, portato a svariati metri soprattutto dopo che gli Arabo-turchi ebbero appreso la costruzione di macchine da assedio piú micidiali».

di milites Templi, dopo l’insediamento nel palazzo concesso dal re crociato di Gerusalemme presso il «Tempio di Salomone». Confermato nel concilio di Troyes (1129) e organizzato in maniera rigidamente militare, l’Ordine era formato da cavalieri che portavano un

mantello bianco con croce rossa. Di esso facevano parte anche sergenti, scudieri e ausiliari vari. I Templari potevano essere indifferentemente laici o sacerdoti ed erano guidati da un magister, coadiuvato da

I Cavalieri del Tempio I Templari vennero istituiti intorno al 1119 a Gerusalemme da Ugo di Payns per proteggere coloro che si recavano in pellegrinaggio nei luoghi santi. La generica qualifica di milites Christi, condivisa con i crociati ordinari, fu seguita da quella

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Quali ambiguità erano insite negli Ordini, al cui interno convivevano l’ideale monastico e il mestiere delle armi? «La perplessità, di cui vediamo indizi fra le reclute dello stesso Tempio e che impose un intervento dello stesso primo maestro Ugo de Payns, si basava sulla difficoltà di accreditare come evangelica la violenza, tanto piú che i Templari – a differenza degli Ospitalieri, militarizzatisi per necessità pochi

anni dopo – erano nati come struttura militare, senza passare per la fase esclusivamente assistenziale. C’era poi chi coglieva in pieno l’ambiguità, come il teologo Isacco della Stella: non è certo che la sua contestazione si riferisse ai Templari o a un altro Ordine, ma la sua condanna contro l’anomalia è inequivocabile. Va tenuto presente che la società medievale tendeva a riconoscersi in un modello basaIl capitolo dell’Ordine del Tempio tenutosi a Parigi il 22 aprile 1147, olio su tela di FrançoisMarius Granet. 1844. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et du Trianon.

to su tre ceti: chi combatteva, chi pregava e chi lavorava, e in questo quadro una figura intermedia fra il monaco e il cavaliere non era concepibile facilmente. La qualifica di “monaci-cavalieri” – che, accreditata oggi piú che allora, resta improponibile – è equivoca: san Bernardo, abate di Chiaravalle, scrisse che i Templari avevano qualcosa degli uni e degli altri, ossia la dolcezza monastica e la gagliardia dei guerrieri, ma non fuse mai i due ruoli e certamente il religioso era il meno adatto a farlo; tanto che egli stesso, rimasto quello che potremmo definire uomo d’ordine, dopo avere dispiegato le proprie risorse dialettiche per patrocinare i Templari, se ne disinteressò, avendone intuito la natura anomala. Per san Bernardo, il mondo non era che l’appendice del monastero e il chiostro restava in ogni caso la scelta migliore, anche se lui, impegnato com’era nel seguire il governo della respublica Christiana, non poteva ignorare la necessità di taluni compromessi. Oltre un secolo dopo, anche il francescano Salimbene vedeva in Luigi IX re di Francia, campione della settima crociata, ma anche modello di devozione, sia il miles sia il monachus: ossia presentava le due “nature” nella stessa persona, ma senza confonderle». ome si coniugava questo binomio C tra violenza e cristianesimo? «Per alcuni, come abbiamo ricordato, non si coniugava affatto: il

siniscalco, maresciallo, gonfaloniere ed elemosiniere. L’Ordine si propagò presto, accogliendo in parte lo spirito della riforma cistercense; si diffuse anche in Europa (soprattutto in Francia, Inghilterra, Aragona e Portogallo) e costruí moltissime chiese conformi a un modulo architettonico specifico.

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Dopo l’abbandono della Terra Santa i Templari si insediarono a Cipro e videro crescere costantemente la loro forza e la loro ricchezza, divenendo una temibile potenza economico-politica; vennero quindi espulsi dalla Sicilia da Federico II prima e poi da papa Urbano IV.

Alla fine, l’Ordine del Tempio venne soppresso da papa Clemente V su pressione del re di Francia Filippo IV il Bello, il quale, tra il 1307 e il 1314, fece processare vari suoi milites (anche con torture e confessioni estorte) compreso il maestro Giacomo de Molay, finito sul rogo.

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l’ordine teutonico

Signori del Grande Nord I Teutonici furono fondati ad Acri, durante la terza crociata (1187-1192), come congregazione assistenziale. Qualche anno piú tardi, papa Innocenzo III li trasformò in Ordine militare a difesa dei principati latini d’Oriente. In seguito, ottennero la protezione dell’imperatore Federico II e, dopo un periodo di combattimenti in Terra Santa, furono indirizzati a promuovere l’espansione cristiana nell’Europa nord-orientale, dove avviarono la colonizzazione di territori ancora pagani. Quelle terre divennero ben presto il loro principale campo d’azione e, nel 1237, i Teutonici assorbirono l’Ordine dei Portaspada, incorporando la Livonia, sul Baltico. Dal 1309 la loro sede principale fu Marienburg (oggi Malbork, in Polonia), e l’Ordine si espanse ulteriormente, acquistando dalla Corona danese il ducato di Estonia. Molti membri dell’Ordine si erano inoltre stabiliti nell’area prussiana e la volontà di creare un legame territoriale fra Prussia e Livonia diede origine a una lunga guerra con il principato di Lituania. Durante il conflitto i Teutonici subirono una terribile disfatta a Tannenberg, nel 1410, per mano di Ladislao II Jagellone principe di Lituania e re di Polonia; la successiva guerra con le città della Prussia (1454-1466) indebolí l’autorità del maestro dell’Ordine. Nel Cinquecento il maestro Alberto di Brandeburgo aderí alla Riforma protestante e trasformò la Prussia in un ducato laico. L’Ordine allora legò le sue sorti alla casata d’Asburgo tornando all’originaria vocazione assistenziale nel 1839, con una nuova Regola.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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cristianesimo, nonostante le concessioni di san Paolo al dovere di obbedire all’autorità costituita – e le crociate erano proclamate dalle istituzioni ecclesiastiche, dotate di ben altra struttura e potere rispetto all’epoca dell’apostolo –, era nato con una certa componente antimilitarista presente, per esempio, in Tertulliano. Questa componente venne però temperata dalla cristianizzazione dell’impero romano e, soprattutto, da sant’Agostino, il quale introdusse l’idea di “guerra giusta”, autorizzata dall’ordine di un’autorità legittima, dall’intenzione recta e dal proposito di ristabilire la pace una volta raddrizzato il torto: principi sostanzialmente accettati ancora da san Tommaso parecchi secoli dopo (nonché citati nel dibattito bassomedievale sulla luglio

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A sinistra statue di Grandi Maestri dell’Ordine teutonico nel castello di Marienburg (Malbork): da sinistra, Hermann von Salza (1209-1239), Siegfried von Feuchtwangen (1303-1311), Winrich von Kniprode (1352-1382) e Alberto del Brandeburgo-Ansbach (1510-1525). Nella pagina accanto tavola ottocentesca raffigurante un imperatore che concede privilegi ai cavalieri dell’Ordine teutonico. Stoccarda, Landesmuseum Württemberg.

reciproco nei decenni successivi. Le confusioni divennero croniche, ma sempre dettate dalla necessità».

critica dell’eroismo dei crociati) e, del resto, nemmeno allora giunti alla fine del proprio ciclo». uale mentalità e quale ideologia Q animavano gli Ordini? «La loro nascita va spiegata con l’emergenza succitata, che fu anche forgiatrice del loro carattere ibrido. All’inserimento nel solco cristiano provvedeva la propaganda di patrocinatori come san Bernardo, in particolare per i Templari, e la stessa Curia romana, che ricordava a loro beneficio i precedenti dei guerrieri della Bibbia, in particolare i guerrieri del Deuteronomio e i Maccabei di cui il novus Israel delle crociate riprendeva il retaggio. Che questi nuovi cavalieri avessero proseguito l’opera dei combattenti dell’Antico Testamento e anzi fos-

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sero a essi superiori – concetto che taluni cronisti della prima crociata affermano in maniera esplicita, come nel caso di Guiberto di Nogent – non è che la conferma di una certa idea della crociata, nata anche in contrapposizione con l’ebraismo: la Chiesa aveva superato la Sinagoga, i “veri” credenti ripetevano la marcia verso la Terra Promessa, imponendosi come realizzatori delle profezie (anche quelle apocalittiche) e il modello veterotestamentario veniva superato dalle armi della Nuova Alleanza sancita dal Vangelo. Si trattava comunque di una fase sperimentale, con i Templari e gli Ospitalieri non del tutto distinti nemmeno tra loro in quanto entrambi teoricamente dipendenti dal patriarcato di Gerusalemme, e addirittura in contrasto

Ci può fare qualche esempio? «Nel 1198, papa Innocenzo III autorizzò la formazione dell’Ordine teutonico, dalla forte matrice assistenziale, che era di origine ospitaliera, ma anche con una componente militare, che era invece di matrice templare, come si conveniva a un Ordine nato con le armi in pugno. Per esempio, la Regola templare ha una parte monastica di poco piú di 70 articoli, mentre gli statuti dello stesso Ordine sono svariate centinaia e costituiscono un autentico manuale di arte militare medievale, dall’equipaggiamento al dispiegamento sul campo di battaglia; un certo spazio è lasciato alle opere di carità, anche se nulla poteva eguagliare la struttura e l’efficienza degli Ospitalieri. La Regola teutonica riprende vari passaggi di quella del Tempio, ma questa dipendenza non impedí che nascesse qualche gelosia, anche perché il nuovo Ordine aveva legami speciali con il Sacro Romano Impero il cui centro era la Germania, e infatti, durante la sesta crociata (1229), l’imperatore Federico II di Svevia poté contare sui Teutonici e non sui Templari e sugli Ospitalieri, ai quali fu attribuito addirittura l’intento di assassinarlo, in quanto scomunicato e troppo amico del sultano al-Kamil. Federico ricambiò con un’ostilità che giunse quasi allo scontro armato, soprat-

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ordini religioso-cavallereschi tutto con i Templari, i quali furono quasi sul punto di “trattenerlo” presso una delle loro rocche, per la quale il sovrano aveva manifestato un interesse eccesivo (e con ottime ragioni, trattandosi del possente “Castello dei Pellegrini” che fu una delle migliori realizzazioni dell’architettura militare medievale). Sul piano piú strettamente militare, nessun dubbio sulla qualità dei cavalieri degli Ordini: nel 1147, durante la seconda crociata, la colonna del re di Francia Luigi VII fu salvata dalla disgregazione grazie alla rigorosa disposizione imposta dai Templari. Inoltre, soprattutto presso il Tempio si affermò l’uso di inquadrare molti cavalieri laici, i quali, giunti in Terra Santa bisognosi di supporto logistico e adattamento alle tecniche belliche locali, dovevano anche essere tenuti d’occhio per impedire che la loro sete di gloria o anche di martirio provocasse qualche disastro. La superiore conoscenza del terreno e delle tattiche del nemico espose talvolta gli Ordini alle critiche dei crociati piú assetati di gloria, che li accusavano di eccessiva prudenza o addirittura di viltà o tradimento: nel 1250, a Mansurah, in Egitto, Roberto, conte d’Artois, provocò la disfatta attaccando contro il parere dei saggi e prudenti Templari e degli Ospitalieri, che aveva ingiustamente accusato di codardia. Ma nemmeno fra costoro mancavano le teste calde: negli anni Sessanta del XII secolo il magister ospitaliere Gilberto d’Assailly aveva dissanguato – in tutti i sensi – l’Ordine, caldeggiando una serie di offensive in Egitto, mentee, nel 1187, Gerardo di Ridefort, suo omologo templare, contribuí al crollo del regno crociato, sostenendo il partito dei “falchi” e dell’attacco a oltranza, invece di alimentare una difesa basata sui capisaldi, che talvolta anche il temibile Saladino rinunciava ad assediare, conoscendone la resistenza».

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gli ospitalieri

Dal Santo Sepolcro a Malta L’Ordine dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme ebbe origine probabilmente intorno al 1070, nella stessa Città Santa, come ricovero per pellegrini legato all’Ordine benedettino e gestito presso la basilica del Santo Sepolcro. Dopo la conquista di Gerusalemme nel 1099, l’ospizio passò dalla giurisdizione dei monaci a uno status che lo legava al Sepolcro e al patriarcato, oltre a ingrandirsi progressivamente, ottenendo proprietà nella Francia orientale e meridionale e nella Spagna settentrionale. L’Ordine continuò a svolgere attività assistenziale, ma dagli anni Trenta del XII secolo fu inquadrato come Ordine militare ed ebbe suoi cavalieri, coinvolti anche nella difesa di alcuni castelli, alcuni dei quali di propria fondazione, come nel caso dei Templari. Dopo la caduta di Gerusalemme nel 1187, la sede principale dell’Ordine fu spostata a San Giovanni d’Acri per essere poi trasferita dal 1291 al 1309 a Limassol (Cipro) e in seguito a Rodi. Nel 1530, in accordo con l’imperatore Carlo V, il Capitolo dell’Ordine elesse come propria sede l’isola di Malta dove rimase fino all’epoca napoleonica. I n quali rapporti erano gli Ordini con il potere papale? «La Chiesa romana ha sempre avuto un talento speciale nell’osservare i nuovi fenomeni sviluppati al proprio interno, per poi eventualmente assorbirli, dando loro strutture e varie forme di controllo. La prima crociata, per quanto concepita ben prima della sua proclamazione ufficiale del 1095, aveva avuto effetti imprevisti: non solo Gerusalemme, Betlemme e Nazareth erano state conquistate, ma i cristiani avevano creato un regno che andava dall’attuale confine turco-siriano al Mar Rosso, per giunta con la tentazione, nemmeno latente, di nuove conquiste in Egitto (e c’era qualche entusiasta che voleva raggiungere Baghdad e proseguire fino al cuore della Persia…). Non solo l’eventuale continuazione degli attacchi, ma anche la difesa di quanto era stato conquistato imponevano soluzioni pragmatiche, e la Curia papale finí con l’accettare che certe forme di associazionismo cavalleresco si trasformassero in istituzioni piú articolate, beninteso sotto il controllo romano.

Particolare dell’affresco allegorico raffigurante il trionfo dell’Ordine di San Giovanni. 1661-1666. Valletta, concattedrale di S. Giovanni.

Con grande scandalo del clero locale, Templari e Ospitalieri si appellavano direttamente alla Curia pontificia, da cui ottenevano, esattamente come dalle corti laiche, privilegi ed esoneri: per esempio, la facoltà pressoché illimitata di raccogliere risorse da destinare alle guerre in Oriente, o di celebrare servizi divini in zone sottoposte a interdetto. Vari scrittori denunciavano l’accumulo di cibo e denaro (ma anche armi e chiodi per i ferri di cavallo) in tale ambito, ossia quello delle risorse rastrellate per essere mandate in Oriente; ma, d’altra parte, le notizie di usi illeciti di tanta ricchezza sono rarissime e tutti i beni (per ammissione persino di qualche critico) venivano inviati nel Levante crociato, che ne era un insaziabile divoratore, e tale rimase fino agli ultimi decenni del XIII secolo. Dipendere direttamente ed esclusivamente dalla Chiesa romana, inoltre, giovava assai nel luglio

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Medioevo, in cui tanto piú si era liberi quanti piú padroni si avevano, e averne uno lontano rendeva pressoché indipendenti. In questa luce va visto il distacco dei Templari e degli Ospitalieri dal controllo patriarcale, fino a costituire vere e proprie potenze interne al regno crociato, con ruoli importanti nella politica interna come nella pianificazione strategica. Certo, le loro scelte a favore di questa o quella fazione erano anche una minaccia per la concordia interna, e i cronisti lo misero debitamente in risalto nelle proprie analisi della caduta dell’ultimo avamposto crociato, San Giovanni d’Acri (1291), in cui fra Ordini militari, enti ecclesiastici vari, comunità mercantili italiane e baroni vari si era giunti a quasi venti poteri piú o meno discordi». I n quale modo venivano visti gli Ordini dal mondo islamico? «Per molti anni i nemici dei crociati non ebbero un’idea chiara del nemico che li aveva aggrediti, né, del resto, dalla parte opposta si aveva un’opinione precisa dell’Islam, spesso confuso con il paganesimo classico; i musulmani d’Oriente ebbero necessità di riorganizzarsi e compattarsi contro quel nuovo nemico che li aveva inizialmente battuti grazie anche alle loro divisioni, ma compresero presto che si trattava di combattenti duri e preparati, insomma degni di loro soprattutto nelle guerre di cavalleria. All’inizio i potentati araboturchi ebbero qualche difficoltà a distinguere gli Ordini dai crociati ordinari, ma, al tempo di Saladino, Templari e Ospitalieri erano rispettati e temuti. Saladino, poi, li considerava razze impure e da eliminare dopo la cattura, ma con qualche non sistematica eccezione, per esempio a beneficio di alcuni Ospitalieri dei quali non poteva essergli ignota l’opera anche assistenziale. La morte di Ruggero des Moulins, maestro degli Ospitalieri,

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ordini religioso-cavallereschi I secoli degli Ordini religioso-cavallereschi 1095 18-27 novembre Concilio di Clermont in Alvernia. 1095-1099 Prima crociata in Siria-Palestina. 1099 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme. 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia. 1108 Vittoria degli Almoravidi sui Castigliani a Uclés. 1113-1115 Spedizione pisano-catalana contro le Baleari. 1118 19 dicembre Gli Aragonesi conquistano Saragozza. 1146 1° marzo Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni, la Quantum praedecessores, vera e propria prima enciclica regolatrice del movimento crociato. 1147 13 aprile Enciclica papale Divina dispensatione. luglio-agosto Campagna tedesco-danese contro i Wendi. 17 ottobre I crociati prendono Almeria. 24 ottobre I crociati prendono Lisbona. 1147-1148 Seconda crociata in Siria-Palestina. 1148 I crociati prendono Tortosa. 1149 I musulmani sgombrano le residue piazzeforti di Catalogna. 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria.

1187 Vittoria saracena ai Corni di Hattin; il Saladino conquista Gerusalemme; enciclica Audita tremendi. 1187-1192 Terza crociata. 1195 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos. 1198 Fondazione formale dell’Ordine di Santa Maria dei Teutonici. 1201 Fondazione dei Cavalieri Portaspada in Livonia. 1202-1204 Quarta crociata. 1212 17 luglio Battaglia di Las Navas de Tolosa. 1217-1221 Quinta crociata; visita di Francesco d’Assisi al sultano d’Egitto. 1226 «Bolla d’Oro» di Rimini: Federico II concede ai Cavalieri Teutonici in feudo i territori «senza sovrano» e relativi regalia (diritti regi). 1228-1229 Sesta crociata (crociata di Federico Il); Gerusalemme recuperata per mezzo di un accordo diplomatico con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. 1232-1253 Crociata aragonese contro il regno di Valencia. 1236 29 giugno San Ferdinando III di Castiglia prende Cordoba.

caduto da prode nel 1187 in Galilea, fu salutata dai nemici come la scomparsa di un grave pericolo. Verso la fine della presenza crociata nel Levante un cronista islamico definí certi eroi della sua parte “i Templari dell’Islam”, un riconoscimento che dice parecchio. È invece una leggenda la narrazione secondo cui lo stesso Saladino si sarebbe fatto ricoverare sotto falso nome presso le strutture assistenziali degli Ospitalieri, per verificarne la qualità e la dedizione». Particolare di un affresco raffigurante un cavaliere in preghiera. Metà del XIV sec. Napoli, Cappella Minutolo.

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uali elementi legati al mondo degli Q Ordini monastico-cavallereschi hanno continuato a persistere nel cristianesimo anche dopo il loro tramonto? «Il declino del movimento crociato, sempre meno motivato contro un nemico troppo superiore nelle risorse umane e materiali, implicò quello degli Ordini militari; inoltre fallí il tentativo di fondere Templari e Ospitalieri in un Ordine unico, una mossa contrastata anche dall’ultimo maestro templare Giacomo de Molay. Tuttavia, mentre gli Ospitalieri e i Teutonici seppero trasferire le proprie attività altrove, come per esempio nella lotta contro la pirateria o le “crociate” baltiche (e ancora oggi, degli Ospitalieri chiamati anche “cavalieri di Malta” è apprezzata in tutto il mondo la carità assistenziale), i Templari caddero sotto i colpi della luglio

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1237 Fusione tra Teutonici e Portaspada. 1242 Aleksandr Nevskij sconfigge i Teutonici nella battaglia del lago Peipus. 1248 23 novembre San Ferdinando III di Castiglia conquista Siviglia. 1248-1254 Settima crociata (prima crociata di Luigi IX). 1258 I Mongoli conquistano Baghdad, fine del califfato abbaside. 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. 1270 Ottava crociata (seconda di Luigi IX, che vi trova la morte). 1274 Concilio di Lione, convocato da Gregorio X per la ricomposizione dell’unità cristiana; emanate le Constitutiones pro zelo fidei. 1291 Caduta di Acri. 1340 30 ottobre Alfonso XI di Castiglia vince i Merinidi del Marocco nella battaglia del Rio Salado. 1344-1346 «Crociata di Smirne». 1355 Assalto genovese a Tripoli. 1365 10-16 ottobre Pietro di Lusignano, re di Cipro, assale e saccheggia Alessandria. 1380 Dimitri Donskoi, gran principe di Mosca, batte i Tatari a Kulikovo. 1388 Genovesi, Pisani e Siciliani occupano l’isola di Jerba. 1389 15 giugno Battaglia della Piana dei Merli (o del Kosovo): Murad I annienta la potenza monarchia francese di Filippo IV il Bello, decisa a rimuovere un potere interno al suo regno e troppo vicino alla Chiesa. Come abbiamo ricordato, le strutture templari al di qua del Mediterraneo erano servite per raccogliere risorse da inviare in Oriente: come dimostrare che la loro utilità non era venuta meno, se il nemico magari c’era ancora, ma era cambiata la geometria del confronto? Quanto all’oggi, tutti sanno che da secoli la Chiesa non proclama piú crociate, e non solo per la sopravvenuta convinzione della loro inutilità: la missione universale della Chiesa è incompatibile con la violenza, si sono progressivamente esauriti anche i tentativi di accreditare come “crociate” altre guerre, come la difesa territoriale contro le aggressioni ottomane e barba-

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serba, ma muore nello scontro. 1390 Crociata franco-genovese contro al-Mahdiyah, guidata da Luigi Il duca di Borbone. 1396 25 settembre Battaglia di Nicopoli: sconfitta dei crociati. 1410 I Teutonici sono sconfitti dai Polacchi a Tannenberg-Grunwald. 1415 I Portoghesi conquistano Ceuta. 1444 10 novembre Battaglia di Varna: sconfitta dei crociati. 1448 17-19 ottobre Seconda battaglia del Kosovo: Murad II batte i crociati ungheresi. 1453 29 maggio Il sultano ottomano Maometto II prende Costantinopoli. 1454-1466 Guerra fra Teutonici e regno di Polonia. 1456 6 agosto Janos Hunyadi conquista Belgrado. 1470 I Turchi prendono Negroponte. 1471 I Portoghesi conquistano Tangeri. 1475 6 giugno I Turchi prendono Caffa. 1480 agosto Una flotta turca assalta e conquista Otranto. 1481 3 maggio Il sultano Maometto II muore sulla sponda asiatica del Bosforo. 1492 2 gennaio I Re Cattolici conquistano Granada. 1522 I Turchi conquistano Rodi; gli Ospitalieri riparano a Malta. 1525 Fine dell’Ordensstaat in Prussia.

resche, la battaglia di Lepanto, la Vandea o la guerra civile spagnola; né le persone ragionevoli accusano l’Islam di essere sempre quello del massacro di Otranto del 1480. Nemmeno la tirannide di Assad in Siria o il neo-ottomanismo della Turchia di Erdogan appaiono come nemici da affrontare agitando croci. Non si è vista (ma non è stata nemmeno granché sollecitata, in generale) un’aperta sconfessione del proclama della prima crociata nel 1095, ma il rifiuto della crociata è nei fatti, dai vertici della Chiesa alla cosiddetta «base» della medesima. Piú difficile è far capire (e, possibilmente, far imitare) questa presa di distanze in alcuni ambienti oltranzisti o, peggio, fanatici, come il fondamentalismo islamico che designa come “crociati” anche le vittime dell’attacco alle Torri Gemelle,

Da leggere Giuseppe Ligato, Le armate di Dio. Templari, ospitalieri e teutonici in Terra Santa, Salerno Editrice, Roma

ma qui il problema è la mancanza di buone scuole e senso critico. In area cattolica, tacciono gli “atei devoti”, mentre i nuclei di nostalgici non si profilano o si limitano a qualche celebrazione piú o meno equivoca, ma direi che in questi casi gli slogan e l’iconografia sanno piú di folclore che di studio e riflessione. Sono i problemi che si verificano quando si usa la storia, invece di studiarla».

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Siena mi fe’, disfecemi Maremma... testi di Piero Simonetti e Roberto Farinelli


L’anima gentile che Dante incontra nel V canto del Purgatorio si chiamava in realtà Pia Malavolti. A partire dai primi chiosatori della Commedia, venne però confusa con Pia dei Tolomei la cui leggenda, per secoli, venne celebrata nelle veglie contadine, nei canti del maggio, dai novellieri e nelle pagine dei romanzi popolari. Fino all’opera lirica di Gaetano Donizetti e a un capolavoro teatrale firmato da Marguerite Yourcenar...

Nello alla tomba di Pia dei Tolomei, olio su tela di Enrico Pollastrini. 1851 Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti.

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ra il 30 settembre del 1285. I signori del castello di Prata (oggi una frazione di Massa Marittima, n.d.r.) – Tollo degli Alberti e sua moglie Pia dei Malavolti di Siena, sposati da tre anni – stavano uscendo dalla chiesa, quando vennero aggrediti da un gruppo di ribelli ghibellini. Tollo venne ucciso e della consorte Pia, da quella mattina, nessuno ebbe piú notizia. Tra gli aggressori anche i tre nipoti di Tollo, ovvero Niccolò, Gaddo e Rufredi, figli di quel Gherardo Alberti ucciso in piazza del Campo a Siena nel 1280, quando – guidate da Niccolò Bonsignori – entrarono in Siena alcune truppe armate, con il proposito di innescare una ripresa ghibellina. Appresa la morte di Tollo – e per vendicarne l’uccisione – la repubblica di Siena riuní i propri organi amministrativi e decise di fare esercito e porre assedio al castello maremmano. L’assedio durò ben quattro anni, subendo diverse interruzioni a causa dell’insorgere continuo, in Toscana, di numerose battaglie tra guelfi e ghibellini, per combattere le quali Siena, guelfa, doveva per forza spostare soldati e armi, alleggerendo perciò l’assedio di Prata. Nel settembre 1289, quando i Senesi entrarono finalmente in Prata, non trovarono piú nessuno, né i nipoti ribelli e neanche Pia: nessuna informazione sulla sua sorte, né su quella delle sue piccole figlie, Cia e Gadduccia.

In violazione del diritto canonico

Gli Alberti di Prata sono sempre stati di fede ghibellina. E da quando i guelfi avevano preso il potere in Siena, la vita a Prata e nei suoi dintorni era peggiorata. Siena operava continue scorrerie armate nel territorio di quella rocca maremmana, con provocazioni e ruberie nelle campagne e danneggiamenti d’ogni genere. Tanto che Tollo aveva accettato il patto di sottomissione a Siena, fatto il 19 di aprile del 1282, sperando di poter vivere piú tranquillamente divenendo guelfo. Il patto prevedeva che nel futuro gli Alberti di Prata avrebbero contratto matrimoni solo se concordati con Siena, introducendo una regola in violazione alle norme di diritto canonico, ma con indiscussi effetti impositivi e di conseguente controllo. E Pia di Ranuccio Malavolti, poco piú che sedicenne, fu la prima donna scelta da Siena a garanzia di questa intesa con gli Alberti, convolando a nozze con Tollo all’inizio del 1283. Non si trattò, evidentemente, di un matrimonio d’amore, ma di nozze dettate da motivi politici, per via delle tante ragioni strategiche ed economiche che Siena aveva in quella parte collinare di Maremma, ricca di miniere di argento e altri metalli importanti. Afferma infatti in un suo recente studio Mario Ascheri che la cultura bancaria senese nasce e proviene dal traffico delle monete, coniate grazie ai metalli delle Colline Metallifere maremmane nel XIII secolo. Altra norma di

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quel patto di sottomissione a Siena del 1282 impegnava i signori di Prata a far pace definitiva con la potente consorteria dei Pannocchieschi, i quali controllavano ampie aree di Maremma, da Volterra fino a Gavorrano. Era infatti ancora vivo l’odio di questi ultimi verso gli Alberti di Prata, i quali nel 1275, sette anni prima di sottomettersi a Siena, avevano ucciso l’autorevole guelfo Bernardino Pannocchieschi, signore di Perolla. Pia è molto giovane, sedicenne o poco piú, forse appena ventenne al momento del mortale agguato a suo marito Tollo. Ha vissuto la propria adolescenza in Siena, una città in cui l’appartenenza a un casato ricco e importante come quello dei Malavolti le ha consentito di vivere agiatamente e frequentare ambienti di un certo livello sociale cittadino. Improvvisamente, si trova costretta a vivere accanto a un uomo che non conosce e di età assai adulta. Sí, a Prata avrà pure avuto un ambiente decoroso nel palazzotto della famiglia che comandava il castello; ma sarà sempre Prata, un castello posto su un colle della Maremma, tra folte boscaglie e mandrie di animali, colline dalle fitte macchie, ogni tanto una rocca sul culmine di esse, il timore per la malaria, che già sul finire del XIII secolo iniziava a presentarsi in alcune aree della regione. luglio

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L’amore per un’altra donna, Margherita Aldobrandeschi, avrebbe armato la mano di Nello dei Pannocchieschi, agli occhi del quale Pia s’era trasformata in un intralcio

Nello della Pietra e Pia dei Tolomei, gruppo in marmo di Alfonso Balzico. 1868. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. Nella pagina accanto Pia dei Tolomei condotta in Maremma, olio su tela di Pompeo Marino Molmenti. 1853. Verona, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Forti.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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In alto vignette che illustrano il V canto del Purgatorio: a sinistra, Dante allo scrittoio e, a destra, Pia dei Tolomei, cromolitografia da una serie di Egisto Sborgi Editore (Firenze, 1918). Nella pagina accanto Pia Tolomei, malinconia, olio su tela di Eliseo Sala. 1846. Brescia, Musei Civici di Arte e Storia.

Fin qui la storia documentata, che consente di affermare come Pia Malavolti diventi la Pia dantesca e prenda il posto di Pia Tolomei, per secoli indicata (ma inesistente documentariamente) come l’anima gentile incontrata da Dante. Del resto, il sommo poeta non le attribuisce alcun casato, chiamandola solo per nome. Anzi, «la Pia», ponendo quell’articolo determinativo davanti al nome di persona, come a dire – a modo toscano – che è «quella Pia», che «è nota», conosciuta dalla comunità contemporanea a cui Dante si rivolge con il suo componimento poetico. La storia dell’attribuzione di Pia al casato Tolomei prende le mosse dagli scritti dei primissimi chiosatori dell’opera di Dante. Ma questi, pur essendo piú d’uno, si copiano a vicenda l’un l’altro, fanno confusione e non forniscono mai dati riscontrabili con la necessaria esattezza della documentazione attinente. Una soluzione sembrò arrivare dal letterato senese Girola-

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mo Gigli (1660-1722), quando scrisse, nel suo Diario Senese, che Pia non nacque Tolomei, ma fu figlia di Buonincontro Guastelloni e andò in sposa a Baldo d’Ildobrandino Tolomei, del quale rimase vedova nel 1290. La notizia sembrò dare risposta definitiva alla questione e da tutti venne accettata come spiegazione al V canto del Purgatorio. Tuttavia, nel 1859, lo storico Gaetano Milanesi pubblicò nel Giornale Storico degli Archivi toscani documentazione attestante che la Pia vedova di Baldo Tolomei risultava ancora in vita nel 1318 come tutrice dei propri figli. Non poteva essere lei, quindi, la Pia di Dante, a Purgatorio già scritto e a soli tre anni dalla morte dell’Alighieri.

La storia si fa leggenda

E come spesso accade, quando la storia tace per mancanza di documenti, la leggenda prende il sopravvento. Fioriscono allora le congetture, che – diventando assai credibili – si insediano nella narrazione popolare con estrema facilità. Entra in scena Nello dei Pannocchieschi, il quale prenderebbe con sé la Pia nel 1285, appena vedova di Tollo, portandola nel proprio castello di Pietra, poco distante da Prata nel territorio di Massa Marittima. Forse la sposa anche, come vuole

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dante in maremma Sulle due pagine vedute di Montemassi, castello maremmano che fu presidio degli Aldobrandeschi e cercò piú volte di ribellarsi al controllo di Siena.

la tradizione orale. Ma dopo pochi anni, quando Pannocchieschi s’invaghisce della bella e seducente contessa Margherita Aldobrandeschi di Sovana (vedova all’inizio dell’ultimo decennio del XIII secolo, per la morte di suo marito Guido di Monfort, prigioniero nelle carceri napoletane), la Pia diventa un ingombro e Nello la ucciderebbe o la farebbe morire di inedia e sofferenze, abbandonandola segregata nel proprio castello maremmano della Pietra. L’attribuzione Tolomei ha retto fino a oggi anche in conseguenza dell’opera scritta da Bartolomeo Sestini e pubblicata la prima volta nel 1822. Una tragedia in ottava rima che

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Dante priore contro Bonifacio VIII

La «guerra giusta» di Siena ai conti Aldobrandeschi Sin dall’età di Cacciaguida (1091-1148 circa), signoreggiavano sulla Maremma i conti Aldobrandeschi, la cui potenza declinò solo all’inizio del Duecento. Dalla crisi familiare trassero origine due lignaggi: il minore – i conti di Santa Fiora – di orientamento ghibellino, e il maggiore, di parte guelfa, dei conti di Pitigliano. Nell’età di Dante, di questo ramo sopravviveva il «Conte Rosso», padre di un’unica figlia, Margherita, nella cui dote entrò l’intero patrimonio della casata. Non c’è dunque da sorprendersi se la contessa visse un intrico di matrimoni, annullamenti, seconde nozze, che interessò anche il nipote di papa Bonifacio VIII, Loffredo Caetani. I mariti imposti all’ereditiera furono in genere alti dignitari di parte guelfa, ma Margherita riuscí a sposare anche un «ghibellino», Guido da Santa Fiora, un cugino di sesto grado con il quale condivideva molti castelli di Maremma. Questo occasionale ricongiungimento

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delle due schiatte aldobrandesche costituiva un problema politico e, come tale, venne immediatamente contrastato dal governo guelfo di Siena, che si giovò dell’appoggio diretto di papa Bonifacio VIII e della benevolenza della Firenze di Dante. Cosí, nell’estate del 1299, il comune di Siena avviò contro gli Aldobrandeschi una lunga guerra, che era ancora aperta nei giorni durante i quali Dante, come personaggio della Commedia, compí il proprio viaggio nell’Oltretomba. Nell’ottobre del 1300, il papa dichiarò solennemente che l’impresa di Siena contro i conti e i loro fautori era una «guerra giusta», riconoscendo al comune cittadino il possesso dei territori espugnati in battaglia. Sconfitti sul campo, tra la primavera e l’estate del 1301 i conti di Santa Fiora consegnarono ai soldati di Siena le chiavi di numerosi castelli aldobrandeschi, tra cui quello amiatino di Castiglion d’Orcia, quelli maremmani di Tatti, Montecurliano,

Montepescali e Roccastrada e, infine, alcuni diritti sulla città di Grosseto. Tuttavia, la «guerra giusta» proseguí, sotto l’egida di Bonifacio VIII, attraverso il comune di Orvieto e con l’aiuto di signori e città di parte guelfa, come Firenze. Cosí il pontefice chiese a quest’ultima di inviare cento cavalieri contro Santa Fiora, ma Dante, all’epoca uomo di governo, nella seduta consiliare del 19 giugno 1301, si concesse il lusso di intervenire contro tale pretesa. Questa coraggiosa presa di posizione determinò la fine della carriera politica del poeta, la sua condanna a morte e l’esilio, durante il quale fu composta la Divina Commedia. Qui, del resto, nella celeberrima invettiva pronunciata da Sordello, è sottolineata la fragilità di ciò che rimaneva del potere aldobrandesco, schiacciato tra Siena e i domini pontifici, con i versi: «e vedrai Santafior come è oscura!» (Purgatorio VI,111). Roberto Farinelli

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dante in maremma ottenne una vasta diffusione popolare, facendo commuovere intere generazioni, partendo dalle veglie invernali dei contadini al fuoco del camino, ai «canti del maggio» e per finire alla nutrita serie di novellieri che si impadronirono di questa vicenda romantica, con una Pia creduta infedele da parte di un Nello geloso, il quale, per vendetta, ne decreta la morte, pentendosene poi subito dopo. Soprattutto nel XIX secolo, furono numerosi i testi teatrali, i romanzi e i libretti d’opera che ottennero pieno riscontro da parte del pubblico dell’epoca. Perfino Gaetano Donizetti, ma non solo lui, compose un’opera lirica sulla leggenda di Pia dei Tolomei (1837). E Marguerite Yourcenar, con una lettura innovativa e altamente psicologica, scrisse, nel 1931, Il dialogo nella palude, atto unico colpevolmente dimenticato dal settore teatrale. Dante Alighieri apprese certamente di questa vicenda durante una delle sue visite a Siena, come ricordato dal Boccaccio, e inserí Pia nel secondo balzo dell’antipurgatorio, tra i morti per forza, pentitisi all’ultimo istante della loro vita terrena e che, perdo(segue a p. 48) Il borgo di Santa Fiora, le cui terre sono cantate da Dante Alighieri nella Divina Commedia, con toni pieni di sconforto per una regione che gli appariva desolata e malsana.

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la maremma nella divina commedia

Terre selvagge e inospitali Quando Dante volge lo sguardo verso le pianure maremmane, la cupezza di Santa Fiora si accentua sino a trasformarsi in disperazione angosciosa. L’immagine del litorale, per esempio, è evocata per rappresentare una landa desolata e deserta a proposito del girone infernale dei suicidi: «Noi ci mettemmo per un bosco / che da neun sentiero era segnato. / Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco: / non han sí aspri sterpi né sí folti / quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi cólti»(Inferno, XIII). Il territorio compreso tra la foce del Cecina e il castello di Corneto (l’odierna Tarquinia) viene accostato alla boscaglia stregata dei violenti contro se stessi per essere ricoperto da macchia mediterranea, intricata e contorta. A differenza dell’età classica, queste terre furono utilizzate a fini agricoli solo marginalmente e con estrema difficoltà nel Medioevo, poiché risultavano esposte al rischio di straripamenti e alluvioni; di conseguenza, le paludi e le acque stagnanti offrivano un terreno ideale al propagarsi della malaria, una

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malattia che per secoli ha afflitto questa regione durante la stagione estiva, periodo di proliferazione del veicolo di trasmissione del parassita all’uomo, la zanzara Anopheles. Proprio la Commedia costituisce la prima fonte letteraria in cui si legge un riferimento implicito, ma chiaro, alla malaria in Maremma. Infatti, vi si afferma che le orribili malattie che affliggevano i falsari causano tanto fetore e miasmi, che questi non si produrrebbero neanche se «de

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li spedali, / di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre / e di Maremma e di Sardigna i mali / fossero in una fossa tutti ‘nsembre» (Inferno, XXIX). Dante inaugura, cosí, un topos letterario destinato ad avere grande fortuna soprattutto dopo la Peste Nera, quando si registrò un crollo demografico tale da innescare un circolo vizioso, tra impaludamento e diffusione della malaria, che fu

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dante in maremma spezzato solo negli anni Cinquanta del XX secolo. Altri autori medievali, invece, hanno preferito insistere sulla potenziale ricchezza delle terre maremmane, testimoniata dalla loro floridezza in età antica, a fronte di un presente triste e desolato, come fece, nella prima metà del Trecento, Giovanni Villani: «E nota che lle marine erano anticamente molto abitate, e quasi infra terra poche città avea e pochi abitanti, ma in Maremma (...) avea molte città e molti popoli, che oggi sono consumati e venuti a niente per corruzzione d’aria: che vi fu la grande città di Popolonia, e Soana, e Talamone, e Grosseto, e Civitaveglia, e Mascona, e Lansedonia che furono co la loro forza a l’asedio di Troia» (Cronica, XIII). Persino una delle maggiori risorse della Maremma medievale, vale a

dire il prodotto della pesca e dell’allevamento di anguille, è stata utilizzata da Dante in associazione a sentimenti di orrore e ripugnanza. Infatti, sempre nell’Inferno, si accostano questi pesci alla massa di serpenti germogliata sul dorso del centauro Caco, che «pien di rabbia» insegue un dannato nella bolgia dei ladri, quando asserisce che «Maremma non cred’io che tante n’abbia» (Inferno, XXV). Invece, proprio le peculiari risorse della costa maremmana (oltre al pesce, soprattutto il sale e la presenza di scali portuali) avevano improntato la politica espansionistica di Siena, dileggiata per bocca di uno dei personaggi piú inquietanti della Commedia, la nobildonna «sanese» Sapia. Zia paterna di Provenzano Salvani, l’uomo forte della Siena di Montaperti, si congedò

Il porto di Talamone. Il popolamento del borgo fu promosso dal comune di Siena, dopo averne acquisito la proprietà dai monaci di S. Salvatore al Monte Amiata.

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da Dante chiedendo di essere ricordata nelle preghiere dei parenti: «Tu li vedrai tra quella gente vana / che spera in Talamone, e perderagli / piú di speranza ch’a trovar la Diana; / ma piú vi perderanno li ammiragli» (Purgatorio, XIII). Nel 1303, in vista della conclusione della già ricordata «guerra giusta» contro i conti di Santa Fiora, il comune di Siena acquistò dai monaci di S. Salvatore al Monte Amiata i diritti sul loro possedimento di Valentina, comprendente anche il porto «de Talamone». Tre anni dopo, lo stesso comune fondò ex novo un castello a Talamone e ne promosse il popolamento, colonizzandone le terre e potenziando le locali saline. Si trattava di un’impresa ambiziosa, che presupponeva l’arrivo in Maremma di un centinaio di famiglie, a seguito

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di una pianificazione urbanistica accurata e razionale sia dell’impianto del castello che del relativo territorio agrario. I governanti senesi inserirono nell’atto di fondazione una planimetria con l’indicazione dei nomi degli assegnatari dei lotti e dei poderi, che rappresenta una delle piú antiche raffigurazioni di questo genere. Anche nel caso di Talamone, quindi, l’opera di Dante tende a trasmettere una prospettiva negativa, ma ci piace pensare che questa visione fosca e il sarcasmo verso l’élite senese siano almeno in parte legati al ricordo delle persecuzioni patite, a causa delle parole che il poeta pronunciò nella seduta del 19 giugno 1301 contro i disegni espansionistici di Bonifacio VIII verso la Maremma. Roberto Farinelli

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dante in maremma «La Maremma per Dante»

Appuntamenti per l’estate I borghi maremmani di Campagnatico, Castell’Azzara, Roccalbegna, Sovana, Talamone e Gavorrano sono teatro dei fine settimana medievali organizzati da «La Maremma per Dante», il comitato celebrativo nato per commemorare Dante Alighieri nel settimo centenario dalla morte. Un calendario ricco, che propone mostre, concerti, conferenze, presentazioni di libri, spettacoli teatrali, workshop e attività sportive e conviviali.Il progetto culturale, condiviso con trentasei istituzioni pubbliche e private della provincia di Grosseto, offre anche percorsi itineranti alla scoperta dei luoghi danteschi nei castelli di Pieta e Campagnatico. Qui di seguito, gli appuntamenti in programma. Sabato 24, domenica 25 e lunedí 26 luglio: fine settimana medievale a Castell’Azzara con conferenze (Massimo Seriacopi, Luigi Torlai), concerti (Cinzia Monari), maratona dantesca, percorsi guidati, presentazione di libri, workshop sulla poesia. Sabato 7 e domenica 8 agosto: fine settimana medievale a Roccalbegna, corteo storico, percorsi guidati, conferenza (Lorenzo del Monte, Gilia Pandolfi), concerto, estemporanea di poesia con Mauro Chechi e Francesco Burroni. Notturno per le vie del borgo. Sabato 21 e domenica 22 agosto: fine settimana medievale a Sovana concerto, letture, conferenza, percorsi guidati, performance teatrale, presentazione di libri, workshop sulla lettura espressiva con Francesca Ventura e Giacomo Moscato. Sabato 25 e domenica 26 settembre: fine settimana medievale a Gavorrano, concerto, conferenza, presentazione di libri, percorsi guidati, letture, workshop sulla pittura, con Piero Simonetti, Mario Sica, Leonardo Cambri. Sabato e domenica, a settembre (da stabilire): fine settimana medievale a Talamone. Concerto, conferenza, presentazione di libri, percorso guidato, letture dantesche, workshop sul fumetto con Carlo Rispoli. Informazioni sul programma e aggiornamenti sono disponibili sulla pagina Facebook del progetto: La Maremma per Dante.

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nando i loro uccisori, si riconciliano con Dio. Anime salve in Purgatorio, quindi destinate – dopo la purificazione – alla gloria dell’incontro con Dio per la vita eterna. Ma per abbreviare il tempo della purgazione e salire al Cielo serve la preghiera dei viventi. E Dante lo fa dire a Pia, con la dolce implorazione che chiude il V canto del Purgatorio (vv. 133-136): «Ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fe’, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma». Piero Simonetti

Da leggere Marco Santagata, Le donne di Dante, il Mulino, Bologna 2021 Roberta Mucciarelli, Io son la Pia. Un enigma medievale, Protagon Editori 2011. Decimo Mori, La leggenda della Pia, Bemporad, Firenze 1907 Alessandro Lisini, Giulio Bianchi Bandinelli, La Pia dantesca, Accademia per le Lettere, Siena 1939. Sigismondo Tizio, Historiae Senenses, vol. I, Ist. Storico Italiano, Roma 1995 Piero Simonetti, La Pia... Tolomei, Editrice Caletra, Grosseto 1995 Piero Simonetti, Pia de’ Tolomei, Editrice «il mio Amico», Roccastrada (GR) 2010 Studi Danteschi, fondati da Michele Barbi, vol. 72°. In Firenze, Le Lettere 2007 Gaspero Ciacci, Gli Aldobrandeschi, Multigrafica editrice, Roma 1980 Bullettino Senese di Storia Patria, R. Accademia dei Rozzi, Arti Grafiche, Siena 1921

In alto il castello di Talamone, fatto costruire dai Senesi.

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storie rus’ di kiev La cattedrale di S. Sofia a Kiev, realizzata al tempo di Jaroslav il Saggio, che resse il regno della Rus’ dal 1019 al 1054. Sede del locale vescovo metropolita, la chiesa, in origine considerata un capolavoro dell’architettura medievale, è stata completamente ricostruita in stile ucraino barocco per volere dello zar Pietro I, dopo che l’edificio era stato distrutto da un devastante incendio nel 1697.

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R Il trono R conteso di di Francesca Zago

Rus’

Fra il X e il XII secolo Kiev fu capitale di un regno oggi considerato come il primo nucleo statale della Russia moderna. Principale artefice dei suoi fasti fu Jaroslav il Saggio, alla cui morte, però, si combatté una disputa fratricida per il potere, minandone irreparabilmente la sua stessa solidità

MEDIOEVO

luglio

acconta la Cronaca degli anni passati (Povest’ vremennych let; vedi box a p. 57) che nel 1054, poco prima di morire, il principe di Kiev Jaroslav il Saggio riuní i propri figli per organizzare la spartizione del regno: «Ecco, io lascio questo mondo, figliuoli miei; (...) Se voi vi amerete reciprocamente, Dio sarà con voi, e assoggetterà a voi i vostri avversari. E vivrete in pace. Ma se vivrete nell’odio, nei dissensi e nella discordia, allora voi stessi perirete, e perderete la terra dei vostri padri e dei vostri avi, che essi conquistarono con grande fatica; ma vivete in pace, ubbidisca il fratello al fratello». In effetti, al tempo di Jaroslav, che regnò dal 1019 al 1054, il prestigio della Rus’ di Kiev aveva probabilmente raggiunto il suo culmine, con un vasto dominio che si estendeva dal Baltico al Mar Nero e dal fiume Oka fino ai Carpazi. Grazie anche a una attenta politica matrimoniale, Jaroslav strinse relazioni di parentela con numerose case regnanti europee, sposando egli stesso una figlia del re di Svezia, Ingegerd (1000 circa-1050), mentre le figlie Elisabetta, Anna e Anastasia divennero rispettivamente regine di Norvegia, Francia e Ungheria. Durante il suo regno Kiev visse una stagione segnata da una straordinaria attività edilizia ed economica; vennero erette numerose chiese, come la maestosa cattedrale di S. Sofia, capolavoro dell’architettura medievale, sede del vescovo metropolita della Rus’ e monasteri come quello delle Grotte (Kyevo Pecers’ka Lavra) che divenne il principale centro monastico del regno. Nel 1990 entrambi questi siti sono stati dichiarati dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità. Un tratto interessante del quale Jaroslav si rese protagonista riguardò proprio la sua successione e la spartizione dei territori appartenenti al regno. Sino ad allora la consuetudine dinastica aveva previsto, per la successione al trono, il passaggio del potere al

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storie rus’ di kiev figlio primogenito. Nel tentativo di evitare lotte fratricide, Jaroslav introdusse una novità importante, che avrebbe preso avvio in seguito alla sua morte: questa prevedeva la rotazione della carica di Gran Principe da fratello a fratello, escludendo di fatto i figli del principe stesso, ai quali venivano assegnati territori periferici. Narra la Cronaca: «“Ecco, affido il trono di Kiev al mio figliuolo maggiore e vostro fratello Izjaslav; ubbiditegli come ubbidiste a me, questi farà per voi le mie veci; e a Svjatoslav darò Cernigov, e a Vsevolod Perejaslavl’, e ad Igor’ Volodimir, e a Vjaceslav Smolensk”. E cosí divise tra loro le città, dopo aver ordinato di non entrare nei confini del fratello, di non scacciare l’uno l’altro [dal trono], disse a Izjaslav: “Se qualcuno offenderà il fratello tuo, allora tu aiuta l’offeso”.». Questo sistema di successione, in realtà, non si rivelò efficace, poiché alla morte del Gran Principe fece seguito oltre mezzo secolo di guerra civile. La soluzione adottata da Jaroslav era infatti destinata a crollare a causa dei ripetuti contrasti interni che mantenevano il principato in una costante situazione di precarietà politica.

di Jaroslav. Propagatasi [la discordia] tra loro, Svjatoslav si uní a Vsevolod contro Izjaslav. Izjaslav lasciò Kiev, Svjatoslav e Vsevolod entrarono in Kiev, il 22 del mese di marzo, e occuparono il trono di Berestovo, dopo aver infranto l’ordine paterno». La violazione di quest’ultimo rappresentava l’inevitabile conseguenza di un sistema politico e di governo che celava al proprio interno il germe stesso della sua fragilità. Anelando a un maggior potere, Svjatoslav, con l’aiuto di Vsevolod, riuscí a espellere il fratello Izjaslav e ad assumere il pieno controllo del trono, stabilendosi a Kiev. Costretto ancora una volta a lasciare il

I legami di parentela di Izjaslav Jaroslavic Kiev. Monumento a Jaroslav il Saggio, ritratto mentre offre un modello della cattedrale di S. Sofia. La statua è stata realizzata nel 1997, su un bozzetto di Ivan Kavaleridze, e collocata in prossimità della Porta d’Oro.

L’esilio

Già nel 1068 Izjaslav dovette abbandonare il trono di Kiev in seguito a una rivolta popolare causata dall’invasione dei Poloviciani (conosciuti dagli autori occidentali con il nome di Cumani, popoli turchi emigrati dall’Asia Centrale) e poté tornarvi soltanto nel maggio del 1069, grazie all’aiuto del principe polacco Boleslaw II (10581079), nipote della consorte di Izjaslav, la principessa polacca Gertrude Piast (1025 circa-1108 circa). Come riporta ancora la Cronaca, nel 1073 il trono fu nuovamente minacciato: «Il diavolo seminò discordia tra questi fratelli figli

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MEDIOEVO


Ingegerd (1000 circa-1050)

Jaroslav il Saggio († 1054) regno 1016-1018 1018-1054

Izjaslav (1024-1078)

Svjatoslav († 1076) regno 1073-1076

Vsevolod († 1093) regno 1078-1093

Vjaceslav († 1057)

Volodimir († 1125) regno 1113-1125

Eupraxia († 1109)

Rostislav († 1170)

Gertrude (1025 circa-1108 circa)

Izjaslav (1024-1078) regno 1054-1068 1069-1073 1077-1078

Cunegonda († 1140)

Jaropolk († 1086) regno 1078-1086

suo regno, Izjaslav tornò alla corte del principe polacco Boleslaw II, il quale, tuttavia, in questa circostanza rifiutò di aiutarlo, sebbene questi gli avesse già consegnato parte del proprio tesoro in cambio di un sostegno militare. Determinato piú che mai a riappropriarsi del trono e necessitando di un piú solido appoggio politico, Izjaslav decise di rivolgersi all’imperatore Enrico IV (10501106). Ancora una volta il principe spodestato cercò il supporto dei suoi potenti legami familiari. Enrico, infatti, aveva sposato in seconde nozze una nipote di Izjaslav, Eupraxia (poi divenuta Adelaide, † 1109), figlia di suo fratello Vsevolod, uno dei congiurati. Secondo quanto riportato dalla cronaca di Lamberto di Aschaffenburg († dopo il 1077), Izjaslav, presentato a Magonza da Dedi margravio

Igor († 1060)

Mstislav († 1069)

Svjatopolk Mikhail (1050-1113) regno 1093-1113

di Sassonia (1046-1075), promise a Enrico, nel caso l’avesse aiutato a recuperare il trono, vasi d’oro e d’argento e stoffe preziose.

La missione di Burcardo

Lamberto pone l’evento nel gennaio del 1075, mentre Sigebert di Gembloux (1030 circa-1112), monaco benedettino e cronista medievale, lo colloca due anni prima, nel 1073. Il monaco afferma inoltre che Izjaslav promise a Enrico di riconoscersi suo tributario, nel caso ne avesse ricevuto l’appoggio necessario. A quel punto l’imperatore pensò di risolvere la controversia ordinando una missione diplomatica che affidò all’ecclesiastico Burcardo di Treviri. Il religioso fece visita a Svjatoslav, ottenendone la rassicurazione sulla buona fede della sua posizione sul trono di Kiev.

Sulla vicenda sembra aleggiare, tuttavia, l’ombra della corruzione. Burcardo, infatti, ritornò da Kiev con doni tali da suscitare nei contemporanei una certa impressione: «Tantum regi deferens auri et argenti et vestium preciosarum, ut nulla retro memoria tantum regno teutonico uno tempore illatum referatur». Enrico IV, «non restandogli d’altro canto alcun mezzo di fare la guerra ai Russi, si restrinse ad accordare al principe bandito una sterile compassione» (Istoria dell’Impero di Russia del consigliere Karamsin, traduzione di Giannantonio Moschini, 1820). Fu allora che venne presa una decisione di estrema importanza storica e politica: senza attendere l’esito dell’ambasceria di Burcardo (o sospettandone il fallimento), Izjaslav inviò a Roma il figlio maggiore Jaropolk (regno 10781086) per una estrema richiesta

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storie rus’ di kiev La Rus’ di Kiev (IX-XI sec.) Slavi

Tribú slave unite nelle prime formazioni statali russe (IX sec.) La Rus’ di Kiev alla fine del IX sec. e territori sotto la sua influenza

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Conquiste di Kiev (978-1054)

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L’estensione iniziale e le successive conquiste della Rus’ di Kiev.

di aiuto presso il pontefice Gregorio VII (1073-1085).

Nel nome di Pietro

Il viaggio si inseriva in un periodo in cui gli equilibri fra i due poteri cardine, quello spirituale e quello politico, stavano per raggiungere il punto di rottura. Nel 1073 era stato eletto papa Ildebrando di Sovana, con il nome di Gregorio VII,

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il cui obiettivo primario era quello di ridefinire i princípi sui quali la Chiesa doveva essere governata e sulla cui applicazione non poteva accettare alcuna intromissione. L’estrema chiarezza di quanto il pontefice intendeva affermare risulta dalla lettura di un importante documento da lui stesso emanato, il Dictatus Papae: 27 brevi formule che esprimono il pensiero del pontefice

sui diritti e i privilegi che egli intendeva avocare alla sua figura. Accanto a una serie di princípi fondamentali e diritti del papa all’interno della Chiesa risulta di particolare rilevanza, per il nostro contesto, quanto asserito da Gregorio nei confronti del potere dei príncipi. L’enunciato numero XII afferma, infatti, che il papa ha la facoltà di deporre l’imperatore (Quod illi liceat imperatores deponere). Secondo lo storico Jean Gaudemet «nel pensiero di Gregorio VII questo diritto è un’applicazione di quello di legare e sciogliere» (Storia del diritto canonico. Ecclesia et Civitas, 1998), quale diretto riferimento al potere di Pietro. In una sua celebre lettera ai vescovi scrive Gregorio: «Se voi [Pietro e Paolo] potete legare e sciogliere il cielo, voi sulla terra potete togliere o concedere a ciascuno secondo i suoi meriti, gli imperi, regni, principati, ducati, marchesati, contee e possedimenti di tutti gli uomini». La norma XXVII rappresenta la naturale conseguenza del principio ora affermato: «Quod a fidelitate iniquorum subiectos potest absolvere»; coloro i quali siano stati costretti con la forza all’obbedienza, siano liberati dal loro giuramento di fedeltà. Risulta infine di particolare rilevanza anche l’enunciato XVIII: «Quod sententia illius a nullo debeat retractari et ipse omnium solus retractare possit»; che nessuno possa riesaminare una sentenza del papa, lui soltanto possa riesaminare quelle di tutti. Il Dictatus Papae venne inserito nel registro delle lettere di Gregorio VII tra il 3 e il 4 marzo 1075. Appena un mese piú tardi, il 17 aprile, in una decretale inviata al principe Izjaslav e consorte, il papa espresse la sua posizione sulla sovranità del principato di Kiev: «Gregorius episcopus servus servorum Dei Demetrio regi Ruscorum et regine uxori eius salutem et apostolicam benedictionem. Filius vester limina apostolorum visitans ad nos venit et, quod regnum illud dono sancti Petri per manus nostras vellet optinere (...)». luglio

MEDIOEVO


L’incipit della missiva indicava sin da subito, e senza alcun dubbio, il pensiero del pontefice: egli considerava Izjaslav (qui denominato Demetrio, dal nome del suo santo protettore) il legittimo sovrano della Rus’; concedeva, inoltre, al figlio Jaropolk la co-reggenza del regno, designandolo erede legittimo. Nei suoi saluti iniziali, inoltre, il papa includeva, pur non nominandola, la principessa consorte Gertrude confermando il quadro che vedeva la potente famiglia Piast molto vicina alla politica religiosa voluta da Gregorio.

La protezione papale

Izjaslav ottenne quanto richiesto; per la prima volta Gregorio VII poneva il regno della Rus’ sotto la protezione e la benedizione del principe degli Apostoli. Il frequente richiamo a Pietro è tutt’altro che casuale. È ancora il Dictatus Papae ad affermare, al principio XXIII, «Quod Romanus pontifex, si canonice fuerit ordinatus, meritis beati Petri indubitanter

MEDIOEVO

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la cronaca degli anni passati

Una fonte eterogenea, ma preziosa La Cronaca è la piú antica raccolta annalistica russa giunta fino a noi e risale all’XI-XII secolo. Il titolo originale, Povest’ vremennych let, rimanda all’incipit dell’opera: Se povesti vremjaninychu letu, otkudu, esti pošla ruskaja zemlja, kto vu Kieve naca parvee knjažiti, i otkudu ruskaja zemlja stala esti («Ecco la Cronaca degli anni passati, di dove è derivata la Terra Russa, chi a Kiev iniziò dapprima a regnare, e di dove la Terra Russa è sorta»). È nota anche come Cronaca di Nestor, dal nome del principale dei suoi compilatori, il monaco Nestor (1056 circa-1114 circa), detto Letopisec, l’Annalista, attivo presso il monastero delle Grotte di Kiev. Si tratta, in realtà, di un corpus sviluppatosi attraverso varie compilazioni nel corso di molti anni, le quali rappresentano la fonte piú preziosa per la ricostruzione degli eventi, spesso drammatici, che caratterizzarono la storia della Rus’ di Kiev. Il carattere eterogeneo di questo componimento plurisecolare è dato dai diversi generi letterari che confluiscono al suo interno; tra questi, leggende agiografiche, racconti orali e canti storici, ai quali si aggiungono descrizioni geografiche e documenti diplomatici, qui riuniti in un unico contesto quale riflesso dell’ideologia e delle aspirazioni del popolo russo. Miniatura raffigurante Jaroslav il Saggio che combatte contro il fratello Svjatopolk il Dannato, dalla Cronaca Radziwill. Fine del XV sec. San Pietroburgo, Accademia delle Scienze. Lo scontro si risolse a favore del primo, che poté cosí salire al trono di Kiev.

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storie rus’ di kiev Gertrude Piast

Principessa e madre, umile e sola Figlia del sovrano Mieszko II Lambert di Polonia (9901034) e della regina Richeza di Lotaringia († 1063), Gertrude discendeva direttamente dalla dinastia ottoniana. La madre, infatti, era nipote, per via materna, di Ottone II (955983, imperatore dal 973) e della principessa bizantina Theofano (958991, imperatrice dal 973). Intorno al 1043, forse in occasione delle nozze con il principe di Kiev Izjaslav Jaroslavic, la principessa ricevette in dono un prezioso codice di epoca ottoniana, il Salterio di Egberto, realizzato alla fine del X secolo su iniziativa dell’arcivescovo di Treviri Egberto, e oggi conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli. Tra il 1077 – anno che vide il ritorno sul trono di Kiev del consorte Izjaslav dopo un lungo periodo di esilio – e l’inizio del XII secolo, Gertrude avviò l’integrazione

del Salterio, realizzando il suo Libro di preghiere, il cosiddetto Codex Gertrudianus, aggiungendovi numerose orazioni in latino e commissionando l’esecuzione di cinque miniature. E proprio in una di queste compare l’unico ritratto che possediamo di Gertrude, che la mostra genuflessa ai piedi dell’apostolo Pietro mentre afferra con entrambe le mani il suo piede sinistro; con lei il giovane figlio Jaropolk che, accompagnato da un’immagine femminile protettiva [forse la principessa Olga († 969), la prima fra tutti i Russi a ricevere il battesimo], leva le braccia verso l’Apostolo in segno di preghiera. L’immagine trova una sua collocazione temporale e ideale proprio nel periodo della Riforma gregoriana, e appare come un chiaro riferimento all’importanza primordiale assunta

I legami di parentela di Gertrude Piast Theofano (958-991)

Ottone II (955-983) coimp. dal 967 imp. dal 973

Herenfried Ezzo († 1034)

Mieszko II Lambert (990–1034) re di Polonia dal 1025

Matilde di Germania (978-1025)

Richeza di Lotaringia († 1063)

Casimiro I († 1058) re di Polonia dal 1039 Boleslaw II († 1082) principe di Polonia dal 1058 re dal 1077

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Gertrude (1025 circa-1108 circa)

Ottone III (980-1002) imp. dal 996

dalla formula iconografica legata al primato di Pietro, primo vescovo. L’adorazione di Gertrude, qui esternata, è nei confronti dell’istituzione papale attraverso Pietro, primo vicario di Cristo, affinché invii la sua misericordia e protezione all’amato figlio Jaropolk. Questi, peraltro, non verrà mai indicato dalla madre nelle sue preghiere con il suo nome russo, bensí con quello del suo santo protettore, Pietro (Petrum, famulum tuum), che ricorre tra l’altro anche nelle monete e nei sigilli da lui stesso coniati. All’avvio della realizzazione di questa prima miniatura, Izjaslav era probabilmente ancora in vita (verrà ucciso un anno piú tardi, nel 1078), e l’assenza della sua figura in questo ritratto di famiglia, proprio nell’immagine d’apertura, sembra voler rimarcare l’appartenenza del codice alla sola principessa, decisa a sua volta a ricordare intimamente la missione romana del figlio presso papa Gregorio VII. Dai testi delle orazioni emerge, in effetti, l’immagine di una donna e di una madre profondamente sola, umile e sottomessa alla volontà luglio

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A destra miniatura con, evidenziata dalla cornice, Gertrude Piast in ginocchio ai piedi dell’apostolo Pietro, dal Codex Gertrudianus, integrazione del Salterio di Egberto commissionata dalla stessa principessa, Codice CXXXVI, Egberti, f. 5v Fine dell’XI-inizi del XII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto sigillo-moneta in piombo con, al dritto, il busto di san Pietro. Zecca collocata nella regione della Volynia, regno di Jaropolk Izjaslavic (regno 1078-1086).

divina, colma di timore (per sé e i suoi cari), che concepisce la propria sorte come uno stato di continua minaccia e incertezza. Molte delle preghiere di Gertrude vengono rivolte al Cristo misericordioso, affinché protegga l’amato figlio da tutte le insidie e le malvagità; prega che l’angelo del Signore possa proteggerlo e condurlo verso la via della Salvezza, al cospetto di Cristo; in queste suppliche vi è l’intima speranza che, se non in terra, almeno in cielo gli verrà concesso il giusto merito. Ciò traspare chiaramente da un’altra miniatura del Codex Gertrudianus, strettamente legata alle vicende personali vissute dalla famiglia di Gertrude nella seconda metà dell’XI secolo. L’immagine raffigura Cristo in trono nell’atto di incoronare Jaropolk e la sua sposa Cunegonda, accompagnati dai loro santi protettori, Pietro e Irene; sembrano librarsi nell’aria le quattro protomi ezechieliane, dotate ciascuna di un codex, quali simboli degli evangelisti, mentre ai piedi del Salvatore in trono sfila il corteo dei «viventi», serafini, cherubini e ruote infuocate. L’incoronazione celeste, affidando a Cristo l’atto concreto dell’investitura, che vede protagonista il giovane principe insieme alla consorte, rappresenta la degna riparazione di una ingiusta privazione terrena mai colmata.

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efficitur sanctus testante sancto Ennodio Papiensi episcopo ei multis sanctis patribus faventibus, sicut in decretis beati Symachi pape continetur»; il papa, dunque, è senza alcun dubbio santificato in virtú dei meriti di Pietro. Occorre ancora una volta ricordare che la missiva diretta a Izjaslav seguiva di un mese la trascrizione del Dictatus; nella lettera del 17 aprile Gregorio espresse il suo pensiero piú nitido: egli si considerava il naturale e legittimo successore di Pietro e, in quanto tale, non solo «spersonalizzava» la sua posizione, ma era altresí autorizzato a espri-

mersi sulla legittimità del potere di ogni principe terreno (Quod illi liceat imperatores deponere). Data la sua autorità, diveniva dunque conseguente considerare inappellabile e incontestabile quanto da lui espresso (Quod sententia illius a nullo debeat retractari). Possiamo considerare la lettera destinata a Izjaslav alla stregua di una sentenza, valida erga omnes. L’enunciato conteneva in sé un importante risvolto politico. La questione inerente al potere sul Principato di Kiev consentiva, infatti, a Gregorio VII di allargare la propria

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A destra le figlie di Jaroslav il Saggio ritratte in un affresco nella cattedrale di S. Sofia a Kiev. 1040 circa. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Cristo in trono tra Jaropolk, Cunegonda e i loro santi protettori, Pietro e Irene, dal Codex Gertrudianus. Codice CXXXVI, Egberti, f. 10v. Fine dell’XI-inizi del XII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.

influenza su una parte cruciale dell’Europa orientale. «Cosí Izjaslav (…) somministrò all’ambizioso Gregorio l’occasione di unire quel paese a’ pretesi dominii di s. Pietro (…)» (Istoria dell’Impero di Russia... cit.). Vi era inoltre una novità importante, che andava a modificare, almeno nelle intenzioni, l’ordine imposto da Jaroslav il Saggio e che avrebbe inevitabilmente portato a ulteriori conflitti; infatti, nel concedere a Jaropolk la co-reggenza del regno di Kiev, il pontefice interrompeva di fatto la linea di successione (da fratello a fratello) decisa in precedenza da Jaroslav. Possiamo allora pensare che Gregorio intendesse cosí riportare la pace all’interno del travagliato principato, ripristinando la «normale» trasmissione ereditaria del potere. Quanto importanti e consolidati fossero i legami con i sovrani dell’Europa orientale e, in particolare, con la famiglia Piast, è testimoniato dalla lettera datata 20 aprile (appena tre giorni dopo la missiva destinata a Izjaslav) e indirizzata al

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sovrano polacco Boleslaw II. In essa Gregorio rimproverava al principe l’improvvida sottrazione del tesoro offerto da Izjaslav per il suo ritorno a Kiev, esortandolo a restituire al piú presto quanto dovuto. Gli eventi, tuttavia, mutarono soltanto alla fine del 1076. Secondo la Cronaca, il 27 dicembre di quell’anno Svjatoslav l’usurpatore morí a causa del taglio di un’ulcera. Alla sua morte salí al trono il fratello Vsevolod, vecchio alleato di Svjatoslav. La svolta, politica e militare, giunse per mano di Boleslaw; è probabile che il principe polacco venne persuaso a piú miti consigli dopo aver ricevuto l’ammonimento del papa. Egli, infatti, mutò il proprio atteggiamento nei confronti di Izjaslav, fornendogli l’esercito per la riconquista del trono: «Fatta leva di alquante migliaia di Polacchi, entrò prontamente in Russia». Izjaslav incontrò Vsevolod in Volynia; a questo punto, però, i due fratelli si accordarono: «Vsevolod andò a Volyn’ contro il fratello Izjaslav, ed essi conclusero la pace,

e Izjaslav venne a stabilirsi a Kiev il giorno 15 del mese di luglio [1077]».

Un destino nefasto

Quanto precario fosse il potere detenuto da Izjaslav risultò evidente già un anno dopo il suo rientro a Kiev. Nel 1078, infatti, venne ordita una rivolta da alcuni suoi nipoti e, nel tentativo di reprimerla, il Gran Principe perse la vita. Fu allora che «Vsevolod si assise a Kiev al trono del padre suo e del fratello suo, avendo assunto tutto il potere russo. E designò il figlio suo Volodimir a Cernigov, e Jaropolk a Volodimir [Vladimir, “capitale” della Volynia], affidando a lui Turov». Jaropolk ritenne tutt’altro che soddisfacente la soluzione stabilita da suo zio Vsevolod, soprattutto in considerazione di quanto era stato affermato da Gregorio VII nella sua decretale. Nonostante il lungo peregrinare per le corti d’Europa, la complessa missione diplomatica a Roma e il faticoso rientro a Kiev fino alla morte prematura e drammatica di suo padre, Jaro-

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storie rus’ di kiev Il Monastero delle Grotte (Kyevo Pecers’ka Lavra), fondato nella metà dell’XI sec. dai venerabili Antonio e Teodosio delle Grotte. Il complesso, che occupa oltre venti ettari, si trova nel cuore di Kiev, «la madre di tutte le città della Rus’», e conta oltre un centinaio di edifici, comprese numerose chiese. Oggi ospita la residenza del primate della Chiesa ortodossa ucraina.

polk (l’erede designato!) era stato costretto a cedere il trono al quale egli, ormai, sentiva naturalmente di appartenere. È a questo punto che la Cronaca ipotizza che il giovane possa essere stato mal consigliato, se non addirittura fomentato: «Jaropolk, sarebbe voluto andare contro Vsevolod, avendo prestato ascolto a cattivi consiglieri». È probabile, tuttavia, che Jaro-

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polk fosse intimamente convinto – in questo appoggiato da sua madre Gertrude –, di essere vittima di un’ingiustizia. Di qui il suo estremo tentativo di porvi rimedio, ribellandosi all’ordine stabilito dallo zio. Il giovane principe, tuttavia, non riuscí a riunire le forze necessarie al suo intento e fu ben presto costretto alla fuga in Polonia e alla inevitabile resa. Per l’anno 1085 la Cronaca riporta infatti che: «Avendo saputo ciò [quanto Jaropolk tramava] Vsevolod inviò contro di lui il figliuol suo Volodimir. Jaropolk, lasciata la madre sua e la družina a Lucesk [città della Volynia, situata dunque nei territori spettanti a Jaropolk], fuggí presso i Ljachi [i Polacchi]. Allorché Volodimir giunse a Lucesk i Lucani si arresero. (…) e la madre di Jaropolk, e la moglie sua

e la sua družina condusse a Kiev e s’impossessò del suo avere [e dei suoi territori]» (nella Rus’ di Kiev la družina era il seguito che aiutava il principe nell’amministrazione degli affari di governo e ne supportava l’azione con un apparato militare). Nel 1085, Jaropolk venne dunque privato di tutte le sue sostanze, mentre sua madre e la sua consorte (la principessa Cunegonda, † 1140) furono condotte a Kiev.

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Non restavano alternative: Jaropolk concluse la pace ed ebbe la possibilità di ristabilirsi nei territori concessi dallo zio. Siamo nel 1086. A questo punto gli eventi mutarono improvvisamente. Dopo essere rimasto a Vladimir soltanto pochi giorni, Jaropolk «andò a Zvenigorod [forse Zvenigorod Cervenskij, città situata a sud delle foci della Sereta e della Struca]. E non ancora giunto in città, allorché fu ucciso dal maledetto Neradec, istigato dal diavolo e dagli uomini malvagi. Egli [Jaropolk] stava sul carro, e quegli dal cavallo con la lancia lo uccise, il giorno 22 del mese di novembre [1086]». La cronaca non risulta chiara sul motivo che spinse il «maledetto Neradec» a uccidere Jaropolk. Si trattò probabilmente di un delitto eseguito su commis-

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sione, ma non è possibile avanzare alcuna ipotesi plausibile su chi possa esserne stato il mandante.

In una tomba di marmo

Il corpo esanime del principe venne portato dapprima a Vladimir e poi a Kiev: «E gli andò incontro il buon principe Vsevolod con i suoi figli, Volodimir e Rostislav, e tutti i boiari, e il buon metropolita Ioann con i monaci e con i preti. E tutti i Kieviani piansero di gran pianto, con salmi e canti lo accompagnarono al monastero di San Demetrio, e, preso il corpo suo, con onori lo deposero in una tomba di marmo nella chiesa del santo Apostolo Pietro, che egli stesso, precedentemente, aveva cominciato a costruire, il giorno 5 del mese di dicembre». Jaropolk, dunque, venne sepolto nella chiesa dedicata a san Pietro

della quale egli stesso aveva avviato la costruzione. Da questo punto di vista risultò senz’altro di grande significato il viaggio compiuto alla corte di Gregorio VII; in quella circostanza Jaropolk aveva visitato i luoghi sacri e, in seguito, una volta fatto ritorno a Kiev, aveva avviato la costruzione dell’edificio in onore del Principe degli Apostoli, probabilmente quale ex voto in segno di ringraziamento per essere stato ascoltato nelle sue preghiere. Nel 1093 alla morte di Vsevolod, il di lui figlio Volodimir cedette il trono di Kiev al cugino Svjatopolk Mikhail (1050-1113), fratello minore di Jaropolk; egli succederà a suo zio come Svjatopolk II, Gran Principe di Kiev, e manterrà il trono fino alla sua morte avvenuta nel 1113.

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«Lo spazio dentro a lor quattro contenne un carro, in su due ruote, triunfale, ch’al collo d’un grifon tirato venne». (Purgatorio, XXIX, 106-108) luglio

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Quell’animale

ibrido e divino

di Furio Cappelli

Originario da lontane terre d’Oriente, ma presente anche in Etruria e in Egitto, il grifone conquista un posto eminente nell’arte figurativa dell’Occidente medievale. Dove – pur essendo del tutto e curiosamente assente nel racconto biblico – assurge a simbolo cristologico. Un’evoluzione consacrata in un canto della Divina Commedia di particolare suggestione…

Due immagini del pulpito realizzato da Giovanni Pisano nella chiesa di S. Andrea, a Pistoia. 1298-1301. A sostenerne la colonna centrale sono un grifone, un’aquila e un leone alato.

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oltre lo sguardo/6

A A

l culmine della sua peregrinazione nel secondo regno dell’aldilà (Purgatorio, XXVIII), Dante – in compagnia dei poeti latini Virgilio e Stazio – si trova nel Paradiso terrestre, lo spazio fatato che i progenitori Adamo ed Eva dovettero abbandonare. La foresta dell’Eden è attraversata dalle acque che sgorgano da una fonte inesauribile e dalla portata costante, che non ha bisogno della pioggia per alimentarsi, visto che dipende dalla volontà divina. Ne scaturiscono due fiumi gemelli, il Letè e l’Eunoè e chi, come Dante, si trova sulle rive del primo, attingendo alle sue acque dimentica ogni peccato commesso; sul fiume opposto, invece, le stesse acque hanno l’effetto di rafforzare la memoria, riportando in luce tutto il bene che si è compiuto. E proprio in riva al Letè il poeta si ritrova di fronte a una fulgida immagine di felicità e bellezza: sull’altro lato del fiume vede infatti l’incantevole Matelda, intenta a cantare e a raccogliere fiori. Ogni racconto sulla mitica età dell’oro, tante volte vagheggiata dai poeti antichi, sembra trovare in questo scenario verità e concretezza. I poeti camminano lungo il fiume, finché la donna – che li affianca sulla riva opposta – richiama Dante, affinché presti attenzione a ciò che sta per accadere: «Frate mio, guarda e ascolta» (Purgatorio, XXIX, 15). Si diffonde una luce intensa, e si ode una soave melodia. Un corteo si delinea lentamente, aperto da una schiera di 7 candelabri, che nell’aria disegnano altrettante scie, che rimangono impresse come se fossero colori su una tavola o su un muro, distesi con il pennello da un pittore. Compaiono poi 24 vegliardi, vestiti di stole candide e coronati di giglio, simbolo di fede pura e incrollabile. Sono 24, come i libri del Vecchio Testamento. Seguono 4 animali alati, che rappresentano i Vangeli.

Ed ecco s’avanza un carro trionfale

È poi la volta del grifone, che traina un carro trionfale, a tal punto magnifico da non temere confronti con gli apparati eretti in onore dei condottieri e dei sovrani del mondo antico. Il carro simboleggia la Chiesa, e il grifone è l’immagine stessa di Cristo. Le sue ali si spingono altissime verso il cielo, fino a essere invisibili, e si inseriscono perfettamente tra le sette scie dei candelabri, senza inciderle, ponendosi ai lati di quella centrale. Due sono i colori di questo essere prodigioso, solitamente evocato come un misto di aquila e di leone. Le parti di uccello sono d’oro, mentre le altre membra sono di un bianco venato di rosso. Tutt’intorno al carro, 7 donne danzanti impersonano le Virtú Cardinali (4) e Teologali (3). Dietro al carro, altre figure alludono ai libri che completano il Nuovo Testamento, sino a un vecchio in preda a un sonno estatico, che raffigura l’Apocalisse di San Giovanni, a chiusura del corteo.

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In alto veduta d’insieme del pulpito di Giovanni Pisano nella chiesa di S. Andrea, a Pistoia. 1298-1301. Nella pagina accanto Cristo mistico, particolare del pulpito realizzato da Nicola Pisano nel Duomo di Siena. 1263-1268.

Nel canto successivo (Purgatorio, XXX) gli angeli diffondono sul carro una nuvola di fiori e, quando il turbine dei petali si dirada, appare d’incanto Beatrice. Dante consacra cosí in modo definitivo il grifone come animale divino, in uno dei punti di maggiore dispiego di allegorie di tutto il poema. Già i primi commentatori mostravano il chiaro nesso tra la doppia natura di questo rapace – «animal binato» (Purgatorio, XXXII, 47) – e l’essenza terrena e divina del Messia. L’Anonimo Lombardo, negli anni 1323-30, scrive infatti che questo grifone (hunc griffonem) che traina il carro va identificato con Cristo che governa la Chiesa. «Come infatti il grifone ha una doppia natura, in quanto uccello e animale [terrestre], cosí il Cristo ha una doppia natura, umana e divina». luglio

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oltre lo sguardo/6 Miti e leggende

L’oro dei grifoni Creazione iconografica di plurimillenaria fortuna, il grifone rientra fra gli esseri ibridi che noi consideriamo fantastici, mentre nel mondo antico era registrato tra le specie animali viventi e spesso collocato in regioni lontane dell’Oriente, inospitali e poco conosciute. Erodoto chiama in causa le regioni del Caucaso (Storie, III: 16; IV: 13, 27), dove la popolazione indoiranica degli Sciti avrebbe attestato l’esistenza degli Arimaspi, detti cosí nella loro lingua perché dotati di un solo occhio (monocoli). Lo storico greco è scettico sull’attendibilità delle notizie su questa strana stirpe, ma riferisce comunque che costoro erano soliti depredare l’oro ammassato in favolosi giacimenti. E, per impossessarsi di tanta ricchezza, dovevano battersi con i grifoni, posti a presidio del prezioso metallo. Il filosofo Claudio Eliano (170 circa-235 circa d.C.) scende nei dettagli e rende piú «realistico» l’identikit del grifone, riferendone l’habitat alla favolosa India. Nel descriverlo, con i suoi artigli leonini e il suo becco d’aquila, fa esplicito riferimento a talune raffigurazioni fornite dai pittori e dagli scultori. In base alle informazioni che possiede, può addirittura certificare l’attendibilità di quelle immagini, escludendo diverse combinazioni che pure erano diffuse (il grifone-leone, per esempio, con testa felina e coda di uccello, con o senza ali). I favolosi giacimenti d’oro si trovano per la precisione tra l’India e la Battriana (nell’attuale Afghanistan), e la spiegazione naturalistica fornita sul ruolo dei grifoni come custodi dei tesori è suggestiva. Gli indiani narrano infatti che questi uccelli-leone difendono semplicemente i loro nidi, e sono infastiditi dalla continua presenza dei cercatori nel loro territorio. L’Anonimo puntualizza inoltre che le ali del grifone stanno a intendere la potenza e lo slancio della Chiesa, e le sette scie incorruttibili in cui esse si inseriscono, sono i sette sacramenti. Le ali rivestite d’oro, che si spingono verso il cielo senza essere viste nella loro interezza, rappresentano senz’altro la divinità, mentre le membra di colore latteo che lasciano intravedere i vasi sanguigni, danno il senso di un vero corpo in carne e ossa, ben saldo sulla terra. La visione dantesca si incardina su Cristo (la Rivelazione) e culmina nell’Apocalisse, ed è dunque protesa fino alla fine dei tempi. Gli stessi intenti erano alla base di quelle rappresentazioni pittoriche e scultoree che nelle chiese affrontavano storie, temi e figure della Bibbia. Talvolta l’artista agiva con grande inventiva e con un raffinato apporto di riflessioni teologiche, sem-

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Sulle due pagine e in alto un bracciale e un disco ornamentale decorati con figure di grifoni e facenti parte del tesoro dell’Oxus. Epoca achemenide, V-IV sec. a.C. Londra, British Museum. luglio

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pre mirando, in ogni caso, a proiettare l’anima del fedele (e l’intera umanità) verso il suo destino.

Nella «tana» di Vanni Fucci

In alto miniatura raffigurante Dante che vede passare il carro trionfale trainato da un grifone, come si legge nel canto XXIX del Purgatorio, da un’edizione della Divina Commedia. XIV sec. Londra, British Library.

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Prima che si diffondesse il Purgatorio (già concluso nel 1316), Giovanni Pisano realizzava a Pistoia il suo primo pulpito istoriato, nella chiesa di S. Andrea (12981301), e proprio questo lavoro illustre compete bene sul piano figurativo con l’inventiva del poeta, attento ammiratore – d’altronde – degli artisti del suo tempo. Ed è curioso trovare un simile aggancio in quella Pistoia che fu «degna tana» del bestiale Vanni Fucci (Inferno, XXIV, 126): la stessa città che Dante si augura di vedere ridotta in cenere, in una delle sue proverbiali maledizioni (Inferno, XXV, 10-15). Il primo nesso con il corteo dantesco è dato proprio dalla presenza del grifone. Questa creatura infatti condivide con un leone alato e con un’aquila una posizione focale: sostiene sulla propria groppa il peso della colonna centrale, esercitando un ruolo di forza espresso con grande vigore. Dal momento che il pulpito compone una visione della Chiesa, il grifone ha qui un ruolo di supporto simile a quello trainante che Dante gli attribuisce, anche se non acquisisce altrettanta efficacia allegorica come immagine di Cristo. L’abbinamento con il leone e con l’aquila, d’altra parte, chiama direttamente in causa proprio gli animali che forniscono al grifone le sue componenti, sottolineando perfettamente la sua simbologia. Sembra

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oltre lo sguardo/6 anzi che il corteo dei tre animali-telamoni possa essere visto in una modalità quasi cinematica, come tre momenti di una ibridazione progressiva. Dall’aquila si passa al leone (che «riceve le ali») e si culmina infine con la sintesi fantastica del grifone. Ma c’è un secondo nesso, ancor piú sottile, tra la Commedia e il pulpito di Giovanni. Questi, infatti, ha ripreso un’idea già espressa dal padre Nicola nel pulpito del Duomo di Siena (1263-1268), vale a dire la riflessione sulla figura di Cristo attraverso una sua immagine statuaria a figura stante, situata su uno dei punti di giunzione tra le lastre istoriate del parapetto. È il Cristo mistico, colto in un atteggiamento raccolto e pensoso, ai cui fianchi emergono alcune testine che compongono una serie di personaggi del Vecchio Testamento, di cui il figlio di Dio è il discendente diretto (vedi foto a p. 67). Questo corteo si riallaccia all’iconografia dell’Albero di Jesse, che compone appunto, attraverso le sue ramificazioni, la genealogia del Redentore. Ai suoi piedi Nicola aveva concentrato le bestie malvage evocate dal Salmo 90 (13), ossia il basilisco, In basso lastra marmorea del patriarca Sigualdo di Aquileia (756-786), riutilizzata nel battistero di Callisto a Cividale, nella quale, ai lati dell’albero, compaiono anche due grifoni. Cividale del Friuli, Museo Cristiano.

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Il grifone bronzeo in orgine collocato sul tetto del Duomo di Pisa (dove è stato sostituito da una replica). La scultura proviene dalla Spagna islamica ed è databile tra la fine dell’XI e gli inizi del XII sec. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

Nella pagina accanto, in alto lastra di produzione bizantina raffigurante una coppia di grifoni che sta per spiccare il volo dopo aver ghermito una gazzella. 1150 circa. Ascoli Piceno, cattedrale.

il drago, il leone e l’aspide, declinando cosí il consueto tema della sottomissione del Male, tante volte affidato proprio al grifone, che lotta spesso contro un drago. Mentre calpesta questi esseri mostruosi, Cristo appare sovrastato da un trono vuoto affiancato dagli angeli. In primo piano è raffigurata una colomba, mentre in alto appare la mano indicante dell’Eterno. Si tratta del trono vuoto di un tema iconografico noto come Etimasia («preparazione»), sul quale siederà proprio Cristo alla fine dei tempi, quando si compirà la sua ultima venuta. Giovanni riprende fedelmente a Pistoia lo schema generale del Cristo mistico di Nicola, ma inserisce una variante sorprendente proprio nel contesto del trono apocalittico. Al posto della mano di Dio Padre compare una maschera gigantesca: è un essere divino che si materializza in tutta la sua potenza, nulla è umano in lui, e le sue or-

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oltre lo sguardo/6 Chiamando il grifone «animal binato», Dante sintetizza con efficacia l’essenza terrena e divina del Messia

Brocca in oro e smalti decorata con figure di grifoni e leoni. Attribuita ad artefici bizantini, è databile tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX sec. SaintMaurice (Svizzera), abbazia di San Maurizio d’Agauno. Il prezioso manufatto viene tradizionalmente considerato come uno dei doni del califfo Harun al-Rashid a Carlo Magno.

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A destra particolare del piviale (mantello liturgico) di Bonifacio VIII, con clipei entro i quali figurano grifoni passanti, aquile bicipiti e colombe affrontate ai lati dell’Albero della Vita. XIII sec. Anagni, Museo del Tesoro del Duomo.

bite vuote suggeriscono occhi dallo sguardo tagliente, pronti a gettarsi sul bersaglio, mentre le sue fauci sembrano quelle di una belva. Lo storico dell’arte Gian Lorenzo Mellini (19352002), suggestionato proprio dal Purgatorio dantesco, ravvisava in questa visione la «grande testa grottesca» di un grifone. La sua associazione al trono apocalittico si lega davvero con facilità al carro trionfale della Commedia, che prelude anch’esso alla fine dei tempi. Dante poté vedere il pulpito di Giovanni? Non lo sappiamo, ma di sicuro queste connessioni indicano un tessuto di suggestioni e di temi che accomuna facilmente la grande arte e la grande letteratura del tempo.

Echi di antiche civiltà

Ma da dove viene il grifone? La sua è una storia lunga, e il suo protagonismo indiscusso nel bestiario delle chiese medievali contrasta assai con la sua totale assenza nella Bibbia. Proviene dalle antiche civiltà della Mesopotamia e dell’Egitto, e si afferma precocemente come simbolo di regalità. All’epoca della V dinastia egiziana (2465-2323 a.C.), in particolare, il grifone caratterizzato da una testa di falco è immagine del faraone. La fortuna del simbolo si spiega bene con la connessione che stabilisce tra un quadrupede (animale terrestre) e un uccello rapace, dalla grande apertura alare, e con doti proverbiali di forza, precisione e sicurezza nell’atto di catturare la preda. Proprio la componente dell’essere volatile fornisce al grifone il crisma della divinità. Di fianco all’aquila (come pure di fianco al falco e all’avvoltoio), può dominare le regioni dei cieli (il mondo uranico) e svolge

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fortuna di un’immagine

Tutti lo vogliono L’accenno a Federico e alle officine regie di Palermo ci porta a ritrovare il nesso tra il grifone e la regalità proprio nel cuore del regno normanno. I grifoni decorano le transenne marmoree della tribuna che re Guglielmo II (1172-1189) volle per il proprio trono nella cattedrale di Monreale. Lo stesso sovrano, d’altronde, lega il proprio nome a uno dei cimeli del Tesoro del Sacro Romano Impero, oggi custodito a Vienna: l’Alba imperiale (veste di seta bianca con elementi policromi istoriati). I grifoni sono i protagonisti nella decorazione della balza inferiore, che risale al lavoro originale, datato da una epigrafe al 1181. Emblema del potere e figura cristologica, il grifone non poteva poi mancare tra gli oggetti-simbolo di un pontefice come Bonifacio VIII (1294-1303). Tra i doni che egli concesse alla cattedrale di Anagni spicca il magnifico piviale (mantello liturgico) in seta rossa (purpurea), con ricami in fili d’oro, ricoperto di clipei che racchiudono grifoni passanti, aquile bicipiti (tipicamente federiciane) e colombe affrontate ai lati dell’Albero della Vita. Tanta profusione di sfarzo e di senso della sovranità si spiega bene con la provenienza della stoffa, bizantina o «regnicola». Deriva con tutta probabilità da un’officina dell’isola di Cipro o dall’opificio regio di Palermo, ed è stata eseguita all’epoca di Federico II.

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oltre lo sguardo/6

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Statue di grifoni in origine appartenenti a un portale della basilica di S. Giustina a Padova. 1150 circa.

cosí un ruolo mediatore tra il divino e l’umano. Non solo può fungere cosí da messaggero di Dio, ma può accompagnare l’anima verso le regioni dell’aldilà (si parla in tal caso di animale psicopompo), il che spiega la sua presenza nelle tombe etrusche. Si batte contro gli esseri malvagi e può cosí svolgere un ruolo di custode in modo assai efficace, ponendosi, per esempio, a guardia di un tesoro. Il grifone rimane stabilmente in piena età romana nel catalogo delle specie animali esistenti. Plinio, che non nutre dubbi sull’unicorno, lo relega tra gli esseri favolosi, ma il geografo Mela, vissuto anch’egli nel I secolo d.C., lo considera reale. Fatto sta che le antiche consuetudini iconografiche non solo permetteranno all’uccello-leone di rientrare nell’immaginario medievale, ma gli daranno un ruolo di tutto rispetto in ambito sacro, senza escludere in taluni casi un’accezione prettamente negativa. Nella sua seconda redazione, nota come bizantina o dello pseudo-Epifanio (databile al V-VI se-

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colo ma anche riferita all’XI), il Fisiologo greco – il «manuale» enciclopedico sulla natura che tanta importanza ha avuto nella cultura medievale – non lascia spazio ad alcuna ambiguità: quando si alzano in volo alle prime luci dell’alba, i grifoni «ricevono i dardi del Sole» e, grazie alla loro immensa apertura alare, fanno in modo che la luce dell’ira divina si diffonda nel mondo senza fare strage. Per giunta, essi fungono da accompagnatori dell’arcangelo Michele e di Maria Vergine. Un tratto importante nell’iconografia (non solo cristiana) del grifone è la sua associazione con l’Albero della Vita. Spesso, infatti, lo vediamo rappresentato in modo duplice ai lati di questo sacro simbolo, suggerendo variamente l’idea che si nutra della sua linfa, o che si trovi a presidio di un tale tesoro. Ma il nesso può anche intendere una sovrapposizione di significati e di funzioni tra l’albero e l’animale totemico. Nella lastra marmorea del patriarca Sigualdo di Aquileia (756-786),

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Madonna dei Denti, tempera su tavola di Vitale da Bologna. 1335. Bologna, Pinacoteca Nazionale. L’immagine del grifone ricorre in questo caso sulla veste di Maria.


riutilizzata nel battistero di Callisto a Cividale (oggi nel locale Museo Cristiano; vedi foto a p. 70, in basso), teste animali spuntano dai rami dell’albero centrale, e in questo modo la raffigurazione dell’albero stesso, dei grifoni e degli uccelli becchettanti rientra in uno stesso universo di concetti. Come questo esempio di arte di età longobarda illustra bene, il grifone veniva sovente chiamato in causa nella decorazione degli arredi presbiteriali (fronti d’altare, lastre di iconostasi ossia di pareti divisorie tra l’area liturgica e l’area riservata ai fedeli). Si trattava quindi di una immagine che si legava bene all’idea della trasfigurazione e della salvezza. In due lastre conservate nella cattedrale di Ascoli Piceno (1150 circa) – realizzate da un’officina bizantina in marmo bianco con incrostazioni in mastice nero –, il grifone compare ai lati di un albero fiorito e questa volta è intento a spiccare il volo dopo aver catturato una lepre o una gazzella (vedi foto a p. 70, in alto). L’immagine è apparentemente cruenta, ma si presta senza problemi a letture di tipo salvifico. Se si tratta di una lepre, ci troviamo infatti di fronte a un animale demoniaco, che può per esempio rappresentare la deviazione dell’eresia. Ma quand’anche si tratti di un semplice animale pacifico come una gazzella, il grifone può svolgere un ruolo di salvatore. Allo stesso modo, Cristo consente infatti al fedele di elevarsi al cielo e di fuggire dal peccato. Al medesimo concetto si ricollega peraltro l’immagine dell’aquila «salvatrice» che si abbatte sui pesci, li artiglia e li conduce in cielo.

All’ingresso delle chiese

Molto spesso i grifoni contendono ai leoni il ruolo di custodi dell’ingresso alle chiese, come si vede negli splendidi esemplari superstiti di un portale del 1150 circa nel sagrato di S. Giustina a Padova (vedi foto alle pp. 74-75). L’associazione con i leoni, favorita dalla struttura quadrupede di entrambi gli esseri, si riscontra poi nei contesti piú svariati. Grifoni e leoni bronzei di fianco a un platano d’oro arricchivano il trono dell’imperatore bizantino Teofilo (829-842), che si era ispirato ai decori delle sale di rappresentanza dei sovrani dell’Islam. Proprio il mondo islamico aveva infatti ripreso l’antica connotazione magica e benaugurante del grifone, come testimonia il bellissimo esemplare in bronzo oggi conservato nel Museo dell’Opera del Duomo di Pisa (fine XI-inizi XII secolo; vedi foto a p. 71), già posto a custodia della cattedrale (vedi «Medioevo» n. 291, aprile 2021; anche on line su issuu.com). Ma vanno anche ricordati i grifoni che si raffrontano ai lati di un vaso fiorito nello splendido «Avorio saraceno» del Museo del Bargello a Firenze, databile alla seconda metà del XII secolo. Un ruolo fondamentale nella diffusione di tali forme e concetti era senz’altro giocato dalle cosiddette arti minori, in particolare dai tessuti istoriati e dall’o-

MEDIOEVO

luglio

reficeria. Sull’onda della tradizione persiana, che aveva già raccolto l’eredità dell’antica Mesopotamia, l’Islam poté cosí diffondere un patrimonio di concetti che conobbe un largo seguito sia a Bisanzio che in Occidente. Proprio il grifone, soprattutto nella sua fortunata declinazione «araldica» ai lati dell’Albero della Vita, è il segno di questa diffusione pervasiva. E non agiva in tal senso la sola presenza in Europa di manufatti dell’Iran o della Siria, ma atelier di spicco assumevano presto i motivi orientali nelle nuove produzioni realizzate in terra cristiana. Grifoni e leoni decorano, per esempio, la brocca d’oro e smalti custodita in Saint-Maurice d’Agaune (Svizzera), opera di artefici bizantini databile tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, talmente raffinata da essere considerata tradizionalmente uno dei doni offerti a Carlo Magno dal califfo Harun al-Rashid (vedi foto a p. 72). Grifoni speculari addorsati all’albero della vita «tappezzano» i clipei del telo di S. Ciriaco, una seta persiana del X-XI secolo già chiamata a rivestire il sepolcro del patrono di Ancona (oggi presso il locale Museo Diocesano). Grifoni, felini e altri volatili si ritrovano poi nel drappo di S. Francesco (oggi presso il Tesoro della Basilica di Assisi), una seta di probabile produzione palermitana che fu forse commissionata da Federico II in persona, per essere poi chiamata ad avvolgere il feretro del santo durante la traslazione del suo corpo dalla chiesa di S. Giorgio (1230). E quando ormai il Purgatorio dantesco aveva consacrato il grifone come simbolo di Cristo, Vitale da Bologna lo accolse in maniera assai originale nella sua Madonna dei Denti (1335), oggi conservata nella Pinacoteca Nazionale del capoluogo emiliano. La veste di Maria è tutta pervasa dalla figura di questo favoloso volatile, che torna cosí ad «accompagnare» la madre di Cristo, come era indicato nelle parole del Fisiologo.

Da leggere Maria Rosa D’Agostino, Il grifone, in Maria Teresa Lucidi (a cura di), La seta e la sua via, De Luca, Roma 1994; pp. 155-157 Franco Cardini, L’aquila imperiale, in Maria Stella Calò Mariani, Raffaella Cassano (a cura di), Federico II: immagine e potere, Marsilio, Venezia 1995; pp. 53-57 Maria Di Fronzo, Grifo, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1996, reperibile anche on line su treccani.it Francesco Maspero, Aldo Granata, Bestiario medievale, Piemme, Casale Monferrato 1999; pp. 208-220

NEL PROSSIMO NUMERO ● L’albero di Jesse

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150 musei

archeologici d’Italia Dal Museo del Ponte Romano di Pont-Saint-Martin, in Valle d’Aosta, al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, la nuova Monografia di «Archeo» propone un viaggio alla scoperta dello straordinario patrimonio custodito nelle raccolte di antichità del nostro Paese. È un mosaico ricchissimo e variegato, specchio di una altrettanto sfaccettata realtà culturale, della quale sono state protagoniste, in una vicenda plurisecolare, civiltà che hanno fatto la storia dell’Italia e non solo. A fare da «cicerone», abbiamo scelto Giuseppe M. Della Fina, che da anni opera in prima persona nel mondo dei musei e conosce dunque bene l’universo delle collezioni pubbliche e private. Nelle varie sezioni dell’opera sfilano istituti grandi e piccoli, di antica istituzione o che hanno appena aperto al pubblico le proprie porte: tutti accomunati dalla medesima missione, vale a dire la divulgazione e la valorizzazione di reperti dietro ai quali leggere le storie dei nostri progenitori. E degli archeologi che, con passione e tenacia, hanno contribuito a svelarle. Nel solco di una tradizione ormai consolidata, le schede dedicate alle oltre 150 raccolte che abbiamo scelto di presentare nella Monografia, sono corredate da un ricco e puntuale apparato iconografico, che ci auguriamo possa essere un invito a conoscere, o riscoprire, tesori da non dimenticare.

IN EDICOLA


testi di Leonello Bei, Federico Fioravanti ed Elisabetta Carlino

UBALDINI DELLA CARDA

I signori degli

Appennini Apecchio (Pesaro Urbino). Il porticato del palazzo degli Ubaldini, fatto costruire, a partire dal 1477, dal conte Ottaviano Ubaldini, su progetto dell’architetto Francesco di Giorgio Martini.

Casata di origini antiche e illustri – vi è chi le fa risalire addirittura ai Goti di re Teodorico –, gli Ubaldini contribuirono a scrivere piú di un capitolo della storia d’Italia. E, soprattutto, il loro sangue sarebbe scorso nelle vene di uno dei massimi artefici del Rinascimento, Federico da Montefeltro


Dossier

A A

rroccato su un terrazzo fluviale tra i monti dell’Appennino, alla confluenza di due corsi d’acqua, il Biscubio e il Menatoio, Apecchio è l’antico capoluogo della Vaccareccia, un vasto territorio al crocevia fra Marche, Umbria e Toscana. Le origini del borgo affondano le radici nei miti dei popoli italici. La geografia ne fa un luogo di incontro naturale e di profonde memorie, dagli antichi Umbri, agli Etruschi, ai Romani. Fino al dominio degli Ubaldini della Carda, signori di queste terre dal 1269 al 1752 (vedi box alle pp. 93-95). Nella sua Naturalis Historia, Plinio il Vecchio – che aveva proprietà in Valtiberina che poi lasciò in eredità al nipote, Plinio il Giovane – scrisse che, secoli prima, in una zona montuosa di questo spicchio d’Appennino, un gruppo di Sabini, esuli dai loro villaggi, per le estromissioni dovute ai riti del

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Miratoio

TOSCANA

Martigliano

Lamoli La Villa

UMBRIA

Lerchi

Piandimeleto

Sestino

Peglio

Mercatello sul Metauro Monte Ruperto (Umbria)

Fermignano Urbania

MARCHE

San Silvestro Acqualagna

Piobbico

Colombara

Apecchio

Fraccano

Urbino

Montesoffio

Sant’Angelo in Vado

Borgo Pace

Titta

Trasanni Pieve di Cagna Gadana

Frontino

Riserva Naturale del Sasso di Simone

Smirra Cardella

SS3

Cagli

Le Corniole

Pianello

Città di Castello

In alto la posizione di Apecchio, al crocevia tra Marche, Umbria e Toscana.

luglio

MEDIOEVO


Genealogia degli Ubaldini

Azzo

Ugolino

Card. Ottaviano

Ubaldino della Pila Azzo Ottaviano

Ruggeri

Schiatta

(Arc. Pisa)

(Arc. Bologna)

Giovanni da Susinana

Francesco

Tano delle Carpini

(Arc. Bologna)

Gerio

Ugolino Nanni

Giovanni d’Azzo

(ramo di Apecchio)

Tanuccio Ottaviano sposa Bochina Varano

Ludovica

Bernardino sposa Aura Montefeltro

Giovanni (n)

Gucci (n)

Federico da Montefeltro

Ottaviano della Carda

Francesco (n) dei Pecorari

Pietro (n)

Bernardino

(Ramo di Urbino)

Bernardina (n) sposa Giovanni del Tufo

(Cav.)

(estinto)

M. Antonietta

M. Luisa (vivente)

Antonio (n)

Bonconte (n)

Guidubaldo I (estinto)

In alto lo stemma degli Ubaldini, con la testa di cervo e la stella a sperone a otto punte inserita fra le corna dell’animale.

Ver Sacrum (primavera sacra) incrociò dei Piceni. I Sabini marciavano sotto la protezione del loro totem: un palo sulla cui cima era issato un toro di legno. Entrambi i gruppi erano indecisi su come Nella pagina accanto, in basso particolare della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello raffigurante Bernardino Ubaldini che viene disarcionato. 1435-1440. Firenze, Galleria degli Uffizi.

MEDIOEVO

luglio

reagire a quell’incontro casuale, quando un picchio, animale sacro ai Piceni, terminò il suo volo sopra la schiena del toro. Fu considerato un segno della divinità, un invito a restare in pace e a unirsi. È curioso osservare che, da tempi immemorabili, la comunità di Apecchio ha come stemma proprio un toro con un picchio posato sopra la schiena. Apecchio e la vicina Città di Castello nacquero nello stesso perio-

Gabriel (vivente)

Anna Marzia (vivente)

do per opera delle stesse genti. E rimasero unite da un legame millenario. L’arrivo della famiglia Ubaldini cambiò per sempre gli equilibri politici del territorio. Secondo quanto scrisse nel 1588 Giovan Battista di Lorenzo Ubaldini, la dinastia discenderebbe dai guerrieri goti vicini al re Teodorico. Nel 553, sconfitti dai Bizantini del generale Narsete, gran parte di quei barbari lasciò l’Italia. Ma gli Ubaldini ri-

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Dossier

masero, asserragliati, intorno alle «Alpi del Mugello». Con il tempo, costruirono numerose rocche e castelli e consolidarono il loro dominio su vasti territori che andavano da Firenze a Bologna. Nell’Alto Medioevo il blasone della famiglia era uno scudo bipartito con i colori blu e giallo. Convinti sostenitori dei vari imperatori che alternativamente scendevano in Italia, ottennero vari privilegi. Il primo fu l’Ordine dello Speron d’Oro, concesso da Carlo Magno il 1° gennaio 801: una stella da sperone a otto punte, che gli Ubaldini inserirono con orgoglio in mezzo all’antico scudo che spiccava nello stemma familiare. Erano stati premiati dall’imperatore per aver partecipato all’assedio di Benevento, portando a loro spese cinquecento uomini, e restando costantemente con sessanta nobili, tutti esponenti della vasta famiglia, a difesa e protezione di Pipino, figlio di Carlo Magno e re d’Italia. Quasi tre secoli piú tardi, il 22 luglio 1184, ebbero l’occasione di invitare Federico Barbarossa nel loro castello della Pila per una battuta di caccia al cervo. Alla fine della giornata passata fra i boschi, essendo l’imperatore rimasto senza preda, Ubaldino della Pila afferrò un cervo per le corna e lo tenne fermo, affinché Federico lo uccidesse con la spada. A sera, durante la cena, il Bar-

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barossa pose ai suoi ospiti un quesito: «Quis dominatur Appennini?». Di fronte al silenzio totale nella sala, rispose lui stesso: «Alma domus Ubaldini». Poi, presa la testa del cervo ucciso, l’imperatore la donò ai suoi ospiti come nuovo simbolo per lo stemma del casato, al quale gli Ubaldini aggiunsero la stella conferita loro da Carlo Magno, proprio in mezzo alle corna dell’animale. Seguirono i privilegi di Ottone II, di Federico II e di Enrico VI di Svevia che nel 1196 assegnò agli Ubaldini anche i territori della Carda, di Apecchio e di Pietragialla.

Un antico lignaggio

In alto ricostruzione grafica del castello di Apecchio. A destra ritratto del cardinale Roberto Ubaldini, olio su tela di Guido Reni. 1627. Los Angeles, County Museum of Art. Il dipinto fu realizzato nel periodo in cui il prelato era titolare della legazione papale di Bologna.

Il personaggio piú importante della dinastia fu Ottaviano degli Ubaldini, vescovo di Bologna nel 1240, porporato nel 1244, conosciuto dai suoi contemporanei come «Il Cardinale» per antonomasia. Dannato nell’Inferno di Dante nel cerchio riservato agli epicurei e fiero oppositore di Federico II di Svevia. Nella corrispondenza che teneva con l’imperatore, il cardinale era solito concludere: «Sta sano e non pretendere piú di quello che ti spetta». Partecipò a quattro conclavi, ed ebbe egli stesso l’opportunità d’essere eletto papa, ma si dice che ciò non avvenne a causa della sua avarizia, in tempi in cui, per ottenere consensi, bisognava distribuire capitali e benefici. Ottaviano fu invece generoso con i nipoti che in luglio

MEDIOEVO


conseguenza delle guerre tra guelfi e ghibellini erano stati cacciati ed esiliati dai Fiorentini. Per loro, nel 1269, acquistò dal vescovo di Città di Castello i territori e i relativi castelli di Montevicino e della Carda. E proprio da questa imponente fortezza prese nome il ramo piú importante della famiglia, quello degli Ubaldini della Carda. L’alto prelato morí nell’agosto del 1273, nel suo amato Mugello, e venne sepolto a Scarperia nella pieve di Fagna. A prendere possesso delle zone montane di Apecchio, strategicamente importanti dal punto di vista militare, arrivò Tano, il nipote del cardinale, accompagnato dalla moglie Marzia, della grande famiglia senese dei Salimbeni, conosciuta con il soprannome di Cia. Uno dei loro figli, Giovanni, sposò Andrea Pagani, figlia del terribile condottiero Maghinardo, ultimo esponente di una dinastia di orientamento filoimperiale. Giovanni ereditò poi i beni del suocero, in particolare Palazzuolo sul Senio, nella Toscana romagnola, tornando cosí a occupare i territori dai quali i suoi avi erano stati esiliati. Giovanni e Andrea ebbero una figlia, che battezzarono Marzia, come la nonna, della quale la bambina riprese anche il soprannome di Cia. Sposò Francesco Ordelaffi e divenne signora di Forlí e Cesena. Quando il cardinale Egidio Carrillo Albornoz arriverà con l’esercito pontificio per recuperare tutti i luoghi che i vari signorotti avevano usurpato al papa, la coppia scelse di non sottomettersi, ma di opporsi al cardinale con le armi. Marzia assunse la difesa di Cesena e il marito quella di Forlí; diedero filo da torcere all’Albornoz per parecchi mesi, finché, rimasti isolati e senza rifornimenti, dovettero arrendersi. Nel contempo, Tano Ubaldini, poco dopo essersi insediato alla Carda, iniziò una guerra contro Città di Castello – che si protrasse per circa centoquarant’anni –,

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luglio

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Dossier Veduta di Apecchio. Il borgo è l’antico capoluogo della Vaccareccia, un vasto territorio che si estende ai confini fra Marche, Umbria e Toscana.

deciso a strappare ai vicini tutto il territorio di là dall’Appennino, chiamato Massa Vaccareccia e il cui centro principale già allora era Apecchio. L’occasione propizia si presentò nel 1410, durante la guerra che re Ladislao d’Angiò aveva portato nel centro Italia nel tentativo di farsi re dell’intera Penisola. Gli Ubaldini e i Montefeltro erano alleati del sovrano, che aveva conferito loro incarichi importantissimi. Le città di Firenze e di Città di Castello erano invece schierate dalla parte avversa. Sconfitti nella battaglia di Trestina, i Tifernati persero la guerra e, con essa, anche la regione montana della Vaccareccia, che re Ladislao assegnò definitivamente agli Ubaldini, i quali poterono governare in piena autonomia. Fu però il Quattrocento il vero

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secolo d’oro della famiglia, prima con Bernardino degli Ubaldini e poi con i suoi figli, Federico e Ottaviano.

Un prode condottiero

Bernardino aveva ereditato la signoria da suo padre, il capitano di ventura Ottaviano Ubaldini, che, nel 1410, conquistò Apecchio e pose cosí fine alla secolare contesa con Città di Castello. Presto si mise a capo dell’esercito di famiglia che Ottaviano aveva formato insieme a Guidantonio di Montefeltro. E sposò Aura, la figlia illegittima del signore di Urbino. Cittadino di Gubbio, era famoso per il suo coraggio in battaglia. Fu generale degli eserciti fiorentini e anche di quelli del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Scortò in Italia l’imperatore Sigismondo di Unghe-

ria, che poi ospitò nel suo palazzo eugubino e fu anche amico personale di re Alfonso d’Aragona, che, nel 1423, lo nominò governatore militare di Napoli. I Fiorentini ne ricordarono le imprese con l’appellativo che lo contraddistinse in tutte le corti dell’epoca: «il Magnifico». Protagonista e vincitore delle famose battaglie di Maclodio e Ca’ di Secco, fu ritratto mentre viene disarcionato nella famosa Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. I suoi figli, Federico e Ottaviano, generati da una Montefeltro, segnarono in modo indelebile la stagione politica della seconda metà del XV secolo. Ebbero l’opportunità di assumere il comando dello Stato di Urbino, che innalzarono al rango di ducato. Nella città costruirono il magnifico Palazzo Ducale luglio

MEDIOEVO


nardino, figlio di Ottaviano, morí in giovanissima età. E Guidubaldo, figlio di Federico da Montefeltro, non poteva avere eredi. Scelse allora di adottare il nipote Francesco Maria della Rovere, figlio di sua sorella Giovanna, consegnando cosí il ducato di Urbino in mano alla famiglia di origini savonesi che diede i natali anche a due grandi pontefici: Sisto IV e Giulio II. Dalle scoscese rupi della Carda, alcuni esponenti della famiglia Ubaldini si spostarono, per comodità o per affari, in varie altre città. I discendenti del ramo di Francesco, di Castel Pecorario, presero residenza a Urbino; l’erede di Bernardino di Montevicino costruí un palazzo a Urbania; e il capitano Fabrizio Ubaldini di Montefiore sposò Pierfrancesca Nolfi di Fano, nipote di papa Pio V, e si trasferí a Jesi, dove la moglie possedeva molti beni.

Matrona ed erudita

e lo trasformarono in quella che è passata alla storia come la culla del Rinascimento italiano. Nel 1474, trovandosi a ospitare ad Apecchio il cardinale Giuliano della Rovere, poi papa Giulio II, Ottaviano Ubaldini si rese conto di non avere nel suo paese una dimora degna di lui; diede cosí inizio, nel 1477, alla costruzione di un grande palazzo, su progetto di Francesco di Giorgio Martini. In seguito al disastroso terremoto che il 3 giugno 1781 colpí gran parte del Centro Italia, di questa sua residenza, descritta come la piú bella del ducato dopo il palazzo di Urbino, oggi non rimane che una piccola porzione, insieme a un magnifico porticato con le colonne ornate di capitelli ionici. La discendenza dei due celebri fratelli non ebbe seguito. Ber-

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Gentile I di Apecchio possedeva una casa a Gubbio, nella quale risiedeva ormai stabilmente. Nella stessa città viveva anche Guidantonio della Carda, che aveva sposato Altadonna, figlia del senatore veneziano Paolo Contarini: ebbero una figlia, Caterina, che andò in moglie all’eugubino Federico Gabrielli e che, durante il pontificato di Alessandro VI, era considerata «erudita e matrona di gran nome». Nel 1519, a Venezia, dette alle stampe Vita e miracoli del serafico padre San Francesco di Assisi e Vita di Sant’Ubaldo vescovo di Gubbio. A Gubbio, gli Ubaldini possedevano anche l’edificio in cui Bernardino ospitò l’imperatore Sigismondo e dove nacquero Federico e Ottaviano. Passato poi a Guidubaldo da Montefeltro, il palazzo finí nelle mani di Francesco Maria I della Rovere, il quale non avendo piú motivazioni affettive per conservarlo, lo cedette ad altri nobili locali. Il 23 febbraio 1514, il duca Francesco Maria I, constatando

che era ormai finita la partecipazione della famiglia Ubaldini in ogni incarico di governo nello Stato di Urbino e che la bellicosa schiatta cominciava a scalpitare – rivendicando quella autonomia alla quale i membri della dinastia erano da tempo abituati –, decise di innalzare Apecchio a rango di contea. E nominò, come primi conti, i fratelli Girolamo e Gentile Ubaldini. Il duca ottenne cosí due validi vantaggi: la Carda rimaneva sottoposta a Urbino e lui, concessionario del titolo, manteneva un alto profilo di sovranità sul territorio appenninico. I rapporti di leale collaborazione tra Urbino e la contea continuarono, tanto che, quando il ducato fu invaso dalle truppe di papa Leone X – voglioso di assegnare il territorio a suo nipote Lorenzino de’ Medici – gli Ubaldini si schierarono con Francesco Maria, che a Gubbio emanò un decreto in virtú del quale ogni uomo atto alle armi doveva mettersi agli ordini di Gentile, conte di Apecchio. Quest’ultimo, in nome del duca urbinate, andò a combattere anche a Milano, contro i Francesi. Il poeta Girolamo Candorfini, presente all’assalto del castello di Grelasco (1524), dedicò alle sue gesta guerresche una poesia che termina con questi versi: «Un cavalier ne vien che ad altri tolle / la fama e il grido; onor, trionfo e specchio / al secol nostro, che nel cielo estolle / sue gran virtú: questo è signor da Pecchio, / detto il conte Gentil, che il pensier folle / spera de’ Galli far restare invano, / i quali han fermo di pigliar Milano». Meno di un secolo dopo, un altro personaggio della dinastia fu al centro dell’attenzione in tutta la Penisola: si tratta del cardinale Roberto Ubaldini, esponente di primo piano della Curia romana nel primo trentennio del Seicento, conosciuto anche come fine collezionista di straordinari dipinti e grande mecenate degli artisti del suo tempo. Era figlio di Marco Antonio

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Dossier A sinistra un’altra immagine di Apecchio. Nella pagina accanto I duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza, dittico a olio su tavola di Piero della Francesca. 1473-1475 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi. L’opera è considerata come una delle raffigurazioni ritrattistiche piú celebri del Rinascimento italiano.

Ubaldini, conte di Gagliano e di Lucrezia della Gherardesca, a sua volta figlia di Costanza de’ Medici, sorella del vescovo Alessandro, prima legato pontificio in Francia al seguito della regina Caterina de’ Medici e poi eletto papa con il nome di Leone XI. L’ascesa di Roberto Ubaldini seguí la scia del potente zio materno. Alessandro diventò ambasciatore dei Medici presso papa Pio V, per volere di suo cugino Cosimo I di Toscana. E quando fu nominato cardinale arcivescovo di Firenze, volle che il pronipote Roberto fosse nunzio apostolico di Francia. Nella grande capitale d’oltralpe l’Ubaldini si trovò a collaborare con la regina Maria de’ Medici, stretta parente di sua madre e moglie di Enrico IV. E in questo contesto ebbe anche l’onore di battezzare il futuro re, Luigi XIII. Il 1° aprile 1605, Alessandro de’ Medici ascese quindi al soglio di Pietro con il nome di Leone XI e richiamò subito presso di sé Roberto, nominandolo Segretario di Stato. Ma dopo soli ventisette giorni

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di pontificato morí e il nipote non poté fare altro che commissionare in suo onore una magnifica tomba nella basilica di S. Pietro.

Per l’unità della Chiesa

Il nuovo papa, Paolo V, nominò Roberto vescovo di Montepulciano, e, dopo appena un anno, gli conferí la porpora cardinalizia. Il granduca Cosimo III gli offrí l’arcivescovato di Firenze, ma l’erede degli Ubaldini rifiutò, poiché Paolo V voleva servirsi di lui per altri uffici. Roberto fu cosí coinvolto da vicino nella preparazione della sacra congregazione De Propaganda Fide, della quale fu uno dei primi membri a partire dalla sua creazione, nel 1622. L’istituzione, ancora oggi esistente, aveva il compito di propagare la fede e l’unità della Chiesa in tutto il mondo, compresa l’evangelizzazione di quello nuovo, scoperto da Cristoforo Colombo. Il vescovo Ubaldini ottenne da papa Gregorio XV la legazione di Bologna, città chiave dello Stato Pontificio, mentre Urbano VIII, memore del sacco di Roma da par-

te dei Lanzichenecchi, lo incaricò di mettere in sicurezza l’Italia dalle invasioni tedesche. Roberto, con abile diplomazia, riuscí a piazzare truppe pontificie in Valtellina, chiudendo cosí ogni accesso a eserciti indesiderati. Morí a Roma il 22 aprile 1632 e venne sepolto nella chiesa di S. Maria sopra Minerva. Appena un anno prima, nel 1631, il ducato di Urbino aveva cessato di esistere per mancanza di eredi maschi e tutti i suoi luoghi furono sottomessi al papa. Solo la contea di Apecchio continuò a sopravvivere, governandosi in piena autonomia per altri centoventuno anni, in virtú di quelle antiche e preziose concessioni avute dall’imperatore Enrico VI e da re Ladislao d’Angiò. La storia finí nel 1752, con la morte prematura di Federico Ubaldini, a Orvieto, in casa della moglie. L’ultimo conte venne sepolto nel convento dei cappuccini poco fuori dalla città. La grande famiglia non aveva piú eredi. E Apecchio rientrò in modo definitivo sotto il dominio dello Stato Pontificio. Leonello Bei luglio

MEDIOEVO


LA VERA STORIA DI FEDERICO, DUCA DI URBINO Lo storico scozzese James Dennistoun (1803-1855) nella sua opera piú famosa, Memoirs of the Dukes of Urbino: 1440-1630, elencò almeno otto diverse ipotesi sulla nascita di Federico da Montefeltro. Alla luce degli studi piú recenti, la settima tesi appare la piú probabile: Guido da Montefeltro non era il padre, bensí il nonno di Federico. Con tutta probabilità, il futuro signore di Urbino era infatti il figlio di Bernardino Ubaldini della Carda, signore di Apecchio e capitano generale delle truppe feltresche. Soprannominato Il Magnifico per il suo coraggio in battaglia, Bernardino aveva sposato, il 9 ottobre 1420, Aura da Montefeltro (14051475), figlia naturale di Guidantonio. Dalla loro unione, a distanza di poco piú di un anno, nacquero due

MEDIOEVO

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figli, entrambi a Gubbio: Federico (1422) e Ottaviano (1423).

Un erede a ogni costo

All’epoca, Guidantonio da Montefeltro (1378-1443) aveva già 44 anni e sua moglie, Rengarda Malatesta, sposata 27 anni prima, non poteva avere figli. La donna, che si prese comunque cura sia di Aura che di un’altra figlia illegittima di suo marito, spirò alla fine del mese di settembre del 1423. Dopo soli quattro mesi, il conte si risposò con Caterina Colonna, una nipote di Martino V, il papa che ricompose lo Scisma d’Occidente: un matrimonio politico, che rinsaldava il legame dei Montefeltro con il papato. Ma, alla fine del 1424, non c’era ancora alcun avviso di una gravidanza e il casato rischiava l’estin-

zione. Memore della lunghissima e inutile attesa di un erede vissuta con Rengarda, l’ansioso Guidantonio decise allora di cautelarsi per dare un futuro certo alla sua dinastia. E inserí nella linea di successione il suo primo nipote maschio, un figlio illegittimo che poteva però ereditare la signoria. Martino V venne subito in suo soccorso: una bolla papale di legittimazione, del 22 dicembre 1444, certificò che Federico era nato fuori dal matrimonio ed era frutto dell’unione di Guidantonio con una ragazza nobile di Urbino. Tuttavia, anche il pontefice, pensando alla nipote Caterina, aveva preso le sue precauzioni e aveva inserito nella bolla una clausola capestro: se, nel futuro, il conte avesse avuto un figlio legittimo, sarebbe stato questo nuovo erede maschio a ereditare la signoria. E cosí avvenne, a distanza di pochi anni: il 18 gennaio 1427, dall’unione fra Guidantonio e Caterina Colonna, nacque Oddantonio, primo duca

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Dossier di Urbino. E il piccolo Federico, che ormai costituiva un problema, venne allontanato dalla corte urbinate e dall’eredità dei Montefeltro: le riconquistò entrambe solo molti anni piú tardi, dopo l’assassinio del fratellastro, perpetrato nella notte tra il 21 e 22 luglio 1444 all’interno del Palazzo Ducale di Urbino, a seguito di una congiura dei maggiorenti della città a cui forse il grande condottiero e mecenate non fu del tutto estraneo. Gli storici hanno a lungo analizzato il dramma che dovette vivere un bambino sacrificato in tenerà età alla ragion di Stato. Scelto a due anni come erede, fu cacciato da Urbino quando non ne aveva ancora cinque, appena Caterina Colonna, che aveva già perso il primo figlio, Raffaello (1425), ebbe i segni di una seconda gravidanza, quella che il 18 gennaio 1427 portò alla nascita di Oddantonio. A quel punto, Federico non poteva certo essere rispedito a Gubbio o ad Apecchio, dalla madre Aura e dagli Ubaldini: sarebbe stato come confessare a tutti il retroscena di un intrigo e di una adozione forzata. Guidantonio, ancora una volta, perseguí una strategia di potere e affidò il piccolo alle cure di Giovanna Alidosi, vedova di

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Bartolomeo Brancaleoni, signore della Massa Trabaria e Federico trascorse cosí la sua infanzia tra Sant’Angelo in Vado e Mercatello. La vedova romagnola gli fece da mamma, nonché da suocera in pectore. Guidantonio e Giovanna Alidosi avevano infatti combinato il suo matrimonio con Gentile, l’unica figlia di Bartolomeo Brancaleoni, erede di un vasto complesso di poderi nella valle del Metauro. Federico rimase nella piccola signoria montana per otto anni.

In ostaggio a Venezia

Poi entrò nel gran gioco della politica: prima a Venezia, consegnato da Guidantonio ad Andrea Dandolo come ostaggio in garanzia di una pace (1433) poi a Mantova, alla corte dei Gonzaga, dove, nella «Casa Gioiosa», plasmò la sua personalità sotto gli insegnamenti dell’umanista Vittorino da Feltre. Il 2 dicembre 1437 sposò Gentile Brancaleoni: lei aveva 21 anni, lui poco piú di 15. Rimasero insieme per vent’anni, fino alla morte di lei.

Giovanna allevò tre suoi figli illegittimi: Gentile, Antonio e Buonconte. E seguí nell’ombra l’irresistibile ascesa di Federico, dal comando della Compagnia Feltria ereditata dal padre Bernardino Ubaldini della Carda alle guerre, piccole e grandi, in difesa dei fragili confini del ducato di Urbino. Ai signori dell’Italia del XV secolo, la vera paternità di Federico di Montefeltro non appariva cosí misteriosa. Le prime voci furono forse diffuse proprio dalla matrigna Caterina Colonna, in difesa dell’eredità di Oddantonio. Poi ci pensò Sigismondo Malatesta, l’irriducibile nemico del signore di Urbino. Lo gridava al mondo, insieme al suo odio mortale: l’avversario di tante battaglie non era un Montefeltro, ma un Ubaldini della Carda. Per la corte urbinate quell’accusa era una vera infamia, diffusa ad arte per delegittimare le rivendicazioni dinastiche di Federico, l’uomo straordinario capace di rendere tre volte piú grande il suo Stato con la forza delle armi e della diplomazia.

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A destra Ritratto di Federico da Montefeltro e del figlio Guidobaldo, olio su tela del pittore spagnolo Pedro Berruguete. 1475. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. In basso, sulle due pagine lunetta nella quale compaiono, affrontati, i ritratti dei fratelli Ottaviano e Federico Ubaldini. L’opera viene assegnata all’ambito di Ambrogio Barocci. 1480. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

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Ritratto di Guidobaldo da Montefeltro, olio su tavola di Raffaello. 1507-1508. Firenze, Galleria degli Uffizi.

A smentire la diceria diffusa nelle corti c’era un’altra verità, accettata per secoli: Federico nacque nei pressi di Gubbio, nel castello di Petroia, da una relazione tra Guidantonio e una «donna soluta», cioè non sposata. Individuata nella nobile urbinate Elisabetta Accomandugi, che, al momento del parto, avrebbe scelto di isolarsi nelle sue proprietà eugubine per non dare un ulteriore pubblico dolore a Rengarda, la moglie legittima che non poteva avere figli e ormai prossima alla morte. Per molti storici la prova regina di questa ipotesi è il testo di un foglietto che una mano ignota aggiunse alla bolla papale e che serví a legittimare Federico: «Matteo degli Accomandugi di Urbino, ebbe un unico figlio, chiamato Guido Paolo il quale, morendo, lasciò erede universale un’unica figlia, legittima e naturale, chiamata Elisabetta; dalla quale è nato il Conte Federico». Nella biografia La vita di Federico da Montefeltro 1422-1482, lo storico Walter Tomassoli, espone i risultati di una sua ricerca sulla famiglia Accomandugi dalla quale emerge che Elisabetta andò sí in sposa a un conte, ma della famiglia Bandi di Rimini. Ebbe anche un figlio, che chiamò Federico. Certo, nulla vieta che la nobile urbinate, prima del suo matrimonio, possa aver generato a Gubbio un altro bambino da Guidantonio di Montefeltro. E che, anni dopo, abbia voluto chiamare con lo stesso nome, Federico, anche il piccolo avuto dal conte Bandi di Rimini. Appare però piú probabile che l’ignota mano che allegò il documento alla bolla papale sia stata vittima di un abbaglio e nel vedere scritto «comes Federicus» abbia pensato a quello che all’epoca era per tutti il conte per eccellenza, il famosissimo e potente duca di Urbino. Vale poi l’autorevole parola di

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un altro papa, il grande Enea Silvio Piccolomini, il quale non aveva alcun interesse a diffondere falsità sulla vita di un alleato che stimava in modo profondo e al quale aveva tributato piú volte pubblici onori. Anche perché Federico da Montefeltro lo aveva aiutato in modo determinante nel conflitto che oppose il papato a Sigismondo Pandolfo Malatesta. Nel suo trattato geopolitico De Europa, Pio II scrisse a chiare lettere: «Provenne dalla famiglia Ubaldini il duca Federico padre del duca Guidubaldo, che non era figlio naturale di Guidantonio da Montefeltro ma di Bernardino della Carda» (Archivio Vaticano, armadio 9, n. 13, fogli 188-190).

Le conferme dei papi

Poco dopo il pontefice senese tornò in modo ancora piú chiaro sull’argomento: «Trovandosi Guido senza figlioli maschi, perché lo stato rimanesse pur nel suo sangue, finse che una sua concubina si ingravidasse di lui ed essendo nato un figliolo a Bernardino della Carda, quello supposto per suo nominollo Federico e come tale lo fece allevare e nutrire». Vent’anni piú tardi, in una bolla firmata il 15 giugno 1478, un altro papa, Sisto IV, definí Ottaviano Ubaldini, conte di Mercatello, «frater Federici ducis Urbini» (Bollario, libro 8, foglio 96). L’orgoglio della casata della Carda emerge quasi con prepotenza alla pagina 157 degli Annali di Casa Ubaldini, in uno scritto vergato in occasione della nascita, non a caso a Gubbio, nel 1472, di Guidubaldo, figlio di Federico da Montefeltro e di Battista Sforza, amatissima seconda moglie del signore di Urbino: «Nacque Guidubaldo Ubaldini in Gubbio li 29 gennaro, suo padre fu il duca Federico Ubaldini, figlio di Bernardino Ubaldini conte della Carda, e fu detto Montefeltro per l’eredità auta e la madre fu Batta [Battista] Sforza che morí in parto e non ebbe altri figli che Guidubaldo. Certo è che Guidubaldo fu denominato da Montefeltro ed è

certissimo che fu degli Ubaldini figlio di Federico e nipote di Ottaviano signore di Mercatello e d’altri luoghi in Massa Vaccareccia, fratello minore di Federico e ambedue figli di Bernardino Ubaldini e di Aura di Montefeltro». Sfiancata da ben 8 gravidanze, Battista Sforza morí, non ancora ventisettenne, il 7 luglio dello stesso anno, a causa di una polmonite contratta dopo un bagno freddo nelle acque di un torrente. Una folla enorme partecipò ai funerali, che si tennero a Urbino il 17 agosto 1472, alla presenza di decine di delegati dei maggiori Stati italiani e stranieri. L’orazione funebre durò quattro ore e la pronunciò il vescovo Giovanni Antonio Campano, un umanista coltissimo, seguace di Pomponio Leto. L’alto prelato riportò piú tardi le sue accorate parole di conforto e di elogio in un’opera stampata per espresso volere del signore di Urbino. E parlando a Federico si soffermò sul lutto che in quei giorni devastava anche Ottaviano Ubaldini della Carda: «Piange Ottaviano, tuo fratello germano, uomo di grandi virtú». Non solo un frater nel dolore, ma un fratello «germano», figlio quindi dello stesso genitore. Quel Bernardino della Carda che cento anni dopo la sua morte i Fiorentini, grati al «Magnifico» guerriero, loro comandante in tante battaglie, celebravano ancora come un cittadino onorario. Lo fecero anche negli addobbi sontuosi e nelle scenografie che, il 18 dicembre 1565, annunciarono al mondo le trionfali nozze tra Francesco de’ Medici e Giovanna d’Austria, l’evento politico che segnò l’ingresso della dinastia toscana fra le grandi potenze d’Europa. E anche nelle meravigliose feste volute da Cosimo I che seguirono all’evento e che durarono mesi. In un fastoso apparato che riportava l’immagine del capitano di ventura, il pittore Giorgio Vasari, sotto la scritta «Bernardo Ubaldini della Carda», per meglio

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Dossier identificare il personaggio, privato dell’abituale ma forse poco nobile diminutivo, aggiunse: «Padre di Federico duca di Urbino». Nessun segreto, dunque. Almeno per molti storiografi delle vicende eugubine e feltresche. Vincenzo Giobbi Fortebracci, per esempio, nella sua Lettera istoricogenealogica della famiglia Fortebracci da Montone, scrive, tra l’altro (pag. 79): «Questo Federico fu figliolo di Bernardino Ubaldini signore della Carda». Una versione ribadita nella seconda metà del Seicento anche dall’abate Eugenio Gamurrini, nella monumentale Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane, et umbre: «Bernardino sudetto generò Ottaviano conte di Mercatello che fu padre di Bernardino e Federigo duca d’Urbino che fu padre di Guidubaldo». Oderigi Lucarelli, nella sua Guida storica di Gubbio, edita nel 1888, spiega al lettore: «Anche il conte Bernardino Ubaldini, celebre guerriero sui primi del quindicesimo secolo ebbe il suo abituale domicilio in Gubbio e dal suo matrimonio colla contessa Aura di Montefeltro nacque nella nostra città il 7 giugno 1422 quel gran Federico che divenne poi duca d’Urbino». Un’altra prova della discendenza del duca dai bellicosi signori della Carda emerge in un atto notarile, catalogato nei già citati Annali di Casa Ubaldini. Ottaviano aveva lasciato molte delle sue proprietà al giovane Guidubaldo, figlio di Federico, ma il duca di Urbino, per legittimare l’eredità del feudo delle Carpini, dovette firmarsi «Guidubaldo Ubaldini da Montefeltro». Un doppio cognome, due diverse casate. Un’onta da cancellare per una terza, grande famiglia, quella dei Della Rovere, che ottenne il ducato nel 1508, quando Guidubaldo, l’ultimo dei Montefeltro, adottò come suo successore il nipote Francesco Maria I Della Rovere, figlio di Giovanna, sua sorella, e di Giovanni Della Rovere, signore di Senigallia e parente stretto di papa Sisto

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IV. Tanto che Guidubaldo II Della Rovere (1514-1574) ordinò al suo segretario, il letterato Girolamo Muzio, di cancellare ogni possibile traccia nelle carte e nelle lettere dei legami fra gli Ubaldini e i Montefeltro. Una damnatio memoriae consona alla solerzia di Muzio, che proprio in quegli anni era impegnato a scovare e bruciare in tutti gli angoli del ducato ogni copia del Talmud, il sacro testo dell’ebraismo, e a mettere all’indice anche le opere dello scandaloso Pietro Aretino.

Parole rivelatrici

Nella ricerca della verità storica fanno fede le fonti. Sappiamo con certezza che, almeno in pubblico, Federico da Montefeltro si considerò sempre figlio di Guidantonio. Ma non smentí mai di discendere dagli Ubaldini. A distanza di secoli è allora interessante soffermarsi ancora sulle frasi rivelatorie contenute nei Commentari della vita et gesti dell’Illustrissimo Federico Duca di Urbino, la biografia scritta da Pierantonio Paltroni, il segretario, confidente e testimone oculare di tanti episodi della vita del signore

di Urbino. Alcuni brani dell’opera, per espressa volontà di Federico, furono fatti circolare tra gli umanisti dell’epoca, ansiosi di celebrare la straordinaria vita del condottiero, mecenate e raffinato politico consegnato alla storia dell’arte da un celebre ritratto di profilo di Piero della Francesca come il simbolo stesso del Rinascimento. A proposito di Guidantonio, Paltroni scrisse: «Di sé lasciò un figliolo naturale chiamato conte Federigo el quale per multi si volse dire non esser suo figlio, ma nepote suo et figliolo de una sua figliola chiamata Aura, nobilissima et virtuosissima madonna, maritata al conte Berardino Ubaldini de la Carda el quale fu strenuissimo, grande et magnanimo capitano de gente d’arme (...). Quale fosse piú vera opinione non è certo ma, come si sa, o figliolo del conte Guido o suo nepote ch’el fosse et figliolo de Berardino et de la casa de li Ubaldini, per omni modo è manifesto el decto conte Federigo essere nato de clarissima stirpe et generosissimo sangue perché la casa de li Ubaldini è similmente antiquissima et ha hauty assay nobili hominy et capitanii grandissimi». Federico Fioravanti

Da leggere Pierantonio Paltroni, Commentari della vita et gesti dell’illustrissimo Federico Duca d’Urbino, a cura di Walter Tommasoli, Accademia Raffaello, Urbino 1966 Leonello Bei e Stefano Cristini, La Doppia Anima, la vera storia di Ottaviano Ubaldini e Federico da Montefeltro, Quaderni di storia locale, vol. 2, Associazione amici della Storia, Apecchio 2000 Leonello Bei e Stefano Cristini, Vita e gesta del Magnifico Bernardino Ubaldini della Carda, Quaderni di storia locale, vol. 7, Associazione amici della Storia, Apecchio, Edizioni Nuova Prhomos 2016 Bernd Roeck e Andreas Tönnesmann, Federico da Montefeltro.

Arte, stato e mestiere delle armi, Einaudi, Torino 2009 Marcello Simonetta, L’enigma Montefeltro, Rizzoli, Milano 2008 Denis Mack Smith, Federigo da Montefeltro, Quattroventi, Urbino 2005 Walter Tommasoli, La vita di Federico da Montefeltro, Argalia Editore, Urbino 1978 Robert de la Sizeranne, Federico di Montefeltro, capitano, principe, mecenate, Argalia Editore, Urbino 1979 Gino Franceschini, I Montefeltro, Dall’Oglio, Milano, 1970 James Dennistoun, Memorie dei duchi di Urbino, a cura di Giorgio Nonni, Quattroventi, Urbino 2010 luglio

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Il castello della Carda

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Pian di Molino

Un presidio cruciale Pietragialla

Se qualcuno nell’Alto Medioevo si fosse trovato a passare nella gola del Biscubio, all’altezza di Sassorotto, e avesse rivolto lo sguardo verso l’alto, sarebbe rimasto allibito e spaventato dai due poderosi castelli che controllavano il passo appenninico dalla cima di quelle rupi scoscese. Da un lato, sulle propaggini del Monte Forno, svettava Castiglione San Bartolo, dall’altro, in cima a uno scheggione di roccia, alle pendici di Monte Nerone, dominava la Carda. Le due possenti strutture si guardavano una di fronte

A destra cartina nella quale sono riportati i territori della contea della Carda e di quelle circostanti. In basso ricostruzione grafica del castello della Carda.

all’altra, tanto che divenne celebre una filastrocca che recitava: «Tira o Carda che Castiglion ti guarda, la Carda tirò e Castiglion cascò». In realtà dalle fonti storiche non si hanno notizie di guerre. La prima documentazione su questi luoghi risale all’anno Mille, ma di certo le strutture erano ben piú antiche. Tra le famiglie che nei primi decenni del Duecento dominavano su questi territori, vanno ricordati i Pecorari, che costruirono l’omonimo castello. Gli Acinelli, proprietari di Castiglione San Bartolo e di vari villaggi della zona, tra cui Offredi e Monteforno, vivevano in un palazzo costruito su un colle

panoramico dominante l’abitato di Piobbico, in una zona ancora oggi chiamata Belvedere. Ma furono presto soppiantati dai Brancaleoni, che esercitarono il loro dominio su Piobbico per piú di quattro secoli. Del poderoso castello della Carda oggi non rimangono che poche rovine. All’epoca la struttura apparteneva per metà al vescovo di Città di Castello e per l’altra metà a quello di Cagli, il quale l’aveva data in concessione al ramo dei Brancaleoni che risiedeva a Rocca Leonella. Nel 1269, impegnato nelle repressioni delle rivolte contro la Chiesa, arrivò ad Apecchio il cardinale Ottaviano

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Montevicino

Apecchio

Carda

Montefiore

Fagnille

1 Baciuccheto - 2 Colle Rosso - 3 Collelungo

Ubaldini, nominato da Farinata degli Uberti nella Commedia di Dante, che lo colloca nel suo Inferno, tra gli epicurei e i negatori dell’anima, insieme all’imperatore Federico II di Svevia (Inferno, X, 118-120). Ottaviano intuí subito la grande importanza strategica di questi luoghi e chiese al vescovo di Città di Castello di acquistare la metà della Carda insieme al castello di Montevicino che, come risulta dalla cronaca vescovile, in quel momento era «diruto a causa della guerra». La stessa fonte precisa che l’atto venne fatto «de visu», cioè non per procura, ma con i due prelati presenti

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Dossier A sinistra Lettera autografa di Ottaviano Ubaldini riferita al castello della Carda.

sul luogo. Tano Ubaldini, nipote del cardinale, si insediò subito nella sua metà del castello, sembra con molta soddisfazione di Bellabranca Brancaleoni, proprietario dell’altra metà dell’enorme rocca, che in breve tempo uní le sue figlie e i suoi nipoti con quelli degli Ubaldini, facendo sí che la Carda divenisse tutta ubaldina. Chi oggi da sotto guarda la guglia di pietra che faceva da perno al cassero, non può neanche immaginare che in quella cima vi fosse un vero e proprio paese. Un rilievo archeologico dà l’idea di quale enorme struttura fosse stata ricavata sul minuscolo altopiano. Quasi 18 000 mq di terreno, 256 m di lunghezza per 70 di larghezza. Nel lato che cade a picco verso il fosso del Mulino, svettavano ben undici torri, distanziate l’una dall’altra da circa 4 m di mura. In alto venne edificata la chiesa di S. Giovanni Battista, della quale si possono ancora oggi osservare i resti del sagrato, scavato nella roccia. Seguivano le case nobili e il palazzo pubblico che era ornato da un porticato sotto il quale, secondo gli statuti del castello, non potevano sostare né cavalli né altri animali di alcun genere, pena pesanti multe; un’unica deroga era stata accordata al mugnaio che portava dal mulino la farina, il quale poteva fermarsi con il suo asino, ma soltanto nel caso in cui piovesse. Nel cassero si trova ancora una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana scavata nella roccia, ma

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c’erano almeno altre due vasche per l’approvvigionamento idrico, una delle quali, attaccata su una parete di roccia a strapiombo che raccoglie tuttora lo stillicidio perenne di una piccola sorgente che sgorga dalle rocce. Dal lato opposto, che degrada piú dolcemente verso il precipizio sul fosso della Gamberaia, vi erano file di case piú modeste con resti di sotterranei richiusi e intramezzate da orti. Erano presenti anche vigne, le cui radici, ancora oggi, gettano rami inselvatichiti. Nei pressi di un torrente attiguo al castello sorgeva anche un piccolo eremo, S. Bartolomeo di Vitoschio, minuscolo ricovero per eremiti nato da un accordo tra l’abbazia benedettina di Massa di Monte Nerone e quella di S. Cristoforo al Ponte di Urbania. Fungeva da punto di sosta e di ricovero per i monaci. Ne approfittò sant’Ubaldo di Gubbio per sparire dal mondo, quando fuggí per rinunciare alla nomina di vescovo di Perugia. Da quando l’imponente castello passò per intero agli eredi del cardinale Ottaviano, la famiglia iniziò a essere definita dal luogo di provenienza. E nacque la dinastia degli Ubaldini della Carda. Molti abitanti del luogo da allora lasciarono le loro mansioni di taglialegna o pastori per rivestirsi di armi e andare con i loro signori in giro per l’Italia a combattere infinite guerre, guadagnandosi fama e onori, ma soprattutto denaro. Il grido «Carda!» risuonò anche alla battaglia di Maclodio (1427),

quando Bernardino Ubaldini si era piazzato, assieme a un manipolo dei suoi piú valorosi, alla difesa di un ponte considerato il punto chiave da difendere per vincere quel combattimento. Ma qual è l’origine del nome Carda? In una terra di pastori si pensa subito all’atto di cardare la lana. Nella lingua dei Longobardi la parola gard indicava il luogo deputato alla guardia armata. Ma la spiegazione piú logica forse arriva dallo stesso Ottaviano Ubaldini, che, nella Flagellazione di Piero della Francesca, per far capire quale fosse il suo luogo di provenienza, si fece ritrarre mentre indossava una ricchissima tunica di colore azzurro trapuntata in oro da una serie di fiori di cardo, tuttora comunissimi tra le rocce dell’Appennino. In quel tempo il cardo era anche una pianta utile: se ne mangiava la radice e il fiore veniva comunemente usato per cagliare il latte. Nel 1514, quando Francesco Maria I della Rovere, duca di Urbino, innalzò Apecchio al rango di contea, decise comunque di tenere per sé la Carda. Ma da quel momento il castello non fu piú governato in modo diretto dagli Ubaldini, anche se continuarono a conservarvi i loro beni. Il duca nominò un capitano che manteneva una piccola guarnigione ducale, curava l’amministrazione, riscuoteva i balzelli e applicava la giustizia secondo i dettami degli antichi statuti familiari. Leonello Bei luglio

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Flagellazione (particolare), tempera su tavola di Piero della Francesca. 1459-1460. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. Sulla destra, è ritratto Ottaviano Ubaldini, vestito di una tunica azzurra trapuntata in oro da fiori di cardo, in riferimento al castello della Carda.

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Dossier UNA FAMIGLIA IN MOSTRA «Ubaldini. Signori degli Appennini», non è solo la prima importante mostra d’arte che si tiene ad Apecchio, ma è anche la prima dedicata in modo specifico alla dinastia degli Ubaldini della Carda. L’esposizione riporta alla luce la storia di una famiglia rimasta nell’ombra a causa di una damnatio memoriae: quella perpetrata in seguito alle accuse di stregoneria che Pietro Bembo (1470-1547) mosse contro Ottaviano Ubaldini, colpevole, secondo il letterato, di aver reso sterile il nipote Guidobaldo grazie alle sue abilità magiche, allo scopo di continuare a governare sul ducato di Urbino in assenza di un erede dei Montefeltro. Palazzo Ubaldini, il grande edificio restaurato per volere di Ottaviano Ubaldini della Carda, reggente del ducato di Urbino e legislatore di Apecchio, è la sede naturale dell’esposizione. I lavori, eseguiti dalle stesse maestranze lombarde impegnate nel palazzo ducale di Urbino, iniziarono nel 1477, su progetto dell’architetto Francesco di Giorgio Martini, ma furono interrotti dopo la morte di Ottaviano. Ripresero con il conte Gentile II Ubaldini per concludersi solo nel 1588. Oggi la struttura è completamente restaurata. Ma prima di arrivare all’aspetto attuale subí innumerevoli vicissitudini: venne prima trasformato in Palazzo Apostolico, nel 1572, dopo la morte dell’ultimo conte Federico IV e in seguito fu quasi raso al suolo dal grande terremoto del 1781. In parte ricostruito, tra il 1818 e il 1821 fu adibito a ospedale per ricoverare i malati colpiti da una epidemia di tifo. Dal 1841 fu destinato a sede del Comune, funzione che mantiene ancora ai nostri giorni. Nei secoli, la vocazione al collezionismo d’arte ha caratterizzato tutti i rami dell’antica famiglia.

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Medaglioni con i ritratti di Federico e Ottaviano Ubaldini, attribuiti a Benedetto da Maiano. 1474. Mercatello sul Metauro, Museo di San Francesco.

Nella pagina accanto Caccia al cervo con Federico Barbarossa e Ubaldino Ubaldini, acquaforte di Maria Horthemels, da Giovanni Stradano. Urbino, Collezione privata.

Grazie ai dipinti, alle stampe e ad alcuni documenti inediti, ora è quindi possibile tornare a dare voce a una lunga serie di personaggi e ricostruire vicende cruciali della storia medievale e rinascimentale dell’Italia centrale. Esemplare in tal senso è la Caccia al cervo con Federico Barbarossa e Ubaldino Ubaldini di Maria Horthemels (1682-1727). Rappresenta un esempio di incisione di traduzione che ci fornisce informazioni importanti grazie alle interessanti iscrizioni. Sappiamo che la composizione fu studiata nel 1589 da Giovanni Stradano, al secolo Jan Van der Straet (1523-1605), pittore fiammingo attivo a Firenze, al tempo di Giovanni Battista Ubaldini. Questa data colloca la matrice originaria coerentemente sia con la celebre produzione di cacce, sia con l’inventario di Piero di Giovanni Battista Ubaldini, redatto nel 1605

per la casa del Mugello. Realizzata da Gallianus Forese (XVII secolo) su base dell’iconografia originaria di Giovanni Stradano, l’incisione ci dà testimonianza del motto della famiglia, nato dalle parole leggendarie pronunciate dal Barbarossa: «Chi domina gli Appennini? La vitale casa degli Ubaldini». Di quest’opera abbiamo infatti altre due versioni conservate al British Museum di Londra, realizzate sempre dalla Horthemels su traduzione di Stradano e datate tra 1705 e una postuma del 1745. Un’altra versione era stata incisa da Adrian Collaert e pubblicata da Philip Galle ad Anversa nel 1589. La leggenda dell’Iscrizione degli Ubaldini, un’epigrafe della casa originaria del Mugello, e qui trascritta, narra che fu proprio Federico Barbarossa a fregiare i signori dell’Appennino dello stemma con il cervo, accompagnato dal motto luglio

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Q. D. A. A. D. U. (Quis Dominatur Appennini? Alma domus Ubaldini) a testimoniare la grandezza del casato. Nel 1184, infatti, l’imperatore, durante una caccia nei territori del Mugello sarebbe riuscito a uccidere un cervo grazie a Ubaldino Ubaldini che teneva l’animale per le corna. L’imperatore impressionato da tanta abilità decise di concedere l’immagine del cervo come simbolo della famiglia, in sostituzione dell’antico stemma, costituito da uno scudo quadripartito con bande oro e azzurre. Un grande onore: nella simbologia delle cacce medievali il cervo era infatti considerato la piú nobile delle prede. La famiglia aveva già ottenuto altri importanti privilegi feuda-

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li dagli imperatori Carlo Magno e Ottone II. E consolidò i suoi domini con i favori di Enrico VI, figlio ed erede del Barbarossa, che conferí al casato altri feudi, tra cui quello del territorio di Apecchio. Gli Ubaldini del ramo della Carda, fidati e valorosi condottieri degli eserciti dei loro signori, furono protagonisti della storia del Rinascimento. La loro storia si intrecciò in modo indissolubile con quella dei Montefeltro.

Una stirpe di guerrieri

Nella storia della famiglia ci fu però spazio anche per donne illustri, dalle personalità diverse, ma di grande spessore. Per il ramo cardense, va ricordata in primis la condottiera Marzia Ubaldini, che

nacque intorno al 1307 da Giovanni da Susinana, figlio di Tano da Castello degli Ubaldini e Andrea, marchesa del Senio. Sappiamo che nel 1334 andò in sposa a Francesco di Sinibaldo Ordelaffi, signore di Forlí, per poi ricomparire dopo un ventennio di silenzio come condottiera nelle battaglie contro le mire espansionistiche papali guidate dal cardinale Egidio Albornoz. Due furono le battaglie che la consegnarono alla storia. La prima nel 1354, quando respinse le truppe papali sotto le mura di Cesena, e la seconda nel 1357, in cui però fu costretta alla ritirata a causa di un’insurrezione all’interno del suo stesso popolo. Nell’opera in mostra ad Apec-

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Dossier Cristo coronato di spine, olio su tela assegnato all’ambito di Guido Reni. XVII sec. Urbino, Collezione privata.

chio viene rappresentata la battaglia dell’agosto del 1354 in cui Marzia respinse l’attacco e guadagnò la vittoria sul capitano dell’esercito avversario guidato da Carlo, il conte di Dovadola († 1354) che si riconosce nel dipinto dallo stemma dei conti Guidi nello scudo. Non a caso, Palazzuolo sul Senio, già feudo degli Ubaldini, ha scelto la figura di Marzia nel suo stemma comunale. L’altra anima femminile è Contarina Ubaldini (XVI-XVI secolo), che vediamo ritratta dal pittore eugubino Giuseppe Reposati (1722-1799). Contarina fu figlia di Guidantonio Ubaldini della Carda e moglie di Federico Gabrielli. Poetessa, scrisse i suoi versi in volgare, cantando le vite di san Francesco d’Assisi e di sant’Ubaldo, che dedicò alle duchesse d’Urbino Elisabetta ed Eleonora Gonzaga.

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Quanto ai guerrieri, il piú famoso capitano di ventura del casato fu il valoroso Bernardino Ubaldini della Carda (1389-1437), che militò prima al soldo dei Malatesta e poi si legò a Guidantonio da Montefeltro, a tal punto da sposarne la figlia Aura nel 1421. Dal suo matrimonio nacque Ottaviano Ubaldini nel 1423 a Gubbio. L’anno prima, nella stessa città, era venuto alla luce anche Federico, adottato dal nonno Guidantonio che non aveva eredi maschi e temeva per questo di perdere il suo Stato. Ottaviano Ubaldini fu uno dei piú luminosi esponenti della sua famiglia. Descritto dai suoi contemporanei come un umanista di ampia cultura, si applicò agli studi ermetici e all’astrologia e protesse gli scienziati e gli artisti della sua epoca. Rimase legato per tutta la

A destra Madonna con Bambino dormiente, olio su tela assegnato all’ambito di Guido Reni. XVII sec. Urbino, collezione privata.

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vita in uno stretto rapporto di devozione e fratellanza a Federico, tanto da farne le veci nel governo della corte di Urbino durante le numerose assenze del duca, impegnato in molteplici campagne militari.

Il fratello affettuoso

Fu grande anche il legame di affetto che lo uní a Battista Sforza, la seconda moglie di Federico. Proprio Ottaviano venne nominato tutore del figlio Guidubaldo (1472-1508), l’unico maschio erede dei Montefeltro, come ci ricorda il pittore Giovanni Santi (1435-1494), padre del piú famoso Raffaello Sanzio (1483-1520): «Octavian, cum fede alta e amorosa, vuol che la vita sua cum fé reluca appresso el car fratel, ché senza d’ello par che la vita in poco ben conduca; e cusí ritornato egli era quello che el Stato quasi sempre governava, e suo tesoro, – o singular fratello, che molto piú del suo signor amava el ben, che el proprio suo!». «A Octavian suo car fratel concede El governo del Stato e del figliuolo Di tanta Sapienza: huom sagio el vede Dicendo io moro qui cum poco duolo Possa che Octavian riman nel stato Per che dei don che Dio infra me ha dato Un si fedel fratello cum Sapientia Me parso el piú sublime: e a me piú grato Ne ho di lui già manco difidenza». (Giovanni Santi, Cronaca Rimata, 1488). Per il tema della fratellanza, cosí delicato, si vuole lasciar parlare le opere che ci mostrano nitidamente i volti e i temperamenti dei due personaggi attraverso il candore della pietra. Entrambi i ritratti lapidei dei fratelli, la lunetta di ambito di Ambrogio Barocci (1480) della Galleria nazionale delle Marche (vedi foto a p. 88) e i medaglioni ritratti di Benedetto da Maiano (vedi foto a p. 96) del Museo di San Francesco di Mercatello, si specchiano in un dialogo eloquente nel suo silenzio. La lunetta è particolarmente importante, perché raffigura i fratelli Ubaldini l’uno di fronte all’altro, a enfatizzare il loro egual va-

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Dossier lore, ma caratterizzando ciascuno con i simboli della propria indole. Federico è vestito con un’armatura da parata, con a fianco un elmo all’eroica, emblema dei suoi successi militari. Ottaviano, in abiti civili, è attorniato da codici e da un ramo di alloro, chiare allusioni all’arte e alla poesia. Diversi e complementari, ma equivalenti nel mantenimento dell’equilibrio dello splendore della corte urbinate, nota per essere una fucina d’arte e mecenatismo, meta prediletta degli artisti fiamminghi. Formatosi alla corte milanese, Ottaviano sapeva apprezzare l’arte già da giovane. Si ha notizia della sua commissione a Van Eyck di un Bagno muliebre, oggi perduto, ma indice di un gusto rivolto alle innovazioni di quello stile lenticolare e simbolico dei fiamminghi accolto con cosí grande entusiasmo dalla corte urbinate. Nel 1498, con la morte di Ottaviano, il ramo degli Ubaldini della Carda si estinse: il suo unico figlio, Bernardino, era morto quarant’anni prima, nel 1458. Rimase in vita il fratello, Francesco Ubaldini (XV secolo), che divenne conte dei Pecorari. Proprio da lui discende il ramo urbinate, di cui è noto il patrimonio di dipinti e oggetti d’arte. Anche Francesco, come da tradizione familiare, fu amante dell’arte. Capitano dei Montefeltro, nel 1481 ottenne dai signori di Urbino il Castello dei Pecorari, anche a seguito del duplice legame matrimoniale che allacciò con la famiglia Brancaleoni di Piobbico, sposando prima Sveva e poi Elisabetta.

Collezionisti illustri

Possiamo avere uno scorcio delle collezioni d’arte familiari dal resoconto del pittore Michelangelo Dolci, che visitando nel 1775, tra gli altri palazzi di Urbino, anche quello degli Ubaldini riporta l’esat-

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ta collocazione di numerosi dipinti, ora quasi tutti perduti. Nell’elenco dettagliato delle stanze della residenza nobiliare compaiono, tra gli altri, i nomi di grandi protagonisti dell’arte barocca, quali Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666), Guido Reni (1575-1642), Federico Fiori, detto il Barocci (1528/15351612), Andrea del Sarto (14861530), Pietro da Cortona (15961669), Giovanni Gaspare Lanfranco (1582-1647), Tiziano Vecellio

(1488/1490-1576), a testimoniare l’attività di acquisizione preponderante dei maestri del XVII secolo. Non a caso, sono questi gli anni nei quali brillano altri due astri della famiglia: il cardinal Roberto Ubaldini (1578-1635) e Federico Ubaldini (1610-1657), che diedero certamente una spinta propulsiva all’acquisizione di molti capolavori del loro tempo. Nato a Firenze nel 1581, il cardinal Roberto era figlio di Marco Antonio Ubaldini dei conti di Gagliano e di Lucrezia della Gherardesca. Fu uomo di cultura. Ottenne il dottorato in utroque iure, ma

ebbe anche una fulgida carriera ecclesiastica, che lo portò a viaggiare e a entrare in contatto con i piú importanti personaggi del suo tempo. Proteggeva letterati, artisti e scienziati del calibro di Galileo Galilei (1564-1642). Tanto che le sue fattezze sono passate alla storia tramite il ritratto che ne fece Guido Reni, intorno al 1625, durante la sua legazione a Bologna (vedi foto alle pp. 82/83). La ricerca e lo studio dei modelli provenienti dalle botteghe che stavano dettando i criteri del rinnovamento artistico emerge come timbro tipico delle collezioni Ubaldini. E proprio Reni era l’artista di riferimento. Nella mostra apecchiese sono esposti tre dipinti inediti dall’iconografia derivante dal grande pittore e incisore bolognese: un Cristo coronato di spine (vedi foto a p. 98), una Madonna con Bambino dormiente (vedi foto a p. 98/99) e una Deianira (vedi foto in questa pagina), sposa di Ercole, eroe della mitologia greca. Si può fare il raffronto per la prima opera con il dipinto su rame conservato al Detroit Institute of Arts, in cui si possono riconoscere la medesima postura e la stessa inquadratura prospettica. Il busto del Salvatore è ritratto con lo sguardo rivolto al cielo, in una comunione col Padre terrena e piena di sentimento. La bocca socchiusa e i rivoli di sangue che scorrono lungo il volto dalle ferite causate dalle spine esprimono un dolore umano coinvolgente. L’atmosfera di nubi sospese espleta però la funzione di quinta scenica, in ottemperanza ai dettami tridentini che suggerivano all’artista di creare un effetto teatrale per evitare che il fedele potesse incappare nell’idolatria del simulacro. Nella Madonna con Bambino dormiente, siamo invece catturati dalla dolcezza dello sguardo della giovane, che si posa sul suo bambino luglio

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In alto Santa Teresa d’Avila, olio su tela di scuola bolognese. XVII sec. Urbino, Collezione privata. Nella pagina accanto Deianira, olio su tela assegnato all’ambito di Guido Reni. XVII sec. Urbino, collezione privata.

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Dossier addormentato e completamente abbandonato. Anche questo sentimento di confidenza nel sostegno della madre, ci riporta alla spiritualità post-tridentina, che vedeva nella promozione della figura di Maria uno dei suoi cardini. In particolare, la postura abbandonata del bambino è un’invenzione tipica di Reni, che esordisce nel Putto dormiente, della Collezione Barberini a Roma (1627), e che poi viene introdotta già nella Madonna con bambino dormiente della Galleria Doria Pamphilij di Roma, attribuita

al maestro e datata tra il 1620 e il 1625. In ultimo possiamo godere del delicato studio sul busto della Deianira, protagonista del celebre dipinto di Reni Nesso che rapisce Deianira (1620) conservato al Louvre. Al confronto tra i due appare una coincidenza della postura, dell’acconciatura e dei tratti somatici. Dall’influenza del grande maestro traggono ispirazione anche i pittori bolognesi del tempo, e in questo caso possiamo vedere nella Santa Teresa d’Avila (vedi foto a p. 101) un esercizio di Scuola bologne-

Nella pagina accanto un interno di Palazzo Ubaldini ad Apecchio, sede della mostra. In basso Angelo custode, olio su tela attribuito alla bottega di Federico Barocci. XVII sec. Urbino, Collezione privata.

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se, che volge proprio lo sguardo alla Sacra Famiglia con Santa Teresa d’Avila e San Giuseppe dipinto da Reni per la chiesa di Caprarola. Accanto alla passione per i Bolognesi, nelle collezioni Ubaldini emerge anche quella per i maestri attivi nell’entourage urbinate, in particolare per Federico Fiori, detto il Barocci (15351612) e per altri importanti incisori di provenienza italiana, francese, tedesca e fiamminga.

Nuove iconografie

Nella Collezione Ubaldini conservata presso il Palazzo Ducale di Urbania si raccolgono disegni e incisioni di traduzione che avevano lo scopo di far circolare i nuovi modelli iconografici aggiornando il gusto locale, cosí graditi che entreranno a far parte del repertorio delle famose ceramiche durantine. La sezione del museo ha infatti origine proprio dal lascito testamentario alla città di Urbania del conte Bernardino Ubaldini (1625-1687) del 23 ottobre 1687. Tra i suoi beni erano confluite anche le collezioni di codici, manoscritti, disegni e incisioni del fratello Federico, letterato e collezionista. In particolare in occasione della mostra si espongono incisioni di traduzione di Luca Ciamberlano (1580-1641), dei fratelli Sadeler, ovvero Egidius (1570-1629) e Justus (1572-1620), e di anonimi locali, le cui stampe riproducono iconografie tratte da maestri come Guido Reni, Polidoro da Caravaggio (1500-1543), Raffaello Sanzio (1483-1520) e Federico Barocci. In particolare sappiamo che Federico Ubaldini fu un collezionista appassionato di Federico Barocci. Si impegnò in una campagna sistematica di acquisti presso la sua bottega, con lo scopo di definire e testimoniare lo sviluppo stilistico dell’artista e il suo modus operandi. Possiamo esaminare a tal proposito l’Angelo custode di collezione privata (vedi foto alla pagina precedente) attribuibile alla bottega di Federico luglio

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Dove e quando «Ubaldini. Signori degli Appennini» Apecchio, Palazzo Ubaldini fino al prossimo 10 ottobre. Orario tutti i giorni, 9,30-13,00 e 14,30-18,00 Info e prenotazioni tel. 366 5849069; e-mail: prenotazioni@lamacina.it; http:// palazzoubaldiniapecchio.com

Barocci in conseguenza alla sua pregevole qualità. La stessa figura angelica di tre quarti, inginocchiata e con le ali svolazzanti, compare in uno Studio per angelo, proprio nella Collezione Ubaldini di Urbania. Il foglio era incollato nella piú grande composizione La tentazione di San Tommaso, al posto in cui era destinato lo schizzo per il messo divino, con lo scopo di correggerne le proporzioni volumetriche. Considerando le strette relazioni intercorse tra i territori e i rami della famiglia, si viene ricondotti nuovamente al lascito testamentario del 23 ottobre 1687 in cui il conte Bernardino degli Ubaldini di Montevicino, scelse come testimoni il vescovo di Urbania e Sant’Angelo Ondedei, ma anche il conte Federico degli Ubaldini di Apecchio. E a lui lasciò «un quadro ornato di tavola il quale è dipinto con la Musica di Orfeo»: testimonianza che anche il territorio di Apecchio doveva possedere opere d’arte notevoli. Pur abitando nel grande palazzo, la famiglia Ubaldini del ramo di Apecchio mantenne uno stile di vita sobrio, che gli valse la benevolenza degli Apecchiesi, ma di certo l’arredo del maestoso edificio doveva essere appropriato al loro rango.

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Tra i conti di Apecchio va ricordato monsignor Paolo Ubaldini († 1714), fratello di Gentile IV: un fine collezionista che molto intercedette al suo tempo per il paese d’origine.

I leoni perduti

Era conte di Apecchio ma anche canonico di S. Maria Maggiore, a Roma, sotto la protezione di Clemente XI (1649-1721), il papa urbinate nato Giovanni Francesco Albani. Anch’egli amante dell’arte, nel suo testamento lasciò in dono alla pieve di Apecchio due leoni di marmo provenienti dalla basilica di S. Maria Maggiore, oggi perduti, e alcuni arredi sacri in argento di cui è sopravvissuto il calice personale dell’alto prelato, datato 1680. Fu realizzato da un anonimo argentiere: in argento, in parte dorato con coppa svasata e sottocoppa decorata con motivi fitomorfi, piede circolare e fusto interrotto da nodo piriforme, reca lo stemma della famiglia con riscontro di cervo caricato da corona nobiliare. Gravi ferite, non piú sanate, arrivarono al patrimonio culturale di Apecchio in seguito ai continui terremoti che nel secolo successivo colpirono il territorio. Il piú devastante, per numero di vittime, fu quello del 3 giugno 1781, che ebbe

come epicentro la zona del Monte Nerone. Anche Urbino fu colpita nel 1789. Il sisma causò la demolizione della Cattedrale, situata non lontano dalle storiche dimore della famiglia Ubaldini, che resistettero, ma per le quali si possono ipotizzare danni ai beni mobili. A questi eventi calamitosi seguirono, poco dopo, le requisizioni napoleoniche, che aprirono le porte alle dispersioni delle opere piú pregevoli, non piú arginate. Elisabetta Carlino

Da leggere Elisabetta Carlino (a cura di) Ubaldini Signori degli Appennini, catalogo della mostra (Apecchio, 12 giugno-10 ottobre 2021), Quattroventi, Urbino 2021 Camillo Berliocchi, Quando c’erano le torri. Apecchio tra conti, duchi e prelati, Petruzzi editore, Città di Castello 1992 Luigi Michelini Tocci, Storia di un mago e cento castelli, Cassa di risparmio di Pesaro, 1986 Corrado Leonardi (a cura di), Disegni di epoca roveresca della collezione Ubaldini, Amministrazione Comunale di Urbania, Urbania, 1981. Bonita Cleri e Feliciano Paoli (a cura di), Incisioni del ‘600. Le collezioni di Casteldurante dai Della Rovere agli Ubaldini, Quattroventi, Urbino 1992

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Storie, uomini e sapori

Delizie bizantine sul Monte Athos di Sergio G. Grasso

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innovazione gastronomica introdotta dall’antica cucina bizantina, la sua eterogeneità e la dovizia di ingredienti vegetali erano il risultato di due contingenze. La prima era il calendario cristianoortodosso, che ai praticanti imponeva (e impone tuttora) molti giorni di astinenza da pesce e carne e molto spesso anche dall’olio, dal burro, dal formaggio e dagli altri derivati del latte. Grazie a questo condizionamento, il mondo bizantino-ortodosso riuscí a inventare un incredibile mosaico di alternative saporite e stuzzicanti per i quasi 200 giorni «di magro» che comprendevano tutti i mercoledí e venerdí e i periodi della grande e della piccola Quaresima. Uno di questi piatti è la fava, specialità dell’isola di Santorini, ma diffusa con qualche variante in tutta la Grecia. A dispetto del nome, per realizzare questo denso e gustoso «hummus», non si impiegano le fave, bensí una particolare varietà di cicerchie (Lathurus clymenum) seccate al sole, spaccate in due per velocizzare la cottura, lessate in acqua e ridotte in crema con un generoso quantitativo di olio d’oliva; si condisce con finocchietto selvatico, olive, cipolla cruda affettata, sale e limone.

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La seconda contingenza era la dietetica. A differenza dei regimina greci e latini scritti per lettori esperti, i manuali bizantini erano destinati ai praticanti di cucina, quindi a non specialisti che potevano migliorare la loro funzione sociale applicando alla gastronomia i principi della teoria ippocratica dei «quattro umori» (sangue, flegma, bile gialla, bile nera). L’effetto di ogni ingrediente sui fluidi vitali era stato attentamente codificato dagli scienziati dell’epoca e i ricettari si preoccupavano di mantenere in equilibrio gli umori suggerendo

In alto padre Epifanios nella cucina dell’eremo di Mylopotamos. Il monaco è uno degli ultimi custodi della tradizione culinaria bizantina. Sulle due pagine una veduta dell’eremo di Mylopotamos, che dipende dal monastero di Megistis Lavras.


miscele di ingredienti basati sulla stagione, sul tempo atmosferico, sulla costituzione fisica e sullo stato di salute di ognuno. I dietisti bizantini raccomandavano quasi sempre diete vegetariane, integrate da poco olio e molto aceto o verjus (succo di uva acerba); le spezie e i condimenti onnipresenti in cucina e sulla tavola avevano il compito di temperare le «nature» di ogni piatto. Cosí i fichi freschi in luglio dovevano essere aspersi di sale; il vino «konditum» all’olio di nardo era raccomandato in marzo, mentre quello «anisatum» si addiceva ai primi tepori di aprile. Questi manuali bizantini consentono di ricostruire gran parte della storia alimentare del Medioevo europeo. Il piú antico è il De observatione ciborum (Osservazioni sugli alimenti) scritto attorno al 510 da Anthimus, medico alla corte di Teodorico il Grande. Il testo propone rimedi

specifici contro la dissenteria, l’idropisia e le febbri di vario genere, ma si prefigge anche di istruire il lettore su come preparare, per esempio, l’aphratum, specialità bizantina a base di carne stufata con miele, aceto e spezie, mescolata ad albume d’uovo montato.

Fra tradizione e contaminazioni Altre ricette sono proposte in maniera piuttosto sbrigativa, sullo stile apiciano, con richiami all’uso dell’oximele e del solito garum, ma dichiarano la loro contaminazione franco-germanica testimoniata, per esempio, dall’impiego della pancetta suina e di altri ingredienti comuni nella regione di provenienza di Teodorico (vicino a Metz, nel Nord-

Est della Francia). Il ricorso di Anthimus a molte spezie dimostra che queste erano disponibili in Francia e in Italia ancora dopo la caduta di Roma e secoli prima delle crociate. Nello stesso periodo, l’estensore della Vita di San Teodoro di Amasea fa cenno a una bottega di Tessalonica che godeva di un’altissima reputazione grazie alla qualità dei cibi che vendeva. Altro rilevante manuale è il Syntagma de alimentorum facultatibus (Compendio delle proprietà degli alimenti), scritto nell’XI secolo a Costantinopoli dal medico ebreo e scienziato di corte Simon Seth, che, insolitamente, sconsiglia di mangiare l’allora pregiatissima bottarga in quanto perniciosa, e curiosamente caldeggia l’uso della cannabis come ingrediente di cucina. Tutta la letteratura alimentizia bizantina (inclusi i «Poemi prodromici», XI-XII secolo) si


CALEIDO SCOPIO concentra sui prodotti dell’orto e del frutteto, sui legumi e sui cereali, con grano e orzo come protagonisti. Frequentissime sono olive e cipolle, nonché aglio, formaggi freschi e uova; tra gli insaporitori hanno largo spazio il sale, l’olio d’oliva, l’aceto e il miele. Le spezie piú comuni erano il pepe, il cumino, la noce moscata e la cannella. Poca carne, dunque, anche se, nel dialogo satirico del XII secolo Timarion, si descrive il piatto unico della povera gente come «carne di porco salata e cavolo stufato, ghermita con le dita dalla scodella».

Una repubblica autonoma C’è ancora un posto al mondo dov’è possibile trovare pressochè immutata la vera cucina bizantina. Ed è un luogo in cui l’orologio del tempo si è fermato dieci secoli fa: è il Monte Athos, Agios Oros, la Montagna Santa, una delle aree piú incontaminate del Mediterraneo. È il «dito» piú esterno della penisola Calcidica, in Grecia, una repubblica monastica autonoma, interdetta alle donne e a ogni animale di sesso femminile. Per accedervi è necessario essere in possesso di uno speciale permesso o diamonitirion, rilasciato dalla Sacra Sovrintendenza del Monte Athos a Salonicco o a Ouranopolis, ultimo avamposto greco prima del confine. Monte Athos è un luogo incantato, indifferente al mondo esterno, alla politica e alla tecnologia, dove si vive da piú di mille anni in un tempo indeterminato e sfuggente, avvolti in una natura impervia, austera, appena solcata da mille viottoli e mulattiere e da una manciata di strade asfaltate. Monasteri ed eremi non solo custodiscono un patrimonio inestimabile di oggetti d’arte, icone, codici miniati e manoscritti ma mantengono vive tradizioni e

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pratiche di cui altrove si è persa la memoria. Le Disposizioni ai Monaci dettate da san Basilio nel IV secolo – a cui piú tardi si ispirò la Regola di san Benedetto – prevedono che ogni religioso oltre alla preghiera, alla meditazione e alla lettura, dedichi almeno sei ore della sua giornata al lavoro e alle diverse necessità della comunità. Anche se lo scopo del monaco athonita non è legato all’azione, ma alla trasformazione del sé attraverso la preghiera e l’ascetismo, l’autosufficienza dei monasteri dipende soprattutto dalla coltivazione di poderi, orti, oliveti e vigneti, dall’allevamento delle api per il miele e per la cera e dalla pesca. L’interdizione dall’Athos a qualsiasi animale femmina obbliga i monaci ad acquistare uova, latte, yogurt e formaggi oltre confine, e poiché è a loro vietato il consumo di carni diverse dal pesce, le uniche stalle sono quelle dei muli (maschi e infecondi) da trasporto.

In alto un piatto di padre Epifanios. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’imperatore Basilio I a banchetto con la sua corte, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

I monaci consumano i due pasti collettivi (uno nei giorni di digiuno) nella trapeza (refettorio) che si trova quasi sempre di fronte alla chiesa, poiché il pasto è considerato la prosecuzione dell’ufficio liturgico e al cibo si riconosce la funzione di dare la forza necessaria a lodare Dio. I visitatori condividono in silenzio il cibo con i religiosi nel refettorio, mentre un confratello legge la «collezione» (termine da cui deriva appunto «colazione») degli scritti dei Padri della Chiesa. I pasti sono semplici e sostanziosi – per nulla «bizantini», secondo l’abusata accezione del termine – a base di pane, olive, verdure cotte e crude, riso, pasta, pesce, formaggio e frutta; la carne è esclusa, ma non il vino. luglio

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Uno degli ultimi «tesorieri» della gastronomia splendidamente millenaria del Monte Athos è padre Epifanios, al Sacro Monte da quarant’anni e da venticinque assegnato a Mylopotamos, un kellion (eremo) alle dipendenze di Megistis Lavras, il piú grande, antico e alto in grado tra i monasteri della Montagna Santa. Quando padre Epifanios vi si insediò con una manciata di monaci, Mylopotamos era poco piú di un rudere a picco su una baia della costa orientale della Montagna Santa. Fondato prima del 972 da sant’Atanasio, all’interno di un’area coltivata a vigna e ulivi, il kellion era contemporaneamente un piccolo centro di produzione vinicola e un luogo di riposo, convalescenza e meditazione per i monaci che il santo visitava frequentemente, compiendovi guarigioni miracolose. Agli inizi del Cinquecento fu messo a ferro

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e fuoco dai pirati, ma il vescovo Theofilos volle subito ricostruirlo, ampliandolo, fortificandolo e dotandolo di una massiccia torre d’avvistamento. In quell’epoca furono ospiti di Mylopotamos alti prelati della Chiesa ortodossa come i vescovi di Serres e di Tessalonica, mentre la piccola cappella di S. Eustachio veniva decorata con eleganti e preziosi affreschi murali.

La rinascita Nel XVIII secolo i monaci di Megisti Lavras continuavano a lavorare l’antico vigneto e a produrre vino, ma adibirono gran parte del complesso a magazzino per il legname. Nel 1887 Mylopotamos fu scelta come residenza da Gioacchino III prima della sua seconda elezione a patriarca di Costantinopoli, nel 1901. Da allora il crepuscolo materiale del kellion continuò fino al 1990, quando Padre Epifanios

ottenne dall’archimandrita di Megisti Lavras l’autorizzazione a trasferirsi a Mylopotamos, consacrandosi alla ricostruzione della preziosa struttura e al risveglio di uno dei vigneti piú antichi del mondo. Alternando per un quarto di secolo preghiera e cazzuola, devozione e cucina, meditazione e cantina, questi monaci dalla lunga barba e dallo sguardo forte e mansueto, hanno restituito l’antica dignità spirituale, architettonica e produttiva al kellion di Mylopotamos. Ha del miracoloso poi la rinascita dell’antico vigneto di Mylopotamos: cinquanta ettari accuditi con criteri che vanno oltre il biologico e il biodinamico, affidando la propria ortodossa perfezione all’integrità della terra, alla luce del sole, alla sapidità del mare e – c’è da scommetterci – alla santità del luogo e di chi lo abita trasformando la fatica in gioia.

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Quando i santi prendevano le armi

Il tragico errore di Giuliano di Paolo Pinti

Inizia con san Giuliano una nuova serie dedicata alle rappresentazioni di santi in armi e alle indicazioni che queste ultime possono offrire sull’inquadramento storico delle opere d’arte.

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a figura di san Giuliano, collocabile in un’epoca non troppo ben definita, nasce da una leggenda basata sulla saga di Edipo, e già nel Medioevo veniva spesso confusa con altri santi dallo stesso nome. La sua storia ha un inizio simile a quello di sant’Eustachio: quando era un giovane mercante fiammingo – nato, secondo una tradizione, il 13 o il 29 gennaio dell’anno 631 ad Ath (in Belgio) –, dal carattere duro e vendicativo, un giorno, mentre era a caccia, s’imbatté in un cervo, che gli disse: «Come osi inseguirmi, tu che ucciderai i tuoi genitori?». Giuliano rimase profondamente impressionato da questa profezia e, per evitare che si avverasse, abbandonò il padre e la madre e andò a vivere in un paese lontano, dove sposò una principessa con la quale viveva felicemente. I genitori, che non comprendevano le ragioni del gesto del figlio, si misero alla sua ricerca e riuscirono infine a San Giorgio e il drago (particolare), oro, argento e tempera su pannello di Carlo Crivelli. 1470. Boston, Isabella Stewart Gardner Museum. All’epoca, le spade avevano una lama o a sezione rombica o relativamente piatta, con forte nervatura centrale, come in questo caso.

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trovarne le tracce. Si presentarono alla moglie, in un momento in cui Giuliano era fuori casa, e costei li accolse con tutti gli onori, mettendo addirittura a loro disposizione, per la notte, la camera nuziale, giacché il marito tardava a rientrare. Quando questi tornò a tarda sera, vide un uomo e una donna nel proprio letto e, credendo si trattasse della moglie con un amante, li uccise entrambi. Subito dopo scoprí che aveva trucidato i propri genitori. Sconvolto, decise di cambiare vita e convertirsi, migrando per l’Europa, con la moglie e dedicandosi ad assistere i bisognosi e i pellegrini.

Il salvataggio del lebbroso Dopo anni di peregrinazioni, giunse sulle rive del fiume Potenza, nei pressi di Macerata, e lí iniziò l’attività di traghettatore a beneficio di pellegrini e viandanti. Narra la leggenda che, un giorno, un lebbroso stesse per cadere dalla sua barca e Giuliano, senza badare alla terribile malattia di costui, gli tese la mano, salvandolo. Il lebbroso era il Signore (per altre versioni, un angelo mandato da Dio), che, con quel gesto, aveva voluto metterlo alla prova, per vedere se fosse veramente cambiato nel cuore. Un autentico pentimento e un’intera vita dedicata a fare del bene, gli valsero la santificazione e la qualifica di «ospitaliere». Non sarà fuori luogo notare come tale pentimento sia sorto non per aver ucciso due esseri umani, ma solo per aver sbagliato bersaglio, perché, se si fosse davvero trattato della moglie e di un suo amante, Giuliano, probabilmente, non si sarebbe pentito di nulla e sarebbe vissuto felice e contento, senza pensare di espiare la sua colpa prendendosi cura del prossimo. Essendo di nobili origini, possiamo immaginare che fosse armato di spada e che con quella compí il duplice delitto: e infatti lo vediamo costantemente rappresentato come

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In alto Battesimo di Cristo e Madonna col Bambino in trono tra i santi Sebastiano e Giuliano (particolare), affresco di Domenico Ghirlandaio. 1473 circa. San Donnino (Firenze), chiesa di S. Andrea. Il fornimento è dotato di un archetto in ferro, fra la parte superiore dell’elsa e la lama, nel quale era infilato il dito indice

per maneggiare meglio l’arma. Fino a pochi decenni prima, in assenza di tale accorgimento, il dito era esposto ai colpi avversari. A destra frammento di mezza spada (avendo il filo solo su un lato) dotata di archetto per proteggere il dito indice, come nell’affresco di San Donnino Macerata, Collezione privata.

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CALEIDO SCOPIO un giovane ben vestito, con una spada in mano. Un attributo che rende difficile l’identificazione, in quanto si tratta di un’arma estremamente comune nella simbologia dei santi. In un affresco – nello stile del Maestro di Narni, del secondo quarto del XV secolo – nella chiesa de I Santi, a Battiferro, in comune di Terni, San Giuliano ha una spada con lama a sezione rombica, robusta e appuntita, adatta per colpi «di stocco» e non piú a fendente, cioè di taglio, com’era fino al secolo precedente; l’elsa è elaborata, con il blocchetto cuspidato e le estremità dei bracci sagomate.

Per proteggere l’indice Nel San Giuliano di Domenico Ghirlandaio, a San Donnino (Firenze; vedi foto a p. 109), compare una spada dalla lama particolarmente lunga, a sezione piatta, con sguscio centrale, e con archetto per proteggere il dito indice, che nell’uso veniva spesso tenuto fra l’elsa e la lama: una soluzione introdotta proprio in quegli anni. In rari casi, l’identificazione del santo risulta facilitata dalla

In alto strappo d’affresco con Giuliano che uccide i genitori, d’ignoto pittore umbro, dal castello di Mora (Terni). 1494. Assisi, Pinacoteca Civica. L’arma usata per il duplice omicidio è una daga tipica della fine del XV e gli inizi del XVI sec. Grande pugnale di produzione italiana. Metà del XVI sec. In ragione delle sue dimensioni (lunghezza 40,7 cm) l’arma può essere definita anche come daga, con lama

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particolarmente larga alla base, analogamente a quella della cinquedea, che veniva cosí chiamata perché, appunto, alla base ha tale larghezza, pari a cinque dita. luglio

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In basso una cinquedea. 1500-1525. Quest’arma ha caratteristiche particolari, presenti in tutti gli esemplari, non riscontrabili sulla daga impugnata da san Giuliano nell’affresco, con la quale ha in comune solo la sagoma e la grandezza della lama.

XV-inizi del XVI secolo, in ambito veneto – caratterizzata dalla notevole larghezza iniziale della lama, pari a cinque dita – in veneto cinque dea, appunto – decorata a sgusci e incisioni dorate. La daga dell’affresco, però, ha la lama diversamente lavorata e diverso è il fornimento, con pomo a disco ed elsa a bracci sporgenti e arcuati in alto: il riferimento all’arma veneta si limita quindi alla sagoma e alle dimensioni della lama. Stessa scena, univoca e immediatamente evocativa, è nella predella del Polittico di Pisa (1426) di Masaccio, oggi alla Gemäldegalerie der Staatlichen Museen a Berlino, nel San Giuliano che uccide i genitori (1401-1410) del Museo Nazionale di Stoccolma, di Spinello Aretino.

Ma una spada non fa Giuliano...

rappresentazione dell’episodio focale dell’uccisione dei genitori, come in un affresco del 1494, conservato nella Pinacoteca Civica di Assisi (vedi foto sulle due pagine). Qui, il santo assassino non impugna una spada, bensí una daga, arma di lunghezza intermedia fra il pugnale e la spada. Quella raffigurata potrebbe essere anche definita daga a cinquedea, con richiamo alla cinquedea, un’arma di lusso – tipica della fine del

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Purtroppo, in altri casi, i simboli raffigurati sono gli stessi attribuiti anche ad altri santi, come nell’affresco nella chiesa collegiata di S. Giuliano a Faleria, in provincia di Viterbo, o in quello nella chiesa di S. Giovanni a Rocca San Zenone, in comune di Terni: in entrambi, un giovane, con abiti signorili, munito di spada, ha con sé un falcone da caccia. Se per Faleria non ci sono dubbi, trattandosi della chiesa dedicata all’Ospitaliere, per Rocca San Zenone non possiamo essere certi che non si tratti di san Bavone da Gand, caratterizzato dagli stessi simboli. A favore di san Giuliano c’è la (relativa) vicinanza a Macerata, città della quale è patrono, ma la chiesa che ospita l’affresco è francescana e san Bavone, fiammingo come Giuliano, ha una storia molto simile a quella dell’Assisiate e la sua immagine sarebbe pienamente consona al luogo. Quando capita di trovarsi al cospetto di un giovane nobile, armato di spada e, a volte, di un falcone, non è detto, quindi, che si tratti sempre di san Giuliano.

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Lo scaffale Marina Montesano Ai margini del Medioevo Storia culturale dell’alterità Carocci Editore, Roma, 272 pp.

24,00 euro ISBN 9788829005017 www.carocci.it

Il Medioevo occidentale pensato come monolite a forte vocazione cristiana. La cultura stessa come cultura cristiana. Non sfugge a questo archetipo l’ultimo libro di Marina Montesano. Ma già il titolo, Ai margini del Medioevo. Storia culturale dell’alterità, aiuta a comprendere il senso di uno studio che, attraverso vicende elevate a emblema storiografico, fa menzione di frangenti meno noti, separati dall’idea di fondo di un mondo solido e unico. Risulta dunque di estremo interesse l’analisi di questi ambiti. Ma in che modo le alterità hanno dialogato con quel blocco

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compatto? Quanto lo hanno patito? E quanto poi, alla fine, le differenze hanno avuto cittadinanza in quello stesso impianto? Diversi sono gli esempi storici approfonditi dall’autrice, spazi in cui appare chiara la motivazione religiosa alla base delle esclusioni, non di rado violente, in senso fisico ma anche in un’idea di violenza che contemplava marginalizzazione (da qui il felice titolo del volume), messa al bando, rifiuto. E anche se l’approccio si faceva piú inclusivo e legato a un’idea di prossimità, magari sociale, ecco che la causa era la stessa: l’umile, il malato, il bisognoso era da condurre alla visione salvifica di Cristo. Dissidenti, eretici, quando non propriamente fedeli di altre religioni sono invece al centro del paradigma intransigente, con alcuni oggetti di studio (si pensi alle prediche e al ruolo di san Vincenzo Ferrer) dalla sicura seduzione per il lettore. Sono quelle che Montesano definisce storie di «liminalità religiose». Un cammino difficile, tra controllo

e repressione, ma anche tra sorprendenti prove di convivenza, che arriva a lambire l’età umanistica, per non finire certo nel lungo Medioevo. Un caso su tutti: le comunità etnolinguistiche Romaní, ultime ad arrivare in Europa (XV secolo), ultime anche nella percezione storiografica, in merito a queste storie di alterità e marginalità. Un modello caro alla docente medievista, su cui contribuisce a rendere giusta ragione in sede di ricerca. Marino Pagano

sua volta, passò alla storia proprio per aver compiuto un’analoga operazione con i grandi maestri dell’arte dei suoi tempi e di quelli che lo avevano preceduto. Un’attenzione particolare viene rivolta alla genesi delle due diverse edizioni delle Vite, che videro la luce nel 1550 e nel 1568, sottolineando, in particolare, i

Alessandro Ghisalberti, Antonio Tarzia (a cura di) Cassiodoro primo umanista

Barbara Agosti Giorgio Vasari Luoghi e tempi delle vite

Officina Libraria, Milano 211 pp., ill. col. e b/n

20,90 euro ISBN 978-88-3367-123-9 www.officinalibraria.net

Rivista e arricchita da una corposa bibliografia, questa nuova edizione del saggio di Barbara Agosti conduce il lettore in una sorta di viaggio ideale, sulle tracce di quelli realmente compiuti da Giorgio Vasari. Un’operazione che permette di delineare la vicenda biografica, ma non solo, dell’uomo che, a

apparato di tavole che testimoniano la significativa produzione dello stesso Vasari, pittore di talento, oltre che indefesso biografo. Stefano Mammini

introduzione di Franco Cardini, Editoriale Jaca Book, Milano, 205 pp., ill. col.

condizionamenti ai quali Vasari non seppe (o non volle) sottrarsi nella seconda stesura della sua opera monumentale, che risente della volontà di allinearsi ai valori del principato mediceo. Cedimenti che però non inficiano la straordinaria importanza dell’impresa vasariana, ribadita a chiare lettere anche dalla trattazione di Barbara Agosti. Corredata da un ricco

20,00 euro ISBN 978-88-16-41674-1 www.jacabook.it

Agli albori del Medioevo, Flavio Magno Aurelio Cassiodoro è stato uno dei massimi protagonisti della cultura e della politica: una preminenza sapientemente tratteggiata dai contributi riuniti in questo volume, dai quali emerge l’ingegno di una mente eccezionalmente poliedrica. S. M. luglio

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

Dall’isola del discanto MUSICA • Il gruppo Gothic Voices interpreta

una ricca selezione dei brani tramandati dall’Old Manuscript Hall, una preziosa raccolta del XV secolo e fa rivivere, con elegante maestria, le atmosfere della musica inglese del tempo

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ell’ambito del repertorio polifonico medievale, quello anglosassone ha conosciuto, tra il XIV e il XV secolo un’evoluzione che l’ha portato a distinguersi, stilisticamente parlando, dalla coeva produzione continentale. Grazie all’isolamento geografico, infatti, lo «stile inglese» è andato arricchendosi di interessanti stilemi, pur tenendo presente l’influenza della grande tradizione polifonica franco-fiamminga. La scelta di brani proposti dal gruppo Gothic Voices si incentra su uno dei manoscritti piú noti della tradizione musicale inglese, oggi conservato alla British Library: l’Old Hall Manuscript, denominazione derivante dall’antico proprietario del codice, il Saint Edmund’s College (Hertfordshire).

Riccamente miniato, il manoscritto fu redatto nella seconda metà degli anni Venti del XV secolo, e contiene una ricca silloge di 148 brani, rappresentativi della produzione anglosassone e con altre presenze illustri, provenienti dal repertorio francofiammingo. D’altronde, l’influenza francese è ben presente, come prova l’ampio uso del genere del mottetto isoritmico, caratterizzato dalla ripetizione di modelli ritmici nelle varie voci. A caratterizzare molti di questi brani è anche lo stile del discanto, tipico del repertorio inglese del periodo, a cui si aggiungono altri stilemi tra cui l’andamento parallelo delle voci per intervalli di terza e sesta, normalmente «vietati» dalla teoria musicale del tempo.

Autori illustri La produzione inglese è rappresentata da Thomas Byttering, John Dunstable, Thomas Dammet, John Cook, John Forest e, nella seconda parte dell’antologia, accompagnata da compositori franco-fiamminghi, come Jehann Picard, Gilles Binchois, Johannes Haucourt, Guillaume Dufay e Johannes de Lymburgia, tutti attivi tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento. Il repertorio dell’Old Manuscript Hall è principalmente liturgico e,

Echoes of an Old Hall Gothic Voices CKD 644, 1 CD www.outhere-music.com nello specifico, l’antologia offre un assaggio di brani tratti dal Proprium Missae (Gloria, Sanctus, Agnus Dei), intercalati da mottetti d’ispirazione mariana, in particolare le antifone Alma redemptoris mater, Ave regina caelorum, Regina caeli laetare. Le sole inclusioni su testi francesi sono Je demande ma bienvenue, Adieu mon amoureuse joye e Dueil angoisseux, che ripercorrono il tema dell’amore perduto e/o ritrovato, molto diffuso nella lirica del tempo. La combinazione di influenze musicali provenienti dal continente con gli elementi fortemente autoctoni della tradizione anglosassone fanno di questo repertorio un punto di sintesi di estremo interesse, che i quattro solisti del gruppo Gothic Voices valorizzano in maniera eccellente, anche in virtú della perfetta padronanza tecnica e dell’equilibrato amalgama delle voci. Franco Bruni luglio

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