Medioevo n. 292, Maggio 2021

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MEDIOEVO n. 292 MAGGIO 2021

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Mens. Anno 25 numero 292 Maggio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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SOMMARIO

Maggio 2021

ANTEPRIMA

UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Quando il poeta faceva lo scrivano di Federico Canaccini

MOSTRE La badessa, l’abate e un dipinto incantevole

di Mila Lavorini

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

CALEIDOSCOPIO

di Federico Canaccini

STORIE, UOMINI E SAPORI Quell’appetito da re di Sergio G. Grasso 106 LIBRI Lo Scaffale

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OLTRE LO SGUARDO/4 Il manto di Ruggero

Tutti i leoni del re

STORIE BATTAGLIE Rodi Le quaranta giornate di Rodi

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6

di Stefania Romani

MUSEI Il maestro che non sbagliava mai

5

di Furio Cappelli

62

a cura di Stefano Mammini

MUSICA Mondi a confronto di Franco Bruni

112

114

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26

26 PERSONAGGI

COSTUME E SOCIETÀ

Elisabetta Woodville

Una «strega» sul trono d’Inghilterra di Tommaso Indelli

38

38

IL TEMPO C’è un’era per ogni cosa di Alessandro Bedini

52

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Campania

Lo splendore di Sessa di Corrado Valente

96

Dossier

NON C’È VITA SENZ’ACQUA

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di Maurizio d’Arcano Grattoni


MEDIOEVO n. 292 MAGGIO 2021

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16/04/21 13:12

MEDIOEVO Anno XXV, n. 292 - maggio 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Maurizio d’Arcano Grattoni è docente di storia della produzione artigianale e della cultura materiale nel Medioevo presso l’Università degli studi di Udine. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Tommaso Indelli è assegnista di ricerca in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Mila Lavorini è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Corrado Valente è architetto. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e p. 31) e pp. 26, 32-33, 52/53, 56, 59, 66/67, 70, 75, 77, 79, 80/81, 82, 98, 99 (alto), 100/101 – Doc. red.: pp. 5, 27, 29, 30, 34, 40-41, 43, 44/45, 47, 62/63, 71 (alto), 72, 76/77 (basso), 78, 84-85, 86, 88-97 – Cortesia CLP Relazioni Pubbliche: pp. 6-7, 8 (basso), 9, 10 – Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda: p. 8 (alto) – Antonio Quattrone Fine Arts Photographer: pp. 11-14 – Bridgeman Images: pp. 38/39, 108 – Mondadori Portfolio: pp. 60, 107; Werner Forman Archive/Heritage Images: p. 48; su concessione di Historic England/ Heritage Images: p. 49; Album/Collection Cowen/ Kharbine-Tapabor: p. 50/51; AKG Images: pp. 54-55, 68 (destra), 69, 86/87, 108/109, 110; Erich Lessing/ Album: pp. 57, 64-65, 67, 68 (sinistra); Fine Art Images/ Heritage Images: pp. 72/73; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 81 – da: www.e-codices.unifr.ch: p. 71 (basso) – Giorgio Albertini: disegno alle pp. 82/83 – Cortesia dell’autore: pp. 100 (alto e centro), 102-105 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 106 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 28, 42, 99. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Rodi. Il maestoso ingresso al Palazzo del Gran Maestro.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Prossimamente 28 giugno 1119 La disfatta del «campo di sangue»

anno dantesco

Il sommo poeta in Maremma

medioevo nascosto

I Cistercensi alle porte di Treviso


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

Quando il poeta faceva lo scrivano

I

l 18 maggio 1311 Dante si trovava, in veste di «scrivano», nel castello di Poppi, ospite di Gherardesca, moglie di Guido da Battifolle. Dante era in Casentino, quale «exul inmeritus», ormai da qualche mese: il 31 marzo scrisse «agli scelleratissimi Fiorentini» e, il 17 aprile, inviò una lettera all’imperatore Enrico VII. Entrambe le epistole furono redatte «ai piedi delle sorgenti dell’Arno»: ci troviamo, quasi certamente, nel castello di Porciano, dominio dei Guidi. Dante aveva avuto modo di conoscere bene la nobile famiglia comitale, al punto da inviare una lettera di condoglianze a Oberto e Guido da Romena, nipoti del defunto conte Alessandro, ricordato nel canto XXX dell’Inferno. La memoria del poeta dovette certamente tornare al 1289, quando si era trovato a combattere nella battaglia di Campaldino. Il clima politico è però profondamente cambiato: Dante è esule, ma speranzoso. Confida nell’imminente discesa di Enrico VII, un re giusto che pieghi la superba Firenze e riporti la pace tra le fazioni, facendo finalmente rientrare gli esuli nelle loro città. In questo clima Dante si trova a stendere una o tre letterine per conto della contessa Gherardesca, indirizzanMiniatura raffigurante Enrico VII di Lussemburgo a Roma, dove, nel 1312, venne incoronato imperatore, dal Codex Balduineus, un manoscritto che dà conto della campagna italiana del sovrano, un intervento nel quale Dante Alighieri aveva riposto molte speranze. 1340 circa. Coblenza, Landeshauptarchiv.

dole alla moglie dell’imperatore, Margherita: una sola delle tre epistole è datata e riporta chiaramente come sia stata inviata «de castro Poppii, xv kalendas iunias» (18 maggio 1311). Dante fu richiesto dalla contessa in qualità di scrivano, per intrattenere una corrispondenza con l’imperatrice, le cui missive sono purtroppo andate perdute. Non era inusuale che intellettuali del suo calibro si prestassero per comporre epistole di cosí alto livello e non era neppure cosí insolito che nobildonne intrattenessero scambi epistolari col fine di creare (o mantenere) proficue relazioni diplomatiche. La vicenda di Enrico VII si dipanò rapidamente e tragicamente: dopo l’interminabile assedio di Brescia, si recò a Genova dove l’imperatrice morí di peste (14 dicembre). Il 6 marzo 1312 sbarcava a Porto Pisano per scendere a Roma, dove fu incoronato in Laterano (29 giugno). Dopo un inconcludente assedio contro Firenze, tornò a Roma e a Pisa, ormai colmo di sfiducia, cosí anche come Dante, che vedeva svanire la possibilità del proprio ritorno in patria. La delusione sarebbe stata completa quando, il 24 agosto, anche l’imperatore morí improvvisamente a Buonconvento.


ANTE PRIMA

La badessa, l’abate e un dipinto incantevole MOSTRE • La lunga

storia del complesso conventuale di S. Sisto, a Piacenza, è il tema di una ricca esposizione. Alla quale fa da prezioso coronamento il ritorno «virtuale» della Madonna Sistina di Raffaello, un tempo custodita (e ammirata) nel presbiterio della chiesa In alto la navata centrale della chiesa di S. Sisto, a Piacenza, facente parte del complesso monastico il cui primo nucleo sorse nella seconda metà del IX sec.

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a Madonna Sistina di Raffaello ritorna virtualmente a Piacenza, nel monastero di S. Sisto, il luogo per il quale l’opera fu commissionata all’artista urbinate dal pontefice Giulio II nel 1512. Il «rientro» è reso possibile da una mostra multimediale, con postazioni create ad hoc, che raccontano la storia del centro religioso: il percorso di visita parte dall’appartamento dell’abate, continua con la biblioteca e una sala dedicata alla Regola, per concludersi con le tappe alla chiesa e alla cripta. Il curatore della rassegna, Manuel Ferrari, ci accompagna alla scoperta delle vicende conventuali, attraverso installazioni e tesori d’arte e cultura: «La prima sezione – spiega – è allestita nell’alloggio dell’abate, che collega la chiesa al resto del complesso, attraverso una sorta di galleria affrescata in cui il superiore riceveva, aveva uno studiolo, dormiva. Qui viene maggio

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proiettata la storia dell’abbazia, voluta dall’imperatore carolingio Ludovico II, che fa due concessioni importanti per la città, dando il permesso di addossare altrettante chiese alle mura urbane. Il centro femminile di S. Sisto viene costruito fra l’852 e l’875 a nord-ovest di Piacenza, verso l’Europa e il cuore dell’impero, mentre il vescovo erige la cattedrale a sud-est, in direzione di Roma. Al cenobio, affidato ad Angilberga, moglie di Ludovico II, saranno aggregati possedimenti sopra e sotto il Po, per curare la manutenzione delle strutture in cui vivono circa trenta ragazze».

Una città fiorente Piacenza, che dopo il dominio longobardo e franco è in ripresa, vive un periodo dinamico: il traffico commerciale lungo il Po favorisce gli scambi con Milano, attorno alla città si consolida una rete di strutture di accoglienza legate allo sviluppo della via Francigena, mentre si rafforza il potere feudale del vescovo, che sarà

In alto il mausoleo della regina Margherita d’Austria, che fu una delle benefattrici del complesso di S. Sisto, preceduto da un crocifisso ligneo del XVII sec. A sinistra un’altra immagine della navata centrale di S. Sisto che oggi si mostra nelle forme conferitele nel Cinquecento, dopo la demolizione della chiesa medievale.

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ANTE PRIMA A sinistra Madonna Sistina, olio su tela di Raffaello. 1512-1513. Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister. In basso il presbiterio di S. Sisto, nel quale è conservata la copia della Madonna Sistina realizzata da Pier Antonio Avanzini nel 1754. disinvolta da papa Alessandro IV nel 1259. Saccheggiata dalle milizie di Gian Galeazzo Visconti nel 1313, la struttura entra nel 1424 a far parte della Congregazione di Santa Giustina di Padova, nata per riformare con nuovo impulso le abbazie già esistenti.

La ristrutturazione «San Sisto – continua Ferrari – viene cosí rinnovata sia sul piano spirituale che su quello artistico: «il monastero si dota di libri liturgici e, dal 1499, comincia la demolizione della chiesa medievale, per un’architettura progettata da un allievo del Bramante, Alessio Tramello, il quale, inizialmente, rispetta il perimetro del luogo di culto originario, per poi andare oltre, con un Rinascimento maturo che conta elementi innovativi, come il doppio transetto». Oltre al video con la storia della comunità benedettina, l’appartamento dell’abate accoglie un’altra installazione sorprendente: nell’anticamera della stanza da letto, uno studiolo ottagonale con in conflitto per tutto il Medioevo con la fondazione filo imperiale, oggetto di privilegi e dotazioni fino all’età comunale: se il vescovo controllerà l’apertura verso la via Emilia, il centro benedettino avrà una sfera di influenza a nord dell’abitato, in direzione di Milano. La gestione conventuale è però tormentata: Angilberga è badessa dall’882 all’889, ma la struttura rimane femminile fino al 1129, quando le monache, accusate di libertinaggio, vengono sostituite da una comunità maschile, a sua volta messa sotto inchiesta per un’amministrazione

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A sinistra particolare delle tarsie che ornano il magnifico coro ligneo di S. Sito, opera di Giampietro Pambianco da Colorno e Bartolomeo Spinelli da Busseto. In basso il Salterio di Angilberga, un prezioso codice pergamenaceo purpureo, donato a S. Sisto dalla regina, moglie di Ludovico II. IX sec. quattro nicchie, racconta il curatore «abbiamo collocato monitor con altrettanti personaggi legati alla storia del convento che dialogano fra loro da epoche diverse: sono Angilberga, l’abate Gandulfus del Millecento, stretto fra impero e vescovado con tendenza filopapale, l’architetto piacentino Tramello e la regina Margherita d’Austria, figlia di Carlo V e duchessa di Parma e Piacenza, che ha concesso molto a S. Sisto, tanto da esservi sepolta. Lo spettatore si trova cosí al centro di un dialogo surreale, con due regine, che hanno fatto grande l’istituzione, a distanza di seicento anni l’una dall’altra». La visita prosegue quindi con la biblioteca, che custodisce una copia del testamento di Angilberga e la copia digitale del suo salterio, tutto da sfogliare. Ferrari precisa che «il Salterio di Angilberga, codice pergamenaceo purpureo che la regina dona al complesso religioso,

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ANTE PRIMA

Un’immagine della cripta della chiesa. è qualcosa di unico, forse prodotto nel Nord Europa, nelle regioni settentrionali dell’impero. Rimarrà a Piacenza fino all’età napoleonica, perché per ingraziarsi il messo di Bonaparte, i monaci gli regalano il codice, che finisce a Parigi, dove un Piacentino lo intercetta in maniera fortuita nel 1820 e lo acquista per donarlo al suo Comune. Il touch screen offre l’opportunità di sfogliare il salterio, per ammirare miniature e altri particolari delle straordinarie pagine purpuree». Ma non è tutto, perché la biblioteca racconta anche di come i suoi codici preziosi siano dispersi nel mondo intero, fino a Los Angeles, mentre la sala a seguire ripercorre la vita monastica, a partire dalla Regola benedettina dell’Ora et labora, attraverso spezzoni di film dagli anni Cinquanta in poi, fra i quali non poteva mancare Il nome della rosa. Il visitatore entra cosí nella quotidianità di un cenobio, seguendo

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la suddivisione dei compiti fra i religiosi, come il lavoro nei campi, la cura del bestiame, dell’orto officinale, e la pratica liturgica, con le preghiere e le lodi che scandiscono la giornata dei confratelli.

Le traversie di un capolavoro Il percorso della rassegna conduce quindi a una sorta di corridoio pensile, dal quale l’abate vedeva l’interno della chiesa, per poi entrare in una saletta scrigno, con un altare a stucco sullo sfondo, che a sua volta custodisce una scala segreta collegata al luogo di culto. Da lí si scende nella cripta, che conserva una lapide con una data trecentesca, l’elemento piú antico che sopravvive della prima struttura. Qui i visitatori seguono le vicende avventurose della Madonna Sistina, originariamente collocata nel presbiterio disegnato da Tramello e ricostruito con la realtà aumentata dei visori VR. Il dipinto, ceduto nel 1754 ad Augusto III di Sassonia, con

tanto di trattativa puntualmente riproposta in mostra, una volta approdato a Dresda diventa meta di pellegrinaggio e incanta autori che vanno da Winckelmann a Goethe, Hegel, Schopenhauer, e poi Nietzsche, Freud, Tolstoj. Infine, si sale da una scala elicoidale per il coro, dove i visitatori si possono accomodare come i monaci, che per i vespri pregavano con lo sguardo fisso sulla Madonna di Raffaello. Il coro, iniziato nel 1514, conta tarsie ispirate all’armonia delle arti, con una qualità degna di un cantiere importante, connotato dalla sperimentazione. Stefania Romani DOVE E QUANDO

«La Madonna Sistina di Raffaello rivive a Piacenza» Piacenza, chiesa di S. Sisto fino al 31 ottobre Info tel. 349 8078276; e-mail: sistinapiacenza2020@gmail.com; www.piacenzapace.it maggio

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Il maestro che non sbagliava mai MUSEI • Il riallestimento dell’antico

Ospizio dei Domenicani, a Firenze, riunisce un eccezionale corpus di opere del Beato Angelico. Che, secondo Vasari, erano frutto della «volontà di Dio» I dipinti riprodotti sono opera del Beato Angelico e custoditi nella Sala dell’Ospizio nel Museo di San Marco, a Firenze. In alto una veduta d’insieme della rinnovata Sala dell’Ospizio. A destra Pala di San Pietro Martire (particolare). 1425.

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ANTE PRIMA

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el 1436, Cosimo il Vecchio ordinò a Michelozzo, suo architetto prediletto, di restaurare il complesso monastico di S. Marco, e ne affidò la gestione ai Domenicani Osservanti, i quali subentrarono cosí ai Benedettini Silvestrini, a distanza di due secoli dalla nascita del convento, fondato in una delle aree che, all’epoca, erano fuori dal tessuto urbano fiorentino. Tra gli ambiti che componevano la struttura, vi era l’Ospizio, nel quale potevano sostare ed essere curati i forestieri che vi giungevano, come testimonia il soggetto di una delle lunette affrescate proprio sopra l’ingresso della Foresteria, raffigurante Cristo pellegrino accolto da due Domenicani. All’inizio del Novecento, questa sezione, formata da vari locali, venne trasformata in un ambiente unitario, che diventò la sede di un museo monografico dedicato a fra Giovanni da Fiesole (1400 circa1455), beatificato e dichiarato patrono degli artisti nel 1984 da papa Giovanni Paolo II e meglio noto come Beato Angelico.

Un corpus eccezionale Adesso, dopo un lungo intervento di riordino, è possibile ammirare il nuovo allestimento dell’esposizione permanente che si qualifica come la raccolta «angelichiana» piú importante al mondo, con sedici capolavori che si susseguono in ordine parzialmente cronologico, ma armonicamente disposti, tenendo conto delle loro dimensioni, all’interno della sala; le tavole coprono un arco di tempo di ventotto anni, che si chiude nel 1453, anno al quale risalgono i quattro pannelli superstiti, articolati in trentacinque riquadri, con Storie di Cristo, realizzati per l’Armadio degli Argenti nella basilica della SS. Annunziata di Firenze. Tecnologicamente avanzata, l’illuminazione aiuta a meglio percepire l’alta qualità cromatica dalla raffinata resa e il tratto netto,

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In alto predella con l’Imposizione del nome al Battista. 1428-1430. A destra Giudizio Finale, dipinto per la chiesa del convento camaldolese di S. Maria degli Angeli a Firenze. 1425-1430.

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impreziosito dalla delicata stesura pittorica degli elaborati esibiti. Artista di mediazione fra tardo gotico e Rinascimento, ma anche d’avanguardia, il frate pittore pone l’uomo al centro dell’attenzione, contemplandone le azioni con serenità, senza mai tendere alla tragedia o alla mondanizzazione; il suo è un candido misticismo, delineato dalla purezza del disegno con cromie brillanti dai toni dorati. Intima religiosità e nitidezza formale, insieme a un uso sapiente della prospettiva e della luce sono peculiari a un artista che, come riporta Vasari «aveva per costume non ritoccare, né racconciar mai alcuna sua dipintura, ma In alto un’altra immagine del rinnovato allestimento della sala dedicata al Beato Angelico, nella quale sono riuniti sedici capolavori dell’artista.

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lasciarle sempre in quel modo che erano venute la prima volta, per creder (...) che cosí fusse la volontà di Dio». Il percorso espositivo inizia alla destra dell’entrata dalla parete che ospita la maestosa Deposizione dalla Croce, eseguita intorno al 1432 per la cappella di Palla Strozzi, nella chiesa fiorentina di S. Trinita. Dopo l’avvio dell’opera, che riguardò predella e cuspidi da parte di Lorenzo Monaco – figura fondamentale, con

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ANTE PRIMA Pala di San Pietro Martire. 1425.

Gherardo Starnina, nella formazione del Beato Angelico –, il trittico fu portato avanti e completato, variandone l’iniziale impostazione iconografica e stilistica. Infatti, sebbene sia stata mantenuta la tripartizione, con tre gruppi, si osserva un elemento pionieristico, che consiste nell’armonica unitarietà spaziale, grazie alla diagonale del corpo di Cristo, che continua nella figura genuflessa della Maddalena. Quest’ultima funge da raccordo all’interno della scena e spezza l’andamento verticale del dipinto, dato dalla scala. Intelletto e sentimento si fondono nella narrazione di un dramma dai toni moderati, con attenzione al dettaglio e note cromatiche primaverili, che danno vita a una splendida veduta paesaggistica. Il Beato Angelico fu capace di aggiornarsi alle novità di Masaccio, come si riscontra nel Polittico di San Pietro Martire o nel Giudizio Universale del 1425, dalla composizione piramidale, che riunifica lo schema mistico medievale della raffigurazione

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dell’evento in registri sovrapposti con una espansione semicircolare.

Come in un vero dialogo Nella collezione è, inoltre, presente la Pala di Annalena, riferibile al 1436 e considerata la prima Sacra Conversazione nella storia dell’arte: si dialoga su temi teologici e la presenza della Madonna in trono con il Bambino e i santi presenti (Pietro Martire, Cosma, Damiano, Marco, Francesco e Lorenzo) si scambiano gli sguardi, come in un vero dialogo, all’interno di uno spazio unico. Questo tema si ritrova nella Pala di San Marco, committenza medicea per decorare l’altare maggiore della chiesa omonima, di pochi anni piú tarda; la capacità dell’autore di adattare le opere allo sponsor e al contesto, qui, è ben evidenziata dalla funzione che Cosma e Damiano, protettori della famiglia Medici, svolgono. Hanno, infatti, il ruolo di astanti, atti a coinvolgere lo spettatore, introducendolo nella scena; uno dei due santi è di spalle, mentre l’altro guarda verso di noi. La disposizione delle figure

costituisce quasi una quinta architettonica, che ci guida verso il fulcro della rappresentazione. Tavole imponenti, ma anche lavori di dimensioni piú ridotte, come l’Imposizione del nome al Battista, predella di un polittico ricomposto pochi anni fa, dall’impostazione pienamente rinascimentale, oppure la Madonna della Stella, con l’uso del chiaroscuro per la volumetria delle forme: tabernacolo questo che, forse in origine, faceva parte di uno dei tre raffinati reliquiari commissionati per la chiesa di S. Maria Novella, qui conservati nella stessa teca. E, ancora, il Compianto sul Cristo Morto, pala pagata all’artista parzialmente in natura, con sessanta staia di grano e destinato alla compagnia di Santa Maria nella chiesa della Croce al Tempio, dove i condannati a morte trascorrevano le ultime ore prima dell’esecuzione. Insomma, un nucleo di immenso valore, che include anche l’unica grande committenza pubblica, pervenuta al Beato Angelico da un ambito civile e non religioso e che ne attesta il successo professionale raggiunto, negli anni Trenta del Quattrocento: i pannelli lignei che decorano il tabernacolo marmoreo dei Linaioli, manufatto a cui lavorò la bottega di Lorenzo Ghiberti e che spicca sulla parete di fondo a lato dell’uscita. Temporaneamente assente, perché in restauro presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, è la Pala di Bosco ai Frati, risalente al 1450, dopo il suo rientro dal soggiorno romano, la cui influenza è evidenziata proprio in questa sacra conversazione dal linguaggio aulico, quasi retorico che si riscontra in alcune citazioni figurative. Fra Giovanni fu un pittore estremamente prolifico; purtroppo, molti dipinti sono andati perduti o scomposti in varie parti, conservate in differenti musei del mondo. Mila Lavorini maggio

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ANTE PRIMA

Per un «New Deal» del turismo archeologico C

onoscere per capire e riorientare. In attesa che l’emergenza sanitaria possa dirsi superata e che il turismo torni protagonista del PIL italiano, gli atenei di Salerno (capofila), Milano Bicocca e Londra Middlesex – in collaborazione con la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, diretta da Ugo Picarelli – hanno messo a punto il progetto «Turismo Archeologico e Giovani-Insight e policy per un New Normal», i cui risultati saranno presentati in occasione della XXIII edizione della BMTA. Focus dell’indagine sono le nuove richieste di fruizione dei siti archeologici e un ruolo predominante all’interno del questionario è svolto dai social media. La ricerca nasce sotto la direzione della professoressa Maria Teresa Cuomo del Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche dell’Università degli Studi di Salerno. A lei il compito di stabilire scientificamente lungo quali direttrici potrà muoversi il turismo archeologico di domani. Professoressa Cuomo, un questionario per indagare su quali direttrici va costruita l’offerta del patrimonio artisticoculturale nazionale. Come è organizzato, a chi è indirizzato e quali obiettivi si pone? «Il progetto di ricerca promosso dal Macref – Laboratorio di Management dell’Ateneo salernitano –, si arricchisce del contributo scientifico del Centro di Ricerca Interuniversitario in Economia del Territorio

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Scolaresche al tempio di Nettuno, a Paestum.

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dell’Università degli Studi di MilanoBicocca e del Dipartimento di Marketing della Middlesex University di Londra. Teso a indagare e interpretare i nuovi comportamenti e le preferenze alternative cui la società ha dovuto uniformarsi per fronteggiare la pandemia, dimostra – dati alla mano per supportare il modello di ricerca – che coniugare business, cultura e patrimonio non solo è possibile, ma necessario, e che utili alleati risultano essere i social media e le connessioni virtuali da essi generate. Target dello studio i fruitori di domani dell’offerta culturale, ovvero Millennial e Generazione Z, intercettati grazie a una caratterizzazione sull’aspetto generazionale. La ricerca consentirà di definire strategie e attività piú puntuali a supporto del rilancio del turismo archeologico. Al momento la parte relativa al campione di controllo – giovani competenti che hanno una formazione in linea con il campo indagato – è chiusa. All’indagine generale hanno risposto piú di 600 giovani, ma l’obiettivo è di raggiungerne almeno un migliaio. Nel corso della strutturazione del questionario, abbiamo tenuto conto di alcuni aspetti fondativi delle nuove preferenze, privilegiando soprattutto la componente emotiva, il livello di identificazione del visitatore, chiedendoci e chiedendo quali fossero le aspettative future, le ragioni che possono spingere a raccomandare l’esperienza fatta e quelle che invece possono indurre lo stesso visitatore a reiterarla. L’assunto di base è che i social media possono divenire strategici alleati emozionali nel preparare il terreno a un “New Deal” del turismo archeologico. È un’occasione da non lasciarsi sfuggire anche per mettere a punto una rinnovata comunicazione del patrimonio del territorio, valorizzando esperienze di «fisicità aumentata» in grado di affascinare i nuovi target. I risultati verranno resi noti nel corso della edizione della BMTA calendarizzata per il prossimo autunno, ma quello che è già possibile svelare è che si consolida la tendenza di un turismo di prossimità anche in ragione dell’aspetto rassicurante, in termini di sicurezza personale, che un luogo geograficamente vicino assume. Il questionario si può compilare al seguente link: https://bit.ly/3kBKSrq». maggio

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

AVVISO AI LETTORI

Questa Agenda del Mese è stata redatta in vigenza delle disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.

Mostre PERUGIA RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi prorogata (data di chiusura in via di definizione)

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino

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del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neorinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.

it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria

TORINO SULLE TRACCE DI RAFFAELLO NELLE COLLEZIONI SABAUDE Musei Reali, Galleria Sabauda-Spazio Scoperte sospesa

A 500 anni dalla sua morte, anche i Musei Reali di Torino rendono omaggio a Raffaello con una mostra che, attraverso dipinti, incisioni e oggetti di arte decorativa, illustra la diffusione dei modelli derivati dalla sua opera dalla prima metà del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, in Piemonte e nelle raccolte dei Savoia. Il percorso presenta 33 opere e illustra l’arte di Raffaello attraverso lavori che derivano direttamente dai suoi modelli, sia mediante la pratica della copia, sia con la libera

reinterpretazione delle sue invenzioni. La prima parte del percorso è dedicata alle copie antiche della famosa Madonna d’Orléans, opera giovanile di Raffaello forse appartenuta al duca Carlo II di Savoia, oggi conservata presso il Museo Condé di Chantilly e replicata già nella prima metà del Cinquecento da alcuni dei principali artisti attivi in area piemontese. Deriva da un modello raffaellesco anche la Madonna della Tenda delle collezioni sabaude, restaurata con la collaborazione del Centro di Conservazione e Restauro La Venaria Reale e il sostegno di Intesa Sanpaolo. Ritenuta all’inizio dell’Ottocento opera autografa del maestro e venduta come tale nel 1828 al principe di Carignano Carlo Alberto, è stata poi attribuita a collaboratori come Perin del Vaga e Giovan Francesco Penni. Gli approfondimenti condotti in occasione della mostra propendono invece per una realizzazione intorno al 1530-1540 a Firenze, in una

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prestigiosa officina come quella di Andrea del Sarto. La seconda parte presenta una selezione di stampe di soggetto sacro, mitologico e allegorico, dove i modelli di Raffaello sono rivisitati con formidabile perizia tecnica e originale sensibilità chiaroscurale. L’itinerario si completa lungo il percorso di visita al primo piano della Galleria Sabauda, dove sono esposte opere di autori cinquecenteschi che si misurarono con Raffaello e con l’ideale di un’arte di insuperata perfezione. info www.museireali. beniculturali.it ROMA IL TEMPO DI CARAVAGGIO. CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE DI ROBERTO LONGHI Musei Capitolini, Sale espositive di Palazzo Caffarelli sospesa

Merisi, cosí da intenderlo come il primo pittore dell’età moderna. In mostra è esposto uno dei capolavori di Caravaggio, acquistato da Roberto Longhi alla fine degli anni Venti: il Ragazzo morso da un ramarro. Quattro tavolette di Lorenzo Lotto e due dipinti di Battista del Moro e Bartolomeo Passarotti aprono il percorso espositivo, con l’intento di rappresentare il clima artistico del manierismo lombardo e veneto in cui si è formato Caravaggio. Oltre al Ragazzo morso da un ramarro è in mostra il Ragazzo che monda un frutto, una copia antica da Caravaggio, che Longhi riteneva una «reliquia», tanto da esporla all’epocale rassegna di Palazzo Reale a Milano nel 1951. Seguono oltre quaranta dipinti degli artisti che per tutto il secolo XVII sono stati influenzati dalla sua rivoluzione figurativa. info e prenotazioni tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,0019,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 27 giugno

Lo storico dell’arte Roberto Longhi si dedicò allo studio del Caravaggio, all’epoca uno dei pittori «meno conosciuti dell’arte italiana», già a partire dalla tesi di laurea, discussa con Pietro Toesca, all’Università di Torino nel 1911. Una scelta pionieristica, che tuttavia dimostra come il giovane Longhi seppe da subito riconoscere la portata rivoluzionaria della pittura del

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Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze

tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it RAVENNA LE ARTI AL TEMPO DELL’ESILIO Chiesa di San Romualdo fino al 4 luglio

Secondo appuntamento del ciclo espositivo «Dante. Gli occhi e la mente», la mostra riunisce testimonianze emblematiche delle tappe dell’esilio dantesco, proponendo ciò che il poeta ebbe occasione di ammirare nel suo lungo peregrinare per l’Italia, opere la cui eco influenzò la sua Commedia, straordinario «poema per immagini». Ad aprire il percorso espositivo è l’effigie in bronzo dorato raffigurante Bonifacio VIII, cioè di colui che

condannò Dante all’esilio. L’ambiente di origine e formazione del poeta, Firenze, è quindi documentato da opere di Cimabue e di Giotto, che con ogni probabilità egli ebbe modo di ammirare. Negli anni successivi l’Alighieri, dopo essere stato costretto ad abbandonare anche Roma, soggiorna in diverse città, tra cui Arezzo, Verona, Padova, Bologna, Lucca e Pisa, in una fase di profonde mutazioni e novità nell’arte, che la mostra documenta attraverso dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie. Intorno al 1319, Dante giunge a Ravenna, mentre in città operavano Giovanni e Giuliano da Rimini, chiamato quest’ultimo a decorare la cappella a cornu epistulae della chiesa di S. Domenico, seguito anche da Pietro da Rimini, di cui la città conserva ancora oggi varie testimonianze. Ed è ai capolavori di questi due artisti che la mostra riserva ampio spazio nella sua sezione conclusiva, intervallandoli a testimonianze legate alla cultura figurativa veneziana, a documentare l’ultima impresa diplomatica svolta nella Serenissima dal


AGENDA DEL MESE poeta. Chiude il percorso la Madonna con Bambino che in origine proteggeva il modesto sarcofago dell’Alighieri e che, per questa occasione, torna per la prima volta a Ravenna, concessa in prestito dal Museo del Louvre, del quale è ora patrimonio. info www.mar.ra.it FORLÍ DANTE, LA VISIONE DELL’ARTE Musei San Domenico fino al 14 luglio

La mostra non vuol essere solo l’occasione per celebrare l’anniversario dantesco, ma, nel momento difficile che tutto il mondo vive, anche un simbolo di riscatto e di rinascita. A Forlí Dante trovò rifugio, lasciata Arezzo, nell’autunno del 1302, rimanendo per oltre un anno presso gli Ordelaffi, signori ghibellini della città. Per la mostra gli Uffizi hanno concesso in prestito alla città romagnola il ritratto dell’Alighieri e quello di Farinata degli Uberti di Andrea del Castagno, nonché un altro ritratto, dipinto da Cristofano dell’Altissimo per la serie commissionata da Cosimo I de’ Medici dedicata agli uomini illustri. Si possono inoltre ammirare la Cacciata dal Paradiso

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terrestre di Pontormo e un disegno di Michelangelo che ritrae un dannato nell’Inferno della Divina Commedia, oltre a una scelta di disegni di Federico Zuccari per l’edizione cinquentesca illustrata del testo. E poi i personaggi: un busto marmoreo di Virgilio, realizzato dallo scultore settecentesco Carlo Albacini, e una delle piú recenti acquisizioni degli Uffizi, la tela ottocentesca del protoromantico toscano

Nicola Monti intitolata Francesca da Rimini all’Inferno. A questa pregevole selezione si aggiungono le opere prestate da musei di tutto il mondo. «Dante, la visione dell’arte» intende dunque essere un momento di riflessione sulla figura del poeta, simbolo dell’Italia, e sul suo immenso lascito: in un rispecchiamento unico tra linguaggio dell’arte e figura letteraria. info tel. 0543 712.627-659; e-mail: biglietteria.musei@comune. forli.fc.it TORINO RITRATTI D’ORO E D’ARGENTO. RELIQUIARI MEDIEVALI IN PIEMONTE, VALLE D’AOSTA, SVIZZERA E SAVOIA Palazzo Madama, Sala Atelier fino al 12 luglio

La mostra presenta una galleria di busti reliquiario dal Duecento al primo Cinquecento, provenienti da tutte le diocesi del Piemonte e raffiguranti santi legati alle devozioni del territorio e alle titolazioni di determinate chiese locali, oltre ad alcuni esemplari dalla Svizzera e dall’Alta Savoia. Documentati già dall’XI secolo per contenere la reliquia del cranio di certi santi, i busti sono a tutti gli effetti dei ritratti in oreficeria, solitamente in rame o in argento dorato, spesso arricchiti da pietre preziose, vetri colorati e smalti. Una produzione specificatamente medievale, in cui convivono il gusto per il ritratto di tradizione classica – di qui la presenza di dettagli relativi all’acconciatura o all’abbigliamento – e le pratiche devozionali teorizzate da alcuni ecclesiastici e filosofi del XII secolo, secondo cui la contemplazione dell’immagine di un santo, realizzata con materiali preziosi, poteva condurre il fedele verso l’elevazione spirituale. I busti e le teste reliquiario si configurano quindi come opere di valenza doppia: sia opere d’arte sia ricettacolo delle reliquie dei

santi che rappresentano e in quanto tali oggetto della venerazione dei fedeli. Il Piemonte e l’area alpina contano un numero molto elevato di queste testimonianze per il periodo XII-XVI secolo, soprattutto in rapporto alle altre regioni d’Italia. La mostra vuole documentare questa ricchezza, anche stilistica, cercando di comprendere le ragioni del successo di questa tipologia nel nostro territorio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it RAVENNA INCLUSA EST FLAMMA. RAVENNA 1921: IL SECENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE Biblioteca Classense fino al 17 luglio

«Inclusa est flamma» è un percorso di documentazione storica che ha il suo nucleo centrale nelle celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate l’anno prima proprio in Classense alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce. Vengono esposti libri, manifesti, fotografie, dipinti, manoscritti e numerosi oggetti d’arte conferiti come omaggio a Dante e alla città «ultimo rifugio» del poeta. Ciascuno degli oggetti, testimonianze della storia «ufficiale», offre spunti per raccontare anche storie particolari, spesso sconosciute al grande pubblico e a volte sorprendenti. Il Secentenario del 1921 fu preceduto da altri momenti celebrativi di valenza nazionale, come per esempio le «Feste dantesche» del settembre 1908, organizzate dalla maggio

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RAVENNA DANTE NELL’ARTE DELL’OTTOCENTO. UN’ESPOSIZIONE DEGLI UFFIZI A RAVENNA Chiostri Francescani fino al 5 settembre

Società Dantesca Italiana, che riunirono a Ravenna rappresentanti di città e territori allora sotto la sovranità dell’impero asburgico. Fra i pezzi piú importanti riuniti per l’esposizione vi sono il modello in bronzo del monumento di Dante a Trento, realizzato da Cesare Zocchi nel 1896; Dante nella pineta e I funerali di Dante, opere del triestino Carlo Wostry (1865-1943) e i celebri sacchi donati da Gabriele D’Annunzio e decorati da Adolfo De Carolis col motto «Inclusa est flamma» («la fiamma è all’interno») che dà il titolo alla mostra. I sacchi in tela di juta, contenenti foglie di alloro in omaggio a Dante, furono trasportati in aereo a Ravenna da tre aviatori che avevano partecipato a famose imprese militari di D’Annunzio, come il volo su Vienna del 1918 o l’Impresa di Fiume. Il Vate stabilí un parallelo tra la fiamma che ardeva sulla tomba di Dante e la fiamma perenne che veniva custodita presso il santuario di Apollo a Delfi, considerato dagli antichi Greci il cuore vivo della loro civiltà. Una simbologia iniziatica che intendeva rappresentare Dante visto come profeta della Nazione oltre che padre della lingua italiana. info tel. 0544.482112; e-mail: informazioni@classense.ra.it; www.classense.ra.it

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Dante in esilio è un olio su tela di Annibale Gatti, pittore forlivese che si formò a Firenze, raggiungendo l’apice della sua carriera artistica nel momento in cui la città divenne la nuova capitale del Regno. Proveniente dagli Uffizi di Firenze, è un’opera notevole sotto il profilo artistico e fondamentale per valore simbolico. La sua presenza a Ravenna nasce, infatti, dal

progetto di stretta collaborazione pluriennale tra il Comune di Ravenna e le Gallerie degli Uffizi, definito con un protocollo ufficiale di intesa. Il documento prevede prestigiosi prestiti per la mostra «Dante. Gli occhi e la mente. Le Arti al tempo dell’esilio» e la concessione da parte degli Uffizi – in un deposito a lungo periodo – di un nucleo di opere ottocentesche dedicate alla figura di Dante Alighieri, da esporre a Ravenna come parte integrante del progetto Casa Dante. Inoltre ogni anno, in concomitanza con l’annuale cerimonia del dono dell’olio da

parte della città di Firenze, gli Uffizi presteranno alla città di Ravenna un’opera a tema dantesco. Rinnovando, cosí ancora una volta, il profondo legame tra Firenze, città natale del sommo poeta, e Ravenna, città che lo accolse e suo «ultimo rifugio». All’interno di questo accordo ha preso forma anche il progetto che ha portato all’esposizione della tela a tema dantesco di Annibale Gatti nei Chiostri Francescani. Nel dipinto il poeta è ritratto in un momento di intima riflessione, in compagnia del figlio, nella pineta di Classe, citata da Dante nel Purgatorio e luogo a lui caro. E la pineta classense rivive, in questa mostra, oltre che nel dipinto, anche in una selezione di fotografie storiche provenienti dal Fondo «Corrado Ricci» della Biblioteca Classense. info tel. 0544 482.477-356; e-mail: info@museocitta.ra.it; www.mar.ra.it FIRENZE ONOREVOLE E ANTICO CITTADINO DI FIRENZE. IL BARGELLO PER DANTE Museo Nazionale del Bargello fino all’8 agosto

Articolata in sei sezioni, la mostra riunisce oltre cinquanta tra manoscritti e opere d’arte provenienti da biblioteche, archivi e musei e presenta le tappe e i

protagonisti della ricostruzione postuma del rapporto tra Firenze, l’Alighieri e la sua opera, nel secondo quarto del Trecento. Si tratta di copisti, miniatori, commentatori, lettori, volgarizzatori, le cui vicende professionali e umane si intrecciano fittamente, restituendo l’immagine di una città che sembra trasformarsi in uno scriptorium diffuso, al centro del quale campeggia la Commedia, e in cui i libri circolano con abbondanza e prendono vita nuove soluzioni artistiche e codicologiche proprio in relazione al poema dantesco. Il Museo Nazionale del Bargello è la sede ideale per una mostra che ripercorre il complesso rapporto tra Dante e la sua città natale: nella Sala dell’Udienza dell’allora Palazzo del Podestà (oggi Salone di Donatello), il 10 marzo 1302, il sommo poeta venne condannato all’esilio definitivo; nell’attigua Cappella del Podestà, solo pochi anni piú tardi (entro il 1337), Giotto e i suoi allievi ritraevano il volto di Dante includendolo tra le schiere degli eletti nel Paradiso. Proprio attorno a questo ritratto, la prima effigie a noi nota del padre della lingua italiana, si delinea cosí quel processo di costruzione della memoria che permetterà a Firenze di riappropriarsi

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Palazzo della Fraternita dei Laici fino a dicembre

dell’opera e della figura dell’Alighieri. info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei.beniculturali. it

CLASSE (RAVENNA) CLASSE E RAVENNA AL TEMPO DI DANTE Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio, Parco Archeologico di Classe fino a settembre 2021 (dal 28 maggio)

Quale città incontra Dante quando arriva a Ravenna nel 1318? Il rapporto con il mare e con le vie d’acqua riveste ancora la stessa importanza che aveva durante l’epoca romana? Che cosa è cambiato e qual è la relazione con Classe? Qual è la città e quali sono i monumenti che Dante vede? Queste sono le domande alle quali intende rispondere la mostra documentaria allestita al Museo Classis Ravenna. All’epoca di Dante il centro abitato distava circa due miglia dalla costa, era delimitato a est dalla fitta fascia dei pineti, a nord dal fiume Montone, a sud dal Ronco e a ovest da terreni solo in parte bonificati; attraversata da una fitta rete di fiumicelli e canali limacciosi, la città viveva in una sorta di precario equilibrio fra acque dolci e acque marine. La pineta costituiva una vasta area boschiva che dal Reno arrivava fino a Cervia, correndo

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parallelamente alla costa adriatica. Alle case povere e per lo piú pedeplane, si affiancavano i rari palazzi signorili, quelli dei Traversari e dei Polentani. Le chiese sono numerosissime, per una popolazione di circa 10 000 abitanti. Ravenna, che aveva tratto profitto dall’attività edilizia in epoca romana, conservava un complesso, unico nel suo genere, di monumenti del V e VI secolo di cui non esisteva l’eguale in altra città. L’unicità, di cui godiamo tuttora, considerando la quasi totale scomparsa delle chiese erette in quei secoli a Costantinopoli, in Palestina e in Siria, era al tempo di Dante ancora piú significativa. La mostra si propone di ricostruire, anche attraverso una ricerca originale e mirata, monumenti e paesaggi di Ravenna e di Classe ai tempi di Dante. Oltre al recupero e alla interpretazione/sistemazione dei documenti disponibili, vengono proposte anche ricostruzioni complessive sia della città che di singoli monumenti, allo scopo di fornire un quadro generale della città e delle sue strutture urbanistiche e architettoniche ai tempi di Dante, con soluzioni fortemente evocative. info https://classisravenna.it/ AREZZO OMAGGIO AL SOMMO POETA. PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI

La mostra propone documenti d’archivio e testi a stampa che inseriscono a pieno titolo la città di Arezzo nell’itinerario delle vicende dantesche. Il percorso, volutamente circoscritto, ma scientificamente documentato, è organizzato nelle sale del prestigioso e antico palazzo di Fraternita (XIV-XV secolo). L’esposizione si apre con una sezione che, attraverso documenti notarili e autorevoli fonti, illustra il legame di Dante e della sua famiglia con Arezzo: il soggiorno del poeta tra il 1303 e il 1304 e la presenza del fratello Francesco in città per la stipula di un contratto. Nel nucleo centrale appare egemone il ruolo svolto in quegli anni dall’antica Fraternita dei Laici, che vive allora il passaggio da istituzione religiosa e assistenziale a organismo laico riconosciuto dal Comune. Sono quindi esposti

gli antichi Statuti, l’elenco dei confratelli iscritti, le riforme e i lasciti testamentari. È poi la volta dalle splendide edizioni a stampa della Commedia e volumi un tempo appartenuti alla stessa Fraternita che, riccamente illustrati, testimoniano dal XV al XVI secolo, l’enorme fortuna dell’opera dantesca. Tra queste, spicca la pregiata edizione della Commedia (1481), illustrata, secondo l’attribuzione di Giorgio Vasari, da Sandro Botticelli. L’esposizione si conclude con il ritratto a stampa di Dante proveniente dalla Collezione Bartolini ed eseguito da Angelo Volpini nel XIX secolo (stampa di Carlo Lasinio), icona e simbolo della mostra: l’immagine si distingue da altre effigi del poeta in virtú del cartiglio esplicativo, che ne ricorda la genesi da una maschera originale del poeta. info e-mail: info@ fraternitadeilaici.it; www. fraternitadeilaici.it; Fb: Fraternita dei Laici

Appuntamenti SIENA CONFERENZE DANTESCHE Accademia senese degli Intronati fino al 24 giugno

Continua il ciclo di conferenze organizzato dall’Accademia per celebrare il settimo centenario della morte di Dante Alighieri. Questi i prossimi appuntamenti: 7 maggio, Stefano Carrai, Il primo libro di Dante. Un’idea della Vita nova; 13 maggio, Natascia Tonelli, La biblioteca di Francesca. Dante, Inferno V; 20 maggio, Marcello Ciccuto, Un personaggio controverso della Commedia: Brunetto Latini; 27 maggio, Duccio Balestracci, L’immagine di

Siena nella Commedia; 9 giugno, Roberta Mucciarelli, La Pia; 17 giugno, don Enrico Grassini, Un teologo di nome Dante; 24 giugno, Marilena Caciorgna, Savia non fui. Dante e Sapia tra letteratura e arte. Le conferenze si tengono alle ore 17,30 ed è possibile assistervi sulla pagina Facebook dell’Accademia. I video delle conferenze verranno successivamente caricati sul canale Youtube «Accademia senese degli Intronati» e resteranno a disposizione del pubblico. info www.accademiaintronati.it; Fb: Accademia senese degli Intronati maggio

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

GUELFI E GHIBELLINI UNA RIVALITÀ CHE HA FATTO STORIA

GLI ARGOMENTI

• LE ORIGINI Nascita di un binomio • LE FAZIONI IN LOTTA Quasi come una peste • CITTÀ DIVISE L’Italia in fiamme • SIMBOLI Merli guelfi e merli ghibellini: un’invenzione moderna?

• STEMMI ED EMBLEMI Di santi, animali e altre storie • LE BATTAGLIE Montaperti, Benevento, Tagliacozzo, Colle Val d’Elsa, Guerra dei Vespri, Campaldino • DANTE Quando il poeta divenne il «Ghibellin fuggiasco»


P

erché si dice «guelfo» e «ghibellino»? E perché quel binomio continua a essere d’uso comune anche a distanza di molti secoli da quando fece la sua prima comparsa? Da questi interrogativi prende le mosse il nuovo Dossier di «Medioevo», che rilegge ed esamina uno dei fenomeni che piú hanno segnato la vita politica dell’età di Mezzo, in Italia innanzitutto, ma non solo. Una contrapposizione ideologica che non si limitò allo scontro dialettico, ma prese le forme di un vero e proprio conflitto, scandito da alcuni dei fatti di sangue piú cruenti della storia medievale. Un esito, quest’ultimo, che non

deve sorprendere, poiché quella che, all’inizio, poteva sembrare una rivalità fra le famiglie piú in vista di alcune fra le maggiori città italiane – Firenze su tutte – assunse ben presto i contorni di una vera e propria guerra fra i poteri forti del tempo: l’impero e la Chiesa. Non a caso, quindi, la lotta tra la fazione guelfa e quella ghibellina ha visto coinvolti tutti i personaggi di maggior spicco dell’epoca, compreso, fra gli altri, Dante Alighieri, che in piú d’una delle sue terzine evocò i fatti dei quali era stato testimone, nonché vittima. Un racconto avvincente, insomma, che degli eventi salienti offre chiavi di lettura inedite e affascinanti.

Miniatura raffigurante la battaglia di Tagliacozzo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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battaglie rodi

MAGGIO 1480

Le quaranta giornate di Rodi

di Federico Canaccini

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Da sempre contesa per via della sua posizione strategica, l’isola greca dell’Egeo fu a lungo sede dei Cavalieri Ospedalieri. Che, nel maggio del 1480, saranno chiamati a difenderla da un avversario insidioso e temibile 26

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ntorno al 1480 il principale avamposto cristiano contro l’avanzata ottomana nel Mar Egeo, era l’isola di Rodi, prospiciente la costa dell’attuale Turchia, da cui dista poche decine di chilometri. L’isola era stata occupata dai Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, detti anche Ospedalieri, dal 1309 quando, dopo la caduta di San Giovanni d’Acri, gli Ordini militari e la cristianità dovettero riorganizzarsi per fronteggiare l’avversario musulmano.

Già prima di quelle vicende, Rodi aveva vissuto una storia lunga e densa di avvenimenti. L’isola era entrata a far parte dei domini bizantini in seguito alla divisione dell’impero romano nel corso del IV secolo. Nel 654, era poi caduta in mano agli Arabi, ma, un secolo piú tardi, era stata riconquistata dall’imperatore bizantino, che la uní in modo permanente al Tema (provincia ordinata militarmente, n.d.r.) di Cibira. (segue a p. 31) maggio

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Nella pagina accanto Rodi. La Porta d’Amboise, uno degli accessi alla città medievale. I Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, detti poi Ospedalieri, sbarcarono sull’isola nel 1307 e, nel 1310, dopo averne completato l’acquisizione, ne fecero la propria sede. A destra miniatura raffigurante gli Ottomani di Mesih Pasha che danno l’assalto alle mura di Rodi, da un’edizione della Obsidionis Rhodiae urbis descriptio di Guillaume Caoursin, che fu tra i difensori dell’isola nel 1480. 1483-1484. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Gerusalemme Alessandria

L’ORDINE DEI CAVALIERI DI RODI E LE SUE SEDI PRINCIPALI

SINAI

Cairo

I Cavalieri di Rodi

Dall’aiuto ai malati alla difesa della cristianità

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Laodicea

RODI CIPRO

Tripoli

A seguito della creazione, nel 1099, del regno di Gerusalemme nacquero diversi Ordini cavallereschi: i Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone (meglio noti come Templari), i Cavalieri di Santa Maria (detti Teutonici), gli Ordini di San Lazzaro e di San Tommaso di Acri e i cosiddetti Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme. Quest’ultima organizzazione, nata già nel corso dell’XI secolo con una connotazione specificatamente ospedaliera, divenne un Ordine militare intorno al 1130, originariamente legato all’abbazia di S. Maria dei Latini. In seguito alla presa di Gerusalemme (1099), l’amministratore dell’ospedale, Gerardo, originario di Amalfi, decise di fondare un nosocomio piú grande e autonomo, con una propria Regola, composta sotto il successore di Gerardo, Raimondo di Puy. Questa Regola, risalente ai primi del XII secolo, ancora non prevedeva alcuna implicazione cavalleresca e militare ed era invece ispirata ai dettami della povertà evangelica. Gli Ospedalieri furono riconosciuti ufficialmente da papa Pasquale II nel 1113, come un Ordine religioso e caritatevole, nato al fine di aiutare i pellegrini di nazioni diverse, giunti nella Terra Santa. La svolta militare

Aleppo

giunse nel 1136, quando il re Folco di Gerusalemme affidò all’Ordine il controllo del castello di Beth Gibelin: dodici anni piú tardi si ha la prima menzione di un «cavaliere ospedaliere». Nel 1153 papa Eugenio III ratificò la loro Regola, mutuata da quella agostiniana. Verso il 1157 la trasformazione dell’Ordine da caritatevole a cavalleresco era ormai compiuta: il cronista arabo Ibn-al-Qualanisi, descrivendo la disfatta cristiana presso Banjas, poté distinguere le truppe dei Templari e quelle degli Ospedalieri, riconoscibili dall’abito nero con una grande croce bianca. Dopo la caduta di San Giovanni d’Acri, l’Ordine trasferí le proprie basi operative prima a Cipro e poi, dal 1310, a Rodi, assumendo il nome di «Cavalieri di Rodi». Quando nel 1312 l’Ordine dei Templari fu soppresso, gli Ospedalieri ne ereditarono i beni, conoscendo un periodo di grande fortuna ed espansione in tutta Europa. L’Ordine dei Cavalieri di Rodi dovette fronteggiare l’assedio di Solimano il Magnifico nel 1480, spostandosi a Malta, sede che venne loro donata dall’imperatore Carlo V nel 1530, assieme alle residenze presso Roma, peraltro ancora attive. maggio

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Nella pagina accanto cartina che mostra la diffusione dell’Ordine dei Cavalieri di Rodi, che, soprattutto all’indomani del suo riconoscimento ufficiale, vide le sue fila ingrossarsi considerevolmente, grazie all’arrivo di membri provenienti da tutta Europa e, parallelamente, creò sedi e rappresentanze in tutta la regione mediterranea. A sinistra un’altra miniatura tratta da un’edizione della Obsidionis Rhodiae urbis descriptio di Guillaume Caoursin raffigurante il Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi, Pierre d’Aubusson, che impartisce istruzioni per la difesa dell’isola dall’attacco degli Ottomani. 1483-1484. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Nella pagina accanto miniatura tratta da un’edizione della Obsidionis Rhodiae urbis descriptio di Guillaume Caoursin raffigurante l’isola al momento dello sbarco degli Ottomani. 1483-1484. Parigi, Bibliothèque nationale de France. 1. TORRE DEI MULINI Nota anche come Torre di Francia o di S. Angelo, prende uno dei suoi nomi dai mulini originariamente presenti sul molo naturale e raffigurati nell’illustrazione. 2. TORRE DI NAILLAC Abbattuta da un sisma, fu eretta al tempo di Philibert de Naillac, Gran Maestro dal 1396 al 1421. Aveva pianta quadrata e raggiungeva i 46 m d’altezza. 3. TORRE E FORTE DI S. NICOLA Fu costruita, tra il 1464 e il 1467, dal Gran Maestro Piero Raimondo Zacosta, e integrata da una fortezza dal Gran Maestro d’Aubusson. 4. COLLACHIUM Situato su una collina che scendeva al mare, il Collachium coincideva con la vecchia cittadella bizantina dell’isola e vi erano riuniti il palazzo del Gran Maestro (nella foto in alto, l’ingresso dell’edificio), la cattedrale conventuale di S. Giovanni, con un alto campanile a forma di torrione che serviva anche come punto di avvistamento, la loggia di S. Giovanni, l’Ospedale, gli Alberghi delle Lingue e le abitazioni dei cavalieri.

Al tempo delle crociate, Rodi si trasformò in una importante base marittima per la lotta antiturca e attrasse le compagnie veneziane, genovesi e pisane nei suoi fiorenti porti, interessate ai traffici commerciali con Bisanzio e con l’Oriente. Nel 1204, quando i crociati volsero le proprie attenzioni a Zara e a Costantinopoli, Rodi cadde sotto il dominio della famiglia greca dei Gavalas, rimanendo sotto il loro controllo sino al 1261, quando Michele VIII Paleologo la recuperò all’impero. Se sotto Michele VIII l’impero bizantino conobbe un periodo di enorme sviluppo culturale, altrettanto

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non si può dire per quanto concerne gli aspetti politici e sociali. Legati all’aristocrazia terriera, i Paleologi accelerarono la dissoluzione della compagine territoriale dell’impero, concedendo enormi immunità fiscali, che favorirono da un lato la nascita di vasti latifondi, dall’altro l’inesorabile decadimento dell’esercito imperiale, sostituito dalle inaffidabile (e costose) truppe mercenarie. Ai primi del Trecento alcuni Turchi avevano cercato di occupare una parte dell’isola e fu necessario l’intervento del genovese Vignolo de’ Vignoli, ammiraglio dell’imperatore Andronico II, e degli infaticabili Ospedalieri per respingere il loro tentativo. Iniziò allora un processo di fortificazione di Rodi e lo stanziamento permanente degli Ospedalieri che, come già ricordato, a partire dal 1310, fecero dell’isola la sede dell’Ordine, rimanendovi fino alla definitiva conquista ottomana, avvenuta nel 1522. L’isola principale e alcuni isolotti attorno a Rodi, erano stati fortificati con numerosi castelli e altri piccoli avamposti militari: di questi, almeno trenta erano mantenuti dagli Ospedalieri. Il porto principale della città era protetto dalle imponen-

ti mura di epoca bizantina, molto alte e con possenti torri a pianta quadrata. Nel corso dei secoli però, gran parte del circuito fu rinforzato e ingrossato, andando a raggiungere anche i 4 m di spessore. Sotto il Gran Maestro Pierre d’Aubusson (1423-1503), furono anche aggiunti i barbacani alle torri e nuovi tipi di feritoie per adeguarle alle innovazioni della tecnologia militare, prima fra tutte, naturalmente, l’artiglieria.

Conto alla rovescia

Nel 1479, dopo sedici anni di guerre ininterrotte, la Repubblica di Venezia aveva stipulato un trattato di pace con gli Ottomani: perdere un alleato come la Serenissima, che aveva anche costruito fortificazioni sull’isola, coincise con un conto alla rovescia per gli abitanti di Rodi, che attendevano da un momento all’altro l’invasione turca. Alla fine dello stesso anno gli Ottomani inviarono piccole spedizioni in avanscoperta e spie per verificare lo stato delle fortificazioni nemiche e prendere conoscenza dell’isola. Di contro, nella primavera del 1480, il Gran Maestro aveva intrapreso grandi iniziative per la difesa di Ro(segue a p. 35)

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battaglie rodi viaggio a rodi

Un’isola e i suoi castelli Rodi conserva numerose vestigia dell’età medievale, sia nella città portuale che nel resto dell’isola. Innanzitutto, il maestoso Palazzo dei Cavalieri e l’omonima via, decorata con stemmi dei Grandi Maestri, e affiancata da suggestivi palazzi in pietra risalenti al XIV e XV secolo, decorati con bifore. La città è tuttora circondata da un enorme fossato, dalle possenti mura, su cui si aprono grandi torri: il circuito è percorribile

a piedi e offre degli scorci inediti della città di Rodi. Lungo la costa, poi, si stagliano alcuni castelli edificati a protezione dell’isola. A est, si incontra il castello di Charaki, posto in cima a una leggera collina, che domina una vasta area che si perde, a sud, sino a Lindos. Qui, invece, sull’antica acropoli, venne edificata In alto la cittadella medievale di Rodi, dominata dalla mole poderosa del Palazzo del Gran Maestro. Sulle due pagine il castello di Charaki, sulla costa orientale dell’isola di Rodi.

una fortificazione, con mura e una chiesa, nonché alcuni annessi logistici. Sulla costa occidentale, spiccano invece i castelli di Kastelos e Monolithos: quest’ultimo fu edificato nella seconda metà del XV secolo dai Veneziani, e deve il suo nome («pietra isolata»), allo sperone inaccessibile su cui si ergeva.


In alto la corte interna del Palazzo del Gran Maestro.


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Un’altra miniatura tratta da un’edizione della Obsidionis Rhodiae urbis descriptio di Guillaume Caoursin raffigurante gli Ottomani che si accingono all’assedio dell’isola. 1483-1484. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

di, spogliando le campagne da frutti e granaglie, abbattendo chiese isolate che avrebbero potuto servire da rifugio per i Turchi e spostando la popolazione dell’isola all’interno del circuito murario cittadino. Dentro le mura era stata ammassata una gran quantità di viveri, tale da poter sostenere un assedio, a detta di un cronista, anche di ventiquattro mesi. La città di Rodi era difesa da circa 4000 uomini, di cui solo 600 erano Cavalieri Ospedalieri: i difensori erano ripartiti secondo le proprie città e regioni di provenienza (Veneziani, Genovesi, Francesi, ecc.) e a ciascuna «nazione» era stato assegnato un settore delle mura del porto, per un totale di otto settori. Il resto dell’esercito era costituito da mercenari di varia origine, come era ormai costume tra XIV e XV secolo.

Salpa la flotta

Ai primi di maggio del 1480 una flotta ottomana, composta da circa 130 vascelli, lasciò il porto di Gallipoli, sotto la guida di Mesih Pasha. Il condottiero turco sbarcò il 23 maggio, prendendo posizione sulle coste nord dell’isola e conquistando immediatamente l’acropoli della vecchia città greca di Rodos, su cui fece impiantare la principale base per l’assedio del porto. Il bombardamento iniziò concentrandosi sulla strategica torre di San Nicola, che dominava la baia del porto, alla fine di un molo che si prolungava nel mare antistante. Questo complesso fortificato fu bersagliato per dieci giorni da tre grandi cannoni, sistemati verso la parte settentrionale della città, che provocarono enormi danni alla porzione di mura rivolta verso nord. I difensori non si lasciarono

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intimidire: ripararono le sezioni distrutte e protessero il molo con una trincea che correva per tutta la sua lunghezza. Lungo la sezione presa d’assedio montarono inoltre una serie di cannoni di piccolo calibro, con i quali proteggevano il molo e le navi, infliggendo anche seri danni alle batterie di cannoni turchi. Gli Ottomani tentarono di attaccare la città via mare, ma ben due assalti anfibi furono respinti dai difensori. Nella notte del 18 giugno venne lanciato il secondo di questi assalti. Forti dell’oscurità, e complice probabilmente la luna nuova, gli uomini di Mesih Pasha costruirono un lungo ponte di barche, che univa la costa al molo, grazie al quale riuscirono a trasportare un buon numero di soldati. Ma la guarnigione di stanza nella torre di San Nicola riuscí a respingere questo tentativo, distruggendo il ponte, facendo affogare molti nemici e inabissare numerose macchine d’assedio, appiccando anche il fuoco ad alcuni vascelli che avevano partecipato all’azione. Mentre a nord gli Ottomani bersagliavano il molo, un contemporaneo assedio fu portato nel settore chiamato «Italia», corrispondente alla zona sud-orientale della città, presso il quale si sviluppava il quartiere ebraico. Il bombardamento si concentrò sulle mura, che qui avevano un notevole spessore, ma, verso la seconda metà di luglio, furono ridotte a un ammasso di macerie. Con un lancio ininterrotto di mortai, i Turchi bersagliarono i quartieri al di là delle mura, puntando le loro macchine con un tiro molto alto e causando danni significativi e molte vittime anche in città. Accanto ai cannoni e alle macchine da lancio, fecero la loro comparsa alcuni corpi di arcieri con frecce incendiarie che tirarono in modo indiscriminato contro le case, seminando il panico. Gli Ospedalieri avevano creato, in previsione di simili attacchi, corpi di «pompieri d’assal-

to», cosí da neutralizzare gli incendi che scoppiavano in continuazione a causa di queste frecce: la popolazione tutta era in fermento. Il comandante ottomano non aveva alcuna intenzione di cedere e ordinò che venissero scavate alcune trincee per avvicinarsi in modo progressivo al fossato e alle mura di Rodi: ma i cristiani respinsero questi attacchi utilizzando anche un gran numero di pietre tolte dalle mura, in cui avevano scavato gallerie, per lanciarle contro il nemico, distruggendo anche molti dei cannoni e delle macchine d’assedio.

Duelli corpo a corpo

Dopo ben 37 giorni di battaglia senza sosta davanti alle mura della città, che per ora non avevano portato né alla resa ma neppure a vantaggi considerevoli per gli assedianti, Mesih Pasha ordinò l’attacco finale: era il 27 luglio 1480. Al grido di «Allah akbar!» («Dio è grande!») una nutrita schiera di Turchi irregolari, rinforzata da numerosi Giannizzeri (cristiani fanatici, convertiti all’Islam), si riversò tra le macerie delle mura, ingaggiando un terribile corpo a corpo con i difensori. I Turchi che riuscirono a superare questo primo ostacolo, senza essere colpiti dagli spalti, si riversarono sulle mura esterne, dove però furono pesantemente attaccati sui fianchi dai cristiani, asserragliati nella seconda cinta. Il panico s’impadroní degli attaccanti e, nella disordinata fuga, il vessillo del sultano cadde in mano cristiana. Verso la fine di agosto Mesih Pasha dovette prendere atto della sconfitta e levare le tende: prima di salpare, però, devastò le vigne, gli oliveti e i campi che ancora rimanevano intatti sull’isola. Dei 40 000 uomini con cui era sbarcato, quasi un quarto aveva perso la vita in poco piú di quaranta giorni di assedio. La città di Rodi era salva e sarebbe rimasta cristiana fino a quando non fu presa da Solimano il Magnifico, nel 1522.

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personaggi elisabetta woodville La vicenda di Elisabetta Woodville si dipanò sullo sfondo, sanguinoso, della Guerra delle due Rose: figlia di un nobile di campagna e dotata di indiscutibile fascino, entrò a corte come sposa di Edoardo IV di York, suscitando ben presto il malumore del potente Riccardo Neville, detto il «Creatore di Re». Che pensò bene di ordire, nei confronti della donna, una pericolosa campagna denigratoria...

Una «strega» sul trono d’Inghilterra di Tommaso Indelli

E

lisabetta Woodville, consorte del re Edoardo IV di York, è una delle personalità piú affascinanti della storia dell’Inghilterra medievale, ma anche una delle meno indagate dalla storiografia medievistica. Nacque intorno al 1437, a Grafton Regis, un borgo del Northamptonshire, nell’Inghilterra centrale. Appartenente alla gentry – la piccola nobiltà di campagna –, Elisabetta era una dei quindici figli del nobile Riccardo Woodville – lord Rivers –, e di Giacometta di Lussemburgo, della nobile stirpe dei conti di SaintPaul, nella Francia nord-orientale. Giacometta aveva sposato in prime nozze il potentissimo Giovanni di Lancaster († 1435), duca di Bedford e zio paterno del re Enrico VI di Lancaster (1422-1471) e aveva servito a lungo come dama di corte della regina Margherita d’Angiò († 1482), consorte di Enrico. Nella prima fase del regno di Enrico VI, Bedford fu «reggente» per i possessi inglesi in terra di Francia – era in corso, allora, la Guerra dei Cent’anni (13371453; vedi «Medioevo» n. 265, febbraio 2019; anche on line su issuu.com) – e, proprio in virtú di questa carica, nel 1431, aveva presenziato al processo di Gio-

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Vetrata policroma che ritrae Elisabetta Woodville e il re Edoardo VI, opera forse realizzata dal pittore di vetri John Prudde. 1482. Canterbury, Cattedrale.

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personaggi elisabetta woodville LE CASATE DEI LANCASTER E DEGLI YORK

Edoardo III

(1327-1377)

sposa Filippa di Hainault Edoardo, il Principe Nero, sposa Giovanna di Kent

Lionello, duca di Clarence, sposa (1) Violante Visconti (2) Elisabetta de Burgh

Riccardo II

(1377-1399)

sposa (1) Anna di Boemia figlia dell’imperatore Carlo IV (2) Isabella di Francia, figlia di Carlo VI di Francia

Filippa sposa Edmondo Mortimer

A sinistra ritratto di Enrico IV. Olio su tavola, 1590-1620. Londra, National Portrait Gallery.

Ruggero Mortimer sposa Eleonora Holland

Enrico V (1413-1422) sposa Caterina di Francia, poi consorte di Owen Tudor, conte di Richmond

Tommaso, duca di Clarence

Enrico VI

(1422-1461 e 1470-1471)

sposa Margherita d’Angiò Edoardo

vanna d’Arco († 1431), contribuendo alla sua condanna al rogo. La famiglia di Elisabetta, quindi, fin dall’inizio della Guerra delle due Rose (vedi box a p. 46; e vedi anche «Medioevo» n. 224, febbraio 2015; on line su issuu.com), si schierò dalla parte dei Lancaster e contro gli York.

Amore a prima vista

Nel marzo-aprile del 1464, a tre anni dalla sua proclamazione a re, Edoardo IV di York (1442-1483) fece la conoscenza di Elisabetta Woodville. Molto probabilmente, i due si videro per la prima volta nel corso di una visita ufficiale del re nel Northamptonshire, nei domini dei Woodville. I due s’innamorarono subito – cosa rara a quel tempo, soprattutto tra nobili –, e, in maggio, decisero di sposarsi, forse proprio nella parrocchia rurale del borgo di Grafton Regis, dove Elisabetta era nata e che rientrava nei domini signorili dei Woodville. Elisabetta, tuttavia, era un po’ piú anziana di Edoardo, nonché vedova del primo marito Giovanni Grey, barone di Groby – partigiano dei Lancaster morto, nel febbraio del 1461, nella seconda battaglia di Saint Albans –, e dal quale aveva avuto due

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Nella pagina accanto, in basso Edoardo IV di York, secondo marito di Elisabetta Woodville, in un ritratto postumo, eseguito intorno al 1520, sulla base di un originale del 1470-1475.

figli, Tommaso († 1501) e Riccardo Grey († 1483). Con ogni probabilità, furono gli sposi stessi a volere un «matrimonio segreto», del quale, ancora oggi, non si conoscono con certezza il luogo esatto in cui fu celebrato, né il prete che officiò, né la presenza di eventuali testimoni. Tuttavia, all’epoca – e fino al XVI secolo –, il diritto canonico riconosceva la legittimità giuridica di un matrimonio del genere, purché vi fosse la libera volontà dei nubendi e senza la presenza di un sacerdote, dato che gli sposi stessi erano i «ministri» del sacramento nuziale. Forse, la segretezza delle nozze fu dovuta a ragioni di sicurezza – Elisabetta era stata una sostenitrice dei Lancaster! –, dato il contesto generale dell’Inghilterra dell’epoca, appena uscita da una guerra civile, ma non si può escludere che il matrimonio con una Lancaster fosse anche una mossa politica – ben calcolata da Edoardo IV –, per avviare un processo di pacificazione nazionale. Rese pubbliche le nozze nell’ottobre del 1464, seguí, nell’abbazia di Westminster, il 26 maggio del 1465, l’incoronazione ufficiale di Elisabetta. Nonostante l’amore tra gli sposi e la reciproca attrazione fisica – Elisabetta maggio

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A destra miniatura raffigurante le nozze tra Edoardo IV ed Elisabetta Woodville, da un’edizione delle Anciennes Chroniques d’Angleterre di Jean de Wavrin. 1480-1490. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Tommaso, duca di Gloucester

Edmondo, duca di York, sposa Isabella di Castiglia

Giovanni di Gand sposa (1) Bianca di Lancaster (2) Catherine Swynford Enrico IV

(1399-1413)

sposa Maria di Bohun

Giovanni Beaufort, conte di Somerset, sposa Margaret Holland

Giovanni, duca di Bedford

Humphrey, duca di Gloucester

Riccardo, conte di Cambridge, sposa Anna, figlia di Ruggero Mortimer

Edoardo duca di York

Riccardo, duca di York, sposa Cecily Neville

Giovanni, duca di Somerset, sposa Margaret Beauchamp Edoardo IV

(1461-1470 e 1471-1483)

Edmondo Tudor, conte di Richmond, sposa Margherita Beaufort

Al centro ritratto di Enrico VII, olio su tavola di anonimo olandese, 1505. Londra, National Portrait Gallery.

sposa Elisabetta Woodville

Enrico VII (1485-1509) sposa Elisabetta

Edoardo V (1483)

Riccardo III

(1483-1485)

Giorgio, duca di Clarence

Edmondo, conte di Rutland Riccardo, duca di York

diede a Edoardo ben dieci figli –, l’unione tra i due iniziò subito a causare malumori, soprattutto tra i cortigiani che sposavano le ragioni politiche di Riccardo Neville. Quest’ultimo, conte di Salisbury e di Warwick, era conosciuto anche come il «Creatore di Re» – Kingmaker –, perché era stato soprattutto merito della sua perizia militare e delle sue alleanze politiche se Edoardo IV aveva ottenuto la corona.

Le trame del «Creatore di Re»

Il Kingmaker pretendeva di controllare la vita sentimentale di Edoardo, anche in virtú dei suoi rapporti di parentela con la stirpe degli York, poiché era nipote della regina madre, Cecilia Neville († 1495), sorella di suo padre e, quindi, cugino di Edoardo IV. Neville, come molti a corte, detestava le umili origini della Woodville, che accusava di essere una parvenue, un’arrivista che, nella recente guerra civile, con tutta la sua famiglia, aveva sostenuto i Lancaster, salvo, poi, passare dalla parte degli York, dopo la loro vittoria. Probabilmente, il Kingmaker desiderava per

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personaggi elisabetta woodville Cartina che illustra la situazione politica della Gran Bretagna al tempo della Guerra delle due Rose e i principali eventi legati al conflitto.

SKYE

Calais, ultimo possedimento inglese in Francia dopo la sconfitta nella guerra dei Cent’anni (1453)

REGNO

Castelli dei Lancaster e loro vittorie C

MULL

DI

Castelli degli York e loro vittorie C

SCOZIA

Spedizione di Enrico VII di Tudor e sconfitta degli York (1485)

Edimburgo

Situazione territoriale nel 1450

ISLAY ARRAN

Durham Bamburgh Redesdale Tynedale Wark

Warkworth Newcastle upon Tyne

Hexham 1464

Principali aree d’influenza dei Lancaster (Rosa rossa) Principali aree d’influenza degli York (Rosa bianca) Domini del duca di Clarence

Lumley Ulster Terre della Corona controllate Carlisle Palatinato di Durham dai Lancaster Cumberland Raby Appleby Confini di Contea (Inghilterra e Galles) Skelton Richmond Westmorland Bolton Y k hi Masham Yorkshire MAN Middleham York Spofforth Lancaster Dundalk Cawood Towton 1461 Wressel Palatinato Wakefield 1460 di Lancaster Irlanda Conisborough Sandal Lincoln Tickhill Dublino Rhuddlan Beaumaris Derby Bolingbroke Conway Chester Newark Tattershall Newcastle under Lyme Belvoir Castle Rising Blore Heath Tutbury 1459 Leicester Norfolk Caister Marche del Galles Ludford Stokesay Bedford Kenilworth Bridge Wingfield Mortimers Palatinato Cardigan 1459 Warwick Suffolk Cross Northampton Framlingham di Pembroke Edgecote Tewkesbury 1461 1460 St. Davis 1469 Skenfrith Cambridge Kidwelly Abergavenny 1471 Milford Haven Oxford 1455 1461 Pleshey Caerphilly Usk Essex Pembroke Barnet 1471 Swansea Wallingford Ogmore Londra Windsor Wiltshire Cardiff Leeds Reigate Farnham Surrey Kent Dover Somerset re Sussex shi Salisbury p Tiverton m Calais Herstmonceux Ha Devon Dorset Steyning Pevensey Portchester Okehampton Carisbrooke REGNO Corfe Cornwall Compton

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FRANCIA 42

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Edoardo un matrimonio diverso, con una nobile d’alto lignaggio e appartenente alla nobiltà francese, e aveva già iniziato trattative in tal senso con Luigi XI di Valois (1461-1483), re di Francia, al fine di appianare i contrasti secolari tra i due Paesi. D’altro canto, Elisabetta Woodville non faceva nulla per allontanare da sé questa ostilità, anzi, profittò della sua posizione per accrescere il potere e la ricchezza della sua famiglia, facendo attribuire dal re, al padre Riccardo, il titolo di conte di Rivers e combinando matrimoni con i migliori partiti della nobiltà inglese, per i suoi fratelli e le sue sorelle. Per esempio, destarono molto scalpore le nozze – approvate anche dal re – tra Caterina Woodville († 1497) ed Enrico Stafford, duca di Buckingham, uno dei piú potenti baroni del regno, e il matrimonio di Giovanni Woodville con la duchessa di Norfolk, Caterina Neville († 1483). Nel 1468, ad accrescere l’astio di Neville contro Edoardo IV e la consorte contribuí il matrimonio della sorella del re, Margherita di York († 1503), col duca di Borgogna, Carlo il Temerario († 1477), temibile avversario di Luigi XI, con cui il Kingmaker voleva fare la pace. Le nozze furono caldeggiate dalla stessa Elisabetta, con il semplice scopo di minare il rapporto di fiducia tra Edoardo IV e Neville e mandarono in fumo i progetti di alleanza con la Francia di quest’ultimo, creando i presupposti per la ripresa della guerra civile in Inghilterra.

Discendente d’una fata

In questo contesto si inserisce la propaganda, ben orchestrata a corte, di Neville e dei suoi seguaci, volta a dipingere la regina come una «strega», autrice di malefici e dotata di poteri demoniaci – ereditati dalla madre, Giacometta di Lussemburgo –, con i quali annientare tutti suoi avversari. Le voci imbastite ad arte dal Kingmaker – che ebbero anche vasta diffusione tra il popolo –, miravano a screditare Elisabetta, facendone addirittura risalire le origini, attraverso la madre Giacometta, alla fata fluviale Melusina, la celebre «donna-serpente», celebrata nel romanzo di Jean d’Arras (XIV secolo) – Roman de Mélusine (o Histoire de Lusignan) –, come progenitrice dei Lusignano, nobile casato del Poitou. Simili maldicenze non furono però sufficienti a distruggere il rapporto della regina col re e, cosí, nel 1469, Riccardo Neville insorse contro Edoardo IV, appoggiato dal fratello di questi Giorgio, duca di Clarence, che detestava i Woodville e che, per l’occasione, sposò Isabella, primogenita del Kingmaker. L’insurrezione – volta a mettere sul trono il duca di Clarence –, fece risprofondare l’Inghilterra nel vortice della guerra civile e, per minare la legittimità di Edoardo IV, Neville diffuse ad arte la voce che fosse un «bastardo», frutto di una tresca tra la madre, Cecilia Neville, e un oscuro arciere del Kent, sir Blaybourne.

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Pagina miniata nella quale compare, in armatura, Richard Neville, conte di Warwick, il Kingmaker, nonché uno dei maggiori protagonisti della Guerra delle due Rose, dal Rous Roll, una cronaca redatta dallo storico e religioso John Rous. 1483-1485. Londra, British Library.

Nella fase iniziale del conflitto, Edoardo fu sconfitto a Edgecote Moor (luglio 1469) e rischiò di perdere il trono. In quella stessa battaglia furono catturati dal Kingmaker anche il padre della regina, Riccardo Woodville, e il fratello, Giovanni, che furono subito giustiziati a Kenilworth. Tuttavia, sconfitti dalle milizie yorkiste, Riccardo Neville e Giorgio di Clarence fuggirono in Francia, presso Margherita d’Angiò, con la quale – cambiando disinvoltamente casacca – decisero di allearsi, per estromettere Edoardo IV e rimettere sul trono Enrico VI di Lancaster, che languiva nella Torre di Londra. Al fine di consolidare i nuovi legami, Neville diede in sposa la

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personaggi elisabetta woodville secondogenita Anna al figlio di Enrico VI e Margherita, il principe del Galles Edoardo. Nel 1470, Warwick, con l’aiuto del re di Francia, sbarcò in Inghilterra e costrinse Edoardo IV a fuggire in Francia, mentre sul trono veniva posto Enrico VI di Lancaster. Ma Edoardo, riorganizzate le forze con l’aiuto del cognato, Carlo il Temerario, tornò in Inghilterra nella primavera del 1471 e, nelle battaglie di Barnet (14 aprile) e Tewkesbury (4 maggio), sconfisse e uccise Warwick ed Edoardo di Lancaster, fece prigioniera Margherita d’Angiò e, dopo aver cinto di nuovo la corona, fece uccidere Enrico VI di Lancaster. Eliminato il vecchio re, Edoardo di York poté iniziare la seconda fase del suo regno, assolutamente insignificante dal punto di vista politico, se si escludono alcuni accordi commerciali con le città anseatiche e, nel 1475, la ratifica del trattato di Picquigny con Luigi XI. Questo accordo pose fine alla guerra con la Francia, e Luigi XI riconobbe all’Inghilterra, in cambio di un indennizzo di 75 000 corone, il possesso perpetuo di Calais e ottenne la liberazione di Margherita d’Angiò, sua parente.

Miniatura raffigurante re Edoardo IV con Elisabetta Woodville e i figli che riceve in dono una traduzione dei Detti dei Filosofi. 1477 circa. Londra, Lambeth Palace Library.

Fratelli contro

Nel frattempo, nonostante la morte del Kingmaker, Elisabetta Woodville continuava a non avere vita facile a corte, soprattutto a causa del suo nuovo avversario, Giorgio di Clarence, marito della primogenita di Neville. Ma Giorgio congiurò di nuovo contro il fratello Edoardo IV e fu perciò condannato a morte nel 1478. Elisabetta, intanto, era rimasta orfana del padre e, nel 1472, anche della madre Giacometta, mentre a corte continuavano a diffondersi le voci che la dipingevano come una strega, alimentate da Anna Neville, figlia del Kingmaker e sposa di Riccardo, duca di Gloucester, un altro fratello di Edoardo IV che, fino a quel momento, non aveva mostrato particolare ostilità verso la cognata. Nel 1472, Anna aveva sposato Riccardo dopo la morte del primo marito, Edoardo di Lancaster, nella battaglia di Tewkesbury. Tuttavia, per ottenere l’assenso di Edoardo IV al secondo matrimonio, Anna aveva dovuto rinunciare, a favore della sorella Isabella e della sua discendenza, all’eredità paterna – le contee di Warwick e Salisbury –, e ciò, senza dubbio, aveva accresciuto il suo odio per Elisabetta, ai cui malefici imputava la morte della sorella Isabella, causata nel 1476 da una febbre puerperale. In quegli anni, oltre a difendersi dalle accuse della Neville, Elisabetta dovette tollerare le continue infedeltà del marito, il quale, soprattutto nell’ultima fase del suo regno, apparve sempre piú dedito ai piaceri della tavola e del sesso, non disdegnando di circondarsi di decine di figli illegittimi e amanti. Benché sostenuta dall’affetto dei figli, dei fratelli e delle sorelle, Elisabetta aveva dovuto anche rinunciare alla vicinanza dell’amato erede al tro(segue a p. 49)

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personaggi elisabetta woodville Due rose... con molte spine Quella «delle due Rose» fu una terribile guerra civile che sconvolse l’Inghilterra per circa trent’anni (1455-1485) e che vide contrapposti, per il possesso della corona, i duchi di Lancaster ai duchi di York. Entrambe le casate erano rami cadetti della stirpe reale dei Plantageneti che governava l’Inghilterra dal XII secolo. Tutto iniziò quando, nel 1399, con un colpo di Stato, fu deposto e, l’anno dopo, assassinato, re Riccardo II Plantageneto. Al suo posto, fu consacrato re il cugino, Enrico IV Bolingbroke, conte di Derby e duca di Hereford, figlio di Giovanni di Gand, duca di Lancaster e quartogenito di re Edoardo III Plantageneto. Morto Enrico IV, nel 1413, gli successe il figlio, Enrico V, uno dei piú grandi sovrani inglesi, che fu, soprattutto, un «re guerriero» e, infatti, riorganizzato l’esercito, ruppe la tregua con la Francia – con cui l’Inghilterra era in guerra dal 1337 –, e riprese il conflitto, ottenendo, nel 1415, una grande vittoria ad Azincourt, a cui seguí l’occupazione di Parigi e di tutta la Normandia. Nel 1420, vittorioso su tutti i fronti, Enrico V sottoscrisse la pace di Troyes con il re di Francia, Carlo VI il Folle, di cui sposò la figlia, Caterina di Valois, assumendo anche la reggenza del regno, date le condizioni mentali del sovrano francese. Nel 1422, morto Enrico V, la corona d’Inghilterra e quella di Francia passarono al figlio, Enrico VI di Lancaster, il quale non fu però in grado di fare tesoro dell’esperienza paterna. Infatti, sia per la giovane età, sia perché iniziò a dare segni di squilibrio mentale – forse aveva ereditato la follia del nonno materno –, Enrico fu quasi sempre soggetto a tutela. La prima fase del suo regno fu dominata dal conflitto tra il prozio, fratellastro di Enrico IV, Enrico Beaufort

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– cardinale, vescovo di Winchester e cancelliere del regno – e gli zii paterni, Humphrey, duca di Gloucester, e Giovanni, duca di Bedford. Giovanni di Bedford, fino alla sua morte, nel 1435, assunse la reggenza sul continente e il compito di continuare la guerra contro la Francia – che, nel frattempo, era ripresa –, mentre Humphrey di Gloucester assunse la reggenza in Inghilterra e, entrato in contrasto con Enrico Beaufort, fu accusato di tradimento e giustiziato nel 1447. La reggenza passò allora a Guglielmo de la Pole, duca di Suffolk, che fu assassinato in circostanze misteriose nel 1450. In quell’anno, i Francesi riconquistarono la Normandia e, nel 1453, l’Aquitania, espellendo definitivamente gli Inglesi – ai quali rimase soltanto la piazzaforte di Calais –, dal suolo francese. Intanto, le condizioni mentali di Enrico VI peggioravano e, nel 1453, fu nominato dal parlamento Lord Protettore del regno – una sorta di reggente – Riccardo, duca di York, uno dei piú temuti nobili inglesi e discendente, per parte di padre, dal ramo plantageneto degli York, che risaliva a Edmondo di Langley, duca di York, quintogenito di Edoardo III e, dunque, fratello di quel Giovanni di Gand da cui discendevano i Lancaster. Nel 1455, quando Riccardo fu esautorato e il titolo di Lord Protettore andò al suo avversario Edmondo Beaufort, duca di Somerset, scoppiò dunque la Guerra delle due Rose, cosí chiamata dai blasoni delle due casate – York e Lancaster – rispettivamente una Rosa bianca e una rossa. Privato della funzione di Lord Protettore, Riccardo di York mosse guerra a Edmondo Beaufort e alla fazione che lo spalleggiava, guidata da Margherita d’Angiò, moglie di Enrico

VI. Nel maggio del 1455, Edmondo fu ucciso nella prima battaglia di Saint Albans e Riccardo riebbe il titolo di Lord Protettore: la situazione politica sembrò aver trovato un equilibrio, ma, nel 1459, il conflitto tornò a divampare. Gli York vinsero a Blore Heath, ma, poco dopo, furono battuti a Ludford Bridge. Intanto, uno dei piú brillanti uomini d’arme del tempo, che a lungo aveva combattuto in Francia, Riccardo Neville, conte di Warwick e Salisbury, passò dalla parte degli York. Il 1460 fu un anno importante: con la battaglia di Northampton (luglio), Riccardo di York sconfisse i Lancaster e riuscí a farsi riconoscere erede al trono da Enrico VI, ma, alla fine dello stesso anno, fu sconfitto e ucciso a Wakefield (dicembre) assieme al figlio Edmondo conte di Rutland, e, cosí, Enrico VI riottenne il trono. Nel 1461, la fazione yorkista, guidata da Warwick e da Edoardo di York, conte di March, altro figlio di Riccardo, sconfisse i Lancaster a Mortimer’s Cross (febbraio) e prese Londra (marzo). Il 29 marzo dello stesso anno, i Lancaster furono duramente battuti a Towton e il loro partito si dissolse: Margherita d’Angiò fuggí in Francia, Enrico VI in Scozia, ma venne catturato nel 1465 e imprigionato nella Torre di Londra. Edoardo di York, cosí, fu incoronato (25 giugno 1461) e poté iniziare a governare, ma subito iniziarono dissensi riguardo alla sua politica.

Particolare di una tavola a colori degli inizi del Novecento in cui si immagina Enrico VI, con il suo seguito, alla battaglia di Barnet, che, combattuta nel 1471, fu uno degli scontri decisivi della Guerra delle due Rose. Collezione privata.

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personaggi elisabetta woodville margherita beaufort

Donna di potere e grande mecenate Margherita Beaufort, contessa di Richmond e Derby, era nata intorno al 1443 a Bletsoe Castle, nel Bedfordshire. Lady Margaret – come era chiamata –, aveva origini prestigiose, in quanto figlia di Giovanni (II) Beaufort, primo duca di Somerset e di Margherita Beauchamp. Lo zio paterno di Margherita era stato il «Lord Protettore» Edmondo Beaufort, morto nel 1455, nella battaglia di Saint Albans, mentre la zia paterna, Giovanna Beaufort, era stata la moglie del re di Scozia, Giacomo I Stuart. Il padre di Margherita – fratello di Edmondo e Giovanna –, era il figlio di Giovanni (I) Beaufort, conte di Somerset, fratello del piú celebre Enrico Beaufort, cardinale, cancelliere e vescovo di Winchester.

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A sua volta, Giovanni (I) Beaufort, era figlio del duca di Lancaster Giovanni di Gand, quartogenito di re Edoardo III. I Beaufort – il ramo dei Lancaster a cui apparteneva Margherita – discendevano da una relazione extraconiugale tra Giovanni di Gand e la dama di corte di origini fiamminghe Caterina Swynford – nata de Roet –, già moglie di lord Hugh Swynford. I figli naturali di Caterina Swynford e Giovanni di Gand furono legittimati da re Riccardo II Plantageneto, ma esclusi dalla successione al trono, e ottennero, in appannaggio, il castello di Beaufort, nell’Angiò, da cui prese poi nome la stirpe. Benché attratta dalla vita religiosa, nel 1455 Margherita sposò Edmondo Tudor, un fratellastro

di re Enrico VI di Lancaster. Il padre di Edmondo era un oscuro scudiero di origine gallese, Owen Tudor, il quale, alla morte di Enrico V di Lancaster, si sposò segretamente con la vedova, Caterina di Valois, generando Edmondo e suo fratello Jasper Tudor. Enrico VI, tuttavia, legittimò i fratellastri, ai quali concesse, rispettivamente, i titoli di conte di Richmond e di conte di Pembroke. Enrico Tudor – il figlio di Margherita Beaufort –, nacque nel 1457, poco dopo la morte del padre Edmondo, e fu allevato dallo zio Jasper che, assieme alla madre, gli istillò la ferrea convinzione di essere predestinato al trono, in virtú delle sue ascendenze Lancaster. Cresciuto nel Galles lontano dalla madre, Enrico, nel 1471, dopo la

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no – il principe del Galles Edoardo –, che il padre aveva inviato nel 1472 nel palazzo di Ludlow, al fine di completarne la formazione culturale e militare. In quella circostanza, però, Elisabetta era riuscita a fare in modo che Edoardo fosse affiancato, in qualità di tutore, dallo zio materno Antonio, il quale, dopo la morte del padre Riccardo, era diventato conte di Rivers e capo dei Woodville.

Caccia all’uomo

battaglia di Barnet e il trionfo definitivo degli York, fu costretto a trasferirsi con Jasper Tudor in Bretagna, ospite del duca Francesco II, e lí rimase fino al 1485. Margherita Beaufort, invece, fu costretta a risposarsi con lord Enrico Stafford, un convinto partigiano yorkista, da cui non ebbe figli. Morto Stafford nel 1471, Margherita contrasse nuove nozze con Tommaso Stanley, conte di Derby, il quale, benché formalmente fedele agli York, aveva simpatie lancasteriane. Infatti, nel 1485, nella battaglia di Bosworth Field, il suo intervento militare a favore di Enrico Tudor capovolse l’esito dello scontro. Margherita continuò a svolgere una funzione importantissima come «regina madre» e consigliera per tutto il regno di Enrico VII, fino alla sua morte, avvenuta nel 1509, nello stesso anno di quella del figlio. Lady Margaret fu protettrice di artisti e intellettuali e promosse la fondazione, in tutto il regno, di cattedre e collegi come il Christ’s College di Cambridge.

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In alto particolare della decorazione dell’ingresso al St. John’s College di Cambridge, con il ritratto di Margherita Beaufort, che avviò la realizzazione dell’istituto. Nella pagina accanto, in basso particolare del monumento funebre di Margherita Beaufort, opera di Pietro Torrigiano. 1511. Westminster, Abbazia.

Nell’aprile del 1483, alla morte di Edoardo IV di York, esplose una gravissima crisi politica che finí per travolgere la stessa Elisabetta. Benché il fratello di Edoardo IV – Riccardo, duca di Gloucester –, avesse ottenuto il titolo di Lord Protettore, cioè di reggente del giovane nipote ed erede al trono, Edoardo V, alla fine, decise di impossessarsi del regno. Incoraggiato dalla moglie Anna Neville e con il pretesto di un complotto ordito dai Woodville, Riccardo fece trasferire il giovane Edoardo e suo fratello, Riccardo di York, nella Torre di Londra, ufficialmente per garantirne l’incolumità. Intanto, il Lord Protettore scatenò una vera e propria «caccia all’uomo» contro i Woodville: furono eliminati Antonio, conte di Rivers, e Riccardo Grey, figlio di primo letto di Elisabetta. Quest’ultima venne privata dal cognato di ogni appannaggio e protezione, cosicché, al fine di garantire l’incolumità sua e degli altri figli, si rifugiò nell’abbazia di Westminster, usufruendo del diritto d’asilo di cui godevano allora i luoghi sacri. Riccardo, che ambiva al trono, si fece consacrare re nel giugno del 1483 e, poco dopo, decise di sopprimere i giovani principi York che languivano nella Torre di Londra, ordinando di far sparire i loro corpi. Il colpo di Stato fu avallato anche dal Parlamento sulla base del fatto – di cui Riccardo III esibí le prove – che i due principi erano illegittimi e, quindi, Edoardo V non avrebbe potuto essere re. Secondo quanto asserito da Riccardo, nel 1464, al momento delle nozze con Elisabetta Woodville, suo fratello Edoardo IV sarebbe stato già vincolato da una promessa di matrimonio – se non, addirittura, da un vero e proprio matrimonio –, con Eleonora Talbot († 1468), vedova di Tommaso Butler († 1461 circa), signore di Sudeley, e figlia di John Talbot († 1453), conte di Shrewsbury e valoroso capitano nella Guerra dei Cent’anni. Pertanto, per il diritto canonico, le seconde nozze di Edoardo IV non erano valide e, dunque, i figli nati dalle stesse «bastardi». Tuttavia, il regno di Riccardo III di York fu breve e già nel 1483 il re dovette reprimere la congiura del duca di Buckingham, sostenitore degli York e cognato della Woodville, che fu giustiziato. Inoltre, a rendergli piú difficile la vita contribuí proprio Elisabetta, che, raggiunto un accordo col cognato – nonostante fosse il probabile carnefice dei suoi figli –, aveva abbandonato Westminster e, dietro garanzia dell’incolumità propria e di quella del re-

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Un’altra immagine di una delle vetrate policrome della Cattedrale di Canterbury, in cui, oltre a Elisabetta Woodville (a sinistra), sono ritratte le figlie Elisabetta, Cecilia e Anna. 1482.

sto della sua famiglia, era rientrata a corte, dove continuò a tessere intrighi contro Riccardo, al fine di provocarne la caduta, incoraggiando la figlia Elisabetta († 1503) a intraprendere una liaison con lo zio, al fine di screditarlo. Nel 1484, Riccardo perse il primogenito – Edoardo, principe del Galles – e, l’anno successivo, la moglie Anna Neville: morti improvvise che corroborarono ulteriormente l’idea che vi fosse lo zampino della Woodville e delle sue pratiche malefiche. In ogni caso, il regno di Riccardo era, ormai, agli sgoccioli: Elisabetta giocava infatti su due tavoli e stava organizzando una cospirazione contro il cognato assieme a lady Margherita Beaufort che, fino ad allora, era vissuta all’ombra degli York.

La fine del conflitto

Il figlio di Margherita, Enrico Tudor (1457-1509), era imparentato con i Lancaster e fu subito fidanzato con la principessa Elisabetta di York, figlia di Edoardo IV e di Elisabetta Woodville (vedi box alle pp. 48-49). Proprio in virtú dei legami con la stirpe dei Lancaster, Enrico Tudor, che da anni viveva in esilio in Bretagna, sbarcò con circa 2000 uomini a Milford Haven, nel Galles, il 7 agosto del 1485, deciso a rivendicare il trono. Il 22 agosto, Riccardo III fu vinto e ucciso nella battaglia di Bosworth Field, nel Leicestershire, e, cosí, Enrico VII Tudor, dopo essere stato incoronato dall’arcivescovo di Canterbury, Tommaso Bourchier († 1486), poté iniziare il suo regno. Nel 1486, in virtú degli accordi siglati tra Margherita Beaufort ed Elisabetta Woodville, Enrico Tudor, fatte dichiarare legittime le nozze di Edoardo IV con la Woodville, sposò Elisabetta di York, che, poco dopo, fu incoronata regina. Il matrimonio sancí l’unione delle casate degli York e dei Lancaster e pose termine alla lunga stagione della guerra civile. Dopo l’ascesa al trono di Enrico VII Tudor, Elisabetta Woodville abbandonò la corte e si ritirò – o, probabilmente, fu costretta a ritirarsi –, nell’abbazia di Bermondsey, nel borgo londinese di Southwark, dove rimase in quasi totale isolamento fino alla morte, l’8 giugno del 1492. Fu sepolta accanto a Edoardo IV di York nella cappella di S. Giorgio, nel castello di Windsor.

Da leggere Vittorio Gabrieli, La storia d’Inghilterra nel teatro di Shakespeare, Bulzoni Editore, Roma 1995 Kenneth Bruce McFarlane, I re della casa di Lancaster, 1399-1461, in Zachary Nugent Brooke, Charles William Previté-Orton, Joseph Robson Tanner (a cura di), L’autunno del Medioevo e la nascita del mondo moderno, Storia del mondo medievale, vol. 7, Garzanti, Milano 1981 Kenneth O. Morgan, Storia dell’Inghilterra. Da Cesare ai nostri giorni, Bompiani, Milano 2001

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C’è un’era per ogni cosa di Alessandro Bedini

Controllare la posizione delle lancette di un orologio o leggere le cifre di un quadrante digitale sono operazioni per noi del tutto normali. Eppure, dietro questi piccoli gesti quotidiani, si nasconde una storia millenaria. Segnata dall’osservazione dei cicli naturali e da quello degli astri, ma anche da precise «scelte» simboliche e religiose

I

l tempo appartiene a Dio in quanto frammento dell’eternità da lui creata e mai come in epoca medievale tale concetto ha trovato riscontro nella vita quotidiana e nel succedersi delle stagioni: in una parola, nella percezione del suo scorrere. Le campane, le trombe e gli olifanti – come ci dice Jacques Le Goff – scandiscono il tempo liturgico, quello dei chierici, il tempo della guerra e quello dei contadini. Si può insomma affermare che ciascuno dei tre ordini in cui si articolavano le società dell’età di Mezzo – oratores, bellatores, laboratores – aveva le sue ore. Per i laboratores, in maggior parte agricoltori, il tempo era scandito dallo scorrere delle stagioni, dai periodi della semina e del raccolto, dal succedersi del giorno e della

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Particolare del quadrante dell’orologio astronomico collocato sulla Torre dell’Orologio di Padova (veduta d’insieme e descrizione alle pp. 58-59). 1437.


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costume e società notte. Per chi combatteva, il tempo era invece marcato dagli impegni militari a cui era chiamato. Quanto ai chierici, le ore liturgiche e le feste religiose costituivano la misura del tempo consacrato. Sant’Agostino è convinto che il tempo sia distensione dell’anima: tempus distensio animi, afferma, poiché, secondo lui, passato, presente e futuro non ne sono altro che le tre dimensioni; ma per l’uomo medievale si fa sempre piú urgente l’esigenza di poter misurare il tempo secondo calcoli e tramite strumenti piú avanzati, che permettano alle comunità cittadine di organizzare le proprie attività in base a necessità di natura culturale, economicosociale oltre che religiose. Nel periodo che siamo soliti definire Alto Medioevo, gli strumenti per misurare il tempo erano assai rudimentali: meridiane e clessidre a sabbia o ad acqua, con la difficoltà che, per esempio, le prime non funzionavano in assenza di sole. In Miniatura raffigurante la mietitura, scelta come allegoria del mese di Agosto, dal Queen Mary Psalter. 1310-1320. Londra, The British Library.

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La Regola benedettina

La giornata del monaco Secondo la Regola benedettina, queste erano le ore canoniche che scandivano i diversi momenti della giornata: il Mattutino, tra le 2,30 e le 3,00 della notte; le Laudi, tra le 5 e le 6 del mattino; la Prima, verso le 7,30; la Terza, verso le 9; la Sesta, ovvero mezzogiorno, che era anche l’ora del pasto, soprattutto in inverno; la Nona, tra le 2 e le 3 del pomeriggio; il Vespro, intorno alle 4,30 del pomeriggio, a cui seguiva la cena, che doveva essere consumata prima che scendessero le tenebre; Compieta, verso le 6 del pomeriggio, dopodiché, entro le 7, i monaci dovevano andare a dormire. realtà, i contadini, e i laboratores in genere, non davano molto peso alla misurazione del tempo. La giornata era divisa in 12 ore del giorno e 12 della notte, ma non aveva una eguale durata: essa variava a seconda delle stagioni, poiché in inverno le ore di luce erano piú brevi e in estate piú lunghe.

Nuove esigenze

A partire dal XIII secolo, con lo sviluppo urbano e il progressivo affermarsi dei mercanti e quindi con l’intensificarsi delle attività economiche e commerciali, si sentí il bisogno di regolare il corso della giornata, dan-

Nella pagina accanto Asciano (Siena), Chiostro Grande dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore. San Benedetto ottiene farina in abbondanza e ne ristora i monaci, affresco del ciclo che illustra la vita del santo, iniziato da Luca Signorelli e portato a termine nel 1505 dal Sodoma.

do alle ore una durata uniforme. Nacquero cosí i primi orologi meccanici, posizionati sulle torri delle città (vedi box a p. 58) e molto meno sui campanili delle chiese, a testimoniare che il tempo del mercante stava lentamente sostituendo quello della chiesa: il suono delle campane, che scandiva le ore canoniche veniva

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costume e società Dionigi il Piccolo

L’«inventore» di una data storica Dionigi, che si autodefiní il Piccolo in segno d’umiltà, era un monaco d’origine scita, ma che visse lungamente a Roma tra il V e il VI secolo. Grande erudito, oltre che per le numerose opere, Dionigi è ricordato per aver fissato la nascita di Cristo all’anno 753 dalla fondazione di Roma. È oggi opinione corrente che Dionigi abbia sbagliato di pochi anni, perché la data comunemente accettata per la morte di Erode il Grande, sotto il cui regno nacque Gesú, è il 4 a.C., che corrisponde al 749 dalla fondazione di Roma, e Cristo non può dunque essere nato prima. Si deve inoltre ai suoi calcoli se la festività della Pasqua cade tra il 22 marzo e il 25 aprile: dopo il primo giorno di luna piena che segue l’equinozio di primavera, la domenica successiva si festeggia la Pasqua di Resurrezione.

dalla divina commedia

I rimpianti del sommo poeta «Fiorenza, dentro della cerchia antica, ond’ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica». Questi versi del XV canto del Paradiso rappresentano un’epoca, una società e un modo di misurare il tempo: l’inizio e la fine di una giornata di lavoro. Dante Alighieri si riferisce a un’epoca passata, tra l’XI

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e il XII secolo, quando ancora le ore canoniche scandivano un tempo consacrato, e rimpiange l’antica campana della Badia, che con i suoi rintocchi richiamava i cittadini alle loro incombenze.

progressivamente rimpiazzato dai rintocchi dei primi orologi meccanici, per parafrasare ancora Jacques Le Goff. Orologi che, comunque, non possedevano una precisione soddisfacente, spesso si guastavano e la misura del tempo restava dunque incerta. Di conseguenza, l’uso di un calendario, con tutte le variabili che vedremo, divenne, a partire dal XIII secolo, uno strumento sempre piú indispensabile man mano che le città assumevano un ruolo di primo piano sotto il profilo sociale e civile. Ma come si computavano i giorni, i mesi e gli anni? E, soprattutto, tale calcolo era eguale in tutto il mondo allora conosciuto? Limitandoci all’ambito euromediterraneo, possiamo osservare che vi erano diversi sistemi per misurare maggio

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A sinistra placca in avorio raffigurante l’Adorazione dei Magi. Produzione bizantina, 500-550 d.C. Londra, The British Museum. Nella pagina accanto Firenze. Uno scorcio del Palazzo del Bargello, con la Torre Volognana in primo piano, e, in secondo, il campanile della Badia, al cui interno suonano le campane di cui Dante rimpiange i rintocchi nel XV canto del Paradiso.

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costume e società il tempo e anche i differenti calendari apparivano quindi disomogenei. Proprio nell’area mediterranea, le tre religioni monoteiste facevano iniziare quello che potremmo definire il tempo storico secondo computi differenti: gli Ebrei, in base a complicati calcoli basati sulla Bibbia, contavano gli anni dalla presunta data della Creazione: 3760 anni prima di Cristo. Inoltre, il Capodanno ebraico ha una data mobile, che di solito cade tra il 6 settembre e il 5 ottobre. Si parte dalla Pasqua ebraica per calcolare l’inizio del nuovo anno: 162 giorni dopo Pesach. I Romani contavano gli anni dalla fondazione della città, ab urbe condita, e da questo calcolo prese le mosse Dionigi il Piccolo (vedi box a p. 56, in alto), il quale, nel 532, propose di contare gli anni dalla nascita di Cristo dal 753, appunto, dalla fondazione di Roma. I musulmani, infine, contano gli anni dal 622 dell’era cristiana, l’anno dell’Egira, quando il profeta Maometto si trasferisce dalla Mecca a Yatrib, divenuta poi Medina. Il Capodanno, essendo quello islamico un calendario lunare, è variabile e cade tra i mesi di settembre e ottobre. Il primo mese dell’anno si chiama Muharram. È facile intuire come simili difformità creassero diversi problemi non solo sotto il profilo religioso, ma anche sociale e civile. Tuttavia, in epoca medievale, furono raggiunti compromessi tra le differenti comunità, per rendere meno difficoltosi gli scambi economici, la stesura dei documenti, i rapporti diplomatici tra i vari regni.

Calende, idi e none

Per il calcolo dei giorni all’interno di un mese, si faceva riferimento al calendario giuliano, promulgato da Giulio Cesare nel 46 a.C. e completato da Augusto, nel quale si stabiliva la durata dell’anno in 365 giorni e un quarto, introducendo inoltre l’anno bisestile. In questo modo, ogni quadriennio i quattro quarti

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formavano un giorno intero che veniva conteggiato; ma i 365 giorni e un quarto risultano piú lunghi dei 365,24 giorni dell’anno solare e si viene cosí a creare una discrepanza. La correzione di questa difformità avvenne solo nel 1582, quando fu introdotto il calendario gregoriano, che si basava sull’anno solare, promulgato da papa Gregorio XIII con la bolla Inter gravissimas. Il calendario giuliano dava un nome specifico a tre giorni di ogni mese: calende, al 1° giorno; none al 5° o al 7° per i mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre; idi al 13° o 15°, sempre secondo i mesi con le none al 7°. Gli altri giorni venivano indicati a partire regressivamente dalle calende, none e idi; per esempio, il terzo giorno prima delle calende di gennaio indicava il 30 dicembre; il quarto giorno prima delle none di agosto indicava il 2 agosto; il quinto giorno prima delle idi di settembre indicava il 9 settembre e cosí via. Talvolta però, soprattutto in Germania e in Francia, invece di utilizzare il calendario giuliano, ci si rifaceva a quello ecclesiastico, che faceva perno sulle principali festività religiose anziché ricorrere alla menzione dei mesi. A partire dall’ultima di tali festività si contava progressivamente fino al giorno che si voleva indicare. Per esempio:

Padova. La Torre dell’Orologio, che prende nome dall’orologio astronomico realizzato nel 1437 da Matteo Novello, Giovanni e Giampietro dalle Caldiere, replica fedele di quello del 1344, opera di Jacopo Dondi da Chioggia, andato distrutto.

il terzo giorno dopo il Corpus Domini, oppure il sesto giorno dopo Pentecoste. Dal momento che tali festività sono mobili, in quanto collegate alla Pasqua, s’intuisce quante difficoltà presentasse una simile datazione. In Italia tale sistema non era molto utilizzato, fatta eccezione per alcuni territori sotto il dominio degli Angioini, nel Meridione.

Quando inizia l’anno?

L’adozione dell’era volgare, o di Cristo, per il computo degli anni si sviluppò piú lentamente di quanto possiamo supporre e iniziò a essere utilizzata, soprattutto nei documenti imperiali, a partire dal IX secolo. Tuttavia, nel mondo mediterraneo erano in uso varie «ere», riferite, per cosí dire, al punto di partenza, ossia alla conta degli anni. Qui di seguito, dunque, ecco le caratteristiche delle ere principali, attestate tanto nella pars Orientis quanto nella pars Occidentis. L’era bizantina si rifà alla presunta data della creazione del mondo, che si credeva fosse avvenuta 5508

la torre dell’orologio a padova

Un simbolo dell’orgoglio cittadino Uno degli orologi pubblici piú antichi al mondo è l’astrario che si trova a Padova, posizionato sulla torre omonima, e domina la piazza dei Signori. Si tratta di un orologio meccanico astrale, realizzato nel 1344 da Jacopo Dondi da Chioggia, sul quale comparivano i segni zodiacali e che rimandava alle teorie astrologiche di Pietro d’Abano. A causa di conflitti tra la Repubblica di Venezia e la signoria padovana dei Carraresi, l’orologio di Dondi fu distrutto e, nel 1423, se ne costruí uno nuovo, opera degli orologiai Matteo Novello, Giovanni e Giampietro dalle Caldiere. La collocazione degli orologi sulle torri pubbliche non era solo un sistema di misura del tempo, ma anche opera d’arte e orgoglio della città. maggio

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costume e società

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Una clessidra a sabbia, particolare dell’Allegoria del Buon Governo, affresco realizzato da Ambrogio Lorenzetti, fra il 1338 e il 1339, nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena.

anni prima dell’era volgare. Veniva utilizzata in alcune zone dell’Italia meridionale, ma in particolare in tutto l’Oriente bizantino. L’inizio dell’anno era fissato al 1° settembre dell’anno precedente. L’era di Spagna aveva inizio con il 1°gennaio del 38 d.C., data dell’introduzione del calendario giuliano nel Paese. Ne veniva fatto uso, oltre che nella Penisola Iberica, in Africa e in alcune zone della Francia meridionale. L’era di Diocleziano, o dei martiri, si riferisce alla memoria dei martiri cristiani perseguitati da Diocleziano e ha inizio il 29 agosto del 284 d.C., data nella quale presero avvio le persecuzioni. Tale sistema fu presto sostituito dall’era volgare, sebbene ancora oggi faccia parte del calendario copto in uso in Egitto. L’era maomettana, o dell’Egira, inizia il 16 luglio del 622 d.C. e viene usata, oltre che in tutto il mondo musulmano, anche nei territori dell’Italia meridionale dominati dagli Arabi. L’era volgare, o di Cristo, è basata sulla determinazione della nascita di Gesú, che, come già ricordato, il monaco Dionigi il Piccolo, nel VI secolo, individuò nel 25 dicembre dell’anno 753 dalla fondazione di Roma. Seppur lentamente, tale sistema andò a sostituire l’era di Diocleziano, soprattutto per la compilazione delle tavole pasquali. Tuttavia, in piena coerenza con la concezione medievale della datazione, l’anno di Cristo non cominciava in genere il 1° gennaio, come nell’uso romano, ma nel giorno in cui si presupponeva avesse avuto inizio il regno di Cristo o della Grazia, e si poteva quindi scegliere tra il giorno della nascita del Salvatore o quello dell’Annunciazione, quando il Verbo si è fatto carne. Ne risultò che le date d’inizio

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anno seguirono percorsi diversi, denominati stili, che in Italia furono soprattuto tre. Lo stile della Natività, che fu il piú utilizzato nel Medioevo, anche al di fuori della Penisola, fissava l’inzio dell’anno al 25 dicembre ed era detto anche mos romanus, in quanto molto diffuso a Roma e usato per i documenti della cancelleria pontificia. Lo stile dell’Incarnazione fiorentina, che faceva iniziare l’anno il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, fu adottato a Firenze e in altre città della Toscana e rimase in vigore fino al 1749. Prima del XIII secolo venne usato anche in altre zone d’Italia e della Francia. Anche per lo stile dell’Incarnazione pisana il 25 marzo era il primo giorno dell’anno. Usato a Pisa e nei suoi territori, ebbe una diffusione molto limitata rispetto a quello fiorentino e rimase in uso fino al 1749.

A Venezia e Bisanzio

Abbiamo poi lo stile veneto, che stabiliva il Capodanno il 1° marzo, data che coincide con l’inizio dell’anno sacrale a Roma prima dell’adozione del calendario giuliano. Fu utilizzato nella Gallia e presso i Longobardi. La diffusione maggiore si ebbe in Russia e, naturalmente, nella Repubblica di Venezia, che lo utilizzò fino al 1749. Con lo stile bizantino, il Capodanno cadeva il 1° settembre, perché proprio in quella data sarebbe iniziata la creazione del mondo. Era diffuso nei territori dell’impero bizantino, mentre in Italia era limitato alla Puglia e a qualche zona della Calabria. Piú complesso è lo stile della Pasqua, o Mos Gallicanus, che faceva coincidere il Capodanno con il giorno di Pasqua, con tutte le difficoltà che ne derivavano, essendo la seconda una festa mobile. Ebbe grande diffusione in Borgogna e in Francia, nei Paesi Bassi e in alcune zone della Renania e della Svizzera. Quello ancora oggi in uso è lo stile moderno, o della circoncisione, con l’inizio dell’an-

no il 1° gennaio, festa della circoncisione di Gesú Cristo. Ha origini molto antiche, poiché corrispondeva all’inizio del calendario giuliano, ma nel Medioevo la sua applicazione fu pressoché nulla. Solo a partire dalla seconda metà del XV secolo prese a diffondersi in modo capillare. Si deve sottolineare come lo scorrere del tempo e la sua misurazione siano direttamente collegabili alle caratteristiche identitarie che le società medievali presentano: l’appartenenza religiosa, quella territoriale, le diverse attività economiche e commerciali, e anche l’immaginario collettivo. Tali specificità fecero sí che permanesse un buon grado di confusione sulle datazioni calendariali: giorni, mesi e anni non erano uguali ovunque. Montaigne, nel suo Voyage en Italie, siamo nel XVI secolo, osserva il disordine causato da questo tempo che muta in una città o nell’altra, da un paese all’altro, retaggio dei secoli di Mezzo. E Alessandro Manzoni, nel Fermo e Lucia, afferma: «Il tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano è vero di due difetti: d’esser troppo corto, e d’esser troppo lungo; di passare troppo tardamente, e d’essere passato troppo in fretta: ma la cagione primaria di questi inconvenienti è negli uomini stessi, e non nel tempo, il quale per sé è una gran bella cosa: ed è proprio un peccato che nissuno finora abbia saputo dire precisamente che cosa egli sia».

Da leggere Jacques Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino, 2000 Luigi Canetti, Tempo, lavoro e liturgia. Alle radici del calendario medievale, Parma 1999; distribuito on line da «Reti Medievali» Adriano Cappelli, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo, Hoepli, Milano, 2009

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oltre lo sguardo/4 Una coppia di fiere possenti campeggia sul sontuoso manto fatto confezionare a Palermo dal re normanno Ruggero II e per secoli indossato dai sovrani in occasione della loro incoronazione. L’immagine del «re della foresta» ricorre nell’arte d’ogni tempo: una presenza dal forte valore simbolico, perché il grande felino è scelto per evocare la potenza e la regalità, arrivando perfino a trasformarsi in un alter ego del Cristo

Tutti i

di Furio Cappelli

leoni del re T

ra le insegne che il re di Germania indossava quando era investito del titolo imperiale, c’era un manto istoriato che già nel XIV secolo si riteneva appartenuto a Carlo Magno in persona, e da lui trasmesso ai propri successori. Si trattava, in realtà, di un paramento realizzato a Palermo su volontà di Ruggero II, re normanno di Sicilia (1130-1154), alcuni anni dopo la sua incoronazione. Di grandi dimensioni (misura 3,45 x 1,46 m), il manto – per il quale furono impiegate materie prime di grande pregio e la cui fattura tradisce norevoli perizia tecnica e maestria – vede la dominanza del rosso, colore del porfido (marmo) e della porpora (tintura), materie-simbolo della maestà sovrana, direttamente connesse alla memoria della Roma imperiale. Nulla sappiamo su quali circostanze avessero in-

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dotto a intraprendere un lavoro tanto dispendioso e impegnativo. Un’iscrizione, in arabo e in caratteri cufici, posta lungo il bordo semicircolare, ci fornisce gli unici dati disponibili, all’inizio e alla fine di una lunga sequenza di concetti che esaltano l’impegno degli operatori e la qualità suprema del risultato raggiunto: «Lavoro eseguito nella fiorente officina reale, con felicità e onore, impegno e perfezione, possenza ed efficienza, gradimento e buona sorte, generosità e sublimità, gloria e bellezza, compimento di desideri e speranze, giorni e notti propizie, senza cessazione né rimozione, con onore e cura, vigilanza Sulle due pagine mantello per l’incoronazione in seta, ricamato in oro, perle e smalti e decorato con animali araldici, realizzato a Palermo su commissione di Ruggero II di Sicilia. 1133-1134. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Kaiserliche Schatzkammer. maggio

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«Siate temperanti e vegliate, perché il diavolo vostro avversario, come un leone che rugge, se ne va in giro cercando chi divorare». (I Lettera di San Pietro, 5:8)» e difesa, prosperità e integrità, trionfo e capacità, nella capitale di Sicilia, l’anno 528 [dell’Egira, che corrisponde al 1133-1134, n.d.a.]» (traduzione di Rotraud Bauer).

Un’evidenza portentosa

Di certo, il manto doveva esaltare la magnificenza del sovrano e questo aspetto emerge dalle figure che lo animano: un leone e un cammello, che si duplicano in modo simmetrico ai lati di un palmizio centrale, con un’evidenza portentosa. Il felino, feroce e ruggente, è colto nell’atto tipico dell’assalto alla preda, dopo un salto in corsa che gli ha consentito di avventarsi sul cammello; il mite ruminante, peraltro addomesticato (mostra infatti le briglie), è artigliato al collo e si accascia, completamente sottomesso. Nonostante la violenza della rappresentazione, i

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tessitori non hanno calcato la mano. Vista la grandezza delle figure e tenuto conto dell’accuratezza dei dettagli (si vedono persino i pori sui nasi di entrambi gli animali), spicca l’assenza di ferite, cosicché l’assalto si rivela come un atto di ostentazione, una messa in scena di pura superiorità, che non comporta la morte della preda. Ora, il leone è un antichissimo simbolo della maestà regale e il mondo euromediterraneo si riconnette in questo modo alla civiltà persiana. Basti pensare ai rilievi di Persepoli (una delle capitali dell’impero degli Achemenidi, i cui resti si trovano nell’odierno Iran, n.d.r.), nei quali ricorre la scena del leone che si avventa sul toro. Dal canto suo, il cammello ben si connette a una specifica realtà geografica (l’Africa (segue a p. 66)

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oltre lo sguardo/4 i viaggi del manto di re ruggero

Dalla Sicilia alle rive del Danubio Il manto di Ruggero si trova oggi a Vienna, nel Kunsthistorisches Museum, nella sezione dedicata alle insegne dei sovrani del Sacro Romano Impero (Kaiserliche Schatzkammer, ossia la Camera del Tesoro imperiale). Va detto subito che non si trova lí per effetto di trafugamenti o vicende di compravendita, ma proprio perché parte integrante di un corredo detenuto di diritto dai sovrani austriaci, e di seguito incamerato dalla Repubblica austriaca. Giunse oltralpe già nel XIII secolo, forse espressamente richiesto per le cerimonie di incoronazione da un erede legittimo di re Ruggero. Nel 1246, infatti, quando ancora era in vita Federico II, risulta situato a Trifels (Palatinato renano) nella disponibilità di suo figlio, il re di Germania Corrado IV (1237-1254), l’erede alla corona imperiale che scese in attrito con Manfredi per il trono di Sicilia. Suo

figlio, per giunta, è il ben noto Corradino di Svevia (1252-1268), lo sconfitto di Tagliacozzo, decapitato a Napoli su ordine di Carlo I d’Angiò. Con il tramonto degli Svevi, il manto si sciolse presto da ogni loro memoria, tanto da poter essere indossato da Carlo Magno nel famoso ritratto dedicatogli da Albrecht Dürer (1512). Le collocazioni del tesoro furono molteplici. In Aquisgrana si trova la Cappella Palatina voluta da Carlo in persona, e lí si sono per lungo tempo tenute le consacrazioni dei re di Germania, che assumevano contestualmente il titolo di re dei Romani in qualità di imperatori designati. Tuttavia, le insegne del tesoro non risultano sempre disponibili nell’occasione. Migravano infatti di castello in castello, ed era piú facile ammirarle durante apposite esposizioni al pubblico, dove acquisivano le virtú di spettacolari reliquie, come avvenne già a Basilea

nel 1315, nell’ambito di una solennità «minore», ossia il matrimonio del duca d’Austria Federico il Bello d’Asburgo (1309-1330), figlio dell’imperatore Alberto I (1303-1308). Nel 1361 l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo (1355-1378) dispose il trasferimento del tesoro a Norimberga, dove rimase in pianta stabile per ben 372 anni a partire dal 1424, su volontà di suo figlio Sigismondo (imperatore dal 1433 al 1437). Nel 1796, con l’avvicinarsi delle truppe napoleoniche, il tesoro fu condotto a Ratisbona, poi, nell’anno 1800, a Vienna. Nel 1805 la città cadde in mano ai Francesi, ma le insegne imperiali furono messe al riparo in varie località segrete, per poi riapparire in pubblico, proprio a Vienna, nel 1827. Frattanto, però, il Sacro Romano Impero aveva cessato di esistere, con un atto formale del 1806. Da quel momento il tesoro aveva perso ogni significato cerimoniale, per assumere cosí il senso di un puro cimelio storico giunto in eredità alla famiglia reale degli Asburgo. Vi mise poi le mani Adolf Hitler dopo l’Anschluss (l’annessione dell’Austria alla Germania, nel 1938, n.d.r.), che mise in atto un «rientro» delle sacre insegne a Norimberga, per giunta organizzandone una esposizione nella chiesa di S. Cristina (1938). Il recupero definitivo del tesoro si compí infine a Vienna nel 1946.

Sulle due pagine particolari del mantello di re Ruggero. A sinistra, la testa di uno dei leoni, sormontata dal motivo composto da due quadrati che formano un ottagono; nella pagina accanto, il palmizio ai lati del quale, simmetricamente, si ripete la scena del feroce felino che assale il mite cammello.

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oltre lo sguardo/4 Particolare di uno dei mosaici che ornano la Sala di Ruggero nel Palazzo Reale (o dei Normanni), a Palermo, nel quale ricorre il motivo dei felini affrontati – in questo caso leopardi – ai lati di un albero da frutto. L’opera viene datata al periodo di reggenza di Guglielmo I, vale a dire al 1170 circa.

settentrionale) ed etnica (gli Arabi e i Berberi musulmani, ossia coloro che dominavano la Sicilia prima dell’avvento dei Normanni).

Dall’Egitto dei Fatimidi

L’elemento della sottomissione si arricchisce in chiave prettamente culturale con il semplice fatto che proprio i tessitori impegnati nell’opera dovevano appartenere all’Islam. A quel mondo infatti, e in particolare agli stili e alle tecniche dell’Egitto dei Fatimidi (i fondatori sciiti della città del Cairo), si ricollegano sia il manto di Ruggero, sia le decorazioni pittoriche che lo stesso re fece eseguire nel soffitto a muqarnas (con una struttura «a stalattiti») della propria Cappella Palatina, nella residenza di Palermo. La lunga epigrafe

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di corredo esalta questo elemento islamico, facendo corpo con la sgargiante trama ornamentale dell’insieme. Il «messaggio» in tal senso è chiaro: le preziosità e lo sfarzo del mondo delle corti musulmane vengono messi al servizio del sovrano normanno. Questo aspetto doveva avere un significato concreto non solo nella celebrazione delle conquiste già compiute, ma nella prospettiva di quelle che si sarebbero dovute realizzare. Ruggero, infatti, non nascondeva la sua volontà di espandersi a danno di Bisanzio e dei domini islamici dell’Africa settentrionale, dove costituirà una testa di ponte a partire dall’occupazione dell’isola tunisina di Gerba (1135), senza con ciò compromettere le sue relazioni di amicizia con il sovrano del Cairo. D’altronde, già il conte Ruggero I maggio

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Sepolcri regali

Simmetrie e simbolismi Il tema del leone (o di un felino analogo) si ritrova in modo eloquente in altre realizzazioni promosse da re Ruggero. Due leopardi si trovano ai fianchi di un albero nei mosaici della Sala che dal sovrano prende nome, nel Palazzo Reale di Palermo (vedi foto qui accanto). In questo caso si tratta di presenze esotiche e favolose che si agganciano alle meraviglie dei parchi reali (i paridaiza persiani, da cui la parola «paradiso»). Ritroviamo poi quattro leoni in porfido che sottomettono altrettante figure (una capra e tre personaggi variamente caratterizzati) nella tomba adottata da Federico II nella cattedrale di Palermo. Si tratta di uno dei due

d’Altavilla, suo padre, aveva posto le premesse all’assoggettamento dell’isola di Malta (1090). Ma siamo certi che tutto si riduca a un semplice trionfo su una popolazione sottomessa? In realtà, nella sua complessità e nella sua accuratezza, il manto è un pegno di gloria che non si esaurisce nell’aderenza a situazioni specifiche, ma serve a creare una visione cosmica, nella quale il re deve necessariamente collocarsi, per avere certezze sull’avvenire. Proprio sulle teste del leone spiccano due borchie in oro, gemme e smalto, con una stella a forma di fiore stilizzato, che si iscrive in una figura geometrica densa di significati simbolici. Si tratta infatti di due quadrati che si combinano a formare un ottagono (vedi foto a p. 64): il quadrato rimanda alla terra, ai punti cardinali e ai fiumi del paradiso, mentre l’ot-

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sepolcri voluti da Ruggero per la Cattedrale di Cefalú, e che, rimasti inutilizzati, furono poi trasferiti nella capitale nel 1215, su disposizione del nipote. Disposti a sostegno della cassa, i felini sono duplici, a formare una simmetria che si ricollega alle figure del manto. Manca l’albero centrale, ma a questo alludono proprio le code dei leoni, che si in un viticcio. La presenza del leone e della preda in un sepolcro regale non solo ribadisce il valore araldico del felino come immagine del sovrano, ma conferisce un senso sacrale alla sottomissione, in risposta alle analoghe raffigurazioni presenti nei portali, nei troni e negli arredi liturgici delle chiese.

La tomba in porfido di Federico II di Svevia, sorretta da quattro leoni. Palermo, Cattedrale. Il monumento era stato voluto da Ruggero II e si trovava in origine nella Cattedrale di Cefalú.

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oltre lo sguardo/4

tagono è un simbolo di rigenerazione che ricorre spesso nell’architettura dei battisteri. Tornerà in auge, in una prospettiva tutta laica e imperiale, nel Castel del Monte di Federico II, nipote di Ruggero. Osservando gli animali in scena, possiamo inoltre rilevare che sono accomunati da foglie che si gemmano lungo i loro profili lavorati a perle, mentre racemi fioriti in rosso spiccano sui loro manti. Ed entrambe le figure sono punteggiate da piccoli clipei, a formare una stella o una rosa stilizzata, dando ancor piú un senso di arcano all’intera composizione. Queste decorazioni a forma di medaglione o di contrassegno circolare ricorrono con frequenza nell’oreficeria e nell’arte tessile di derivazione persiana, e vengono spesso ricondotte all’uso di marchiare gli animali destinati ai parchi di caccia dei sovrani. In realtà, interessano sin dall’origine anche talune figure umane e animali estranei alle scene tipiche del genere venatorio e proprio la forma circolare dei decori si ricollega piuttosto a una simbologia di tipo astrale.

Segni zodiacali?

Viene cosí da pensare a una possibile lettura del manto di Ruggero in chiave astrologica, come di recente suggerito dallo storico dell’arte Rotraud Bauer. Il leone potrebbe essere anche il simbolo della rispettiva costellazione? In una fonte araba, proprio il cammello è chiamato in causa in relazione al Leone dello Zodiaco. Il palmizio che si trova al centro della composizione

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allude d’altronde a un albero cosmico, l’Albero della Vita. Congiunge il cielo alla terra, e si dota nello specifico di sette rami, dove il 7, numero biblico, è appunto la somma del 3 (il cielo) e del 4 (la terra). I racemi fioriti che trapuntano il leone e il cammello sono il naturale «prolungamento» dell’albero centrale, e la stessa riproposizione speculare degli animali può descrivere l’apparente moto circolare degli astri. Il mantello dell’incoronazione di Enrico II il Santo (1014-1024), conservato a Bamberga, mostra dal canto suo una sgargiante immagine del Cielo, nella quale trovano spazio le costellazioni, il Sole, la Luna, Cristo, gli Apostoli e altri simboli religiosi e profani. Era quindi già diffusa nell’XI secolo una sensibilità iconografica per maggio

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In questa pagina e nella pagina accanto, a destra due immagini della cattedra dell’abate Elia, con due leoni a sostenere la predella e, sul retro, altri due felini che divorano altrettante figure umane. 1098-1105. Bari, basilica di S. Nicola. Nella pagina accanto, a sinistra il clipeo con l’immagine di Salomone nel mosaico pavimentale del Duomo di Otranto. 1163-1165. Nella rappresentazione del faldistorio (seggio) del re biblico, si riconoscono due leoni.

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oltre lo sguardo/4 Citazioni e iconografie

Una figura ambivalente Una qual certa ambivalenza del leone fu inevitabile e la sua accezione demoniaca poteva essere utilmente sfruttata in contesti ben determinati, per evocare la potenza del male. Una tarsia marmorea della facciata del Duomo di Pisa (oggi trasferita nel Museo dell’Opera del Duomo) mostra un fedele in balia di due unicorni che lo minacciano da ogni lato (vedi foto nella pagina accanto, in alto). L’epigrafe riporta una citazione perfettamente in tema: «Salvami, Signore, dalle fauci del leone e (...) dai corni degli unicorni» (Salmo 21, 22). Nei riti adottati per cacciare il demonio, le porte delle chiese avevano una funzione precisa nel percorso delle processioni. Nelle soste dedicate alla preghiera, il celebrante chiedeva a Dio che l’anima di chi si pentiva fosse al sicuro dall’assalto delle bestie feroci. E nella splendida Porta dei Leoni sul fianco del Duomo di Matera (vedi foto in questa pagina), proprio due fedeli in ginocchio – oggi poco leggibili – appaiono minacciati dai leoni. Una delle figure – come ha evidenziato lo storico dell’arte Marcello Angheben – sembra battersi il petto. Si tratterebbe di un penitente, che, grazie all’atto

In questa pagina una veduta d’insieme e un particolare della Porta dei Leoni del Duomo di Matera, in cui ciascun felino minaccia un fedele inginocchiato. XIII sec. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante Giacobbe nell’atto di benedire il figlio Giuda che si mostra come un giovane leone, dalla raccolta di manoscritti nota come Physiologus Bernensis. 830 circa. Berna, Burgerbibliothek.

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A destra tarsia marmorea mostra un fedele in balia di due unicorni che lo minacciano da ogni lato, dalla facciata del Duomo di Pisa. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

di contrizione, si salva dalla belva, oppure la belva, ammansita, protegge chi sa rinunciare al peccato. Il leone «serve» poi a dimostrare la potenza degli eroi biblici: Sansone, il servo di Dio, lo squarta come se fosse un capretto (Giudici, 14: 5-6). D’altro canto, proprio la potenza del felino è segno di vittoria. Come ha evidenziato Chiara Frugoni, Giuda, figlio di Giacobbe, è paragonato a un leone (Genesi, 49:9-10), e in una miniatura realizzata intorno all’830 è raffigurato sotto quelle sembianze, mentre il padre gli prospetta che saprà farsi valere, come fa il re degli animali sulle sue prede. La nobiltà del leone, peraltro, fa sí che lo si debba prediligere come carnefice. Se è destino che si debba finire tra le fauci di un animale malvagio, secondo il santo vescovo Cesario di Arles (470 circa-542) «è meglio essere vittima del leone che vittima del serpente». Il fatto è che il leone, anche se spietato, si limita a distruggere il corpo, mentre il serpente è rapido e lascia solo un segno sulla pelle con la sua puntura, ma con il veleno che inocula uccide anche l’anima.

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una lettura dei destini dell’uomo attraverso l’immagine del cosmo, proprio in un contesto di retorica imperiale, e in un’ottica che cominciava a travalicare una visione dell’universo in chiave prettamente religiosa. All’inizio del XII secolo, per giunta, nel palazzo della contessa di Blois (Centro-Valle della Loira) si poteva ammirare un soffitto affrescato con i pianeti e lo Zodiaco, mentre le pareti sottostanti erano adorne di arazzi.

A sostegno delle colonne

La regalità del leone trova una precisa consacrazione nella Bibbia. Due colonne di bronzo fuse da Hiram vengono poste dal re Salomone davanti al Tempio di Gerusalemme (Terzo libro dei Re, 7: 15-22). Ciò, naturalmente, non solo suggerisce, ma impone di adottare una coppia di leoni all’ingresso delle chiese, tante volte posti a sostenere le colonne di un baldacchino che inquadra il portale (protiro o pseudo-protiro, se sporge o se è aderente rispetto alla parete). Si parla in questi casi di leoni stilofori, proprio perché addetti al sostegno di colonne. La riflessione che ne scaturisce accetta senza problemi la ferocia indiscussa dell’animale, che pone cosí, nel giusto rilievo, il senso «terribile» dell’autorità religiosa, vicaria di Cristo in terra. Del resto, lo stesso trono di Salomone era dotato di due leoni (Primo libro dei Re, 10:18-20). Sebbene ridotti alle sole teste e alle sole zampe, agli estremi di uno schematico faldistorio (seggio), i felini sono ben riconoscibili nell’immagine del re biblico proposta in un clipeo del mosaico pavimentale del duomo di Otranto (1163-1165; vedi foto a p. 68, a sinistra), corredata dall’epigrafe che ricorda il vescovo committente Gionata (novello Salomone, per facile associazione tra testo e immagine). Sempre in Puglia, l’abate Elia († 1105) si paragona a Salomone nell’epigrafe della sua tomba, in S. Nicola di Bari, e la cattedra a lui intitolata, nello stesso santuario, si dota di leoni in una doppia modalità. Sul lato anteriore sostengono la predella, schiacciati dai piedi del presule che siede in cattedra. La seduta insiste a sua volta su un gruppo di telamoni e su due leoni retrostanti che

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oltre lo sguardo/4 variazioni sul tema

L’eletto e il dannato Nella basilica di Saint-Julien a Brioude (Alta Loira), lo scultore e fonditore Giraldus de Cornossa (attivo nella prima metà del XIII secolo) realizzò alcuni elementi bronzei di una porta, tra cui due protomi reggi-anello corredate da iscrizioni. Nella prima, si vede una scimmia e si legge: «L’ingannatore del mondo con parole attraenti cattura la gente». Sull’altra compare invece un leone, che parla in prima persona: «Nasco esanime (ma) un soffio della bocca (mi) dà la vita». Si tratta di un’antica leggenda, secondo la quale il leone nasce senza vita, ma poi si anima non appena il padre gli alita sulla faccia. Si precisava anche che tra il parto e la rinascita intercorressero tre giorni, il che rendeva il leone un simbolo di Cristo risorto. Le epigrafi del portale fanno cosí riferimento a

due modi diversi di comunicare attraverso la bocca: la scimmia, animale demoniaco, non fa che trarre in inganno; il leone, simbolo di Cristo, rinasce alla vita eterna. Le protomi reggi-anello realizzate dallo scultore e fonditore Giraldus de Cornossa per la basilica di Saint-Julien a Brioude (Alta Loira). Prima metà del XIII sec. In alto, la scimmia e, a sinistra, il leone che parla in prima persona: «Nasco esanime (ma) un soffio della bocca (mi) dà la vita».

divorano altrettante figure umane (vedi foto alle pp. 68, a destra, e 69). Nella prima accezione, il leone fa il paio con i mostri che vengono calpestati dal Signore. Nel gruppo, evocato dal Salmo 90 (13), rientrano il basilisco, il drago e l’aspide. L’orrida congrega si ritrova per esempio nella cattedra papale di S. Francesco in Assisi, disposta da papa Niccolò III (1277-1280). Piú complessa è invece l’interpretazione della scena truculenta che vede il leone

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alle prese con una vittima umana. Una scena del genere poteva avere una valenza positiva? Naturalmente, il fatto stesso che il leone si trovi subordinato all’autorità che siede in cattedra fa sí che questa eserciti un ascendente sulla belva. Non importa, a quel punto, se e quanto il leone sia demoniaco. È ben piú importante evidenziare che le sue azioni possono essere guidate dalla potenza della fede. Ciò significa che il leone può essere frenato, ma può essere anche lasciato a svolgere il suo ruolo di spietato cacciatore, purché, beninteso, si accanisca solo con chi merita di essere punito, tanto piú se la sua accezione di «giustiziere» viene assunta in un piano prettamente simbolico. Il leone che sbrana il peccatore è anche – e soprattutto – una chiara premonizione dell’inferno e il felino diviene cosí un terribile simbolo della giustizia divina (Deuteronomio 33: 20-21). Come ricorda san Girolamo, d’altronde, Cristo in persona è «dolce con i buoni e terribile con i malvagi», e non manca chi lo paragona proprio a un leone. maggio

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La visita della regina di Saba al re Salomone, olio su tela di Edward John Poynter. 1890. Sydney, Art Gallery of New South Wales. Si noti la presenza quasi ossessiva delle statue di leone.

Nel suo duplice ruolo di uomo di Dio e di governante, il re sacerdote Salomone esercitava la giustizia in nome del Signore, e per questa prerogativa fungeva ancor piú da modello per i prelati e i pontefici del Medioevo. Per papa Gregorio Magno (590 circa-604), i leoni che decoravano il Tempio di Gerusalemme dovevano incutere terrore agli empi, ai malvagi e ai peccatori in genere, proprio perché dovevano dare immagine e forza a un concetto di severità. E il trono di Salomone costituiva un’immagine talmente proverbiale che molti dignitari ecclesiastici tenevano udienza di fronte ai portali delle chiese, in mezzo ai leoni (inter leones), come è attestato in Svizzera fino al XV secolo. Bastava la presenza dei felini a dare la giusta cornice all’udienza. D’altra parte, a Bari, fuori da un

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Da leggere Olivier Beigbeder, Lessico dei simboli medievali, Jaca Book, Milano 1989; pp. 173-190 Marcello Angheben, Les animaux stylophores des églises romanes apuliennes. Étude iconographyque, in Arte Medievale, 2002; anche on line su Academia.edu Maria Andaloro (a cura di), Nobiles officinae. Perle, filigrane e trame di seta dal Palazzo Reale di Palermo, Giuseppe Maimone Editore, Catania 2006 Chiara Frugoni, Uomini e animali nel Medioevo. Storie fantastiche e feroci, il Mulino, Bologna 2018

contesto religioso, una corte di giustizia si riuniva nei pressi di una colonna sormontata da un leone.

NEL PROSSIMO NUMERO ● «L’ascesa al cielo di Alessandro Magno»

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Viaggio nelle antiche

CITTÀ DEL TUFO pitigliano • sorano • sovana • vitozza

Nel lembo di Toscana che confina con il Lazio si conserva un patrimonio unico e spettacolare: sono le Città del Tufo, un nucleo di centri accomunati dall’aver vissuto la propria storia in una costante e felice simbiosi con la pietra che è il nocciolo e l’anima di questa terra, il tufo, appunto. Le vicende di ciascuno di questi insediamenti – Pitigliano, Sovana, Sorano, Vitozza – attraversano i secoli e le testimonianze di questo passato sono oggi mete ricche di fascino. Capillare fu la presenza degli Etruschi, che nella pietra seppero scavare e scolpire monumenti imponenti, dalle «vie cave», che si snodano come canyon tra un sito e l’altro, alle tombe rupestri, decorate da eleganti sculture e maestosi elementi architettonici. E dopo la lunga e importante fase della romanizzazione, altrettanto significativo fu il millennio medievale, nel corso del quale i borghi ebbero ruoli di primo piano negli equilibri politici e sociali e godettero anche di grande notorietà grazie ad alcuni dei loro figli. Come accadde soprattutto a Sovana, che diede i natali al monaco Ildebrando, asceso al soglio pontificio come papa Gregorio VII e destinato a segnare una svolta cruciale nella storia della Chiesa. La nuova Monografia di «Archeo» è dunque l’occasione per conoscere le Città del Tufo, viaggiando in un tempo lungo e denso di avvenimenti, ma, soprattutto, vuol essere un invito a scoprire e visitare un vero e proprio scrigno di tesori.

IN EDICOLA


di Maurizio d’Arcano Grattoni

Non c’è vita senz’acqua Erede – ma anche orfano – delle imponenti infrastrutture preposte all’approvvigionamento idrico nel mondo antico, l’uomo medievale è costretto a reinventare il suo rapporto con il prezioso elemento. Dando vita, cosí, a soluzioni ingegnose e di grande originalità: tanto sul piano funzionale quanto, soprattutto, su quello architettonico e artistico La coppa bronzea che corona la Fontana Maggiore di Perugia (vedi foto a p. 77), realizzata nel 1277 dal fonditore Rubeus. Al centro della tazza è il gruppo, anch’esso bronzeo, raffigurante tre ninfe che sorreggono l’anfora da cui zampilla l’acqua.


Dossier

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lla caduta del mondo romano vennero meno anche numerose realtà che avevano concorso a far grande e splendida quella civiltà. Fra queste, l’efficiente sistema di approvvigionamento idrico che, attraverso i robusti acquedotti murati e l’articolato distribuirsi all’interno dei centri urbani e delle villae, raggiunse un tale grado di funzionalità da essere eguagliato soltanto nel piú maturo XIX secolo. La crisi della vita cittadina e quindi la notevole diminuzione del fabbisogno idrico, le invasioni e le inevitabili distruzioni, ma soprattutto la scomparsa di quegli artigiani che soli erano in grado di mantenere in uso e di riparare manufatti cosí L’Aquila. La Fontana della Rivera, detta delle «Novantanove Cannelle», una per ciascuno dei villaggi che, secondo la tradizione, avevano contribuito alla fondazione della città. Costruita dall’architetto Tancredi da Pentima, venne inaugurata nel 1272.

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complessi, portarono inevitabilmente al loro abbandono, cosicché l’uomo medievale, salvo rare eccezioni, dovette ripetere a fatica un percorso fatto di innovazioni e di scoperte, di intuizioni e di sapere artigiano.

Cresce la richiesta

Con il Basso Medioevo, soprattutto col rinascere delle città, ma anche in ragione di una maggiore attenzione per l’igiene e per la cura del corpo, cresce la richiesta idrica: le sorgenti vengono protette e curate e la loro acqua convogliata e fatta giungere anche in luoghi distanti dall’origine; si scavano numerosi pozzi in aggiunta a quelli esistenti, curandone periodicamente la pulizia; si costruiscono nuove capaci cisterne che consentono di serbare sempre maggiori riserve idriche. Essendo universalmente riconosciuta l’importanza dell’acqua per il vivere quotidiano, ma anche per le attività artigiane e commerciali, l’attivazione di punti di approvvigiona-

mento costituiva motivo di orgoglio civico, come le mura, i palazzi pubblici, le chiese, le torri. Ed è proprio negli ultimi secoli del Medioevo che prende avvio una serie di imponenti realizzazioni destinate a rimanere in uso per secoli, anche perché spesso ornate da importanti artisti. A Perugia, per le fontane nella piazza, vengono coinvolti i maggiori scultori dell’epoca. Nicola e Giovanni Pisano lavorano a quella maggiore – di evidente valore celebrativo –, ultimata nel 1278 e tuttora visibile nel luogo originario: magnifica realizzazione che vide l’opera, inoltre, di fra’ Bevignate structor, magister Buoninsegna idraulico e Rubeus fonditore, ricca di bassorilievi, sculture a tutto tondo e iscrizioni e costituita da due vasche poligonali sovrapposte – la prima di 24 lati, la piú alta di 12 –, concluse in sommità da una vasca bronzea. Nella fontana voluta «in pede platee», ultimata nel 1281, ma già rimossa agli inizi del Trecento per

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nuove scelte urbanistiche, lavorò invece Arnolfo di Cambio, che era già stato interpellato per la fontana maggiore. E non si può dimenticare la Fontana delle Novantanove Cannelle all’Aquila, la cui nascita coincide con la costruzione delle mura cittadine: nella piú alta delle due vasche sovrapposte si versano i quasi cento zampilli che hanno dato nome alla fonte, ornati di mascheroni scolpiti, molti dei quali opera del magister Tancredi da Pentima, che si «firma» nell’iscrizione datata 1272.

Gli interventi dei papi

Nello sfruttamento delle sorgenti, il problema piú spinoso consisteva nel far giungere il prezioso liquido fino a destinazione, superando spesso avvallamenti e alture. A Roma, che nell’antichità contò ben undici acquedotti, già con papa Gregorio I (590-604) si sentí l’esigenza di ripristinare un adeguato sistema di approvvigionamento idrico, ma

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Perugia, la Fontana Maggiore. Artefici dell’opera, realizzata nel 1277-1278, furono Nicola e Giovanni Pisano (subentrati ad Arnolfo di Cambio), per la gran parte degli elementi scultorei, e il fonditore Rubeus (Rosso) per la coppa di bronzo (vedi particolare a p. 75).

importanti lavori sono documentati solo con Adriano I (772-795), proseguiti dai successori fino al trasferimento avignonese nel 1309 e al conseguente decadimento dell’Urbe. Ripresi col rilancio della città nel XV secolo, continuarono per buona parte del Cinquecento. Con il Basso Medioevo, spesso sulle rovine dei grandi manufatti antichi di cui riprendono sostanzialmente l’impostazione, alcune comunità religiose (l’abbazia di Casamari, per esempio) e cittadine si dotano di notevoli acquedotti in parte ancora conservati: nel 1256 entra in funzione quello di Sulmona – ad arcate ogivali su pilastri

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Dossier Nel castello di Cly

Bornelli e finestre Attraverso le spese registrate nei libri contabili del castello di Cly in Valle d’Aosta, si può rivivere agevolmente l’intero percorso artigiano che, tra il 1378 e il 1382, portò alla realizzazione – o al rifacimento – di una conduttura idrica che riforniva il castello prelevando l’acqua da una sorgente ubicata in un monte vicino. Dapprima furono scavati quasi 600 m di fossato per interrare il costruendo condotto. Questo fu realizzato utilizzando cinquecento tronchi di pino – i «bornelli» – forati con una grossa trivella forgiata sul posto mediante almeno dodici chili di ferro. Artefice del tutto fu il «magister bornellorum» Vuillermo de Trona aiutato da un giovane assistente, entrambi impegnati per ben novantacinque giorni. Per azionare la trivella, Vuillermo aveva approntato un «artificio in quo dicti bornellifueritnl perforati» mosso a energia idraulica – allo scopo fu deviato il corso del vicino torrente – e realizzato con l’aiuto di due carpentieri. La forma ci è ignota, ma si può immaginare una robusta intelaiatura lignea con una sorta di mulino ad acqua che faceva ruotare la trivella. Per la giunzione dei «bornelli» furono impiegate «virae» metalliche: probabilmente ghiere utili a trattenere saldamente assieme i due tronchi inseriti uno nell’altro «telescopicamente», secondo quanto avveniva per le tubature in laterizio. Cosí condotta, l’acqua entrava nel recinto castellano nel versante settentrionale attraverso una «fenestra» chiusa da una lastra di pietra con un foro circolare, venendo raccolta in una vasca costruita dapprima in assi di noce, ma dopo appena un decennio rifatta in muratura. L’apertura e i resti della vasca sono ancora visibili. Utilizzando condotti sussidiari, l’acqua veniva inoltre canalizzata verso est nella stalla, nella cantina e forse in altri ambienti del complesso, mentre a ovest era probabilmente in parte «capitalizzata» nella cisterna ubicata alla base della torre denominata, per l’appunto, «della cisterna», per poi defluire attraverso un altro foro, anche questo forse riconoscibile in un’apertura ancora esistente sul paramento settentrionale verso il basso.

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In questa pagina, dall’alto il castello di Cly, in Valle d’Aosta; pagina di un trattato di Francesco di Giorgio Martini, con il percorso di un acquedotto dalla sorgente a una rocca (Torino, Biblioteca Reale); la fenestra, chiusa dalla lastra di pietra forata, attraverso cui entrava il condotto idrico nel castello di Cly. Nella pagina accanto il Ponte delle Torri a Spoleto, il cui aspetto attuale risale alla metà del Trecento.

quadrati, che chiude il versante meridionale dell’area commerciale della «Piscaria» –, poi è la volta di Salerno e soprattutto di Spoleto, con il cosiddetto Ponte delle Torri, costruito probabilmente a cavallo del XIII e XIV secolo (a metà Trecento la fama di quest’opera era già ampiamente diffusa) su nove impressionanti, altissimi pilastri di fondazione romana con una doppia fila di archi acuti sovrapposti, che portava in città l’acqua delle sorgenti di Cortaccione e delle Valli. Non dovendo superare avvallamenti o asperità naturali diverse, in genere le acque scorrevano entro condotti in muratura sotterranei, con fondo lastricato, acciottolato o in semplice terra, coperti soprattutto con volte in laterizio, ma anche con lastre in pietra o tavolati maggio

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di legno, come nell’acquedotto di Brescia, del quale esiste una descrizione del 1339; questo medesimo condotto aveva larghezza di 60-80 cm con altezza variabile da poco piú di un metro a quasi due. A queste grandi e costose strutture, adatte a gestire grosse masse d’acqua dall’origine al punto di smistamento, già Vitruvio affiancava tubi in piombo per la distribuzione urbana e in terracotta per l’irrigazione, gli usi domestici e altri collega-

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menti minori. Preferibilmente con fistole di piombo erano realizzati gli acquedotti monastici, di norma assai articolati, che servivano vari settori del complesso, dal chiostro al refettorio, dalle cucine all’infermeria, ai laboratori, ai magazzini, ai giardini. Di grande importanza la mappa del sistema idrico del priorato della Christ Church Cathedral di Canterbury – tracciata sotto il priore Wiberto tra il 1151 e il 1167 e conservata nel Salterio di Eadwine del

Trinity College di Cambridge – con condotti, cisterne di depurazione, «castelli d’acqua», fontane. I condotti in legno non vengono presi in considerazione da Vitruvio – che opera e scrive nel I secolo a.C. –, perché ai suoi tempi d’uso antiquato, mentre nel Medioevo ne fu ripreso l’utilizzo. Nelle zone montuose, con abbondanza di conifere, per tali condotti spesso venivano utilizzati tronchi di larice e di pino rosso, ideali per la crescita rettilinea maggio

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A destra Siena. Particolare di uno dei numerosi bottini, le gallerie sotterranee che alimentavano le fonti della città.

i bottini senesi

Dal sottosuolo a tutte le case della città

Siena. Fontebranda, la piú grande e importante fonte della città toscana, la cui realizzazione fu avviata alla fine del XIII sec.

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Carlo V rimase cosí colpito dagli intricati percorsi dei «bottini» senesi, i condotti di alimentazione per le numerose fonti cittadine, da fargli affermare che «Siena era addirittura piú bella al di sotto che non in superficie». E in effetti, per l’attenzione e la cura posta al problema dell’acqua da parte delle autorità civiche, la città rappresenta un caso senz’altro particolare. Con il 1226 vengono registrati con continuità pagamenti per la manutenzione di sei fonti pubbliche, quasi certamente già esistenti; di queste sicuramente la Fontebranda e la Vetrice, entrambe già citate nel 1081, e la Fonte Becci, documentata nel 1110. Ma saranno gli importanti lavori di ampliamento dei «bottini», nella prima metà del Trecento, e soprattutto la costruzione del «bottino maestro», a determinare una vera e propria frenesia costruttiva nel settore. Il 5 gennaio 1343 viene inaugurata Fonte Gaia, nel Campo – che nel 1408 Jacopo della Quercia avrà l’incarico di ridisegnare –, e nel 1351 una nuova canalizzazione arriva presso porta San Maurizio, consentendo cosí di soddisfare una zona che ancora si serviva di una modesta cisterna fatta costruire da un artigiano alla fine del Duecento. L’anno successivo segna l’inizio dei lavori per piú

di una fonte, fra cui quella presso l’Ospedale di S. Maria della Scala che, pur essendo il piú grande in città, non poteva disporre di un vicino punto di approvvigionamento commisurato ai suoi notevoli fabbisogni. Ben sapendo di come fondamentale sia la presenza dell’acqua soprattutto in comunità di questo tipo, nello stesso anno e vicino al medesimo ospedale si inizia Fonte Serena, che sarà terminata qualche anno dopo. Sempre nel 1352 si elabora il progetto per quella in Pantaneto, che avrebbe dovuto avere uno zampillo «tribus brachiis et ultra» (di oltre un metro e mezzo). Quest’ultima avrà un periodo di gestazione lungo e travagliato: la notevole richiesta d’acqua – soprattutto avendo verificato l’impercorribilità dell’idea che voleva far giungere nel Campo il fiume Staggia – non poteva venir soddisfatta, e particolarmente in quel versante della città; per questo il progetto venne abbandonato per un secolo esatto, venendo riconsiderato appena nel 1452. Ma non era ancora finita: dopo altri cinque anni, la nuova fonte fu ulteriormente sollecitata dagli abitanti, che lamentavano «grandissima penuria et manchamento d’aqua publica»; si accolleranno le spese quasi per intero e qualche anno dopo la fontana sarà finalmente in funzione.

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Dossier e il basso costo, per il legno di facile lavorazione e, poiché resinoso, particolarmente resistente al degrado.

Consigli e precauzioni

«Faccinsi d’alno (ontano) o quercia» raccomanda invece Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), «ingegnario» particolarmente autorevole sull’argomento in quanto per un lungo periodo ricoprí la carica di Camerlengo delle acque in Siena, curando la realizzazione e la manutenzione dei condotti e garantendo l’afflusso dell’acqua in città. Per evitare che i «cannoni o tomboli» di legno – come li chiama – si deteriorino raL’interno della Fontebranda di Siena. La struttura era alimentata dai bottini e le acque proseguivano poi il proprio corso, lungo canali che alimentavano mulini, concerie e tintorie.

pidamente, consiglia di isolarli con uno strato «di calcina o ghiara» [ghiaia] «overo di creta», e «siano i segmenti in terracotta o in legno, d’irrobustire e sigillare le giunture per evitare perdite o rotture»; allo scopo ci si poteva servire di calce viva mescolata a olio con eventuali aggiunte di ulteriori ingredienti: cenere, pomice, zolfo o altro. Critici erano anche i gomiti nei punti piú alti e piú bassi del tracciato, laddove l’acqua e l’aria potevano provocare grosse pressioni; per contrastarle, lo stesso «ingegnario» propone di costruire in questi punti serbatoi tali da creare un luogo di sosta per l’acqua, stemperando la pressione con due alti sfiatatoi. Un’altra delle difficoltà che gli artefici medievali dovevano affrontare era la frequente mancanza di grosse masse d’acqua, il che spesso ne impediva la «condotta» per lunIn alto, sulle due pagine disegno ricostruttivo di una fonte pubblica, costituita, secondo un modello tipico dell’età medievale, da vasche comunicanti di altezza decrescente. Nella piú alta, l’abeveratorium, si raccoglieva l’acqua potabile: il doccio è riservato all’uso umano (1), mentre gli animali si «servivano» dalla vasca (2). Nella seconda, il lavatorium (3), si lavavano i panni, mentre l’ultima, il guazzatorium (4), era destinata ai lavori «sporchi» come il risciacquo degli animali macellati.

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Frasetta in latin totaspit apisi dolendis dolum, inum, sim abo. Aped est faccus, officius, od quam

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ghi tratti: cosí, per esempio, avvenne a Cividale del Friuli, dove per questo motivo Guidebono e Rolando da Modena dovettero abbandonare l’impresa – assegnata loro dalle autorità cittadine nel 1293 – di condurre l’acqua dalla fontana maggiore ubicata nella piazza del mercato fino alla Domus Communis e al palazzo patriarcale.

Il caso di Volterra

Le opere di carattere idrico, per la loro importanza riguardo all’intera vita della comunità, vennero seguite con particolare attenzione dalle autorità civiche, che ne organizzarono con sistematicità la costruzione e l’uso. A Volterra, per esempio, fin dagli inizi del Duecento, una nutrita serie di norme in materia, notevoli investimenti economici e la regola tassativa che tutte le fonti fossero pubbliche come proprietà, gestione e fruizione, consentirono di perseguire sia un ottimale sfrut-

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tamento delle risorse, sia un’oculata politica edilizia che portò all’edificazione di numerose fontane e addirittura alla progettazione del tracciato murario in funzione delle sorgenti, con incrementi a volte notevoli pur di inglobarle, sia, ancora, al mantenimento e in certi casi al miglioramento dell’acqua fornita. E, fin dall’inizio, i Volterrani avevano lucidamente diviso gli interventi in due livelli: di tipo urbano, facendo sí che praticamente tutte le contrade – rimanevano escluse quelle della parte alta della città, per l’impossibilità di farvi arrivare l’acqua – avessero almeno una fontana; di tipo suburbano – nella zona delle Pendici –, con pun-

ti di approvvigionamento lungo le vie di comunicazione. Per un uso piú razionale dell’acqua giunta in un centro abitato, le fonti erano generalmente costituite da un insieme di vasche comunicanti di altezza decrescente. Nella prima, piú alta, l’abeveratorium, coperta da un tettuccio per evitare che foglie e altra sporcizia vi cadessero all’interno, si raccoglieva l’acqua potabile. Tracimando, l’acqua cadeva nel contenitore piú basso, il lavatorium, utile per lavare i panni, e poi, ancora piú giú, nel guaççatorium, l’ultima vasca, riservata ai lavori «sporchi», come risciacquare gli animali macellati o i prodotti grezzi dell’artigianato tessile.

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particolari (come felci, salici, pioppi neri, ontani e altro); bisognava analizzare il colore del terreno (che deve presentare «certe vene bianche») e la sua natura: male, per esempio, se si tratta di crete o contiene alcuni tufi, meglio se è «sabbione maschio» (sabbia dura) e ancor di piú se ingloba selce. Una maggior sicurezza – continua – si potrà avere conducendo alcuni «esperimenti» in momenti specifici: dall’osservare certi vapori nebbiosi che emanano dal suolo la mattina al sorgere del sole durante le stagioni calde, al considerare il maggiore rigoglio delle erbe e l’umidità del terreno, il particolare riverbero dei raggi solari o, ancora, la presenza di un minor strato di neve (in quanto i «vapori» dell’acqua distruggono la neve e soprattutto «perché nelli tempi freddi l’acque sutterranee di piú sono calde, e cosí li fumi elevati da quelle ne partecipano la detta calidità, e per quella la neve si consuma»).

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

«Una fossa 5 piedi profunda» Sulle due pagine particolari del Ciclo dei Mesi in Torre Aquila, nel Castello del Buonconsiglio, a Trento. Opera attribuita al Maestro Venceslao. 1400 circa. In alto, una donna nei pressi di una fonte (mese di Maggio); a sinistra: un pozzo, munito di sistema a bilanciere, in un piccolo villaggio (mese di Aprile).

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Soddisfare la richiesta idrica convogliando l’acqua di una sorgente non era sempre possibile: spesso la fonte era ubicata in posizione difficilmente raggiungibile e in genere distante dal luogo di utilizzo. In ogni caso il suo sfruttamento comportava notevoli costi per la costruzione dei condotti e per la loro manutenzione. Una diffusione piú capillare dei punti d’acqua si poteva ottenere mediante lo scavo di pozzi, utili per arrivare a vene o falde acquifere sotterranee. Non era facile individuarle, anche se la loro esistenza poteva essere manifestata da alcuni «segni». Francesco di Giorgio ce ne presenta una rassegna, alcuni presi dalla trattatistica precedente, altri «con fatiga e diligenzia facendo piú e piú esperienzie», scoperti e sperimentati in proprio. Significativa poteva essere la presenza di erbe e piante

Ma la prova piú sicura è senz’altro questa, che si riporta integralmente per la piacevolezza del suo enunciato e per quel sapore quasi «stregonesco»: «Nel tempo delli caldi grandi faccisi una fossa 5 piedi profunda e 5 lata (1,5 m crica); e mettisi in essa uno vaso di terra secca e cruda, et uno caldaro unto di grasso volto con la bocca inverso il centro della terra, et una lucerna accesa piena di olio, et uno vello di lana; e la sera si copri la ditta fossa di tavole, frasche, paglia e terra. E lassisi uno piccolo buso per lo quale possi el fumo e vapore del lume esalare. E se la mattina troverai el vaso crudo pieno di umori, el caldaro con gocciole di acqua come sudore, e la lucerna con l’olio spenta; e lo vello di lana renda umidità, certissimo l’acqua troverai et abbundante». Lo scavo di un pozzo consisteva in un’operazione lunga, considerate le risorse tecniche dell’epoca, e soprattutto pericolosa per le maestranze impiegate. Cadute, smottamenti, asfissie erano sempre in agguato e

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Dossier A sinistra il pozzo (1334) dell’eremo di Lecceto (Siena), arricchito di colonne, architrave e tettoia in epoca rinascimentale. A destra Carmelitani al pozzo presso la Fonte di Elia, predella della Pala del Carmine di Pietro Lorenzetti. 1328. Siena, Pinacoteca Nazionale. Qui accanto pozzo d’epoca medievale in via dei Pispini, a Siena.

a tal proposito i trattati medievali non mancano di suggerire accorgimenti per limitare il pericolo, come costruire una solida armatura interna, legare saldamente gli scavatori, farli precedere da una lampada che, al suo spegnersi, poteva segnalare in anticipo mancanza d’aria o (forse) presenza di gas venefici. Senz’altro piú sicuri i cantieri per l’utilizzo dell’acqua piovana, che non veniva certamente sprecata e poteva essere raccolta nella cisterna. Leon Battista Alberti distingue fra cisterne «potorie», contenenti l’acqua «da bere», e quelle «di capacità», per l’acqua destinata a usi diversi, non ultimo l’estinzione degli incendi, che – an-

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Dossier I campielli di Venezia

Una presenza diffusa Marin Sanudo, il noto diarista veneziano vissuto fra Quattro e Cinquecento, non aveva mancato di rilevare come uno dei problemi della Dominante, attorniata dall’acqua, fosse la carenza idrica. Nel Seicento si giunse perfino a organizzare un trasporto d’acqua potabile con barconi dalla Seriola – un canale derivato dal Brenta – in città. Fin dall’Alto Medioevo la maggior fonte di approvvigionamento idrico era costituito dalle cisterne, che coprirono la stragrande maggioranza del fabbisogno veneziano fino alla costruzione dell’acquedotto nel XIX secolo: in questa stessa epoca, un censimento registrava ancora presenti quasi settemila cisterne, molte delle quali possiamo tuttora notare in moltissimi campielli, riconoscibili per la «vera» quasi sempre in pietra o marmo scolpiti e i caratteristici tombini poco discosti per la raccolta dell’acqua piovana. Il metodo costruttivo impiegato, pur essendo stato utilizzato anche in altre zone (nell’abbazia di Westminster, per esempio), ebbe larghissimo impiego soprattutto a Venezia e, di conseguenza, nelle isole e nella che se in misura minore di quanto lo erano stati fino al Trecento, essendo le case costruite per buona parte in legno – costituivano ancora l’incubo delle città. Tutto dipendeva dalla purezza dell’acqua e quindi dall’efficacia del filtraggio, quasi sempre ottenuto utilizzando ghiaia e sabbia in diverse pezzature o, piú raramente, con diaframmi in materiali porosi come, per esempio, il tufo. Diversi erano i modi per costruire una cisterna. Un tipo era costituito da una vasca quasi sempre interrata – di forma in genere qua-

terraferma di dominazione veneta. Si trattava di costruire una larga e profonda fossa le cui pareti venivano rivestite con uno strato di circa mezzo metro di buona argilla lagunare («caranto»), tale da ottenere una perfetta impermeabilizzazione. Al centro della vasca ottenuta veniva eretta la canna, attraverso la quale si sarebbe poi attinta l’acqua, utilizzando particolari mattoni («pozzoli»). Lo spazio tra quest’ultima e le pareti della vasca era riempito con sabbia fine per garantire un accurato filtraggio. La superficie sovrastante – poteva essere una piazzetta, un chiostro, un cortile – veniva di solito lastricata, badando bene a realizzare una certa pendenza dal perimetro della canna a quello esterno; in tal modo l’acqua piovana veniva convogliata verso aperture presenti nei punti piú bassi, le «pilelle» – di norma due drangolare e copertura a volta, che costituiva il serbatoio vero e proprio – collegata, per mezzo di un’apertura sul fondo, a un pozzo parallelo dal quale si attingeva l’acqua. Dai tetti la pioggia veniva convogliata attraverso condutture in piombo, legno, laterizio o anche tramite colonne o pilastri cavi in pietra ed era filtrata attraverso pozzetti e canali riempiti di sabbia fine. Pur sfruttando lo stesso principio filtrante, erano costruite in modo diverso le cisterne che raccoglievano l’acqua piovana senza bisogno

o quattro –, chiuse da un «sigillo» in pietra provvisto di fori, i «gatoli», attraverso i quali l’acqua finiva nei «cassoni», condotti in comunicazione con la vasca centrale riempita di sabbia. Da questa, attraverso una serie di fori aperti sul fondo o anche semplicemente stillando dalle pareti, l’acqua filtrata giungeva all’interno della canna, pronta per essere usata.

Durante le ben note «acque alte» veneziane, i gatoli venivano sigillati con argilla, per impedire l’ingresso all’acqua salsa che, convogliata anch’essa nella vasca, avrebbe inquinato la cisterna. di condotti fuori terra, facendola arrivare in pozzetti attraverso opportune inclinazioni del terreno per lo piú lastricato e, per ultimo, nella cisterna vera e propria con al centro la canna del pozzo avvolta da sabbie per la depurazione. Questa tipologia venne utilizzata soprattutto a Venezia e nelle zone di influenza veneta, ove ancora si possono vedere numerosissimi esempi. Comprensibilmente, l’acqua giocava un ruolo decisivo nei lunghi assedi e per questo motivo, negli ambiti fortificati, la cisterna di solito maggio

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In questa pagina disegno a penna su carta con colorazioni ad acquerello di Giovanni Grevembroch, raffigurante due acquaroli al lavoro. 1753. Venezia, Museo Correr. Nella pagina accanto, in alto vera da pozzo in marmo greco proveniente dal fondaco dei Turchi. IX-X sec. Venezia, Museo Correr. Nella pagina accanto, al centro una vera da pozzo veneziana in un’antica incisione.


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A sinistra tavoletta di biccherna di Sano di Pietro, raffigurante un Camerlengo mentre si lava le mani e la Vergine che protegge Siena. 1451. Siena, Archivio di Stato. Nella pagina accanto il segno dell’Acquario negli affreschi del Palazzo della Ragione, a Padova.

era ubicata entro il recinto piú interno per garantire una riserva idrica anche in caso di espugnazione delle difese periferiche; la stessa funzione era assolta anche da un grosso tino ligneo situato all’ultimo piano della torre maestra, che raccoglieva l’acqua piovana dal tetto e garantiva una buona riserva in quello che era considerato l’ultimo rifugio; inoltre, essendo il contenitore collocato in alto, ciò facilitava di molto l’eventuale distribuzione in altri ambienti a livello piú basso, funzionando, in scala ovviamente molto piú piccola, come un moderno deposito idrico, quegli orrendi «funghi» di cemento che deturpano ancora di frequente tanti nostri bei paesaggi.

L’acqua in spalla

Vasche, pozzi e cisterne di uso pubblico erano ubicati nei punti nevralgici della città o del villaggio e non sono rare le iconografie che ci mostrano – di solito al femminile – il trasporto dell’acqua dalla piazza o dal cortile all’interno della dimora, con i due secchi appesi all’esile arconcello ligneo portato sulle spalle. Soprattutto negli ambiti residenziali dei ceti alti, i «punti d’acqua» potevano essere anche di connotazione privata ed esclusiva. Ciò avveniva con una certa frequenza in

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città con abbondanza d’acqua, meno nelle altre. E allora, in quel caso, spesso ci si arrangiava, «rubando» l’acqua con deviazioni abusive e pozzi non autorizzati che si aprivano sulle canalizzazioni sotterranee. Ancora verso la fine del Cinquecento il problema sussisteva: Siena ha «gran quantità di fontane, da cui la maggior parte dei privati derivano dei condotti per loro uso», avverte il signor di Montaigne. Il fatto di avere l’acqua all’interno di un edificio, soprattutto se sgorgante da un’elaborata fontana, costituiva comprensibilmente un vanto e una «meraviglia» da esibire: nella loggia papale di Viterbo, per esempio, ove nel 1268 fu costruito un acquedotto per alimentare il fons papalis, nel XV secolo arricchito da una vasca inferiore poligona; oppure la trecentesca fontana nel palazzo comunale di Gubbio. Negli interni erano senz’altro piú comuni pozzi e cisterne, sebbene limitati a situazioni residenziali elevate: la possibilità di calare il secchio da diversi piani dell’abitazione c’era – ed è ancora visibile – nel fiorentino palazzo Davanzati, un edificio senz’altro all’avanguardia visti i numerosi punti di approvvigionamento idrico – la canna del pozzo dalle cantine giunge fino alla terrazza coperta

–, e gli altrettanto abbondanti servizi igienici, gli antichi «agiamenti». Ma erano lussi abbastanza rari: per avere l’acqua sempre a disposizione, aprendo semplicemente un rubinetto, ci vorranno ancora molti secoli.

Un rito conviviale

Le tavole, apparecchiate con tovaglie finissime e ricamate, erano disposte sotto una loggia e alcuni pergolati adorni di viti, rose e gelsomini. Giunti che furono gli ospiti, il padrone di casa «subito l’acqua alle mani comandò che si desse». Ecco allora che arrivarono tre giovinette e tre «garzonetti» simili ad angeli, le prime vestite di bianco, i secondi di verde, tutti con ghirlandette di fiori in capo e «uno candido sciugatoio» legato al braccio, tanto fine che a ogni piú piccolo movimento si sollevava come se ci fosse vento; in una mano tenevano un bacile d’argento, nell’altra «una mesciroba [ossia un versatoio] con acqua dentro» mista a piccoli fiori. Cosí – poco dopo la metà del Quattrocento – inizia a descrivere il rito del «dare l’acqua» il Filarete. Si trattava di un’usanza comune soprattutto negli strati sociali medioalti, e che aveva, al di là della funzione pratica – anche se, rispetto a oggi, un tempo c’era innegabilmente un maggior contatto fra le mani e il cibo –, una valenza soprattutto simbolica: alla mensa e quindi al rito della nutrizione, fondamentale per la vita, ci si doveva avvicinare puri e mondi. Cosí in molte civiltà anche lontane dal mondo occidentale; cosí anche nei riti religiosi: per accostarsi alla mensa liturgica, il sacerdote si «purifica» con il lavaggio delle mani, come stanno a testimoniare gli antichi lavabi presenti ancora in molte sacrestie. Il Filarete asserisce che i giovinetti, preso un sorso d’acqua, direttamente dalla bocca a ogni commensale «quasi colle ginocchia in terra (...) in sulle mani gli versa»: un uso senz’altro distante dalle nostre abitudini e convenienze ma forse raro anche all’epoca, almeno stan-

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Dossier gli acquamanili

Quando la mescita si fa arte Che l’uso del «dare l’acqua» sia stato piuttosto diffuso è dimostrato dagli acquamanili menzionati in numerosi inventari – citati anche come «fontane», «mesciroba» o «mesciacqua» e altro ancora – e dai non rari esemplari originali che ci sono pervenuti, anche appartenenti a epoche antiche. Ovviamente il materiale e la fattura appaiono strettamente legati allo status dei loro proprietari e alla destinazione: da quelli semplici in ceramica, destinati a un uso piú corrente e quotidiano, fino agli elaborati manufatti in metalli preziosi, spesso riccamente decorati, adoperati durante i grandi momenti di rappresentanza oppure, in ambito sacro, durante le celebrazioni liturgiche. Il manufatto si compone di un corpo cavo dotato di un’apertura generalmente posta in alto per introdurvi l’acqua, di un beccuccio per lasciarla defluire e di un manico ben posizionato e bilanciato per inclinare l’acquamanile nell’atto della funzione. A volte, al posto del beccuccio, si può trovare un rubinetto: in questo caso il «mesciroba» poteva essere usato senza bisogno d’inclinarlo. Gran parte degli esemplari conosciuti, realizzati in bronzo oppure in ottone (leghe rispettivamente di rame con stagno e rame con zinco) con aggiunta di una piccolissima percentuale di piombo e tracce di ferro, nichel, arsenico, argento e altro, sono ottenuti secondo il procedimento di fusione «a cera persa»: uno strato di cera, tanto sottile quanto lo spessore delle pareti di metallo che si volevano ottenere, Santa Barbara (particolare), scomparto laterale di un trittico di Robert Campin. 1438. Madrid, Museo del Prado. Si noti, sopra il ritratto della santa, l’acquamanile.

do all’iconografia. L’acqua, infatti, spesso aromatizzata con essenza di rosa o altro, veniva versata sulle mani direttamente dall’acquamanile per poi essere raccolta nella conca sottostante. Di solito l’asciugamano, posto attorno al collo di chi versava, aveva un capo sotto il bacile per assorbire eventuali spruzzi d’acqua, l’altro libero per permettere l’asciugatura delle mani. L’occorrente per tali abluzioni si riponeva in genere in una nicchia aperta nella muratura, spesso

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dotata di scarico per l’acqua che defluiva in tubature normalmente di laterizio ma piú spesso direttamente sulla strada, anche se ciò era espressamente vietato. Come, per esempio, negli statuti dei Magistri Stratarum di Roma del 1410: divieto ripetuto per alcuni decenni nelle redazioni successive del documento, indice chiaro di come la pratica fosse tutt’altro che infrequente ancora in epoca rinascimentale.

Piccoli capolavori

In molte iconografie si possono vedere tali nicchie-acquaio con il loro corredo di versatoi e bacili e, a fianco, l’asciugamano appeso a una traversa. Nelle case signorili questi

acquai erano ubicati nella «sala» e rappresentavano veri e propri capolavori dell’arte lapicida. Alcuni si sono conservati, non di rado scolpiti o disegnati da celebri artisti. Piú modesti, ma in genere piú ampi erano gli acquai presenti nelle cucine, utili per lavare stoviglie, posate e pentole, anche se fino a tutto il Trecento per tale operazione spesso si usava una tinozza di legno. Quando possibile, di preferenza l’acquaio si ricavava nello spessore della parete; un ripiano in legno, inserito nella zona alta della nicchia che lo ospitava, serviva per riporre brocche e altre stoviglie mentre al di sotto si appendevano i secchi per l’acqua, normalmente in doghe di


veniva plasmato attorno a un nucleo di creta e ricoperto da un ulteriore strato, sempre di creta; immettendo la colata di metallo fluido, la cera si scioglieva rapidamente e defluiva; raffreddato e consolidato il metallo, la creta esterna veniva distrutta mentre quella interna si estraeva attraverso un foro che alla fine veniva richiuso. I maggiori centri di fusione operavano in un’area ben delimitata, fra la Mosa e la Bassa Sassonia, luoghi ove si potevano reperire piú rapidamente i materiali usati in maggiore quantità: la giallamina, dalla quale si ricavava lo zinco (zona della Mosa e del Reno), e in particolare il rame (nello Harz), che in queste leghe, nel bronzo soprattutto, entrava con percentuali molto alte. Alcuni erano invece di fattura orientale (Opus sarracenum, per esempio), e anzi è certo che proprio questi, diffusi probabilmente per mezzo dei crociati, fornirono i modelli per la produzione occidentale: emblematico, a tal proposito, un acquamanile islamico in foggia di pavone – risalente al XII secolo e conservato al Louvre –, che mostra scritte

in arabo e in latino. Versatoi di forme fantasiose erano comunque già presenti nell’antichità classica e un «aquamanilis argenteum» è già citato nel Liber pontificalis redatto a Roma nel V secolo. Citati sporadicamente nelle epoche successive, tali manufatti in effetti si trovano con una certa frequenza proprio a partire dal 1100: come l’acquamanile ricordato nell’abbazia di Saint-Trond, in rame e damaschinature in argento, raffigurante una colomba, oppure i «manilia» in foggia di leone, drago, uccello, grifone e altri animali, provvisti di bacili d’argento, del tesoro di Magonza. Questa citazione tedesca ci presenta solo una parte della ricca campionatura dei soggetti usati: a questi si devono aggiungere quelli ispirati alla figura umana: teste e busti (evidente citazione dei ben noti reliquiari), cavalieri armati e figurazioni piú complesse, come il curioso acquamanile realizzato verso il 1380 da una bottega della Germania settentrionale, con la bella Fillide che cavalca il vecchio Aristotele perso d’amore per lei, spiritosa e pungente raffigurazione della sapienza soggiogata dalla passione.

Acquamanile in ottone raffigurante San Giorgio e il drago. Arte franco-tedesca, 1400 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A destra miniatura raffigurante il giudizio di Pilato, dal Salterio di Bonmont. 1260 circa. Besançon, Bibliothèque municipale.

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legno, piú tardi in rame. Soltanto con la fine del Quattrocento diverrà comune lo scafo sporgente, realizzato in un monolito a volte ornato. Per le mense, se l’acqua tanto era importante dal punto di vista simbolico, lo era assai poco come bevanda. Guardata con sospetto, di norma non veniva mai bevuta pura ma «disinfettata» e «corretta» con vino o aceto oppure con essenze o erbe – per esempio salvia o ruta – o, ancora, addolcita con frutta o mie-

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le. Anche cosí corretta, l’acqua era sconsigliata a tavola: nel Regimen Sanitatis Salernitani si ricorda che il berne sarebbe altamente nocivo in quanto provocherebbe «frigidezza» allo stomaco e ogni male.

Bere senza esagerare

Ancora nell’Ottocento Domenico Cervesi raccomandava l’uso di «acqua vinata»: l’acqua pura «sconviene, perché è questa troppo poco stimolante, mette troppa mollezza e ri-

lassatezza nei corpi, e troppi sudori facilita». Del resto, anche per la nostra medicina tradizionale, un’esagerata assunzione di acqua durante i pasti influisce negativamente sulla digestione. Vi era, comunque, una motivazione reale: l’effettiva potabilità dell’acqua. Ferma e stantia era quella attinta dalle cisterne, i pozzi erano spesso sporchi e fangosi e le condutture dei rari acquedotti non sempre erano a tenuta stagna, prestandosi a infiltrazioni che potevamaggio

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A destra miniatura raffigurante un’ancella che fa un benefico pediluvio alla sua signora, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Betsabea al bagno con il re Davide alla finestra di un castello, da un Libro d’Ore illustrato dal miniatore fiammingo Alexander Bening. Seconda metà del XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

no alterare pesantemente la purezza dell’acqua. Si può quindi ben comprendere quanto prezioso fosse un limpido rivo e quanto influisse tale presenza sulla fondazione di borghi e villaggi, monasteri e castelli. Assumere acqua era comunque prescritto in particolari occasioni. In ambito ebraico, per esempio, ciò era categorico durante il lutto, allorché si doveva bere soltanto acqua presa alla fonte o in altre case, distanti da quella della famiglia. E in certi monasteri bizantini, nei periodi di digiuno, il vino era sostituito da acqua pura aromatizzata con cumino.

Il bagno? Un vero lusso

Ugualmente poca fortuna aveva l’acqua come mezzo per l’igiene e la nettezza della persona, anche se con il passare del tempo un crescente utilizzo coincise con una maggiore esigenza di pulizia, sia pur limitatamente a certe parti del corpo: frequente, per esempio, era il lavaggio dei capelli, praticato soprattutto dalle donne. La citata Regola Salernitana prescriveva di lavarsi bene le mani con acqua fresca – al mattino o dopo la mensa, a seconda delle tradizioni manoscritte – e di passarle, ancora umide, sugli occhi per rendere la vista piú acuta. Nulla di piú, anche se bagni completi ogni tanto se ne facevano, soprattutto caldi per goderne il piacevole tepore: si trattava di un autentico lusso, visto che per riempire una tinozza ci volevano diversi secchi d’acqua scaldata sul focolare.

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Molto piú frequente era il bagno nelle «stufe» pubbliche, la cui diffusione si avrà a partire dall’ultimo Medioevo, continuerà nel Rinascimento per poi tramontare definitivamente con la metà del Cinquecento. Tale pratica ha tuttavia soltanto una debole attinenza con l’igiene, essendo vissuta piú che altro come un momento di svago, d’incontro sociale, ancor piú spesso di evasione erotica e licenziosa, com’è ampiamente dimostrato dalle descrizioni e dall’iconografia del tempo. Il rito del bagno è ben descritto nella notissima novella del Boccaccio che narra della bellissima ma astuta «ciciliana» Jancofiore e dell’ancor piú furbo Salabaetto, «mercatante» fiorentino. La donna vuole offrire un bagno al giovane ed

ecco allora che ne prenota uno pubblico; subito invia due sue schiave che portano l’occorrente per il letto (dal materasso alla coltre) e soprattutto puliscono la vasca. Solo dopo i due giovani s’incontreranno: Salabaetto verrà lavato dalla stessa Jancofiore con sapone odoroso di muschio e di garofano mentre la donna «sé fece e lavare e stropicciare alle schiave». Usciti, entrambi si misero a letto per sudare, avvolti in «due lenzioli bianchissimi e sottili, de’ quali veniva sí grande odor di rose che ciò che v’era pareva rose». Dopo, i loro corpi furono cosparsi di essenze profumate e infine, «tratte fuori scatole di confetti e preziosissimi vini, alquanto si confortarono». Al giovane toscano «pareva essere in paradiso». E – con una punta d’invidia – non stentiamo certo a crederlo.

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Lo splendore di Sessa di Corrado Valente

Sessa Aurunca in una tavola realizzata da Francesco Cassiano de Silva per Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, opera dell’abate Giovanni Battista Pacichelli. 1703. Siviglia, Biblioteca Universitaria

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Colonia fiorente e abitata da cittadini definiti «onoratissimi» da Cicerone, Sessa Aurunca, nel Casertano, visse secoli non meno brillanti in età medievale. Dei quali è testimone insigne la splendida cattedrale intitolata agli apostoli Pietro e Paolo

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a città di Sessa Aurunca (Caserta) vanta una storia antica e prestigiosa e fu un luogo strategico, posto a presidio di un passo che si apre nella propaggine degli Appennini, spingendosi sino al mare. Centro importante degli Ausoni-Aurunci – dei quali si hanno tracce sin dall’VIII secolo a.C –, agli albori del IV secolo a.C. fu conquistata dai Romani, che vi dedussero una colonia di diritto latino su preesistenze italiche, adattandone l’impianto all’orografia del sito. Nel II secolo a.C., la città diede i natali al poeta satirico Gaio Lucilio, e, nella XIII Filippica, Cicerone la definí fiorente e luogo abitato in origine da coloni onoratissimi. Piú tardi, fu Augusto a promuovere una nuova deduzione, creando la Colonia Iulia Felix Classica Suessa, che da lui prese nome. Suessa si dotò di edifici importanti, tra cui un imponente teatro. Dopo la fine dell’impero romano riuscí a sopravvivere ritirandosi nella cinta difensiva, protetta da un poderoso castello, sorto sull’area dell’arce romana. Il primo nucleo urbano è riferibiIn alto un vicolo nel centro storico di Sessa Aurunca. A sinistra il castello ducale, sorto nell’area dell’arce romana della città.

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MOLISE LAZIO

PUGLIA

Roccamonfina

Sessa Aurunca

le ai gastaldi longobardi, ma è invece opera dei Normanni l’imponente fortezza, nella quale fu redatto nel 963 il Placito sessano (emesso dal giudice Maraldo, è uno dei primi documenti in volgare nella storia italiana e si tratta di una testimonianza giurata, redatta all’interno di un contenzioso su appezzamenti di terra situati nell’attuale territorio di Sessa Aurunca, n.d.r.).

Un vasto feudo

Il feudo sessano era molto esteso è l’odierno Comune è tuttora il piú esteso della provincia di Caserta, secondo della Campania. Nel XIV secolo divenne ducato e centro del vasto feudo dei Marzano, la cui potenza nel regno di Napoli non passò inosservata agli occhi di Alfonso V d’Aragona, che concesse in moglie a Marino Marzano la figlia Eleonora

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In alto il teatro, l’edificio monumentale meglio conservato della città romana di Suessa.

Carinola Caserta

Benevento CAMPANIA

Napoli

Avellino

Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri

Amalfi

Salerno

BASILICATA Eboli

Mar Tirreno Palinuro

(1444). Lo stesso Marino, all’indomani della morte del Magnanimo (1458), insieme agli altri duchi del regno, tramò contro il cognato, Ferdinando I (o Ferrante) d’Aragona, che prese il posto del padre alla guida del regno, dando vita alla prima congiura detta «dei baroni», che tuttavia fallí. Nel 1507, Ferdinando il Cattolico concesse Sessa al «gran condottiero» Consalvo de Cordoba

(primo viceré di Napoli) e alla sua famiglia sino al XIX secolo. A partire dall’Alto Medioevo, sia in città che al di fuori delle mura, si sono insediate comunità appartenenti a vari Ordini religiosi – Benedettini, Francescani, Clarisse, Agostiniani, Domenicani, Carmelitani – e anche a Sessa, al pari dei grandi centri medievali, i due poli del potere erano rappresentati dalla catte-

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A sinistra la decorazione che sormonta il portale centrale della cattedrale: sopra un architrave di spoglio (proveniente dal teatro romano) è inserito un rilievo con Cristo fra i santi Pietro e Paolo. In basso particolare del pronao, con pezzi di spoglio di edifici romani misti a elementi scultorei romanico-gotici.

Sulle due pagine un particolare della facciata della cattedrale dei Ss. Pietro e Paolo, consacrata nel 1113.


drale e dal castello, posti entrambi nella parte antica dell’abitato: la prima nell’estremità orientale; il secondo sul limite settentrionale, nel luogo della già citata arce romana. La cattedrale dei Ss. Pietro e Paolo è il cuore della fede millenaria del popolo sessano. Sede vescovile sin dalla sua costruzione, iniziata tra la

fine dell’XI e gli inizi del XII secolo, fu consacrata nel 1113. Mostra un impianto basilicale romanico, diviso in tre navate da colonne monolitiche di marmo, con basi e capitelli corinzi, spolia di edifici romani (tra cui il teatro). In testa a ogni navata è posta un’abside semicircolare. La parte superiore dell’invaso centrale ha pareti riccamente decorate e una falsa volta a incannucciata, risalente al XVIII secolo, che nasconde la copertura lignea originaria. In linea con i canoni dello stile romanico, la cripta è sopraelevata rispetto alle navate, al fine di innalzare l’altare. La struttura perimetrale è stata realizzata quasi completamente con grandi blocchi di pietra provenienti dal teatro romano. La facciata, del tipo a capanna, è stata arricchita nel XIII secolo con l’inse-

rimento di un profondo pronao a tre fornici e di una finestra decorata con marmi e sculture, che mostrano esseri fantastici nella parte superiore. Il pronao è stato realizzato impiegando pilastri compositi di un edificio romano associati a colonne di spoglio, su cui sono stati innestati capitelli romanici con elementi floro-faunistici fantastici, tratti dai bestiari medievali.

La vita dell’apostolo

L’arcata ogivale centrale presenta una cornice al cui interno sono scolpite scene della vita di san Pietro. In sequenza, si hanno: Pietro che, assieme a Giovanni, guarisce lo zoppo presso la Porta Speciosa del Tempio di Gerusalemme; la morte di Anania dopo aver mentito a Pietro; la guarigione del paralitico Enea; il centurione Cornelius che s’inginocchia dinanzi a un angelo, mentre Pietro si reca da lui tra due soldati; Erode, che, dopo aver assistito all’esecuzione di Giacomo, sembra indicare l’arresto di Pietro, liberato dall’angelo; l’incontro di Pietro con Paolo, a Roma, insieme a Simon Mago; Nerone che indica il mago che accusa Pietro; Simon Mago che scaglia i cani contro


medioevo nascosto campania A sinistra particolare dell’ingresso al palazzo vescovile. L’architrave è un frammento di spoglio del teatro romano. La ghiera e le mensole sono invece databili al Medioevo. Nella pagina accanto veduta dall’alto della magnifica pavimentazione cosmatesca della cattedrale.

A sinistra la navata centrale della cattedrale.

Pietro, che li ferma con la mano; la finta decapitazione di Simon Mago; Pietro in preghiera, mentre Simon Mago viene sollevato da esseri diabolici prima di cadere e morire.

L’arte come lezione

Anche il portale centrale dell’edificio sacro presenta un apparato decorativo molto interessante, come nel caso dell’architrave, costituito da un fregio proveniente dal teatro romano e raffigurante tigri in corsa all’interno di tralci d’uva con abbondanti grappoli, intervallati da maschere satiriche. Sopra l’architrave, una ghiera circolare con decorazioni floreali è impostata su mensole leonine. Al centro, è visibile un rilievo raffigurante Cristo tra i santi Pietro e Paolo, che si stagliano su un mosaico con tessere dorate. L’intero ciclo scultoreo della cattedrale rivela l’intenzione, tipica dello spirito medievale, di voler insegnare i fondamenti della fede al popolo. Di qui, il carattere fortemente simbolico delle immagini. Gli stessi elementi scultorei fantastici e dia-

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bolici servivano a rendere concreto il pericolo della dannazione. L’interno della cattedrale è stato modificato da un intervento di decorazione barocca, in parte eliminato a seguito del parziale ripristino della matrice medievale.

Maestranze provette

Si conserva in buono stato anche la preziosa pavimentazione della navata centrale: un pregiato rivestimento ascrivibile al XII secolo e realizzato in opus alexandrinum, filtrato dall’opera dei maestri marmorari laziali e cosmateschi. Un’opera pre-

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gevole, paragonabile alla pavimentazione della chiesa abbaziale di Montecassino. Siamo dunque al cospetto di maestranze molto abili nel realizzare opere con intagli e intarsi, utilizzando marmi policromi, paste vitree e tessere dorate, assemblati in modo da creare giochi di figure geometriche semplici. Tarsie e marmi pregiati provengono probabilmente da edifici romani, per i quali erano stati a loro volta importati dall’Oriente e dall’Africa: porfido, basalto, alabastro, verde antico. Altre pregevoli opere conservate nella cattedrale sono il candela-

bro pasquale e il pulpito. Il primo – un’esile colonna a tortiglione con fasce alternate in marmo bianco e musive (stelle dorate) – è diviso in tre parti da due nodi con bassorilievi simili. Lungo la base si snoda una processione, che si dirige alla veglia pasquale con l’inserimento di un’iscrizione che riporta il nome del committente dell’opera, il vescovo Giovanni III (1248-1283); il secondo nodo, tra colonnine binate, mostra la figura di un vescovo benedicente un diacono che si accinge a intonare l’Exultet, con gli altri ministranti inginocchiati; l’ultimo nodo, sempre all’interno di spazi divisi da colonnine, mostra la figura del Cristo benedicente, due angeli nei riquadri laterali e, negli altri, san Pietro, san Paolo e san Casto (vescovo della colonia romana di Sinuessa, vissuto nel III secolo). Il pulpito, invece, è un’imponente struttura marmorea, con alla base cinque piccoli leoni e un cane stilofori (quest’ultimo orientato in senso opposto agli altri, con un maggio

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Nella pagina accanto il pulpito e il candelabro pasquale. A sinistra una delle fasce decorate a rilievo del candelabro pasquale. A destra particolare della decorazione del pulpito: Gioele e la Sibilla Eritrea con in mano cartigli. Tra i due archi, un uomo seminudo in equilibrio sul dorso di un gatto. In basso particolare dell’angolo dell’ambone tra la colonna e il tamburo.

chiaro riferimento simbolico che rinvia all’infedeltà). Sulle piccole colonne sono collocati capitelli corinzi che mostrano figure umane, fantastiche e animali. La particolare creatività degli scalpellini ha inserito, all’interno delle foglioline d’acanto, facce di personaggi maschili e femminili in pose dinamiche, piccoli grifi, cani, un cerbiatto, un’aquila, una foca e un pellicano.

La profezia della Sibilla

Sopra le colonne sono visibili alcuni archetti, con altri elementi scultorei posti agli angoli e raffiguranti la Sibilla Eritrea (che per Eusebio di Cesarea «profetò in versi cosa sarebbe successo riguardo a Dio e in modo chiaro, con le lettere iniziali dei versi, che sono chiamate acrostico, rivelò la storia della venuta di Gesú») e i profeti Daniele, Zaccaria e Gioele. Il tamburo presenta delicati mosaici, con abbondanza di tessere dorate unite ad altre colorate per dare origine a motivi geometrici, separati da elementi scultorei: agli angoli,

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due cariatidi seminude prospettano sulla navata centrale. Completava la struttura una balaustra marmorea (firmata Peregrinus) che accompagnava la salita sull’ambone e che, esposta oggi sulla parete della navata laterale, presenta, all’interno di tre sezioni, una serie di rilievi. Quello centrale presenta la scena della pistrice che restituisce Giona; quelli superiori, rispettivamente, la «predicazione a Ninive» e due pavoni che si dissetano, bevendo in un vaso. Interessante è anche il rilievo realizzato sotto il lettorino che si apre sulla parte frontale della cassa, un volto umano che potrebbe rappresentare – data la posizione – il maligno calpestato dal Verbum Domini. La cattedrale, soprattutto tra il XVII e il XVIII secolo, è stata oggetto di un abbellimento realizzato con l’impianto di finte volte, stucchi e arredi marmorei, nonché della realizzazione della cappella del SS. Sacramento, che ospita una pregevole Comunione degli Apostoli (1659) di Luca Giordano.

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Storie, uomini e sapori

Quell’appetito da re di Sergio G. Grasso

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unga è la lista dei gottosi illustri, a cominciare da Carlo Magno, che, grande cacciatore, fu anche un consumatore smodato di carne e perciò contrasse la malattia. Una sorte toccata poi all’intera dinastia carolingia e, piú tardi, anche a una delle piú celebri teste coronate d’ogni tempo, Luigi XIV, meglio noto come il Re Sole. E se di lui ci occupiamo in queste pagine – per una volta spingendoci ben oltre i confini del Medioevo – è perché, nel suo caso, possediamo resoconti fin troppo dettagliati delle abitudini del personaggio e del suo conseguente stato di salute. La prima testimonianza si deve alla principessa Elisabetta Carlotta del Palatinato (1652-1722), moglie di Filippo I d’Orléans, che, in una lettera alla famiglia, cosí scrive di Luigi XIV, suo cognato: «Ho visto spesso il Re mangiare quattro piatti colmi di zuppe diverse, un fagiano intero, una pernice, un piattone di insalata, due grosse fette di prosciutto, del castrato in umido e una portata di pasticceria, concludendo con della frutta e delle uova sode». In effetti, Luigi XIV non fu solo il piú fastoso e longevo monarca assoluto di Francia, ma anche, fin dalla piú tenera infanzia, un mangiatore formidabile. Ai nostri occhi, la sua incontrollata voracità stride con l’immagine «splendente e trionfante» tramandata dall’iconografia dell’epoca. D’altronde, per secoli, anzi per millenni, grandi ventri e grandi appetiti sono stati metafore del potere e metonimie della perspicacia politica.

Una personalità ambivalente Lo sconfinato appetito di Re Sole, i suoi pasti fastosi, ostentati con fierezza, andavano di pari passo con il suo bulimico orgoglio, la sua scientifica immodestia e il suo bisogno di sottolineare una supremazia quasi divina. Luigi XIV fu risoluto, introverso, ma anche affabile e cortese come si conveniva a un sovrano illuminato, capace di creare uno Stato moderno affidato a una burocrazia finalmente non fine a se stessa. Promosse le arti e le scienze, imponendo nuovi stili, tali da dare lustro al trono e, grazie ai consigli del suo ministro delle finanze Colbert, favorí lo sviluppo delle imprese industriali che garantivano alle casse statali maggiori profitti rispetto a quelle agricole. Con questo intento, fece nascere le prime industrie gestite dallo Stato, abolí i dazi interni e difese

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In alto Natura morta con argenti, olio su tela di Alexandre François Desportes, uno degli artisti prediletti da Luigi XIV. 1720 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto Luigi XIV con il progetto per la residenza reale di Saint-Cyr, olio su tela. Seconda metà del XVII sec. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. la produzione francese, innalzando barriere daziarie con l’esterno. Fu un monarca assoluto, dispotico, ma dotato di un finissimo acume, che gli permise di arginare i parlamenti locali, privando la nobiltà francese di ogni potere politico in cambio di incarichi onorifici e lucrose «pensioni». Il suo asso nella manica fu la costruzione della splendida (e costosissima) reggia di Versailles, da dove il Re Sole vegliava sulla nazione e nella quale erano di casa maggio

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artisti e intellettuali. Versailles fu «magnanimamente» messa a disposizione della piú influente aristocrazia, che considerava un altissimo privilegio essere vicina al monarca nella cosiddetta «Gabbia Dorata», come suppellettili di un meticoloso cerimoniale di cui erano parte fondamentale feste, passatempi e banchetti. A rendere perfetto l’ozio di queste élites provvedevano migliaia di domestici, giardinieri e ortolani, oltre a seicento addetti alle cucine e alle dispense di corte: vivandieri, cuochi, pasticceri, rosticcieri, cantinieri, macellai, scalchi e ufficiali-di-bocca.

A tavola con dodici spettatori L’incontenibile voracità di Luigi XIV si manifestava a Versailles con scenografica evidenza durante i fastosi ricevimenti, ma anche nell’estenuante e cerimonioso «Grand Souper du Roi», che andava in scena ogni giorno e a cui assistevano, come spettatori digiuni, tutti i nobili e i piú meritevoli tra i cortigiani. I menú serali del re – che anche quando cenava da solo era circondato da altre dodici persone, sull’esempio di Cristo – richiedevano 6 libbre di bue, 7 tagli di montone, 4 di vitello, 2 capponi, 2

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In alto piano del servizio per una delle tavole reali allestite per Luigi XIV, in occasione di una visita al castello di Marly, il 24 novembre 1699. Erano previste 18 portate, comprendenti 4 minestre, 4 arrosti e 10 varietà diverse di antipasti. A destra incisione raffigurante il «superbo pranzo» offerto dal Re Sole in occasione delle nozze tra il duca di Berry e madame d’Orléans, celebrato a Versailles nel 1710. tacchini, 16 colombi, 1 cappone grasso, 2 fagiani, 3 polli e 2 conigli. Grazie ai pignoli funzionari addetti alle vivande sappiamo che un pasto del re nel 1694 costava 236 lire, circa 1/3 di quanto richiesto da quello del Gran Maestro di Cerimonie che gli sedeva accanto: interpolando i due dati, si stima che il Re Sole ingerisse circa 7000 kilocalorie per la sola cena. Non pago di ciò, nella camera reale si faceva regolarmente allestire un tavolo di carni fredde, dolcetti e amuse-gueule per la notte. Per (sua) fortuna, al risveglio si accontentava di brodo caldo di carni, acqua fresca, pane imburrato, un paio di uova maggio

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Miniatura raffigurante una scena di banchetto, da un’edizione del De Universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

fresche e talvolta, ma solo in tarda età, di un bicchiere di vino. Non sorprende dunque che il sovrano avesse una salute profondamente minata dal cibo e che visse i suoi 77 anni (un’età eccezionale per l’epoca), di cui 72 sul trono, sempre circondato da medici e chirurghi, ma anche da praticoni e ciarlatani. Sorprende invece che sia sopravvissuto non tanto a 32 anni di guerre (in Spagna, Olanda, Germania, Portogallo e Colombia), ma a decine di interventi senza anestesia, al quotidiano assedio di purghe, impiastri, infusi e pozioni di ogni genere, oltre a duemila clisteri e quaranta salassi: merito sicuramente

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di un fisico eccezionale e di una non comune capacità di sopportare il dolore. Le informazioni e le notizie sullo stato fisico del re erano un affare di Stato, e delle sue guarigioni – festeggiate pubblicamente con grande risonanza – parlavano tutti, ammirati e in totale sintonia con madame de Maintenon, per la quale «la salute del Re è un miracolo che si rinnova ogni giorno». Dal 1647 al 1715, i medici di corte Vaultier, Cousinot, Vallon, d’Aquin e Fagon aggiornano con cura certosina il Journal de la Santé du Roi, annotando tutte le diagnosi, le terapie, gli esiti e perfino gli stati d’animo dell’augusto paziente.

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CALEIDO SCOPIO Natura morta con pezzi d’oreficeria, olio su tela attribuito a Jean-Baptiste Monnoyer. XVII sec. Parigi, Musée des Arts Décoratifs.

Salito al trono di Francia a soli 5 anni, sopravvisse a un tumore al capezzolo destro, alla gonorrea, al vaiolo, a una scarlattina e a una rosolia molto maligne, soffrí di reumatismi per tutta la vita, ebbe continui problemi agli occhi e assidue malattie della pelle, dovute sia a parassiti, sia alla ostinata mancanza di igiene comune tra i nobili, per i quali lavarsi era attività degna degli stallieri. Le strutture igieniche di tutta Versailles erano minime e il sovrano stesso, che si lavava ogni mattina – beninteso, pubblicamente – solo le dita e il volto, si vantava di aver fatto non piú di due bagni in tutta la sua vita.

Scarsa igiene e sfrenatezze: una miscela fatale Una latitante igiene orale associata al continuo consumo di dolci gli procurò profonde carie e una insopportabile alitosi, che mascherava portando alla bocca fazzoletti profumati di acqua di fiori d’arancio. Quando gli furono estratti tutti i denti superiori, ormai neri e consunti, i chirurghi gli lacerarono addirittura il palato, provocandogli la fuoriuscita del cibo e delle bevande dal naso. La ferita richiese ben quattordici cauterizzazioni

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e, per mesi, il Re Sole dovette alimentarsi con pappe e poltiglie. Rifiutò sempre di portare una dentiera e la imperfetta masticazione ebbe serie conseguenze sul suo già problematico apparato digerente. Si ammalò di diabete, che causò una neuropatia con conseguente cancrena agli arti, quindi, a quarantotto anni, gli fu diagnosticato un tumore tra l’ano e i testicoli che evolse in una perforazione intestinale. Operato dal grande chirurgo Félix De Tassy, due giorni dopo il massiccio intervento, il re già presiedeva un consiglio dei ministri e riceveva gli ambasciatori; mal gliene incolse, perché, due settimane piú tardi, De Tassy dovette riaprire la ferita e provvedere d’urgenza a un secondo e piú doloroso intervento di pulizia e ricostruzione delle mucose. La gotta lo accompagnò per metà della vita come risultato della sua passione per le carni d’ogni genere. Sempre nel Journal de la Santé du Roi, vengono riportate altre numerose e ricorrenti patologie «minori», come indigestioni, dolori gastrici, diarree e stitichezze, tutte riferibili al suo sregolato e vorace regime alimentare. Incontenibili e rumorosi attacchi di meteorismo (probabilmente una diverticolite del segmento inferiore del colon) lo obbligavano ad abbandonare i Consigli della Corona, ad andarsene improvvisamente dai salotti di madame de Maintenon o a lasciare di corsa la sala da pranzo, tra lo sconcerto generale. Un anno prima della morte, quando aveva 76 anni, Luigi XIV era notevolmente smagrito e il suo medico, Fagon, era talmente ammalato da non accorgersi di questo improvviso stato di sofferenza generale, nonostante i cortigiani glielo avessero fatto notare piú volte. Al ritorno da una battuta di caccia, all’inizio di agosto del 1715, il Re Sole lamentò un forte dolore all’anca sinistra, che gli impediva di camminare. Ciononostante, non perse l’appetito. Mangiava senza sosta, beveva grandi quantità di vino e di tisane, ma appariva nervoso ed era inavvicinabile anche dai piú fedeli e solerti collaboratori. La gamba destra si gonfiava e il dolore aumentava al punto che si resero necessarie ripetute incisioni profonde per drenare la cancrena diffusa a tutta la coscia. Attorno al suo letto si affollarono i soliti ciarlatani con i loro bauletti di improbabili rimedi, ma il 1° settembre 1715, alle otto del mattino, il Re Sole spirò. maggio

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Lo scaffale Antonio Musarra Medioevo marinaro Prendere il mare nell’Italia medievale

il Mulino, Bologna, 303 pp.

22,00 euro ISBN 978-88-15-19181-3 www.mulino.it

Le parole con cui Antonio Musarra sigilla questo suo nuovo saggio sono la sintesi piú efficace dell’opera: si augura infatti l’autore che le sue pagine possano costituire uno stimolo a guardare

al Mediterraneo – protagonista indiscusso della trattazione – come a un «baricentro di civiltà». Un auspicio che, del resto, innerva l’intero lavoro, nato peraltro dal Dominio del mare che i nostri lettori hanno avuto modo di apprezzare (vedi Medioevo Dossier n. 28, 2018; anche on line su issuu.com). Rispetto a quella pubblicazione, Musarra ha qui ampliato la sua disamina, che ha

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comunque conservato la medesima intelaiatura, nella quale si alternano e si compendiano le riflessioni di natura concettuale – come nel caso del capitolo d’apertura, dedicato alla rappresentazione del mare – e quelle piú squisitamente tecniche, di volta in volta dedicate ai porti, ai piú diffusi tipi di imbarcazioni o ai mestieri legati all’attività marinara. Senza naturalmente dimenticare le implicazioni sociali e politiche o anche le tensioni sfociate nei non pochi conflitti combattuti sulle acque del mare nostrum. Un affresco vivace e ricco di notizie, che prova ad allargare, con successo, la visione dell’età di Mezzo, affrancandola dalla dimensione per lo piú terrestre a lungo sostenuta dalla storiografia tradizionale. Fabio Gabbrielli Michele Pellegrini (a cura di) La via delle confraternite Ospedale e gruppi confraternali lungo la «strada interna» di Santa Maria della Scala: documenti, immagini e strutture materiali

e

Raffaello Morghen Dante profeta Tra la storia e l’eterno

Effigi, Arcidosso (GR), 300 pp., ill. b/n

20,00 euro ISBN 9788855242066 www.cpadver-effigi.com

Il volume dà conto, in forma integrata e arricchita, dell’omonima giornata di studi tenutasi a Siena nel 2018, per iniziativa

Jaca Book, Milano, 182 pp.

François Bœspflug, Cristiano Cossu, Emanuela Fogliadini, Ada Toni Spazio sacro e iconografia Limiti, sfide, responsabilità Jaca Book, Milano, 230 pp., ill. col.

25,00 euro ISBN 978-88-16-41630-7 www.jacabook.it

del Centro di studi sugli ospedali storici, una struttura pensata per rispondere al crescente interesse suscitato dalle vicende delle istituzioni assistenziali sorte nel corso del Medioevo. Un universo che proprio a Siena ha avuto uno dei suoi pianeti piú importanti nel Santa Maria della Scala, l’ospedale che fa da filo conduttore delle ricerche qui presentate, in questo caso mirate a ricostruire i rapporti tra il grande nosocomio e le società confranternali.

Fondata nel nome dell’artefice del magnifico mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, l’Associazione Pantaleone è nata nella città salentina allo scopo di promuovere iniziative culturali orientate alla ricerca sull’arte e l’architettura cristiane, al rinnovamento dell’arte sacra e alla valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici. In questo quadro è nata l’idea di promuovere il convegno di cui il volume costituisce la pubblicazione, che affronta un tema assai ampio e attuale, analizzato, però, in un confonto costante con le esperienze maturate nel corso del Medioevo.

20,00 euro ISBN 978-88-16-41651-2 www.jacabook.it

Jaca Book propone la ristampa della raccolta di saggi pubblicata nel 1983 da Raffaello Morghen (1896-1983), uno dei piú insigni storici del Medioevo in Italia. Lo studioso realizzò questa silloge con l’intento di tracciare un profilo umano del sommo poeta e di inquadrarne la vicenda biografica nel contesto delle vicende di cui la Toscana e l’Italia furono teatro ai primi del Trecento. La Divina Commedia e, in generale, l’intera produzione letteraria di Dante Alighieri non sono dunque messi in secondo piano, ma, semmai, affiancano la rilettura dell’illustre personaggio. (a cura di Stefano Mammini)

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Mondi a confronto MUSICA • Suoni antichi ed esotici si

fondono armoniosamente nell’ultima proposta di Jordi Savall. Ancora una volta segnata dall’accattivante dialogo tra rigore filologico e contaminazione

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igura di spicco nel panorama internazionale della musica antica, Jordi Savall colpisce sempre nel segno con proposte inusuali e volte a stabilire un dialogo tra culture, le piú disparate, che, con le loro differenze e analogie, popolano molti dei suoi programmi. Con questa Lira d’Esperia, il maestro spagnolo ci trasporta in un mondo sonoro a lui particolarmente caro: quello degli strumenti ad arco, tra i quali sceglie, in questo caso, la viella, la rebeca, la lira da gamba e l’esotico rebab afghano a 5 corde. Tutti cordofoni che, nelle loro declinazioni locali, interpretano un repertorio che spazia dalle melodie tratte dalle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X il Saggio agli antichi repertori arabi, sefarditi, balcanici. Ispirata alla lira, osannato strumento della tradizione greca, e all’Esperia, toponimo con il quale gli antichi Greci denominavano la penisola iberica e italica, l’antologia ci riporta ai tempi in cui, attraverso la diffusione della vihuela o viola d’arco in territorio iberico (grazie ai proficui scambi con la dominante cultura mozarabica), lo sviluppo della tecnica ad arco favorí la creazione di un repertorio diffusosi ampiamente sia nei raffinati ambienti di corte che nella musica popolare. Dalla tradizione iberica, che apre l’antologia con un Rotundellus d’origine galiziana, Savall ci trasporta subito dopo, con

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La Lira d’Esperia 1100-1400 Jordi Savall e Pedro Estevan AliaVox (AVSA9942), 1 CD www.alia-vox.com/it ampi salti temporali/geografici, a brani algerini, sefarditi d’area balcanica, turchi e italiani. Le tre culture predominanti a cui queste composizioni vanno ascritte sono la cristiana, l’islamica e la sefardita, che convissero in molte aree del Mediterraneo medievale, ma anche oltre, e furono all’origine di quella contaminazione di stili e generi musicali che qui viene egregiamente riproposta.

Tradizioni mediterranee Parte dei brani sono composizioni provenienti dalla tradizione scritta, come quelle del Trecento italiano o quelle duecenteschi tratte dalle già ricordate Cantigas di Alfonso X. Al contrario, i restanti ascolti provengono per lo piú dall’immensa tradizione orale delle varie aree del Mediterraneo, oggetto di studi e trascrizioni da parte di antropologi e musicologi tra il XIX e il XX secolo. Si tratta di pezzi in prevalenza figli della tradizione popolare, in particolare nel caso delle danze (istampitta, trotto, saltarello, ecc.), che ci offrono un panorama

musicale variopinto, di grande suggestione, e tale da esaltare le caratteristiche timbriche di ogni singolo strumento. Si conferma indiscussa la bravura di Savall, che, passando da uno strumento all’altro, infonde sapientemente a ogni brano quell’attenzione filologica e interpretativa che fa la differenza, mentre la ritmica è affidata a Pedro Estevan, l’altro elemento vincente di questa proposta musicale. L’elemento ritmico infonde la giusta energia soprattutto nei movimenti di danza in cui la melodia affidata allo strumento ad arco dialoga appassionatamente con la percussione. Franco Bruni




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