Medioevo n. 290, Marzo 2021

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MEDIOEVO n. 290 MARZO 2021

SA LV M IA I DE MO LA L D LA N UO FA O M BBR O IC A

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

FIRENZE

Mens. Anno 25 numero 290 Marzo 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

L’EREDITÀ DI DANTE SPIEGATA DA FRANCO CARDINI

MARZO 1311 LA VENDETTA DELLA COMPAGNIA CATALANA

COSTUME E SOCIETÀ L’ETÀ DELLE CONFRATERNITE

DOSSIER

RISCOPERTE GLI EBREI DI ORVIETO

UN CASTELLO NEL CUORE DI ROMA

10290 9

771125

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www.medioevo.it

€ 5,90

EREDITÀ DI DANTE BATTAGLIA DI KEPHISSOS EBREI A ORVIETO CONFRATERNITE DOSSIER UN CASTELLO A ROMA

IL GENIO DI

IN EDICOLA IL 4 MARZO 2021



SOMMARIO

Marzo 2021

ANTEPRIMA

UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Cerimonie ad alto rischio di Federico Canaccini

ARCHEOLOGIA Sotto la torre del patriarca

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di Giampiero Galasso

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INCONTRI Maremma dantesca

8

RESTAURI Benefattori di ieri e di oggi di Stefania Romani

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

10

44 BATTAGLIE Kephissos Fango assassino di Federico Canaccini

34

OLTRE LO SGUARDO/2 I Profeti

18

Verso la fine dei tempi di Furio Cappelli

STORIE Orvieto Quell’indispensabile tolleranza di Giuseppe M. Della Fina

44

56

COSTUME E SOCIETÀ CONFRATERNITE Quando il Medioevo era... solidale di Ilaria Taddei

64

di Ludovica Sebregondi

77

A ciascuno la sua cappa

26 STORIE INTERVISTA Dante L’universo come esilio

incontro con Franco Cardini, a cura di Alessandro Bedini

34

26

CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Del prender cibo con le mani di Sergio G. Grasso 106 LIBRI Lo Scaffale

a cura di Stefano Mammini

112

Dossier

TORRE DELLE MILIZIE Un castello nel cuore di Roma di Marco Bianchini e Massimo Vitti

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MEDIOEVO n. 290 MARZO 2021

SA LV M IA I DE MO LA L D LA N UO FA O M BBR O IC A

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

Mens. Anno 25 numero 290 Marzo 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

L’EREDITÀ DI DANTE SPIEGATA DA FRANCO CARDINI

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EREDITÀ DI DANTE BATTAGLIA DI KEPHISSOS EBREI A ORVIETO CONFRATERNITE DOSSIER UN CASTELLO A ROMA

IL GENIO DI

FIRENZE

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Marco Bianchini è archeologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Franco Cardini è storico del Medioevo. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Stefania Romani è giornalista. Ludovica Sebregondi è storica dell’arte. Ilaria Taddei è professore di storia medievale all’Université Grenoble Alpes. Massimo Vitti è curatore beni culturali della Sovrintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale

IN EDICOLA IL 4 MARZO 2021

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19/02/21 12:09

MEDIOEVO Anno XXV, n. 290 - marzo 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 26) e pp. 29 (basso), 40-41, 54, 57, 60/61, 64-77, 78 (basso), 78/79, 79, 80-81, 107, 108-109 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia: pp. 6-7 – Cortesia Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano: pp. 10-14 – Mondadori Portfolio: Eric Vandeville/AKG Images: pp. 27 (alto), 48; Fototeca Gilardi: pp. 28/29; Album/National Gallery of Art, Washington DC: p. 30; Roland e Sabrina Michaud/ AKG Images: p. 32; AKG Images/British Library: p. 33; Album/Oronoz: pp. 34/35, 36/37, 56, 58, 58/59; Album/ Prisma: pp. 38-39; Album/Quintlox: p. 49; Werner Forman Archive/Biblioteca Nacional, Madrid/Heritage Images: p. 51; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 110/111 (alto) – Art Images for College Teaching/Allan T. Kohl: pp. 44-45 – Cortesia Festival del Medioevo: p. 27 (basso) – Stephen Shankland: p. 46 – Makiko Itoh: p. 47 – da: Guida alle chiese romaniche di Ascoli Piceno città di travertino, Ascoli Piceno 2007; Domenico Oddi: pp. 50, 52 – Shutterstock: pp. 52/53, 62/63, 83 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 78 (alto), 110/111 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 84-105 – National Gallery of Art, Washington DC: p. 106 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 36, 59. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina particolare della replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera è una testimonianza preziosa dell’assetto urbano di Firenze.

Prossimamente oltre lo sguardo

Daniele nella fossa dei leoni

medioevo nascosto

Alla riscoperta di Terni

dossier

Quando le donne facevano l’impresa


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

Cerimonie ad alto rischio

N

el Basso Medioevo il battesimo si amministrava per immersione, cioè immergendo, appunto, i bimbi in pozzetti ricolmi di acqua benedetta. Dopo una lunga fase altomedievale in cui si usava ricevere il battesimo da adulti, cosí da lavare tutti i peccati commessi e giungere mondi dinnanzi a Dio, iniziò l’uso di amministrare il sacramento ai piccoli, al fine di purificarli dal Peccato originale e iniziare la vita terrena completamente casti: l’abitino bianchissimo che si usa far indossare ai battezzandi attesta ancora questa purezza. Nel Battistero di Firenze, al centro della sala ottagona, vi era un grande fonte battesimale, di cui sopravvivono alcuni frammenti della balaustra con il rosone al centro e motivi geometrici. Nell’opera muraria del fonte erano inseriti alcuni pozzetti sopraelevati: l’acqua era nel fonte centrale e, una volta benedetta nelle vigilie di Pasqua e Pentecoste, veniva attinta e versata nei pozzi che Dante chiama «battezzatori», costruiti per agevolare l’amministrazione di piú battesimi contemporaneamente. Qui, il 26 marzo del 1266, in occasione del Sabato Santo, in una pubblica cerimonia, tutti i fanciulli nati nell’ultimo anno ricevettero il sacramento: tra loro anche Dante, del quale invece ignoriamo l’esatto giorno di nascita, e che ricorda «il fonte del mio battesmo» con grande malinconia nel Paradiso (XXV, 8-9). Dante si trovò a partecipare a queste celebrazioni anche da adulto e, in una di queste occasioni, diede enorme prova di prontezza e coraggio. Rammenta questa esperienza nel canto XIX dell’Inferno, quando vede i simonia-

ci confitti a testa in giú in pozzi che non gli «parean men ampi né maggiori // che que’ che son nel mio bel San Giovanni, // fatti per loco d’i battezzatori». Era dunque in corso la solenne celebrazione e i piccoli venivano immersi nei pozzetti: l’episodio accadde pochi anni prima del 1300 («ancora non è molt’anni», scrisse) e, a distanza di tempo, Dante sentí l’esigenza di discolparsi di qualcosa che aveva fatto ai danni del fonte. Infatti l’Alighieri notò un piccolo «che dentro v’annegava»: il commentatore Benvenuti ci fornisce il nome del bimbo, un certo Antonio Baldinaccio dei Cavicciuoli. Non sappiamo come il poeta riuscisse a spaccare la lastra superiore di marmo: forse servendosi di un candelabro, meno probabilmente di una scure, come propone lo stesso Benvenuti. Perché mai, infatti, entrare in Battistero con una scure? Possiamo immaginare il coraggio e la freddezza del giovane Alighieri per irrompere in mezzo a una solenne celebrazione e, con forza, spaccare una lastra di marmo, dinnanzi a decine di persone: non è improbabile che molti abbiano giudicato l’iniziativa temeraria e avventata e dovettero circolare voci sul «folle gesto» di Dante, al punto da indurre il poeta a chiudere definitivamente la questione nei suoi versi immortali. Affinché l’accaduto non fosse attribuito a disprezzo o follia, il poeta forní dunque la spiegazione autentica per fugare ogni dubbio anche ai suoi detrattori: «e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni» (da intendersi che sia questa la testimonianza, suggel, che toglie ogni dubbio, sganni, a chiunque, ogn’omo).

Formella raffigurante il sacramento del Battesimo, dal lato nord del Campanile di Giotto. 1343-1360. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

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ANTE PRIMA

Sotto la torre del patriarca ARCHEOLOGIA • La

ricostruzione della storia medievale di San Vito al Tagliamento si arricchisce di un nuovo e significativo tassello, grazie alla scoperta del sistema difensivo apprestato in prossimità di una delle porte d’accesso alla città

L’

antico fortilizio medievale di San Vito al Tagliamento (Pordenone) è tornato alla luce grazie alle indagini di archeologia preventiva condotte dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia per i lavori di riqualificazione urbana di via Pomponio Amalteo, nel centro storico cittadino. «In coincidenza dell’antico passaggio della porta urbica di Torre Raimonda, che fu ampliata e trasformata tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento – spiega Serena Di Tonto, funzionario archeologo –, sono state messe in luce alcune strutture murarie riferibili al sistema difensivo della cittadina medievale, realizzato in piú fasi, la cui visione d’insieme risulta purtroppo in parte compromessa per la presenza di numerosi sottoservizi che hanno intaccato le antiche strutture. È stato comunque possibile individuare alcune murature in pietra e in laterizio, costruite in diversi momenti cronologici, parte delle strutture difensive che prevedevano un fossato, il ponticello per l’afflusso e deflusso delle acque e l’alloggiamento del ponte levatoio o battiponte. La presenza di tali strutture trova riscontro sulla facciata della porta ovest dell’abitato, dove a lato della trifora della torre, dopo i recenti restauri, sono visibili i segni In questa pagina San Vito al Tagliamento (Pordenone). La Torre Raimonda (a destra) e una veduta del cantiere di scavo nel quale sono venuti alla luce i resti del sistema difensivo medievale.

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In questa pagina ancora due immagini del cantiere di scavo che mostrano resti delle varie strutture murarie riportate alla luce. Nonostante le alterazioni causate dalla realizzazione, in epoca moderna, di varie opere di servizio, le indagini hanno permesso di accertare le diverse fasi di frequentazione e uso dell’area.

dell’alloggiamento dei bolzoni, travi che servivano per la manovra del ponte levatoio. L’interesse dei rinvenimenti ha portato a effettuare alcuni saggi puntuali: è stata cosí individuata anche la sponda del fossato risalente alla fase precedente alla strutturazione degli edifici medievali, che, lungo un breve tratto del profilo del fossato, presenta tracce di numerose scorie ferrose, probabilmente riferibili a scarti di fornace».

Il primo nucleo abitato «Il tratto stradale di via Amalteo è chiaramente una permanenza dell’antico tracciato viario con orientamento est-ovest che, già in epoca romana, collegava Concordia al Noricum. Nel Basso Medioevo su questo tracciato si impostò il primo borgo di San Vito e nei secoli successivi si aggregarono, attorno al primo nucleo, altri borghi (burgi), fino a definire, nel corso del XVI secolo, la

forma pentagonale del centro storico che ancora lo contraddistingue. La Torre Raimonda venne edificata proprio nella seconda fase di crescita dell’edificato del borgo fortificato, tra il XIII e il XIV secolo. La nuova lottizzazione fu voluta dal Patriarca Raimondo della Torre (1273-1299) a nord del primitivo nucleo. L’ingresso a San Vito da ovest era segnalato dalla presenza di questa imponente torre, probabilmente provvista di due piani oltre l’apparato di funzionamento del ponte levatoio. Tra le nicchie tamponate che contenevano i bolzoni sono ancora visibili lacerti di affresco che sono stati analizzati durante la fase di elaborazione del progetto di riqualificazione urbana. Dalle indagini è emerso che i lacerti svelano stemmi araldici da ricondurre a personaggi illustri per la storia di San Vito al Tagliamento». Giampiero Galasso

Errata corrige con riferimento all’articolo La Milano di fra Bonvesin (vedi «Medioevo» n. 289, febbraio 2021) desideriamo precisare che a p. 106, nella descrizione del Libro delle tre scritture, alla redenzione e alla «passione divina de la morte de Yesú Cristo, fiolo de la Regina» Bonvesin de la Riva riservava la «scriptura rossa» e non quella «dorata», come riportato. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA

Maremma dantesca

INCONTRI • La presenza di Dante in questa terra a

metà fra Toscana e Lazio non è certa, ma molti sono gli indizi. Sulla scia dei quali prende il via un ricco calendario di iniziative per ricordare il sommo poeta

O

ltre trenta istituzioni pubbliche e private, attive a Grosseto nel settore della cultura e dell’associazionismo, si sono costituite in Comitato Celebrativo per elaborare il Calendario di iniziative tese a commemorare la personalità e le opere di Dante Alighieri in Maremma durante il 2021, in occasione del settecentenario dalla sua morte. Già dal nome, «La Maremma per Dante, Cultura per la vita 13212021», il progetto lascia trasparire l’intenzione di sollecitare la creatività e l’impegno dei diversi attori culturali che operano nel Grossetano, invitandoli a proporre attività che ripercorrano la personalità e le opere di Dante Alighieri, con un approccio accademico, ma anche attraverso forme comunicative alternative. Non è semplice stabilire se Dante abbia trascorso qualche periodo della sua vita in Maremma, pur quando il poeta ne descrive alcuni aspetti in modo convincente, tanto da sembrare il risultato di un’osservazione diretta. Il primo riferimento compare

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all’inizio del canto XIII dell’Inferno, quando la selva dei suicidi viene descritta come un luogo incolto simile al litorale fra Cecina e Tarquinia. A un ambiente naturale modellato sul paesaggio maremmano Dante allude nuovamente in Inferno XXV e XXIX. Nei canti del Purgatorio si leggono altri riferimenti a personaggi dell’epoca dantesca: gli Aldobrandeschi, la commovente Pia, forse da identificare con Pia Malavolti, signora di Prata. Sono inoltre citati i borghi di Talamone, Santa Fiora, Castel di Pietra, Castell’Azzara, Sovana e Campagnatico. Ciascuna di queste località sarà sede di un «Fine settimana medievale», in momenti diversi tra maggio e settembre 2021.

Dal teatro alla musica Fra gli eventi sono state inserite rappresentazioni teatrali che vedono in scena attori sia professionisti che non e molti giovani. Inoltre, Danteide riproduce in maniera itinerante momenti e personaggi tratti dalla Divina Commedia, dando luogo a

quadri e brevi sfilate creative e simboliche. Se l’adozione di norme sanitarie emergenziali dovesse impedire lo svolgimento delle manifestazioni, queste verranno riproposte in forma multimediale on line. Un fitto calendario di conferenze – proposte dalla sede grossetana della Società Dante Alighieri, dall’Università della Terza Età, dal Dipartimento di Scienze Storiche dell’UNISI e dallo stesso Comitato Celebrativo – consentirà di approfondire aspetti letterari, artistici e archeologici dell’epoca medievale e delle opere di Dante. Il sommo poeta viene anche celebrato in musica. La Società Corale Giacomo Puccini di Grosseto, diretta dal Maestro Walter Marzilli, organizza un concerto a marzo in occasione del Dantedí e in chiusura di tutte le commemorazioni, a fine novembre 2021, durante la Festa della Toscana, esegue le opere segnalate o premiate che hanno partecipato al Concorso «PuccinInsieme al Sommo Poeta». Il Concorso internazionale, destinato a compositori di musica corale, sollecita il loro talento creativo e li invita a misurarsi con la bellezza dei versi danteschi. Le basi sono disponibili sul sito https:// coralepuccini.org/, la scadenza è fissata ad aprile 2021. Info: Twitter, #LMpD21, #Lm4Dante; Instagram, #lamaremmaperdante; Facebook, LaMaremmaperDante. LMpD21; Youtube, Lamaremmaperdante2021 (red.) marzo

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ANTE PRIMA

Benefattori di ieri e di oggi

RESTAURI • Un anno

di emergenza sanitaria ha compromesso pesantemente anche il bilancio della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Che, per assicurare la continuità degli interventi di manutenzione e restauro, fa appello alla solidarietà dei cittadini, sperando magari di incontrare un novello Marco Carelli... 10

I

periodi di chiusura dovuti alla pandemia da Covid-19, hanno messo in difficoltà la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, l’ente storico che ha il compito di conservare e valorizzare la cattedrale, che nei suoi oltre seicento anni di vita ha sempre avuto bisogno di cure. Cosí l’istituzione meneghina ha messo a punto due iniziative per raccogliere fondi e permettere ai cantieri di andare avanti: la Duomo Card, una sorta di biglietto d’ingresso aperto, con accesso a contenuti multimediali riservati e altre agevolazioni, e Capolavori, ovvero la riproduzione di immagini legate al Duomo, che possono entrare come forma d’arte nelle case e negli uffici (vedi box a p. 14). La solidarietà ha del resto contraddistinto la storia del Duomo

In alto le guglie e la Madonnina del Duomo di Milano fanno da cornice e da sfondo alla Duomo Card. A destra le esequie solenni di Polissena Giovanna Cristina di Sardegna nel Duomo di Milano in un’incisione di Marcantonio Dal Re. Dopo il 1735.

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di Milano sin dalla fine del Trecento, quando Marco Carelli, il primo e piú grande benefattore della cattedrale, nel testamento del 4 luglio 1393 e nel successivo codicillo del 26 gennaio 1394, nominò sua erede universale la Veneranda Fabbrica.

Marmo al posto dei mattoni I lavori del luogo di culto erano iniziati nel 1386, quando il gotico era in piena età dell’oro, nel sito delle antiche basiliche di S. Maria Maggiore e S. Tecla. Solo un anno piú tardi Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, volle fondare l’ente che aveva l’incarico di portare avanti il cantiere. Invece del mattone lombardo, largamente utilizzato in città, il duca scelse per il Duomo il marmo di Candoglia, dando il via a una rivoluzione stilistica che indusse a cercare le maestranze piú specializzate nei cantieri di mezza Europa e fece di Milano un crocevia di idee, arte, cultura, con una cattedrale la cui costruzione, dilatata nel tempo, richiedeva un importante sforzo economico. Mercante molto abile, nato all’interno di una famiglia dedita

agli scambi commerciali dalla metà del XIII secolo, Marco Carelli abitava vicino a Porta Orientale, nella zona parrocchiale di S. Babila. Alla morte del nonno, suo padre Guidotino ne ereditò i beni immobili, mentre le attività di compravendita meneghine e veneziane erano toccate agli zii Franzio e Albergolo, che Marco ammirava fin da bambino, perché viaggiavano spesso e avevano consuetudine con persone e Paesi tanto diversi fra loro. Cosí, molto giovane, Carelli rinunciò all’eredità paterna per entrare in società con gli zii e un cugino nel 1347. Da allora, si mosse fra Milano e Venezia, ma tra le sue piazze figurava anche Bruges, dove commerciava seta, cotone, lana, cuoio, spezie, polvere di zucchero. Carelli era anche un finanziere intraprendente che, grazie all’ampia disponibilità di contanti, erogava prestiti a persone di estrazione elevata, compresi i signori di Milano. In un ambito che spesso suscitava sospetti, si destreggiava con abilità e prudenza al tempo stesso, tanto che la sola accusa di usura nei suoi riguardi, nel 1392, si risolse In alto il testamento di Marco Carelli, che nominò la Veneranda Fabbrica del Duomo sua erede universale. A sinistra la statua di Gian Galeazzo Visconti come san Giorgio che corona la guglia Carelli, la piú antica del Duomo. La scultura fu realizzata da Giorgio Solari nel 1404.

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ANTE PRIMA Un’altra immagine della guglia Carelli, qui in una foto d’epoca. Flora de Liprandis, ma non ebbe figli e, dopo aver disposto legati testamentari per la seconda moglie, che gli sopravvisse, e lasciti per i parenti, donò un patrimonio valutato in 35mila ducati, corrispondenti a circa 30 milioni di euro di oggi, alla Fabbrica, alla quale richiese una cappellania per la celebrazione di una messa quotidiana in Duomo e di una celebrazione in suffragio, da officiarsi il primo giorno di ogni mese dal capitolo metropolitano.

L’ultimo viaggio

senza strascichi e provvedimenti. Sia nella sua città natale che nella Serenissima Marco ricoprí incarichi prestigiosi: in Laguna, con alcuni mercanti milanesi e monzesi, fondò una confraternita, di cui divenne priore, per assistere i poveri; nel 1364 per volere di Bernabò Visconti assunse la carica di procuratore del sale a Venezia, che aveva un ruolo strategico, mentre qualche anno piú tardi ricoprí la funzione di sovrintendente ai lavori per la Fabbrica del Duomo di Milano e diventò responsabile delle oblazioni di Porta Orientale e Porta Nuova.

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Quindi intervenne a nome della Fabbrica presso il duca Gian Galeazzo Visconti, affinché intercedesse con il pontefice per la proclamazione di un giubileo straordinario. Proprio dopo il giubileo del 1390, Carelli, che aveva già donato la metà dei suoi diritti, decise di legare il proprio patrimonio alla Fabbrica, che, a secco di finanziamenti e in difficoltà nella prosecuzione dei lavori, bussò alla porta di Marcolino, ricevendone aiuto. Il primo benefattore si sposò due volte, con Giovannina Settala e con

Carelli venne sepolto prima a Venezia, nella chiesa dei Frari, dove aveva costruito la cappella della sua confraternita, quindi venne traslato a Milano: le sue spoglie furono traghettate lungo il Po e l’Adda, dalla Serenissima a Lodi e da qui trasportate fino al capoluogo lombardo, dove fu tumulato in S. Tecla. Grazie a un’ordinanza del duca, la bara di Carelli entrò a Milano da Porta Orientale: prima fu vegliata a S. Erasmo fuori Porta Romana, poi dall’abitazione del defunto portata in corteo solenne attraversò la città, lungo corsia dei Servi e strada del Compito, alla volta di S. Tecla. Tre nunzi furono mandati per tutte le parrocchie e le vie milanesi a diffondere la notizia del funerale, a cui presero parte alto clero, nobili, autorità e una notevole folla. Piú tardi Carelli, dopo un’altra cerimonia solenne, trovò sepoltura all’interno del Duomo, dove ancora oggi riposa. Nell’archivio della Fabbrica sono numerosi i documenti riguardanti il benefattore, che ricostruiscono la formazione e la gestione del suo patrimonio con una contabilità puntuale. I registri attestano riscossioni e pagamenti: le entrate provengono da affitti, ricavi per cessione di piccole partite di oggetti e crediti legati alla vendita di merce marzo

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In alto veduta del Duomo di Milano dalla torre di piazza dei Mercanti. 18591864. A destra l’arca gotica che accoglie le spoglie di Marco Carelli, con figure di Dottori della Chiesa ed Evangelisti. L’opera viene attribuita a Jacopino da Tradate, ma potrebbe essersi avvalsa anche degli interventi di Jacobello delle Masegne.

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ANTE PRIMA Per non fermare i cantieri La pandemia ha messo in seria difficoltà la Veneranda Fabbrica del Duomo. Nel 2019 quasi 3 milioni di turisti, il 65% dei quali stranieri, hanno visitato il monumento simbolo del capoluogo lombardo, mentre nel 2020, con poche decine di migliaia di ingressi, gli introiti sono crollati dell’80%, con una perdita fra i 22 e i 23 milioni di euro. Cosí la Fabbrica, per far fronte al drastico calo di fondi, ha messo a punto iniziative che hanno l’obiettivo di mantenere aperti i quattro cantieri di restauro: sono in corso lavori al tiburio, al capocroce nord, alla sacrestia aquilonare e all’organo, uno dei dieci piú grandi al mondo. La prima iniziativa è la Milano Duomo Card, valida per tutto il 2021, in quattro tipologie per una, due, tre o quattro persone, a cifre che vanno dai 30 ai 100 euro. Permette di accedere ai contenuti multimediali riservati de I segreti del duomo, nel sito www.duomomilano.it, prevede l’iscrizione alla newsletter, prenotazioni anticipate degli eventi, una visita alla cattedrale e alla sua area archeologica, l’accesso illimitato al Museo del duomo, sconti per le visite guidate in presenza, priorità nel ritiro dei biglietti, gadget e sconti al Duomo Shop. Ne esiste una versione, valida sino alla fine del 2022, per le scuole fino ai licei, con webinar dedicati, materiali da scaricare, approfondimenti e Duomo pass lift per la classe. La seconda iniziativa è Capolavori, ovvero la pubblicazione in stampe di pregio, su carta fine art, di immagini iconiche del Duomo o di soggetti meno noti, tratti dall’archivio fondato nel 1387: la Fabbrica ha attinto all’immenso patrimonio di opere d’arte e fotografie, che una volta riprodotte sono distribuite da Mondadori Retail. Gli acquisti sosterranno quindi il Duomo, consentendo ai suoi cantieri di non fermarsi. Per informazioni: www.duomomilano.it In alto Adorazione dei Magi, arazzo in lana e oro di manifattura lombarda in origine appartenente a una serie sulla vita della Madonna e di Gesú. 1550 circa. Milano, Museo del Duomo. A sinistra progetto per la facciata del Duomo di Milano di Giuseppe Pollack, che ricoprí l’incarico di architetto aggiunto presso la Veneranda Fabbrica del Duomo dal 1806 al 1842. 1806. come polvere di zucchero, cotone, legumi, frumento. Nei libri contabili figurano anche riscossioni arretrate di pigioni, operazioni di banca e vendite derivate dall’incanto di tessuti e preziosi. Nel gestire i suoi averi, l’ente religioso sostenne spese

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relative al trasporto e alla vendita di masserizie da Bruges a Milano e alle onoranze funebri. A Carelli venne dedicata la guglia piú antica del Duomo, che porta ancora oggi il suo nome: si tratta del primo elemento che decora il tetto con una spiccata spinta verticale, all’estremità settentrionale dell’abside, in corrispondenza della sacrestia aquilonare, proprio davanti all’imbocco di corso Vittorio Emanuele II. Realizzata agli inizi del Quattrocento, la prima delle 135 guglie, diventate iconiche e immediatamente riconoscibili come simbolo di Milano nel mondo, conta angeli e profeti di memoria borgognona che ne decorano le nicchie della base, mentre nella sua parte terminale svetta san Giorgio, ritratto da Giorgio Solari nel 1404 con la fisionomia di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano. Solo un secolo dopo fu innalzata un’altra guglia, in posizione simmetrica, a sud del catino absidale. A ricordo di Carelli all’interno del Duomo è custodita un’arca di struttura gotica con Dottori della Chiesa ed Evangelisti riconducibili a Jacopino da Tradate, sulla quale potrebbe essere intervenuto anche Jacobello delle Masegne. Stefania Romani marzo

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LA BELLEZZA nel mondo antico di Eugenio De Carlo e Massimo Vidale

IN EDICOLA

Sin dagli inizi dell’umanità, la cura del proprio aspetto e il raggiungimento dei traguardi posti dai canoni di bellezza hanno fatto parte delle preoccupazioni dell’universo femminile, ma anche di quello maschile. Nel tempo, però, i modelli sono mutati e, soprattutto, sono stati elaborati in forme diverse dalle grandi civiltà del mondo occidentale e di quello orientale. La nuova Monografia di «Archeo» esplora dunque questo universo affascinante, è il caso di dirlo, a cominciare dal passato piú remoto, quando i nostri antenati del Paleolitico e del Neolitico scolpirono nella pietra o plasmarono nell’argilla le figurine note come «Veneri». Come spiegano gli autori, soprattutto per quelle epoche cosí lontane, è difficile stabilire cosa fosse considerato «bello», mentre il discorso si fa piú agevole scendendo nel tempo, quando alle testimonianze materiali si affiancano le notizie tramandate da letterati e poeti. Parallelamente, Eugenio De Carlo e Massimo Vidale illustrano il variopinto mondo della cosmesi, svelando come in Egitto, in Grecia e a Roma, passando per la Mesopotamia e la Persia e l’India, fossero state scoperte e utilizzate sostanze sempre piú raffinate (cosmetici, unguenti e profumi) e inventate tecniche e discipline fisiche (alcune paragonabili alle nostre ginnastiche di fitness), atte a valorizzare le proprie doti di bellezza. Si potrà cosí constatare quanto notevole fosse il bagaglio di conoscenze accumulato in secoli di sperimentazioni, basate sulla sorprendente conoscenza delle proprietà chimiche e fisiche di una vastissima gamma di materie prime. Già allora, potremmo dire, la bellezza era una dote concessa a molti dal destino, ma esaltata, spesso, dall’artificio.



AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

AVVISO AI LETTORI

Questa Agenda del Mese è stata redatta in vigenza delle disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.

Mostre SENIGALLIA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Palazzo del Duca fino al 5 aprile

Dopo essere stata presentata ad Ascoli Piceno e a Roma, va in scena a Senigallia la terza e ultima tappa della mostra «Rinascimento marchigiano», che, per l’occasione, si è arricchita ulteriormente,

svelare le reliquie poste in una nicchia sul retro, e non di un dossale, come ha sempre sostenuto la storiografia. Di grande valore culturale è anche la campana databile al XIII secolo e molto probabilmente realizzata per la canonizzazione di san Francesco avvenuta nel 1228: si tratta della piú antica campana francescana arrivata ai nostri giorni. Originariamente si trovava nella chiesa di S. Francesco, a Borgo, una frazione di Arquata del Tronto, e ora è conservata nei depositi del Forte Malatesta di Ascoli Piceno. Da segnalare poi una stauroteca, contenente un frammento della vera croce e una coppia di reliquiari, realizzati nel XVIII secolo dall’orafo argentiere Pietro Bracci, romano di origine, ma molto attivo nelle Marche. info e-mail: circuitomuseale@ comune.senigallia.an.it PERUGIA

presentando una quarantina di opere. In particolare, per la prima volta dopo il sisma, viene ricomposto l’intero ciclo di Jacobello del Fiore con le Scene della vita di Santa Lucia proveniente dal Palazzo dei Priori di Fermo, presentato parzialmente nelle tappe precedenti. I restauri compiuti sul ciclo sono stati molto importanti, poiché hanno permesso di affermare con certezza che si tratta di una pala ribaltabile, dove i pannelli si potevano all’occorrenza richiudere uno sull’altro per

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RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi prorogata (data di chiusura in via di definizione)

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della

Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e

Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neo-rinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte. it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria marzo

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TORINO SULLE TRACCE DI RAFFAELLO NELLE COLLEZIONI SABAUDE Musei Reali, Galleria Sabauda-Spazio Scoperte fino all’11 aprile (prorogata)

A 500 anni dalla sua morte, anche i Musei Reali di Torino rendono omaggio a Raffaello con una mostra che, attraverso dipinti, incisioni e oggetti di arte decorativa, illustra la diffusione dei modelli derivati dalla sua opera dalla prima metà del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, in Piemonte e nelle raccolte dei Savoia. Il percorso presenta 33 opere e illustra l’arte di Raffaello attraverso lavori che derivano direttamente dai suoi modelli, sia mediante la pratica della

con la collaborazione del Centro di Conservazione e Restauro La Venaria Reale e il sostegno di Intesa Sanpaolo. Ritenuta all’inizio dell’Ottocento opera autografa del maestro e venduta come tale nel 1828 al principe di Carignano Carlo Alberto, è stata poi attribuita a collaboratori come Perin del Vaga e Giovan Francesco Penni. Gli approfondimenti condotti in occasione della mostra propendono invece per una realizzazione intorno al 1530-1540 a Firenze, in una prestigiosa officina come quella di Andrea del Sarto. La seconda parte presenta una selezione di stampe di soggetto sacro, mitologico e allegorico, dove i modelli di Raffaello sono rivisitati con formidabile perizia tecnica e originale sensibilità chiaroscurale. L’itinerario si completa lungo il percorso di visita al primo piano della Galleria Sabauda, dove sono esposte opere di autori cinquecenteschi che si misurarono con Raffaello e con l’ideale di un’arte di insuperata perfezione. info www.museireali. beniculturali.it ROMA

copia, sia con la libera reinterpretazione delle sue invenzioni. La prima parte del percorso è dedicata alle copie antiche della famosa Madonna d’Orléans, opera giovanile di Raffaello forse appartenuta al duca Carlo II di Savoia, oggi conservata presso il Museo Condé di Chantilly e replicata già nella prima metà del Cinquecento da alcuni dei principali artisti attivi in area piemontese. Deriva da un modello raffaellesco anche la Madonna della Tenda delle collezioni sabaude, restaurata

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IL TEMPO DI CARAVAGGIO. CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE DI ROBERTO LONGHI Musei Capitolini, Sale espositive di Palazzo Caffarelli fino al 5 maggio (prorogata)

Lo storico dell’arte Roberto Longhi si dedicò allo studio del Caravaggio, all’epoca uno dei pittori «meno conosciuti dell’arte italiana», già a partire dalla tesi di laurea, discussa con Pietro Toesca, all’Università di Torino nel 1911. Una scelta pionieristica, che tuttavia dimostra come il giovane Longhi seppe da

subito riconoscere la portata rivoluzionaria della pittura del Merisi, cosí da intenderlo come il primo pittore dell’età moderna. In mostra è esposto uno dei capolavori di Caravaggio, acquistato da Roberto Longhi alla fine degli anni Venti: il Ragazzo morso da un ramarro. Quattro tavolette di Lorenzo Lotto e due dipinti di Battista del Moro e Bartolomeo Passarotti aprono il percorso espositivo, con l’intento di rappresentare il clima artistico del manierismo lombardo e veneto in cui si è formato Caravaggio. Oltre al Ragazzo morso da un ramarro è in mostra il Ragazzo che monda un frutto, una copia antica da Caravaggio, che Longhi riteneva una «reliquia», tanto da esporla all’epocale rassegna di Palazzo Reale a Milano nel 1951. Seguono oltre quaranta dipinti degli artisti che per tutto il secolo XVII sono stati influenzati dalla sua rivoluzione figurativa. info e prenotazioni tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it FIRENZE IMPERATRICI, MATRONE, LIBERTE. VOLTI E SEGRETI DELLE DONNE ROMANE Galleria degli Uffizi fino al 9 maggio (prorogata)

La mostra pone a confronto gli opposti modelli che caratterizzano la rappresentazione femminile nel mondo romano, e infatti si articola in tre sezioni: gli exempla femminili negativi, i modelli positivi e infine il ruolo pubblico concesso alle matrone. L’arco temporale preso in esame comprende un periodo ampiamente documentato, quello aureo del Principato, che va dall’ascesa di Augusto alla morte di Marco

Aurelio. Le opere esposte sono sculture, epigrafi, gemme e disegni, in gran parte appartenenti alla collezione delle Gallerie degli Uffizi, e con prestiti da altre istituzioni. info tel. 055 294883; www.uffizi.it FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 27 giugno (prorogata)

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di

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AGENDA DEL MESE Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello

ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it MANTOVA RAFFAELLO TRAMA E ORDITO. GLI ARAZZI DI PALAZZO DUCALE A MANTOVA Complesso Museale Palazzo Ducale fino al 7 febbraio

Alle celebrazioni per il

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cinquecentenario della scomparsa di Raffaello Sanzio si è unita anche Mantova, città che conserva una preziosa testimonianza del genio urbinate. Il ciclo degli arazzi con le Storie dei Santi Pietro e Paolo conservato a Palazzo Ducale fu infatti realizzato nelle Fiandre a partire dai cartoni preparatori eseguiti dalla bottega di Raffaello: questi enormi fogli dipinti commissionati da papa Leone X, in parte conservati al Victoria & Albert Museum di Londra, servirono a realizzare il celebre ciclo destinato a ornare le pareti della Cappella Sistina in Vaticano. L’edizione mantovana, che segue cronologicamente l’editio princeps romana, è dunque un’opera di straordinario pregio, certamente tra i pezzi piú costosi e prestigiosi della portentosa collezione d’arte dei Gonzaga. La mostra presenta documenti legati alla storia del ciclo, dall’acquisto da parte di Ercole Gonzaga fino alle piú recenti vicende novecentesche. info tel. 0376 224832; https://mantovaducale. beniculturali.it

RAVENNA LE ARTI AL TEMPO DELL’ESILIO Chiesa di San Romualdo fino al 4 luglio (dal 6 marzo)

Secondo appuntamento del ciclo espositivo «Dante. Gli occhi e la mente», la mostra

riunisce testimonianze emblematiche delle tappe dell’esilio dantesco, proponendo ciò che il poeta ebbe occasione di ammirare nel suo lungo peregrinare per l’Italia, opere la cui eco influenzò la sua Commedia, straordinario «poema per immagini». Ad aprire il percorso espositivo è l’effigie in bronzo dorato raffigurante Bonifacio VIII, cioè di colui che condannò Dante all’esilio. L’ambiente di origine e formazione del poeta, Firenze, è quindi documentato da opere di Cimabue e di Giotto, che con ogni probabilità egli ebbe modo di ammirare. Negli anni successivi l’Alighieri, dopo essere stato costretto ad abbandonare anche Roma, soggiorna in diverse città, tra cui Arezzo, Verona, Padova, Bologna, Lucca e Pisa, in una fase di profonde mutazioni e

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novità nell’arte, che la mostra documenta attraverso dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie. Intorno al 1319, Dante giunge a Ravenna, mentre in città operavano Giovanni e Giuliano da Rimini, chiamato quest’ultimo a decorare la cappella a cornu epistulae della chiesa di S. Domenico, seguito anche da Pietro da Rimini, di cui la città conserva ancora oggi varie testimonianze. Ed è ai capolavori di questi due artisti che la mostra riserva ampio spazio nella sua sezione conclusiva, intervallandoli a testimonianze legate alla cultura figurativa veneziana, a documentare l’ultima impresa diplomatica svolta nella Serenissima dal poeta. Chiude il percorso la Madonna con Bambino che in origine proteggeva il modesto sarcofago dell’Alighieri e che, per questa occasione, torna per la prima volta a Ravenna, concessa in prestito dal Museo del Louvre, del quale è ora patrimonio. info www.mar.ra.it FORLÍ DANTE, LA VISIONE DELL’ARTE Musei San Domenico fino al 14 luglio (dal 12 marzo)

La mostra non vuol essere solo l’occasione per celebrare l’anniversario dantesco, ma, nel momento difficile che tutto il mondo vive, anche un simbolo di riscatto e di rinascita. A Forlí Dante trovò rifugio, lasciata Arezzo, nell’autunno del 1302, rimanendo per oltre un anno presso gli Ordelaffi, signori ghibellini della città. Per la mostra gli Uffizi hanno concesso in prestito alla città romagnola il ritratto dell’Alighieri e quello di Farinata degli Uberti di Andrea del Castagno, nonché

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TORINO RITRATTI D’ORO E D’ARGENTO. RELIQUIARI MEDIEVALI IN PIEMONTE, VALLE D’AOSTA, SVIZZERA E SAVOIA Palazzo Madama, Sala Atelier fino al 12 luglio (prorogata)

un altro ritratto, dipinto da Cristofano dell’Altissimo per la serie commissionata da Cosimo I de’ Medici dedicata agli uomini illustri. Si possono inoltre ammirare la Cacciata dal Paradiso terrestre di Pontormo e un disegno di Michelangelo che ritrae un dannato nell’Inferno della Divina Commedia, oltre a una scelta di disegni di Federico Zuccari per l’edizione cinquentesca illustrata del testo. E poi i personaggi: un busto marmoreo di Virgilio, realizzato dallo scultore settecentesco Carlo Albacini, e una delle piú recenti acquisizioni degli Uffizi, la tela ottocentesca del protoromantico toscano Nicola Monti intitolata Francesca da Rimini all’Inferno. A questa pregevole selezione si aggiungono le opere prestate da musei di tutto il mondo. «Dante, la visione dell’arte» intende dunque essere un momento di riflessione sulla figura del poeta, simbolo dell’Italia, e sul suo immenso lascito: in un rispecchiamento unico tra linguaggio dell’arte e figura letteraria. info tel. 0543 712.627-659; e-mail: biglietteria. musei@comune. forli.fc.it

La mostra presenta una galleria di busti reliquiario dal Duecento al primo Cinquecento, provenienti da tutte le diocesi del Piemonte e raffiguranti santi legati alle devozioni del territorio e alle titolazioni di determinate chiese locali, oltre ad alcuni esemplari dalla Svizzera e dall’Alta Savoia. Documentati già dall’XI secolo per contenere la reliquia del cranio di certi santi, i busti sono a tutti gli effetti dei ritratti in oreficeria, solitamente in rame o in argento dorato, spesso arricchiti da pietre preziose, vetri colorati e smalti. Una produzione specificatamente medievale, in cui convivono il gusto per il ritratto di tradizione classica – di qui la presenza di dettagli relativi all’acconciatura o all’abbigliamento – e le pratiche devozionali teorizzate da alcuni ecclesiastici e filosofi del XII secolo, secondo cui la contemplazione dell’immagine di un santo, realizzata con materiali preziosi, poteva

condurre il fedele verso l’elevazione spirituale. I busti e le teste reliquiario si configurano quindi come opere di valenza doppia: sia opere d’arte sia ricettacolo delle reliquie dei santi che rappresentano e in quanto tali oggetto della venerazione dei fedeli. Il Piemonte e l’area alpina contano un numero molto elevato di queste testimonianze per il periodo XII-XVI secolo, soprattutto in rapporto alle altre regioni d’Italia. La mostra vuole documentare questa ricchezza, anche stilistica, cercando di comprendere le ragioni del successo di questa tipologia nel nostro territorio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it RAVENNA INCLUSA EST FLAMMA. RAVENNA 1921: IL SECENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE Biblioteca Classense fino al 17 luglio

«Inclusa est flamma» è un percorso di documentazione storica che ha il suo nucleo centrale nelle celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate l’anno prima proprio in Classense alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce. Vengono esposti libri, manifesti, fotografie, dipinti, manoscritti e numerosi oggetti d’arte conferiti come omaggio a Dante e alla città «ultimo rifugio» del poeta. Ciascuno degli oggetti, testimonianze della storia «ufficiale», offre spunti per raccontare anche

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AGENDA DEL MESE APPUNTAMENTI • Luce sull’Archeologia 2021 - Da capitale di un Roma – Teatro Argentina

fino al 25 aprile info e-mail: promozione@teatrodiorma.net; www.teatrodiroma.net

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on la settima edizione di Luce sull’archeologia al Teatro Argentina, dedicata quest’anno al tema: «Da capitale di un impero all’ultima Roma antica. Paesaggi urbani, trasformazioni sociali e culturali», il Teatro di Roma-Teatro Nazionale, in un percorso di ideale continuità, prosegue con gli appuntamenti dedicati a Roma e al mondo romano. Un viaggio nella storia, nell’archeologia e nella storia dell’arte, per approfondire temi, avvenimenti, aspetti peculiari di una civiltà nella sua evoluzione, avviando nel contempo una riflessione sull’ultima fase dell’impero romano e sull’età tardo-antica (IV-VI secolo circa), segnata anche dall’ascesa del cristianesimo e dalla sua graduale fusione con la tradizione pagana. Nel V secolo, Roma è una città contesa: la presenza di una potente e opulenta nobiltà senatoria rallenta la cristianizzazione della popolazione, molto piú avanzata in altre metropoli dell’impero e l’identità della città appare sdoppiata. C’è, da una parte, l’ultima Roma antica, ex capitale dell’impero e culla della tradizione, con i suoi monumenti e le sue memorie posti sotto la vigile tutela dei senatori; dall’altra, il

storie particolari, spesso sconosciute al grande pubblico e a volte sorprendenti. Il Secentenario del 1921 fu preceduto da altri momenti celebrativi di valenza nazionale, come per esempio le «Feste dantesche» del settembre 1908, organizzate

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dalla Società Dantesca Italiana, che riunirono a Ravenna rappresentanti di città e territori allora sotto la sovranità dell’impero asburgico. Fra i pezzi piú importanti riuniti per l’esposizione vi sono il modello in bronzo del

monumento di Dante a Trento, realizzato da Cesare Zocchi nel 1896; Dante nella pineta e I funerali di Dante, opere del triestino Carlo Wostry (1865-1943) e i celebri sacchi donati da Gabriele D’Annunzio e decorati da Adolfo De Carolis col motto «Inclusa est flamma» («la fiamma è all’interno») che dà il titolo alla mostra. I sacchi in tela di juta, contenenti foglie di alloro in omaggio a Dante, furono trasportati in aereo a Ravenna da tre aviatori che avevano partecipato a famose imprese militari di D’Annunzio, come il volo su Vienna del 1918 o l’Impresa di Fiume. Il Vate stabilí un parallelo tra la fiamma che ardeva sulla tomba di Dante e la fiamma perenne che veniva custodita presso il santuario di Apollo a Delfi, considerato dagli antichi Greci il cuore vivo della loro civiltà. Una simbologia iniziatica che intendeva rappresentare Dante visto come profeta della Nazione oltre che padre della lingua italiana. info tel. 0544.482112; e-mail:

informazioni@classense.ra.it; www.classense.ra.it

RAVENNA DANTE NELL’ARTE DELL’OTTOCENTO. UN’ESPOSIZIONE DEGLI UFFIZI A RAVENNA Chiostri Francescani fino al 5 settembre

Dante in esilio è un olio su tela di Annibale Gatti, pittore forlivese che si formò a Firenze, raggiungendo l’apice della sua carriera artistica nel momento in cui la città

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impero all’ultima Roma antica. Paesaggi urbani, trasformazioni sociali e culturali vescovo ortodosso si batte per aumentare il proprio prestigio e guadagnare il controllo degli uomini, degli spazi, perfino del tempo dell’Urbe. Tra il 410 e la metà del VI secolo, i «sacchi» e altri drammatici eventi si abbattono sulla città e su questi gruppi in competizione, e scandiscono cesure epocali, avviando la trasformazione della città, dalla Roma dell’antichità alla nuova Roma cristiana, ormai avviata verso il Medioevo. Com’è ormai consuetudine, ciascun incontro si avvale della collaborazione dello storico dell’arte Claudio Strinati, del direttore delle riviste «Archeo» e «Medioevo», Andreas M. Steiner, e del direttore associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, Massimiliano Ghilardi. Tutti gli eventi hanno luogo alle ore 11,00 di domenica mattina a partire dal 7 febbraio e vengono trasmessi in diretta streaming sul canale Youtube del Teatro di Roma e/o in presenza, in base alla normativa anti Covid-19 vigente alle date di programmazione. La visione in streaming sarà gratuita e aperta a tutti, mentre le conferenze in presenza avranno il regolare biglietto. Quanti desiderino comunque contribuire al progetto, possono farlo attraverso l’ArtBonus, il bonus fiscale per chi sostiene la cultura, scegliendo liberamente la cifra da donare, detraendo il 65% dell’importo donato. Questi i prossimi appuntamenti: 7 marzo, All’ombra del Vesuvio: Pompei ed Ercolano, con Massimo Osanna, Francesco Sirano, letture interpretate dall’attrice Luisa Borini; 28 marzo, Roma, verso la tarda antichità, con Rita Lizzi Testa, Gianluca Mandatori, Stefano Tortorella; 11 aprile, Le guerre greco-gotiche e l’ultima Roma antica, con Massimiliano Ghilardi, Daniele Manacorda, Umberto Roberto; 25 aprile, Conquista, integrazione, ferocia dei vincitori, con Giovanni Brizzi, Luciano Canfora, Simone Quilici. divenne la nuova capitale del Regno. Proveniente dagli Uffizi di Firenze, è un’opera notevole sotto il profilo artistico e fondamentale per valore simbolico. La sua presenza a Ravenna nasce, infatti, dal progetto di stretta collaborazione pluriennale tra il Comune di Ravenna e le Gallerie degli Uffizi, definito con un protocollo ufficiale di intesa. Il documento prevede prestigiosi prestiti per la mostra «Dante. Gli occhi e la mente. Le Arti al tempo dell’esilio» e la concessione da parte degli Uffizi – in un deposito a lungo periodo – di un nucleo di opere ottocentesche dedicate alla figura di Dante Alighieri, da esporre a Ravenna come parte integrante del progetto Casa Dante. Inoltre ogni anno, in concomitanza con l’annuale cerimonia del dono dell’olio da parte della città di Firenze, gli Uffizi presteranno alla città di Ravenna un’opera a tema dantesco. Rinnovando, cosí ancora una volta, il profondo legame tra Firenze, città natale del sommo poeta, e

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Ravenna, città che lo accolse e suo «ultimo rifugio». All’interno di questo accordo ha preso forma anche il progetto che ha portato all’esposizione della tela a tema dantesco di Annibale Gatti nei Chiostri Francescani. Nel dipinto il poeta è ritratto in un momento di intima riflessione, in compagnia del figlio, nella pineta di Classe, citata da Dante nel Purgatorio e luogo a lui caro. E la pineta classense rivive, in questa mostra, oltre che nel dipinto, anche in una selezione di fotografie storiche provenienti dal Fondo «Corrado Ricci» della Biblioteca Classense. info tel. 0544 482.477-356; e-mail: info@museocitta.ra.it; www.mar.ra.it FIRENZE ONOREVOLE E ANTICO CITTADINO DI FIRENZE. IL BARGELLO PER DANTE Museo Nazionale del Bargello fino al 25 luglio (dal 23 marzo)

Articolata in sei sezioni, la mostra riunisce oltre cinquanta tra manoscritti e opere d’arte provenienti da biblioteche, archivi e musei e presenta le

tappe e i protagonisti della ricostruzione postuma del rapporto tra Firenze, l’Alighieri e la sua opera, nel secondo quarto del Trecento. Si tratta di copisti, miniatori, commentatori, lettori, volgarizzatori, le cui vicende professionali e umane si intrecciano fittamente, restituendo l’immagine di una città che sembra trasformarsi in uno scriptorium diffuso, al centro del quale campeggia la Commedia, e in cui i libri circolano con abbondanza e prendono vita nuove soluzioni artistiche e codicologiche proprio in relazione al poema dantesco. Il Museo Nazionale del Bargello è la sede ideale per una mostra che ripercorre il complesso rapporto tra Dante e la sua città natale: nella Sala dell’Udienza dell’allora Palazzo del Podestà (oggi Salone di Donatello), il 10 marzo 1302, il sommo poeta venne condannato all’esilio definitivo; nell’attigua Cappella del Podestà, solo pochi anni piú tardi (entro il 1337), Giotto e i suoi allievi ritraevano il volto di Dante includendolo tra le schiere degli eletti nel

Paradiso. Proprio attorno a questo ritratto, la prima effigie a noi nota del padre della lingua italiana, si delinea cosí quel processo di costruzione della memoria che permetterà a Firenze di riappropriarsi dell’opera e della figura dell’Alighieri. info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei.beniculturali.it

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

GUELFI E GHIBELLINI UNA RIVALITÀ CHE HA FATTO STORIA

GLI ARGOMENTI

• LE ORIGINI Nascita di un binomio • LE FAZIONI IN LOTTA Quasi come una peste • CITTÀ DIVISE L’Italia in fiamme • SIMBOLI Merli guelfi e merli ghibellini: un’invenzione moderna?

• STEMMI ED EMBLEMI Di santi, animali e altre storie • LE BATTAGLIE Montaperti, Benevento, Tagliacozzo, Colle Val d’Elsa, Guerra dei Vespri, Campaldino • DANTE Quando il poeta divenne il «Ghibellin fuggiasco»


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erché si dice «guelfo» e «ghibellino»? E perché quel binomio continua a essere d’uso comune anche a distanza di molti secoli da quando fece la sua prima comparsa? Da questi interrogativi prende le mosse il nuovo Dossier di «Medioevo», che rilegge ed esamina uno dei fenomeni che piú hanno segnato la vita politica dell’età di Mezzo, in Italia innanzitutto, ma non solo. Una contrapposizione ideologica che non si limitò allo scontro dialettico, ma prese le forme di un vero e proprio conflitto, scandito da alcuni dei fatti di sangue piú cruenti della storia medievale. Un esito, quest’ultimo, che non

deve sorprendere, poiché quella che, all’inizio, poteva sembrare una rivalità fra le famiglie piú in vista di alcune fra le maggiori città italiane – Firenze su tutte – assunse ben presto i contorni di una vera e propria guerra fra i poteri forti del tempo: l’impero e la Chiesa. Non a caso, quindi, la lotta tra la fazione guelfa e quella ghibellina ha visto coinvolti tutti i personaggi di maggior spicco dell’epoca, compreso, fra gli altri, Dante Alighieri, che in piú d’una delle sue terzine evocò i fatti dei quali era stato testimone, nonché vittima. Un racconto avvincente, insomma, che degli eventi salienti offre chiavi di lettura inedite e affascinanti.

Miniatura raffigurante la battaglia di Tagliacozzo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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intervista dante

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Approfondire i significati nel contesto del tempo, rifuggire da ingegnosi (ma fatui) anacronismi e – perché no? – continuare a indagare sulle fonti che hanno ispirato la Divina Commedia: ecco, in esclusiva per i lettori di «Medioevo», le raccomandazioni dello storico Franco Cardini in occasione dell’anno dantesco incontro con Franco Cardini, a cura di Alessandro Bedini

L’universo come esilio S

ettecento anni fa moriva Dante Alighieri, l’uomo del Medioevo del quale piú si è scritto e si continua a scrivere. Ma quali erano le sue origini? E come aveva vissuto nella sua città, dilaniata da conflitti politici che lo videro protagonista e ne causarono addirittura l’esilio? La Firenze a cavallo tra XIII e XIV secolo era una metropoli per l’epoca, contava all’incirca centomila abitanti, ed era una delle città piú importanti d’Europa. I traffici, i com-

In alto la maschera mortuaria di Dante Alighieri. Firenze, Palazzo Vecchio. In realtà, si tratterebbe del calco in gesso del viso del poeta scolpito da Tullio Lombardo quando il padre, Pietro Lombardo, restaurò nel 1481 il sepolcro di Dante a Ravenna. Nella pagina accanto particolare della replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera è una testimonianza preziosa dell’assetto urbano di Firenze. In basso lo storico Franco Cardini.

merci, l’organizzazione istituzionale ne facevano un centro a vocazione internazionale. Lungo le rive dell’Arno, nel maggio del 1265, nacque Dante Alighieri, precisamente nel sesto di Porta San Piero Maggiore, una delle sei circoscrizioni cittadine. Battezzato in S. Giovanni, come tutti i Fiorentini, con il nome di Durante – da cui il diminutivo Dante –, proveniva da una famiglia agiata, gli Alaghieri, e il fatto stesso di possedere un cognome, prerogativa delle casate piú in vista della città, testimonia della sua condizione sociale. Il nonno paterno, Bellincione, apparteneva all’Arte dei cambiatori ed era figlio del Cacciaguida

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intervista dante Miniatura raffigurante la morte di Corso Donati, capo della fazione dei Neri, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

che Dante cita nel XV canto del Paradiso e del quale va particolarmente fiero, in quanto è considerato il capostipite degli Alighieri. Ma non è soltanto questo il motivo della citazione. Attratto dalla nobiltà della sua stirpe, Dante ricorda come il suo trisavolo fosse stato un cavaliere e avesse ricevuto l’investitura dall’imperatore in persona, Corrado III, che seguí nella disastrosa seconda crociata, dove Cacciaguida trovò la morte. Per questo il suo posto nel Paradiso è tra coloro che hanno combattuto per la fede. Il padre di Dante, Alighiero de Bellincioni, pare avesse praticato l’usura, assicurando alla famiglia una

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buona condizione economica. La madre del poeta, Bella degli Abati, faceva invece parte di una importante famiglia ghibellina: era figlia di Durante Scolaro, che aveva ricoperto la carica di giudice e altri importanti incarichi per il sesto cui apparteneva. Nel giro di un secolo, gli Alighieri erano passati da una condizione nobiliare, quella cavalleresca, a una borghese e Dante associa tale decadenza a quella della sua Firenze: Godi, Fiorenza, poi che se’ sí grande che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ‘nferno tuo nome si spande! marzo

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nemico. Il poeta stesso lo ricorda nel Convivio dicendosi fiero di aver combattuto contro i nemici della sua città. L’Alighieri, dunque, non fu soltanto un letterato, un intellettuale a tempo pieno. Come risulta da diversi documenti d’archivio riportati da Giovanni Villani nella sua Cronica, si occupò anche degli affari di famiglia, in particolare per compravendite di terreni, e fu anche impegnato in politica. Una personalità a dir poco poliedrica. Imparentato con la famiglia Donati, aveva sposato Gemma, figlia di Manetto Donati, personaggio di primo piano nella politica fiorentina che fu nominato podestà di Colle Val d’Elsa. Gemma era cugina di Corso Donati, capo indiscusso della fazione dei guelfi Neri, mentre Dante faceva parte della fazione dei Bianchi, guidata dalla famiglia dei Cerchi. Le vicende legate allo scontro tra le due fazioni, alimentato dalla politica di papa Bonifacio VIII, favorevole ai Neri, portarono all’esilio dell’Alighieri con l’accusa di baratteria. La condanna prevedeva, oltre all’esilio, l’ammenda di 5000 fiorini d’oro e l’interdizione perpetua dagli uffici pubblici. Inoltre, essendo stato condannato in contumacia, poiché quando fu pronunciata la sentenza si trovava a Roma, se fosse stato catturato

A destra ritratto ottocentesco di Dino Compagni. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

L’invettiva, nel XXVI canto dell’Inferno, testimonia di come i conflitti che laceravano la città fossero dovuti, secondo il poeta, al decadere dei costumi morali e civili che «la gente grossa» aveva contribuito a provocare. Che Dante non appartenesse alla classe aristocratica è provato dalla posizione che occupò durante la cruciale battaglia di Campaldino del 1289, grazie alla quale Firenze, che sconfisse i ghibellini di Arezzo, divenne padrona dell’intera Toscana. Come testimonia Leonardi Bruni, autore di una biografia di Dante, questi non faceva parte della cavalleria fiorentina, bensí dei fedites, ovvero di quei combattenti che, in prima linea, dovevano reggere lo scontro con il

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Ritratto allegorico di Dante, olio su tavola di un ignoto pittore fiorentino. XVI sec. Washington, National Gallery of Art.

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La carriera politica

Un letterato nelle stanze del potere A Firenze Dante ricoprí numerose cariche pubbliche. La sua carriera politica iniziò verso i trent’anni. In particolare, tra il 1295 e il 1301, ma forse ancor prima. L’Alighieri fece parte del Consiglio Generale del Comune, composto da trecento membri. Alla fine dello stesso anno lo ritroviamo fra

i trentasei componenti del Consiglio Speciale del Capitano del popolo. Nel 1296 è documentata la sua appartenenza al Consiglio dei Cento, mentre nel 1300 sarà Priore; il priorato, insieme al Capitano del popolo, rappresentava il potere esecutivo. L’accesso alle cariche pubbliche era riservato

sarebbe finito sul rogo. Soltanto nel 2008 il Consiglio Comunale di Firenze ha ufficialmente riabilitato Dante Alighieri, ritenendo le accuse di baratteria, frode e guadagni illeciti del tutto infondate e dovute esclusivamente a ragioni politiche. Su questo personaggio straordinario abbiamo raccolto il parere di uno dei piú autorevoli medievisti del nostro tempo, Franco Cardini, il quale, oltre a essere uno dei maggiori storici contemporanei, è anche concittadino del poeta in quanto fiorentino. P rofessor Cardini, una miriade di eventi sta celebrando i settecento anni dalla morte di Dante: ma chi era davvero l’autore della Divina Commedia? «Un poeta di genio, con una buona preparazione teologico-filologica di tipo scolastico, ch’era anche uomo politico in vista nella sua città, Firenze, dov’era nato nel 1265. Un uomo che si trovò a vivere e a lavorare – almeno fino a quando, piú o meno trentacinquenne, fu esiliato (forse ingiustamente) – in un centro urbano dove, in quel momento, si stavano elaborando le grandi novità economico-finanziarie del tempo, che avrebbero contribuito, nel giro di un paio di secoli, a cambiare il mondo. L’aver interpretato con intelligenza e passione il suo tempo lo ha condotto a godere di una fama universale, cresciuta peraltro fuori d’Italia soprattutto negli ultimi due secoli». Fra Due e Trecento Firenze era attraversata da lotte interne e da conflitti con le città vicine. Dante ha partecipato attivamente alla vita politica della sua città, fino a patire l’esilio. Secondo lei, quale è stato il suo vero ruolo politico? «Dante era un uomo politico e un cittadino di un mondo che si sentiva ancora sacralmente qualificato (quindi la sua posizione non è suscettibile di essere tradotta in termini esclusivamente laici, che sarebbero anacronistici) e che credeva profondamente nel rapporto tra vita spirituale e vita civile, nel corpus christianorum come società universale guidata da un potere unico, dotato

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agli iscritti a una delle ventuno corporazioni presenti a Firenze. Dante era iscritto all’Arte dei medici, speziali e merciai, probabilmente perché i merciai erano non solo commercianti, ma anche cartolai, rivenditori di pergamena, carta e manoscritti, dunque aveva a che fare con i libri, e Dante era già famoso per i suoi scritti.

però di due volti, lo spirituale il politico, il sacerdotium e il regnum, che concordi avrebbero dovuto tendere a quel che Tommaso d’Aquino definisce publicum bonum. La scelta guelfo-bianca e la redazione del De monarchia sono espressioni diverse del suo universalismo cristiano». Veniamo alla Commedia. Fiumi d’inchiostro si sono versati riguardo alle fonti cui si è ispirato l’Alighieri. Le cito uno dei tanti esempi: Alberico da Settefrati descrive una geografia dell’aldilà dove c’è anche il Purgatorio, oltre a immaginare Inferno e Paradiso. Secondo lei può essere una fonte cui Dante si è ispirato? Ve ne sono altre che lei ci può indicare?

dante e brunetto latini

Il maestro non merita indulgenze Uno dei passaggi piú dibattuti fra gli studiosi di Dante è il suo rapporto con Brunetto Latini. Questi si trova all’Inferno, tra i sodomiti nel terzo girone del VII cerchio. Ciononostante, pur collocandolo agl’inferi, dalle terzine del poeta traspare l’affetto per il vecchio maestro. «M’insegnavate come l’uom s’etterna», afferma Dante durante il drammatico, commovente incontro riportato nel XV canto dell’Inferno, con un moto di riconoscenza che il Boccaccio ha voluto individuare nell’insegnamento della filosofia impartita dal maestro all’allievo. Altri sottolineano come l’autore del Tresor fosse innanzitutto un’esperto dell’ars dictaminis, ossia dello stile e della retorica che l’Alighieri avrebbe imparato da Brunetto. Dante si mostra stupito di incontrarlo in quel girone: «Sete voi qui, ser Brunetto», ma non può transigere alla sua morale, in quanto il maestro si è macchiato di un peccato gravissimo: quello contro natura e probabilmente anche di pedofilia.

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intervista dante A sinistra miniatura raffigurante l’ascensione di Maometto sul cavallo alato dal volto umano al-Buraq. XVI sec. Istanbul, Museo d’Arte Turca. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Dante e Beatrice che contemplano la scala d’oro nel cielo di Saturno, da un’edizione della Divina Commedia. Prima metà del XIV sec. Londra, The British Library.

Esegesi dantesca

Versi «esoterici»? «O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani». Questa terzina del IX canto dell’Inferno, ha fatto versare fiumi d’inchiostro. Secondo gli appassionati di esoterismo, il sommo poeta avrebbe fatto parte di un ordine iniziatico e avrebbe voluto lasciare ai suoi lettori una chiave di lettura iniziatica della sua opera attraverso una simbologia ermetica. Piú plausibile l’interpretazione di altri studiosi, come Leonardo Cappelletti, docente di storia della Chiesa medievale presso l’ISSR di Firenze, secondo cui «piú chiaro di cosí Dante non poteva esserlo: velame e velo nascondono una medesima dottrina, quella del movimento angelico, ed è a quella che i commentatori avrebbero dovuto rivolgere l’attenzione per comprendere che il compito delle due terzine è quello di introdurre il lettore all’interno di una questione filosoficoteologica di primaria importanza nella cultura del XIII e XIV secolo».

Le analogie fra la Divina Commedia e la narrazione del viaggio nei cieli di Maometto offerta dal Libro della Scala risultano impressionanti 32

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«Tanto per limitarmi a un solo esempio ben noto e facilmente verificabile, è stato Carlo Ginzburg che, nel suo Storia notturna (Einaudi, Torino 1989 e successive edizioni), ha contribuito a dimostrare – secondo me con successo, nonostante le molte critiche che quel libro ha provocato – come il “viaggio al paese dei morti”, per esempio quello dell’eroe osseta Soslan, studiato da Vasilij Abaev e da Georges Dumézil, sia da considerarsi la “scena fondamentale” dell’immaginario umano. La basilare ricerca di Laurence Harf-Lancner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo (Einaudi, Torino 1984) ha studiato lo schema narrativo dei cosiddetti “racconti morganiani” in quanto “viaggi all’altro mondo”. Dal poema sumero-accadico di Gilgamesh, attraverso il mito di Orfeo, fino a racconti che spaziano dalla Cina all’India ai mondi celtico, germanico e slavo si narra di visite a un aldilà variamente concepito, accompagnate di solito anche da varie forme di discontinuità spazio-temporale. Marina Montesano, in “…Sacro alle nursine grotte”, Storie di fate, cavalieri, “negromanti” nei Monti Sibillini (Istituto Superiore di Studi Medievali, Ascoli Piceno 2003), ha studiato il caso del “pellegrinaggio cavalleresco” alla Sibilla Picena, testimoniato da testi medievali e rinascimentali. Il nostro Medioevo è pieno di racconti del genere, che si riflettono anche in molte leggende agiografiche, per esempio quella di san Galgano nella Toscana del XII secolo e in romanzi cavallereschi quali il Lancelot di Chrétien de Troyes». D ante e l’Islam. Nel 1919 usciva La escatologia musulmana en la Divina Comedia di Miguel Asín Palacios, opera in cui lo studioso spagnolo sosteneva che Dante conosceva l’Islam e in particolare il Libro della Scala, che narra del viaggio nell’aldilà di Maometto. Lei che ne pensa? «Sembra ormai certo che un esemplare della traduzione latina del Kitab al-Miraj, il Libro della Scala, viaggiasse nella bisaccia di Brunetto Latini quand’egli, dopo il 1267, tornò dal suo esilio vissuto dopo la battaglia di Montaperti a Toledo, presso re Alfonso X, el Sabio, grande mecenate degli studi di astronomia e astrologia. La narrazione del viaggio del profeta Maometto dalla Moschea al-Aqsa di Gerusalemme attraverso i cieli ha analogie impressionanti con la Divina Commedia». Piú d’uno studioso, da René Guénon a Dante Gabriele Rossetti a Luigi Valli, allo stesso Giovanni Pascoli, parla di una possibile lettura esoterica delle opere di Dante, non solo riguardo alla Divina Commedia, ma al Convivio, alle Rime, ecc. Ritiene sia un’interpretazione possibile o si tratta solo di una moda che riguarda certi circoli di cultori dell’occulto? «I pochi cenni danteschi a un linguaggio poetico “esclusivo” usato da alcuni giovani artisti nelle loro corrispondenze, che trova riscontri abbastanza noti nella poesia

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erotica francese d’oc e d’oïl dei secoli XII-XIII, furono elaborati durante il XIX secolo da eruditi che li reinterpretarono secondo i loro schemi esoterico-occultistici. Un anacronismo ingegnoso, che ha continuato ad aver adepti anche al giorno d’oggi senza sostanziali innovazioni». U na domanda forse banale, ma doverosa: che cosa resta nel mondo contemporaneo del patrimonio che Dante Alighieri ci ha lasciato? Quali i messaggi che potremmo far nostri? «Credo che l’unico modo di valorizzare un qualunque genio o capolavoro del passato consista nell’approfondirne il senso e il significato nel contesto del suo tempo. Qui risiede il suo valore universale: il comprendere in che senso, per esempio, Dante ha interpretato la crisi della Chiesa romana e della società europea primo-trecentesca. Le istanze, di solito retoriche o velleitarie, tese ad “attualizzare” i messaggi del passato finiscono regolarmente per naufragare nella palude dell’anacronismo».

Da leggere Alessandro Barbero, Dante, Laterza, Bari-Roma, 2020

Erich Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli Editore, Milano 2017

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battaglie kephissos

Fango assassino di Federico Canaccini

Combattenti temibili, spietati e privi d’ogni scrupolo: cosí vengono ricordati i mercenari della Compagnia Catalana, riuniti sotto la guida del comandante Ruggero de Flor. Dopo aver servito gli Aragonesi in Sicilia, passarono al soldo dell’imperatore bizantino Andronico II Paleologo e furono poi ingaggiati da Gualtieri di Brienne, duca d’Atene. Quest’ultimo, però, pagò un prezzo altissimo per quella scelta: nel marzo del 1311, proprio quegli uomini, infatti, nella piana del fiume Kephissos trasformata in un pantano, fecero svanire i suoi sogni di gloria 34

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L’entrata di Ruggero de Flor a Costantinopoli, olio su tela di José Moreno Carbonero. 1888. Madrid, Palacio del Senado.

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battaglie kephissos

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opo la presa di Costantinopoli da parte dei cristiani nel 1204, avvenuta nel corso della quarta crociata, il territorio di Atene fu conquistato nel 1205 da Bonifacio di Monferrato, re di Tessalonica (1150-1207). In quel possedimento erano comprese l’Attica e la Beozia e, alla morte di Bonifacio – caduto in battaglia in uno scontro con i Bulgari –, il nuovo dominio venne affidato al borgognone Ottone de La Roche, che lo trasformò in un ducato. Un secolo piú tardi, all’indomani della morte dell’ultimo dei de La Roche, Guido II (1308), il ducato di Atene passò al fratellastro, Gualtieri V (1275-1311), della potente casata francese di Brienne, pretendente al titolo di re di Gerusalemme e Cipro, nonché al principato di Taranto. Gualtieri iniziò a progettare un’espansione del nuovo dominio, volgendo le proprie attenzioni verso nord, in Tessaglia, dove gruppi di mercenari stranieri, per lo piú Siciliani, Catalani e Aragonesi – passati alla storia come «Compagnia Catalana» (vedi anche il box a p. 37) – avevano portato devastazione e saccheggi, gettando il territorio greco nel caos piú totale. La Compagnia era una creatura di Ruggero Blum, detto de Flor (vedi box a p. 38), che si era posto alla

testa di quegli uomini nel corso del conflitto esploso in Sicilia all’indomani dei Vespri Siciliani (1282) tra Angioini e Aragonesi: dopo la Pace di Caltabellotta (1302), però, il contributo di quegli uomini risultò ormai inutile e Federico d’Aragona annullò il contratto con il quale li aveva assoldati.

Uomini incontrollabili

Già nel 1303 i mercenari avevano tuttavia trovato un nuovo ingaggio: l’imperatore bizantino Andronico II Paleologo, infatti, li prese al suo servizio affinché contrastassero l’avanzata dei Turchi e gli Aragonesi agevolarono il loro imbarco per liberare il Sud Italia da quelle bande, comunque difficili da controllare. Ruggero de Flor riuscí ben presto a ottenere dall’imperatore, impressionato a sua volta dalla potenziale pericolosità della Compagnia, titoli e territori, concessioni che misero in allarme il figlio di Andronico II, Michele IX, che era stato associato al trono. La Compagnia Catalana era composta da circa 6500 uomini – tra cavalieri, fanti e guastatori – che ricevettero in anticipo sei mesi di paga, mentre al loro comandante fu promessa la mano di Maria Asen, nipote dell’imperatore, il quale insigní Ruggero perfino del titolo di Megas Dux (Gran Comandante).

In basso l’assetto geopolitico della regione egeo-anatolica all’epoca in cui si combatté la battaglia di Kephissos, nel marzo del 1311. Sinope

VALACCHIA E BULGARIA Durazzo

DESPOTATO DELL’EPIRO Corfú (1215)

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IMPERO LATINO

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SULTANATO SELGIUCHIDE DI RUM

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REGNO DI CIPRO

Impero latino di Costantinopoli e suoi vassalli Possedimenti della Repubblica di Venezia con l’anno di acquisizione Stati greci successori dell’impero bizantino

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Pittura murale raffigurante un manipolo di almogaveri, fanti catalano-aragonesi

che facevano parte della Compagnia Catalana. XIII sec. Barcellona, Palazzo Reale Maggiore, Sala del Tinello.

All’inizio del 1304 i mercenari si erano trasferiti a Cizico, sul Mar di Marmara, per poi dirigersi a Filadelfia, poco lontano da Antiochia, assediata dalle truppe turche, dove ottennero una rapida vittoria e si diedero subito dopo al saccheggio, ai danni, però, sia dei Turchi che dei Bizantini: del resto, era questo il rischio che si poteva correre avvalendosi di truppe assoldate e ormai l’impero non disponeva piú di alcun potere e di alcun mezzo di costrizione per fermarle o dissuaderle. Tanto che, dopo la razzia, i Catalani assediarono e saccheggiarono la città bizantina di Magnesia. L’imperatore, che sperava invece di aver trovato nella Compagnia un alleato, fu dunque sollevato quando si diffuse la voce che i mercenari erano stati convinti a tornare in Europa. Gli uomini di Ruggero trascorsero l’inverno del 1304 sullo Stretto

la compagnia catalana

Figli della dannazione Dopo la Pace di Caltabellotta (1302), stipulata tra gli Aragonesi e gli Angioini e che portò alla nascita dei regni di Trinacria e di Napoli, centinaia di uomini che si erano guadagnati da vivere grazie al mestiere delle armi si trovarono improvvisamente «disoccupati». Tra quanti avevano militato nella Compagnia Catalana vi era anche un giovane Ramòn Muntaner, piú tardi ciambellano per la corona d’Aragona ed estensore di una Cronica, che è una buona fonte per i fatti d’arme (fino al 1327) ai quali prese parte. Gli Aragonesi, che avevano assoldato migliaia di questi mercenari, risposero alla richiesta di aiuto dell’imperatore bizantino Andronico II Paleologo (1282-1328). La Compagnia prese la via di Costantinopoli imbarcandosi nell’autunno del 1303: i Bizantini rimasero impressionati dalla loro mancanza di scrupoli e dalla loro ferocia, affatto inferiore a quella dei crociati che nel 1204 avevano conquistato Costantinopoli. Il loro comandante costrinse l’imperatore a nominarlo

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governatore d’Anatolia, suscitando l’invidia e i timori del figlio di Andronico II, che era anche co-imperatore. Dopo l’uccisione a tradimento del loro leader (1305) la Compagnia elesse un nuovo comandante, il cavaliere catalano Berengario d’Entenza, che guidò la «Vendetta catalana»: per due anni, i mercenari si diedero infatti a saccheggiare il Nord della Grecia, macchiandosi di atti efferati e di sconcertante brutalità. Dovette intervenire papa Clemente V che li definí «figli della dannazione privi di senno»: ciò però non frenò i massacri. Ben presto però nacquero rivalità interne e Bernat de Rocafort uccise Berengario, proclamandosi nuovo comandante: ma il suo sogno di dominio durò meno di un anno, poiché venne assassinato a sua volta nel luglio del 1308. Si optò a questo punto per una co-reggenza di molti capitani militari, sotto il cui comando la Compagnia Catalana sconfisse Gualtieri di Brienne nella piana di Kephissos.

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battaglie kephissos dei Dardanelli, a Gallipoli e nella primavera seguente avrebbero dovuto riprendere la loro campagna in Asia Minore. Il clima, però, andava facendosi sempre piú teso: da un lato vi erano i timori di Andronico per gli eccessi dei mercenari, a cui si aggiungevano quelli del figlio Michele IX, a causa dei successi acquisiti a corte da Ruggero de Flor; dall’altro, le rimostranze dei Catalani, sempre piú esacerbati dai pagamenti irregolari e quindi, a loro dire, liberi di darsi impunemente ai saccheggi. Nell’aprile del 1305 de Flor fu invitato a un banchetto con molti suoi compagni d’arme presso Adrianopoli, in Rumelia, e lí, nel palazzo di Michele IX, fu fatto assassinare a tradimento. Indignati per l’omicidio del loro comandante, gli uomini di Ruggero intrapresero una vera e propria spedizione punitiva contro i Bizantini, passata alla storia col nome di «Vendetta catalana».

In basso una pagina di un’edizione della Cronica di Ramon Muntaner. Madrid, Biblioteca Nazionale.

Nella pagina accanto incisione ottocentesca raffigurante l’assassinio di Ruggero de Flor, ucciso a tradimento nel 1305, per volere di Michele IX Paleologo.

I mercenari si impossessarono della penisola di Gallipoli, uccidendo e riducendo in schiavitú gli abitanti, e proclamandola territorio catalano. Un primo scontro si combatté presso il castello di Apros: l’esercito di Michele IX, rinforzato da gruppi di Alani e persino di Turchi, venne duramente sconfitto e lo stesso Michele fu ferito in battaglia, ma riuscí a mettersi in salvo riparando nella cittadella di Didymotichon, a sud di Edirne. Al co-imperatore non rimaneva altro da fare che proteggere le principali città della Tracia, abbandonando le campagne alla furia dei Catalani che, per oltre due anni, assieme a rinforzi turchi, depredarono la regione. Dopo aver saccheggiato l’intera Tracia, attraversarono i Monti Rodopi e, nell’autunno del 1307, si insediarono a Cassandria, antica città macedone, fondata su uno dei bracci della penisola calcidica: da

Ruggero Blum de Flor

La vita spericolata del capitano della Compagnia Nato nel 1267 a Brindisi, da una famiglia di simpatie ghibelline, Ruggero Blum si ritrova ben presto alla corte di Costantinopoli, grazie alla sua ambizione e alle sue indubbie doti militari. Viene ingaggiato dai Templari come comandante di vascello sino al 1291, quando anche la roccaforte di Acri cade in mano ai musulmani. In quella occasione viene accusato di derubare i fuggiaschi, forte del suo ruolo e a questo punto inizia la parte piú rocambolesca della sua vita. Per evitare il processo, infatti, Ruggero diventa un pirata, assumendo il singolare nome di fra’ Ruggero: non è poi chiaro se avesse anche infranto i propri voti di Templare per sposarsi e avere una famiglia. Sfuggito alla giustizia, torna dunque nel Sud Italia, mettendosi al servizio di Federico III d’Aragona, divenuto nel frattempo re di Trinacria. Al termine della guerra tra Angioini e Aragonesi, Ruggero offre i propri servigi all’imperatore bizantino, Andronico II. Dal 1303 al 1305, anno della sua morte, comanda infatti la «Compagnia Catalana», il cui nucleo centrale era costituito da unità di almogaveri (dall’arabo al-mughawir, «incursore, razziatore»),

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fanti catalano-aragonesi che combattevano in condizioni di semi-indipendenza, causando, con la loro indisciplina, molti danni e disagi agli stessi Bizantini che li avevano assoldati. Il piú grande successo di fra’ Ruggero non consistette però in un’impresa militare, ma nelle nozze con Maria di Bulgaria, nipote dell’imperatore di Bisanzio: ciò lo indusse a pretendere, quale membro della famiglia imperiale, un personale feudo all’interno dei territori dell’impero. Per questo, terminata la campagna del 1304, decise di mettere i propri uomini al servizio dei principi latini, nemici di Bisanzio. Incalzato da Ruggero, e minacciato dalle milizie nemiche, Andronico II si trovò costretto a concedergli il titolo di Cesare, nominandolo governatore d’Anatolia. Prima ancora di mettere piede in Asia Minore, però, Ruggero venne assassinato il 30 aprile 1305 su ordine del figlio dell’imperatore, Michele IX Paleologo, che evidentemente temeva l’ascendente di fra’ Ruggero e i suoi piani di espansione. L’omicidio diede inizio alla lotta tra l’impero bizantino e la Compagnia, in quella campagna detta «Vendetta Catalana». marzo

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battaglie kephissos A destra il Kephissos, fiume dell’Attica presso cui si combatté lo scontro tra la Compagnia Catalana e le truppe di Gualtieri di Brienne, duca d’Atene. In basso miniatura raffigurante la morte di Gualtieri VI di Brienne, che cadde sul campo di Poitiers, nel 1356, da un’edizione in lingua francese del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio. 1479-1480. Londra, The British Library.

qui proseguirono le loro piratesche spedizioni, non risparmiando neppure i monasteri del Monte Athos. L’anno seguente, in primavera, si posero addirittura all’assedio di Tessalonica che però venne respinto. Nella primavera del 1310, Gualtieri di Brienne, nuovo duca d’Atene, tentò di approfittare della situazione, assoldando quelle stesse bande. La Compagnia Catalana accettò l’ingaggio proposto da Gualtieri, preoccupato dalla pericolosità dei mercenari, ma intenzionato ad ampliare il territorio del ducato d’Atene proprio nei territori da essi battuti. Con la prospettiva di una

gualtieri vi di brienne

Signore per un anno Gualtieri V di Brienne (1278-1311), il nobile che morí nel 1311 nella piana di Kephissos, lasciò un figlio, omonimo, Gualtieri VI (1300-1356). Questi, ancora ragazzo, trovò riparo con la madre presso gli Angiò di Napoli dove crebbe ricevendo una educazione cavalleresca e culturale, alla corte di re Roberto. Nel 1325 fu nominato vicario di Firenze, e gli stessi Fiorentini, dal 1342, gli assegnarono l’altisonante titolo di Conservatore e Protettore dello Stato, che gli garantiva il controllo militare della città e del contado. Successivamente ottenne anche la signoria a vita di Arezzo, Pistoia e Volterra. Ma l’avventura toscana durò appena un anno, giacché nel 1343 fu scacciato da Firenze a seguito di un moto popolare e di una congiura. Rifugiatosi in Francia, continuò a reclamare presso la corte reale che i Fiorentini rispettassero le clausole del contratto stipulato nel 1342: cosa che non avvenne mai. Nel 1356, quando l’esercito inglese giunse alle porte di Poitiers, nel corso della Guerra dei Cent’anni, Gualtieri montò in sella e partecipò alla celebre battaglia, ma rimase ucciso.

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lauta paga, l’intera armata risalí la strada appena percorsa e riattraversò la Tessaglia, conquistando ben 30 fortezze nel giro di sei mesi. A questo punto, però, Brienne commise un grave errore di valutazione riguardo al corpo di mercenari da lui assoldati: pagò infatti profumatamente 200 cavalieri e 300 fanti bene armati per operazioni future, ma ordinò al resto della Compagnia, ben piú corposo – circa 3500 cavalieri e oltre 4000 uomini appiedati – di lasciare la regione, peraltro negando loro la paga, pena l’espulsione. Esacerbati, demotivati, affamati e senza un luogo in cui svernare, gli uomini stabilirono di fermarsi per il momento in Tessaglia, in attesa della bella stagione.

La scelta del campo

Deciso a sottomettere definitivamente la Tracia e la Tessaglia, Gualtieri allestí rapidamente un poderoso esercito, composto da diverse migliaia di uomini a cavallo (tra 3000 e 6000) e piú di 8000 fanti, a cui si aggiunsero molti nobili, vassalli e alleati provenienti dall’alta società greco-latina, con cui sbarazzarsi della Compagnia. Soverchiati nel numero, i Catalani riuscirono almeno a scegliere il campo di bat-

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taglia e decisero di schierarsi a lato del fiume Kephissos, poco distante dall’antica piana in cui era stata combattuta la battaglia di Cheronea nel 338 a.C., quando Filippo II il Macedone aveva sconfitto un’alleanza guidata da Atene. Un’altra interpretazione vuole invece che lo scontro si sia combattuto ad Halmyros, nel sud della Tessaglia, proprio di fronte al golfo Pegaseo. Esperti di guerriglia e di assedi, i mercenari prepararono il campo di battaglia in modo da trarre vantaggio dal pantano che occupava parte della piana. Iniziarono dunque a scavare piccole trincee e canali, cosí da allargare l’area fangosa, già abbondantemente impantanata a causa delle piogge primaverili: cosí facendo trasformarono la piana di Kephissos in un vero e proprio acquitrino, nascosto da un sottile strato di erba e muschio. All’alba dell’11 marzo del 1311, Gualtieri di Brienne permise cavallerescamente ai mercenari catalani che aveva assoldato di riunirsi ai propri compagni e poi, personalmente, si mise alla guida della gigantesca falange di cavalieri, composta da una mescolanza di Latini, Greci e Francesi. La carica ebbe inizio, ma, giunti a metà della pianura, le zampe dei cavalli furono rapidamente inghiottite e bloccate dal pantano preventivamente creato dai Catalani: vedendoli impossibilitati a manovrare, per la riuscita dello stratagemma, i mercenari iniziarono a bersagliarli con lance, frecce e verrettoni di balestra, massacrando il fior fiore della cavalleria greco-latina. Contemporaneamente, aggirando il temibile ostacolo da essi stessi architettato, i mercenari dotati di cavalcatura si diressero contro le fanterie di Gualtieri, rimaste indietro, facendone strage. I fanti greci, infatti, non volevano certo restare intrappolati nella fanghiglia, per evitare il destino dei loro compagni a cavallo: ma non poterono neppure fruire della copertura della cavalleria, venendo cosí travolti. Gualtieri

di Brienne fu colpito quasi subito e forse, stando a un cronista, sarebbe stato addirittura il primo a essere ucciso, seguito da un numero imprecisato di nobili. Nella brutale carneficina di Kephissos, venne quasi completamente spazzata via l’aristocrazia occidentale stabilitasi in Grecia ormai dai tempi del Sacco di Costantinopoli del 1204.

Padroni del ducato

Alla fine della giornata, i mercenari intrapresero una marcia che li condusse sino ad Atene, senza incontrare alcuna resistenza: in veste di signori, con titoli nuovi e variopinti, presero il controllo del ducato, essendo vacante il titolare ufficiale. Vent’anni piú tardi, nel 1330, il figlio di Gualtieri di Brienne, Gualtieri VI (vedi box a p. 40), recuperò per un anno la città, ma i suoi discendenti non furono in grado di mantenere il reale controllo del territorio, accontentandosi di un titolo privo di qualsiasi significato. Solo nel 1387 la Compagnia Catalana venne espulsa definitivamente, quando la famiglia fiorentina degli Acciaiuoli riuscí a imporsi come nuovo padrone. Il ducato d’Atene fu poi temporaneamente conquistato da Venezia, che lo controllò per un breve periodo (1395-1402), ma la sua effimera parabola terminò nel 1456, quando, dopo la caduta di Costantinopoli, venne anch’esso travolto dalla espansione ottomana di Maometto II. Le vicende della Compagnia Catalana ebbero molteplici risvolti nel mondo medievale: certamente piegò la già debole economia bizantina, aumentando la svalutazione monetaria e fiaccando la popolazione, priva di risorse agricole già magre. In Occidente, al contrario, le imprese dei mercenari diedero nuovo vigore all’idea, probabilmente ormai irrealizzabile a causa dell’avanzata ottomana, di un impero latino d’Oriente, piú volte vagheggiata da principi e pontefici.

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Verso la fine dei

tempi

di Furio Cappelli

Ammonimenti severi, presagi di sventura, quando non addirittura dell’Apocalisse: sono questi i messaggi attribuiti ai Profeti citati dall’Antico Testamento. Personaggi austeri e perciò pienamente coerenti con il rigore del pensiero religioso medievale e, di riflesso, con la sua trasposizione artistica. Ma anche capaci di lasciare un segno duraturo ed essere recuperati perfino nella musica e... nel cinema Sulle due pagine tre delle figure di Profeti (Malachia, Zaccaria e Geremia) scolpite all’interno degli stipiti del portale del Duomo di Modena, opera dello scultore Wiligelmo. 1100-1120 circa.

«Giorno d’ira è quello, giorno di tribolazione e di angustia, giorno di calamità e di miseria, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nebbia e di bufera». (Sofonía, 1:15) 44

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I I

n chiusura del primo intervento di questa serie (vedi «Medioevo» n. 289, febbraio 2021; anche on line su issuu.com), abbiamo gettato un rapido sguardo sul portale centrale della facciata del Duomo di Modena, e abbiamo segnalato la presenza, sui lati interni degli stipiti, della parata dei Profeti dell’Antico Testamento. Per comprendere meglio quale possa essere il loro significato in un simile contesto, occorre rispondere a una domanda fondamentale: chi sono questi personaggi? Sappiamo già che essi compaiono nella Bibbia ben prima dell’avvento di Cristo, nei secoli fondamentali che conducono il popolo ebraico verso la propria autocoscienza religiosa e culturale. Di solito, si mostrano nella solenne posa statuaria dei sapienti dell’antichità, ma talvolta sembrano percorsi da un’energia che li agita in tutte le membra, e spesso hanno un’espressione da cui traspare una vibrante angoscia o un rapimento nell’estasi. A Saint-Pierre di Moissac (Midi-Pirenei, 1115-35 circa), nel pilastro istoriato che sorge al centro del portale (trumeau), un compassato San Paolo fa da pendant a un Geremia letteralmente sconvolto dalla voce divina (ha in mano un cartiglio vuoto che allude a chissà quali presagi; vedi foto nella pagina accanto). Con le gambe incrociate e il volto reclinato, sembra avvolto in un turbine di emozioni. In modo ancora piú estenuato e raffinato, l’Isaia scolpito nella chiesa di Sainte-Marie a Souillac (Occitania, 1130-40 circa; vedi foto qui accanto) coinvolge nella sua «piroetta» i lembi del manto, che fluttuano nell’aria per effetto delle sue movenze. Non sono virtuosismi fini a se stessi, ma modi ingegnosi di esprimere uno stato di trance o di esaltazione, piuttosto naturale in chi riceve direttamente da Dio, con la stessa veemenza, annunci di catastrofi e promesse di pace eterna. Dice lo stesso Geremia, vissuto negli anni 625-585 a.C.: «Il mio cuore è spezzato dentro di me, tutte le mie ossa sono in fremito; son diventato come un ubriaco, e come uomo zeppo di vino, alla considerazione del Signore e delle sue sante parole» (Geremia, 23:9). Nei Profeti della Cappella Sistina Michelangelo porta queste attitudini ad apici proverbiali di resa drammatica e formale. E proprio simili immagini, cosí potenti e trasfiguranti, finiscono per celare l’essenza storica dei veggenti del Vecchio Testamento. Essi, cioè, sono stati personaggi in carne e ossa che hanno svolto un ruolo rimarchevole nel mondo ebraico, in modo particolare tra il X e il V secolo a.C., come illustra l’antichista Mario Liverani.

Consulenti del re

Iniziarono a svolgere la loro funzione in Israele, vale a dire nell’antico regno incentrato su Samaria, e che si situava a nord di quello di Giuda, di cui Gerusalemme era il centro principale. Il sovrano poteva contare su due canali di consultazione per prendere le sue decisioni. Sul versante «umano», si rivolgeva ai suoi fun-

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Nella pagina accanto Sainte-Marie a Souillac (Occitania, Francia). L’immagine del profeta Isaia. 1130-40 circa. A sinistra Saint-Pierre di Moissac (Midi-Pirenei, Francia). Pilastro istoriato con l’immagine di Geremia. 1115-35 circa. In entrambe le raffigurazioni, gli atteggiamenti, che sembrano esprimere estasi o stupore, sono stati scelti per rendere lo stato di trance che si immaginava proprio di personaggi capaci di entrare in contatto diretto con Dio e farsi latori dei suoi messaggi.

zionari di corte o all’assemblea, nella quale siedevano i rappresentanti dei suoi sudditi. Sul versante «divino», si affidava alle pratiche magico-religiose della mantica, secondo le pratiche divinatorie che derivavano dalla cultura assira. Gli indovini ricavavano indicazioni da certi prodigi della natura, oppure erano essi stessi a predisporre i presagi, facendo ricorso alle viscere degli animali, al fumo dei bracieri o all’olio. Accanto agli indovini assunsero un’importanza crescente i nostri profeti, fino a divenire unici referenti sacri dell’autorità regia. Essi pronunciavano le loro predizioni senza alcun medium. Dio (Yahweh oppure il suo «concorrente» ben presto sconfitto, lo «straniero» Ba’al) parlava attraverso di loro grazie alle visioni che essi subivano. Potevano trovarsi (un po’ come gli eremiti del Medioevo) in luoghi ben lontani dalla città, ma potevano anche essere dignitari presenti a corte in pianta stabile. Alcuni svolgevano la loro funzione presso i santuari. I profeti che conducevano una vita da «santoni» potevano anche avere una fama negativa di veggenti fuori di senno, privi di credibilità. D’altra parte, essi agivano in modo spontaneo, senza alcun condizionamento, e il re era propenso ad ascoltarli, perché spesso i profeti di corte tendevano a fornire delle previsioni fin troppo ottimistiche.

Precursori del Messia

I servigi dei profeti erano particolarmente richiesti in situazioni cruciali, per esempio per rimediare a una penuria d’acqua o per elaborare un piano di guerra. Erano anche in grado di far piovere e di risolvere una carestia. Prefigurando le doti del Messia, essi potevano peraltro moltiplicare pane e olio, resuscitare morti o guarire malati. La stessa ascesa al cielo di Elia (vista nella precedente puntata) si associava facilmente alla resurrezione di Cristo. Su un piano piú concreto, proprio per l’importanza assunta a corte, i profeti divennero autentici protagonisti della vita politica. Quando era in corso una guerra, incoraggiavano il sovrano o lo tenevano a freno. Senza subire alcuna conseguenza, in quanto emissari divini, potevano rimproverare platealmente il re per certi comportamenti che aveva assunto. Potevano aizzare colpi di Stato, e avere un ruolo attivo nel determinare la successione al trono. Amos lega il suo nome a uno dei piú antichi libri

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oltre lo sguardo/2 profetici della Bibbia. Vissuto tra il 780 e il 745 a.C., proviene dal regno di Giuda, da una località sita a sud di Betlemme (là dove nascerà Cristo). Prevede la rovina di Israele (nel 743-732 quel regno sarà davvero sotto la mannaia della pressione assira), e ciò non solo per la diffusione di una religiosità «idolatrica», a base di feste e di musiche, ma per via di profonde ingiustizie e disuguaglianze sociali. Si scaglia cosí contro il lusso smodato esibito dall’élite (case sfarzose con letti d’avorio, grandi consumi di olio e di vino, ricevimenti chiassosi), e contro gli eccessi della pressione fiscale sulle fasce piú deboli della popolazione, angariate poi dalla schiavitú per debiti, dalle frodi commerciali (pesi e bilance truccati) e da una giustizia che adotta due pesi e due misure. La stessa minaccia assira è per Amos uno strumento della volontà divina.

L’ultimo castigo

Un terremoto, per giunta – tipico castigo impartito da Yahweh (come la siccità) –, farà da preludio alla «punizione finale». Ne nascerà un bisogno feroce di ritrovare un contatto con la divinità offesa: «Ecco che viene il tempo, dice il Signore, quand’io manderò sopra la Terra la fame, non fame di cibo, né sete di acqua, ma brama di udire una parola di Dio» (Amos, 8:11). La restaurazione del Tabernacolo, cosí come il re Davide lo aveva tramandato, segnerà finalmente il momento in cui Dio si è riconciliato con il suo popolo. Quando le truppe assire dilagano, determinando la distruzione di Samaria e l’assedio di Gerusalemme, nuove figure di veggenti entrano in scena. Osea (760-720 a.C.) proviene da Israele, e la catastrofe, nella sua ottica, è motivata dalla corruzione e dal tradimento nei riguardi di Yahweh, che il profeta rappresenta nei termini di una «infedeltà coniugale»: Dio ripudia quel Regno come se fosse una donna adultera. «Per questo ecco che io chiuderò la sua strada con siepi di spine, la chiuderò con una muraglia a secco, ed ella non troverà passaggio» (Osea, 2:6). Michea (750-710 a.C.) proviene da un villaggio rurale del Regno di Giuda, ed è molto sensibile ai temi della giustizia sociale. Di fronte all’accusa di non aver protetto il suo popolo dalla rovina, Dio si difende

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Nella pagina accanto placca in rame dorato e smaltato raffigurante il profeta Osea, in origine facente parte di un reliquiario. Produzione germanica (Hildesheim, Bassa Sassonia), XII sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. In basso frammento di affresco raffigurante il profeta Amos, opera di un anonimo pittore romano, dalla chiesa di S. Nicola in Carcere, Roma. XII sec. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.

come se si trovasse in un’aula di tribunale. Il fatto è che, nonostante tutti i benefici ricevuti, il popolo di Israele si è rivelato infedele e spietato, e quindi ha meritato in pieno tutte le sue tribolazioni. «Se desiderano campi, se ne impossessano; se vogliono case, se le prendono, e prendono anche il proprietario assieme alla casa» (Michea, 2:2). Il profeta Sofonía, negli affreschi oggi visibili nel sottotetto della chiesa di S. Angelo Magno di Ascoli Piceno (1150-70 circa), esibisce un cartiglio sul quale si leggono alcune parole del suo terribile vaticinio: «Io sgombrerò di ogni cosa la Terra, dice il Signore» (Sofonía, 1:2; vedi foto a p. 50). Si sta per abbattere una punizione divina paragonabile al diluvio. Nella concezione originale, tuttavia, non si trattava ancora della fine dei tempi che prelude al Giudizio Universale, secondo una dottrina estranea al Vecchio Testamento. Il flagello colpirà il popolo di Dio in un momento preciso della sua storia, per il suo comportamento indegno. Con Sofonía siamo negli anni 640-610 a.C., e si sta per compiere l’invasione babilonese, con la deportazione in massa degli Ebrei (587 a.C.). Il giorno in cui si scatenerà questo cataclisma, sarà il giorno dell’ira divina: «Dies irae, dies illa» (Sofonía, 1:15).

Guai ai latifondisti!

Il Libro di Isaia racchiude in realtà le scritture attribuite a tre diversi personaggi. Il piú antico, il Proto-Isaia (740-700 a.C.), esalta Yahweh come fonte di salvezza per tutte le genti, maledice l’idolatria e si scaglia contro il latifondo: «Maledetti voi che aggiungete casa a casa, e unite podere a podere, finché si esaurisce tutto lo spazio; abiterete forse voi soli in mezzo alla terra?» (Isaia, 5:8). Profetizza la nascita di un redentore dalla stirpe di Jesse («sopra di marzo

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oltre lo sguardo/2 Dies irae, dies illa

Un annuncio di grande successo Nella sua versione latina, la formula profetica di Sofonía ispirò numerosi componimenti medievali, sacri e profani, nella nuova ottica della II Lettera di san Pietro (3:10) e dell’Apocalisse. Conobbe in particolare una grande fortuna la Dies irae, una sequenza, ossia un componimento poetico destinato alla recitazione cantata, in ambito liturgico, nei modi del canto gregoriano. Inizia cosí: «Dies irae, dies illa / solvet saeclum in favilla / teste David cum Sybilla…» («Giorno dell’ira sarà quel giorno, [quando] il mondo terreno si dissolverà nelle fiamme, come annunciato da David e dalla Sibilla»). La prima attestazione della sequenza, erroneamente attribuita al biografo di san Francesco Tommaso da Celano (1190 circa-1260 circa), è presente in un codice napoletano proveniente dal monastero benedettino-cassinese di S. Tommaso di Caramanico (Pescara), e risale alla fine del XII secolo. Proprio l’incipit, d’altronde, si ricollega allo Iudicii Signum (noto anche come Canto della Sibilla), un altro celebre componimento «apocalittico» recitato nei monasteri alla fine dell’anno liturgico, a Natale, prima della Dies irae. In seguito, grazie all’impegno dei Francescani, la Dies irae si diffuse ovunque, rientrando nella messa di rito romano per i defunti. Il primo messale pervenuto che la

inserisce stabilmente nella liturgia è del 1249. La Dies irae resisté poi alla drastica «pulizia» messa in atto nei riguardi delle sequenze medievali da papa Pio V, con la sua riforma liturgica (Missale Romanum del 1570), che ne ammise cinque a fronte delle 5000 fin lí diffuse. Approdò cosí alle composizioni musicali espressamente studiate per le messe funebri: il testo della Dies irae è infatti presente, per esempio, nei Requiem di Mozart e di Verdi. Nella sua originaria veste gregoriana (ma senza recitazione del testo), la Dies irae viene citata in modo ironico nel

lui riposerà lo spirito del Signore»: Isaia, 11:2), e, quando si palesa il Deutero-Isaia (590-500 a.C.), emerge una folgorante prefigurazione di Cristo. «È trafitto per i nostri peccati, schiacciato dai nostri crimini. La sua punizione ci rende la pace, grazie alle sue ferite noi siamo guariti (…) Per le sue sofferenze il mio Servo giustificherà le moltitudini, assumendosene lui gli errori» (Isaia, 53: 5, 11).

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quinto movimento della Sinfonia fantastica di Hector Berlioz (1830), nella quale il compositore – reduce da una delusione sentimentale e in preda ai fumi dell’oppio – si ritrova nel mezzo di una visione infernale (Sogno di una notte di sabba). Da lí la citazione arriva persino nella colonna sonora del film Shining (1980) di Stanley Kubrick. Le musiciste Wendy Carlos e Rachel Elkind, con l’ausilio elettronico del sintetizzatore, inseriscono le note della Dies irae proprio in apertura, con le riprese aeree tra i monti dell’Oregon che preludono al «sabba» celebrato nell’Overlook Hotel.

Il servo di Yahweh, in effetti, è la risposta sublime ai tanti quesiti che si pone il fedele, in merito alle proprie responsabilità e al proprio rapporto con Dio. La cattività babilonese ha messo in crisi i modelli tradizionali, dove la colpa del reo si estendeva sia alla sua comunità di appartenenza, sia ai propri discendenti. Si crea cosí una prospettiva individualista, dove ciascuno marzo

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A destra un’immagine del profeta Michea disegnata su una pagina della Biblia Hispalense (o Bibbia di Siviglia). 900-950 circa. Madrid, Biblioteca Nazionale. Nella pagina accanto Ascoli Piceno, chiesa di S. Angelo Magno. Affresco raffigurante il profeta Sofonía che mostra un cartiglio sul quale si leggono alcune parole del suo vaticinio: «Io sgombrerò di ogni cosa la Terra, dice il Signore». 1150-1170 circa.

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oltre lo sguardo/2 A sinistra Ascoli Piceno, chiesa di S. Gregorio Magno. Affresco con san Giovanni Battista che predice il sacrificio di Cristo al cospetto della Madonna in trono col Bambino. Inizi del XIV sec. A destra, sulle due pagine figure di Profeti che sorreggono sulle proprie spalle gli Apostoli scolpite nel Portale dei Principi (Fürstenportal) del Duomo di Bamberga (Germania). 1220-1237 circa.

san giovanni battista

L’ultimo dei Profeti Un personaggio evangelico come san Giovanni Battista può essere incluso nel novero dei Profeti stessi come l’ultimo della «serie», in quanto riconobbe in Cristo colui che si sarebbe sacrificato per la salvezza del genere umano. «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo» (Giovanni, 1:29). In alcuni dipinti votivi, il Battista è raffigurato di fianco alla Vergine col Bambino proprio nell’atto di annunciare il destino del Redentore. Come Cristo stesso afferma in Matteo, 11:14, il Battista è immagine in carne e spirito del profeta Elia, colui che ha redento il suo popolo ed è asceso in cielo, per poi tornare in terra quando si approssima la fine dei tempi. Secondo sant’Agostino, l’uomo è ormai giunto alla sua sesta e ultima età, la vecchiaia (senectus), una fase che è iniziata con la prima venuta di Cristo e che si concluderà con la sua seconda venuta, non si sa quando, prima che si compia il Giudizio Universale. Per san Giovanni Crisostomo (345 circa-407), padre della Chiesa greca, il Battista è appunto l’annunciatore della Rivelazione, e prefigura cosí il ruolo che sarà svolto da Elia alla fine dei tempi.

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risponde in proprio di quello che fa, senza che il giudizio possa dipendere dalla sua fama. Infatti, come dice il profeta Ezechiele (595-570 a.C.), «La giustizia del giusto non lo salverà il giorno della sua perversione, e la cattiveria del cattivo non lo farà soccombere il giorno in cui rinuncerà alla sua cattiveria» (Ezechiele, 33:12). Nel servo di Yahweh, d’altro canto, l’antica mentalità riemerge per dare vita a una tremenda figura sacrificale, sovrumana, che assume su di sé le colpe di tutti, marzo

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ma sempre nel contesto esclusivo del popolo ebraico. L’intervento vittorioso di un nemico esterno, che distrugge il Tempio di Gerusalemme e deporta la popolazione, viene interpretato dai profeti del tempo come una punizione divina. I Babilonesi, dunque, (come già gli Assiri per Amos) sono agenti dell’ira di Dio, ma ne divengono poi succubi, allorché il loro regno viene conquistato da Ciro il Grande, che il Deutero-Isaia raffigura come un re-messia.

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È il trionfo sull’idolatria ed è la grande occasione di riscatto per il popolo ebraico. Nel libro di Ezechiele, Giudei e Israeliti uniscono i loro destini e centrano il loro progetto di rinascita sulla casata reale di David. Questa stirpe eterna dovrà trovare il suo centro e la sua ragion d’essere nel nuovo Tempio di Gerusalemme. Si crea cosí un potente amalgama tra regalità, fede, popolo e terra. Quando i Profeti vengono accolti nell’apparato di una chiesa, la loro identità storica assume un senso

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oltre lo sguardo/2 Capua, chiesa di S. Angelo in Formis. Affresco raffigurante la Sibilla Eritrea. 1072-1086.

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prettamente simbolico. Quello che conta è il valore sempiterno del loro messaggio. Difatti, la loro ammonizione contro l’ingiustizia e contro l’idolatria (resa attuale dalla lotta contro l’eresia), la paura della punizione e la promessa della salvezza, hanno un ruolo centrale nel messaggio della Chiesa. Divengono cosí i vegliardi di un passato inteso solo in senso puramente scritturale. Con la loro autorità, infusi come sono della parola di Dio, pongono le premesse della Rivelazione e prefigurano la fine dei tempi, cosí come emerge dal Nuovo Testamento. Il concetto è espresso in maniera eclatante nel portale dei Principi della cattedrale di Bamberga (Baviera, 122037 circa), dove gli Apostoli si innalzano sulle spalle dei Profeti (vedi foto alle pp. 52/53). La stessa idea si ritrova a Chartres, nelle vetrate del transetto meridionale (122130), dove gli Evangelisti siedono sulle spalle dei Profeti, di fianco all’immagine della Madonna col Bambino.

Il sudore bagnerà la Terra

Nei complessi pittorici e scultorei piú diffusi, il nesso tra le due grandi sezioni della Bibbia è ricercato in maniera piú sottile, ma sempre ben evidenziato. Negli affreschi della basilica di S. Angelo in Formis (Capua, 1072-86), per esempio, disposti dall’abate Desiderio di Montecassino (vedi «Medioevo» n. 258, luglio 2018; anche on line su issuu.com), i Profeti esibiscono i cartigli con i loro versetti lungo la navata centrale, mentre i registri sovrastanti – su entrambe le pareti – raccontano le Storie del Nuovo Testamento. A sinistra, nel punto di giunzione con la controfacciata – dove domina l’apparato del Giudizio Universale –, si interpone persino la Sibilla Eritrea (vedi foto nella pagina accanto), una profetessa del mondo greco-romano che il Medioevo accoglieva ben volentieri nel consesso dei veggenti (cosí come veniva incluso lo stesso poeta Virgilio). A lei infatti si attribuiva l’VIII Libro degli Oracoli sibillini – composto, in realtà, in larga parte, da un autore cristiano antico, nel IV secolo –, con il presagio della fine dei tempi perfettamente in linea con il dettato biblico. Il cartiglio tenuto in mano dalla prophitissa di S. Angelo ne riporta un brano, ossia il verso iniziale dello Iudicii Signum: «Come segnale del Giudizio, la Terra si bagnerà di sudore». Si tratta dell’incipit di un carme acrostico, dove cioè le prime lettere di ciascun verso compongono un nome o una frase: in tal modo la Sibilla celebra «Gesú Cristo figlio di Dio, il Salvatore». Noto anche come Canto della Sibilla, lo stesso carme aveva un posto di rilievo nella liturgia monastica (vedi box a p. 50), e conobbe una tradizione ininterrotta nelle celebrazioni del Natale – adottando le lingue locali, e con ampie concessioni al gusto dei costumi e della recitazione di effetto – in Sardegna, nelle isole Baleari e in Provenza. La versione catalana in uso presso la cattedrale di Palma di Maiorca

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è stata inserita dall’UNESCO nella lista del Patrimonio culturale dell’umanità (2010). Un simile approccio «teatrale» alle grandi celebrazioni liturgiche era già diffuso nel Medioevo. La figura stessa della profetessa di S. Angelo è resa in modo quasi coreografico, vista la dinamica della sua posa, tutt’altro che rigida, e rientra cosí nell’ampia galleria di attitudini che compone la sfilata dei Profeti. Sembra per giunta nell’atto di rivolgersi a un personaggio dell’attiguo Giudizio, l’Arcangelo addetto al flusso dei dannati. Nel suo cartiglio si legge: «Andate, maledetti, nel fuoco eterno» (Matteo, 25:41). Si vede bene, insomma, che nel gioco delle pose e dei cartigli, si riflette un senso della rappresentazione scenica. La Sibilla (genericamente intesa) e taluni Profeti rientrarono d’altronde nelle testimonianze superstiti di quei «copioni» che facevano da base ai drammi liturgici. Uno di questi capostipiti del teatro sacro che ci è stato tramandato, l’Ordo representacionis Ade, ossia Un copione per la rappresentazione di Adamo (1150 circa) – noto come Jeu d’Adam –, mette in scena i Profeti in perfetto raccordo con la vicenda del Genesi. Dopo la caduta di Caino nell’inferno, come riferisce la nota di regia, «Ogni profeta sia chiamato per nome; e dopo essere apparso in pubblico avanzi con dignità e pronunci la propria profezia in maniera chiara e distinta» (traduzione di Sonia Maria Barillari). Come nota Chiara Frugoni, in un testo del genere si può scorgere la stessa sensibilità epigrafica e «scenotecnica» che guida l’impaginazione delle sculture di Wiligelmo nella facciata di Modena, con le storie del Genesi, i Profeti del portale e la lastra con Enoch ed Elia

Da leggere Chiara Frugoni, Wiligelmo. Le sculture del Duomo di Modena, Panini, Modena 2007 Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza, Roma-Bari 2012 Furio Cappelli, Gli affreschi del sottotetto della chiesa di S. Angelo Magno di Ascoli Piceno: analisi, ambientazione e inquadramento storico-culturale, in Aa. Vv., Guardate con i vostri occhi… Saggi di storia dell’arte nelle Marche, Lamusa, Ascoli Piceno 2002; on line su Academia.edu Sonia Maria Barillari (a cura di), Adamo ed Eva. Le Jeu d’Adam: alle origini del teatro sacro, Carocci Editore, Roma 2010 Manuel Castiñeiras, Da Virgilio al Medioevo: postille sulla rinascita della Sibilla in Campania (XI-XIII secolo), in Arte Medievale, VI (2016); on line su Academia.edu

NEL PROSSIMO NUMERO ● Nella fossa dei leoni

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storie orvieto

Quell’indispensabile

tolleranza

di Giuseppe M. Della Fina

Pienamente inserita nel tessuto sociale, una comunità ebraica era presente a Orvieto forse sin dalla fine del Duecento. Rappresentando, grazie all’attività di prestatori svolta dai suoi membri, una risorsa irrinunciabile per le casse comunali

L L

a storia di una città medievale si può ricostruire su basi diverse, per esempio esaminando le maestranze impegnate nell’agricoltura o nell’artigianato, gli assetti istituzionali, la sfera religiosa, la produzione artistica o le dinamiche tra le componenti piú significative della società. E si può anche scegliere di prendere in esame singoli avvenimenti, tali da mutare di colpo il corso degli eventi, o di privilegiare l’analisi di assetti sociali, usi e costumi in grado di attraversare i secoli. Nel presentare le vicende medievali di Orvieto, una delle città piú importanti e vitali dell’Italia centrale nel Duecento, nel Trecento (specie nella prima metà) e nel Quattrocento, seppure su una scala minore rispetto ai periodi precedenti, si è scelto di gettare uno sguardo invece sulle minoranze, tenendo in considerazione gli studi piú recenti. Nella consapevolezza che tale ottica può essere in grado di svelare i punti di forza e quelli di debolezza di una società, gli slanci coraggiosi in avanti e le chiusure, le speranze e le paure.

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Già l’anno scorso, su queste pagine (vedi «Medioevo» n. 283, agosto 2020; anche on line su issuu.com), l’attenzione era stata posta sugli stranieri presenti in città e su quelli attivi nel grande cantiere della Cattedrale, mentre in questa occasione si prende in esame la presenza ebraica, che – come vedremo – rappresentò a lungo un elemento propulsivo nella vita sociale ed economica. I contributi piú recenti sul tema si devono a Paolo Pellegrini, che vi è tornato piú volte negli ultimi anni, a Cristina Trequattrini e ad Antonio Santilli, che hanno integrato quanto conosciuto già attraverso l’esame A destra miniatura raffigurante un rabbino con i rotoli della Torah, dalla raccolta di testi oggi nota come Rothschild Miscellany e probabilmente realizzata da un laboratorio di Ferrara. 1479. Gerusalemme, The Israel Museum. Nella pagina accanto miniature raffiguranti prestatori di denaro ebrei, da un’edizione delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.

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storie orvieto Gaio di Musetto La personalità di maggior spicco nella comunità ebraica orvietana, durante la prima metà del Quattrocento, fu Gaio di Musetto. Era un medico e un chirurgo, che prestava la sua opera a favore di cittadini, di forestieri e di abitanti del contado e le sue capacità professionali gli avevano consentito di raggiungere un prestigio notevole in città. Un episodio lo può suggerire: quando venne imposto agli Ebrei di portare un distintivo, non attese le decisioni della comunità, ma scrisse subito (25 aprile 1408) al Consiglio Generale per denunciare l’accaduto. Anni dopo, in un atto del 24 agosto 1426, Gaio fu il solo Ebreo a essere escluso da un prestito forzoso di 30 fiorini d’oro richiesto dal Comune. L’esenzione venne votata, nel Consiglio Generale, a larga maggioranza (80 voti a 19). In seguito, il 13 settembre 1428 sottoscrisse, per conto della sua comunità, il nuovo patto tra le autorità cittadine e i banchieri ebrei.

Un atto del 1312 riconobbe agli Ebrei il medesimo status degli Orvietani di fede cristiana di dati d’archivio sinora inediti, o attraverso il riesame di altri già noti. Nella sua fondamentale Storia degli Ebrei in Italia (1963), Paolo Milano segnalava che Orvieto era una delle prime città in cui si erano trasferiti gli Ebrei provenienti da Roma, e che il loro insediamento sarebbe risalito al 1297. Va ricordato in proposito che, secondo lo storico

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Ariel Toaff, i trasferimenti sarebbero stati favoriti dalla Curia pontificia del tempo per condizionare e ingerirsi nella vita politica dei singoli centri. Per Pellegrini, l’arrivo di banchieri ebrei a Orvieto potrebbe essere anticipato di qualche anno: in un atto amministrativo, datato 4 aprile 1297, si ricorda che i Sette Consoli esaminarono la proposta

avanzata dal Capitano del Popolo, dominus Iohannes Arçonis de Urbe, affinché si pronunciassero in merito alla richiesta relativa al saldo di prestiti concessi da prestatori ebrei al Comune e ad alcuni cittadini. I Sette Consoli, che da circa un lustro rappresentavano l’organo supremo di governo, riconobbero che la rivendicazione era giusta e

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Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante un dottore che applica ventose sulla schiena di un paziente, da un’edizione del Canone di Medicina di Avicenna. XIV sec. Bologna, Biblioteca Universitaria. Nella pagina accanto, in basso la città di Orvieto, dal Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg, una raccolta di mappe delle città del mondo curata dai geografi tedeschi pubblicata in 6 volumi tra il 1572 e il 1617.

1597 espulsione di 1000 Ebrei Milano

Centri intellettuali ebraici nel Medioevo

Mantova 1612

Cremona

Comunità ebraiche presenti al tempo dell'impero romano e ancora esistenti nell'anno Mille

Venezia 1515

Soncino

Torino

LA PRESENZA EBRAICA IN ITALIA TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO (1000-1600)

1310 circa la conferenza degli Ebrei d’Italia si riunisce per discutere in che modo aiutare gli Ebrei di Germania a difendersi dalle persecuzioni

Centri d'affari ebraici

Pola

Ferrara 1624

Parma

Altre importanti comunità ebraiche

Genova

Ghetti creati sotto l'influenza del papato e data della loro creazione

Ravenna Lucca Firenze 1571 Pisa Livorno

1550 espulsione degli Ebrei

Area sulla quale vigeva la legislazione pontificia che limitava i diritti degli Ebrei

Fano na Ancona

MARE ADRIATICO

Foligno Orvieto

1297 Data del probabile insediamento della comunità ebraica

Roma 1555

MAR TIRRENO

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Gaeta

1000 un Ebreo è incaricato della riscossione delle imposte e dirige la Zecca

SARDEGNA

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1268 le persecuzioni determinano la scomparsa totale della comunità ebraica; le sinagoghe vengono trasformate in chiese

O

Trani L Lavello Bari Capua I Napoli Venosa Salerno Matera Oria Amalfi Taranto

1541 gli Ebrei vengono espulsi dai territori del regno di Napoli: alcuni si stabiliscono nell’Italia del Nord; altri nei territori dell’impero ottomano

887 per la prima volta nella storia delle comunità ebraiche d’Europa, viene fatto obbligo agli Ebrei di indossare un «marchio di infamia»; la decisione viene presa da Ibrahim, governatore musulmano della Sicilia

Otranto

MAR IONIO

Messina Palermo SICILIA

1391 e 1474 date dei massacri compiuti al tempo della dominazione aragonese; la successiva espulsione, nel 1492, causa la scomparsa di una comunità prosperosa, formata da 40 000 Ebrei

Brindisi

Catania Siracusa

Il segno distintivo L’obbligo di portare un segno distintivo sugli abiti era stato imposto agli Ebrei di Orvieto da Marco Corrier, rettore generale del Patrimonio di San Pietro in Tuscia dal 1407. Essi si rifiutarono di portarlo e si rivolsero alle autorità cittadine per un sostegno. Il 18 marzo del 1408 i Conservatori della Pace scrissero a Corrier, nipote del pontefice Gregorio XII, sollevando una questione di competenza giurisdizionale: non toccava al rettore generale intervenire sulla vicenda. L’obiezione venne ritenuta valida e Corrier, con una lettera del 22 aprile 1408, revocò l’imposizione.

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storie orvieto incaricarono il Capitano del Popolo di comunicare agli interessati che la riscossione sarebbe potuta avvenire, ma dopo la Pasqua che, in quell’anno, cadeva nella giornata del 14 aprile. Nell’atto si accenna a patti preesistenti (pacta inita) e questo ha spinto lo studioso a immaginare un arrivo precedente a quell’anno. Le stesse fasi della vicenda sembrano spingere in quella direzione: i prestiti erano già stati erogati e non restituiti e quindi doveva essere trascorso del tempo. Qualche giorno dopo, il 18 aprile 1297, comunque, venne approvato un (nuovo?) capitolato con sei prestatori ebrei, di cui si menzionano i nomi: Mosè di Diodato col figlio Abramo e due fratelli, Manuele e Beniamino; Elia di Salomone e il figlio Salomone. I Sette Consoli e il Capitano del Popolo lo approvarono: «pro manifestate evidenti utilitate populi et comunis Urbevetani». L’accordo avrebbe avuto una validità di quattro anni e prevedeva alcuni diritti per gli Ebrei: l’immunità dalla giurisdizione ecclesiastica, la possibilità di girare armati, la stessa protezione giuridica assicurata ai cittadini orvietani. La sfera del culto rimaneva fuori dall’accordo, tranne per il diritto di non lavorare il sabato e nelle festività ebraiche. Le clausole dei prestiti erano dettagliate: non si poteva reclamare un bene lasciato in pegno sino al saldo del debito che garantiva; il pegno, se non riscattato, poteva essere messo in vendita dopo un anno, assicurando, comunque, il diritto di prelazione al debitore; i libri contabili dei banchieri facevano fede in caso di controversie. In proposito, Pellegrini ha di conseguenza osservato giustamente che: i «banchi ebraici in regime di convenzione avevano una funzione pubblica e godevano di autorità pubblica». Altri capitoli della convenzione prescrivevano che i banchieri non dovevano essere costretti a erogare prestiti nemmeno al Comune

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o a suoi ufficiali, che era impedito ad altri Ebrei di esercitare il credito in città per i quattro anni di durata della condotta, e che, infine, in caso di partenza da Orvieto, essi potevano chiedere la restituzione anticipata dei crediti concessi.

Lo stipendio del podestà

D’altronde, lo stesso Comune ricorreva spesso ai loro prestiti: nel dicembre del 1300 ne chiese uno per pagare lo stipendio del podestà, ma, per ottenerlo, se ne dovette estinguere uno preso in precedenza. Poche settimane piú tardi, il 30 gennaio 1301, i Sette Consoli richiesero un prestito ulteriore per finanziare una spedizione militare nella provincia di Marittima nell’ambito di una guerra, combattuta a fianco di Siena, contro Margherita Aldobrandeschi e Guido di Santa Fiora. Già solo tali richieste suggeriscono lo stretto rapporto tra la politica locale e la finanza ebraica. Qualche mese dopo, prima della concessione di un ulteriore e piú consistente prestito, venne chiesto e ottenuto il rinnovo dei patti del 1297 e questa volta per otto anni. La richiesta fu approvata, ma i sot-

toscrittori in parte cambiarono: vi erano ancora Mosè di Diodato col figlio Abramo e i fratelli, Manuele e Beniamino, ma non Elia di Salomone e suo figlio, sostituiti da altri due figli di Mosè, Leone e Diodato, giunti in città nel frattempo o arrivati a un’età tale da poter seguire gli affari di famiglia. Nel 1312 si stipulò un capitolato con una novità rilevante: l’attribuzione ai banchieri ebrei dello status di cittadini e il godimento di tutti i diritti riconosciuti ai cives cristiani, ferma restando la differenza di religione. La presenza ebraica diventò stabile e, almeno dal 1375, è attestata nella toponomastica cittadina una platea iudeorum, forse da identificare – secondo Trequattrini – con l’attuale piazza Vivaria, in pieno centro anche nella Orvieto trecentesca. Va anche ricordato che alcuni Ebrei allontanati da Roma nel 1321 furono accolti dalla comunità ebraica orvietana, fra i quali il celebre poeta Immanuel Ben Shelomoh, noto anche come Manoello Giudeo (o Romano), che, nella sua raccolta piú nota – Mechabberot – ringraziò per l’aiuto ricevuto. Per l’anno 1334 abbiamo la notizia di abitazioni di Ebrei poste lungo una

Miniature tratte da un pamphlet antisemita sull’usura, redatto a Norimberga nel 1484. Berlino, Deutsches Historisches Museum. marzo

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strada che conduceva «ad macellum platee comunis», la platee comunis era l’attuale piazza della Repubblica. Una nuova condotta, stipulata il 14 marzo 1396, va analizzata con attenzione, poiché segnala, tra l’altro, l’assenza dei discendenti del primo nucleo di prestatori, che avevano fondato la comunità ebraica orvietana. A sottoscriverla furono nuove persone provenienti da Viterbo, tra le quali spiccano Dattilo (o Dattolo) di Consiglio e Sabatuccio di Venturello, capostipiti di due famiglie destinate ad attestarsi in città per gran parte del Quattrocento. Alla metà del secolo, i loro figli raggiunsero un ruolo di primo piano, rappresentando la comunità nei rapporti con le autorità comunali. Le clausole erano piú favorevoli delle condotte precedenti, anche se, in controluce, si può iniziare a vedere una minore volontà d’integrare i nuovi venuti. Veniva prevista l’esenzione dagli oneri generali (imposte dirette, prestanze, gabelle) e personali (per esempio, il servizio di guardia cittadino, sia giornaliero che notturno). Condizioni simili erano previste per gli stranieri che decidevano d’insediarsi in città.

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Particolarmente alto – anche per i canoni dell’epoca – era il tasso d’interesse consentito, l’80% annuo. Un tasso che – secondo la testimonianza degli stessi banchieri – non venne mai applicato, ma che suggerisce da solo la penuria di denaro negli anni in questione.

Discriminazioni illecite

La situazione cominciò a farsi tesa e, nel 1408, gli Ebrei denunciarono il comportamento discriminatorio degli ufficiali cittadini nei loro confronti: l’imposizione di versamenti non dovuti, la richiesta del prestito forzoso di oggetti, la tendenza a trasformare le cause civili intentate contro di loro in cause criminali, l’obbligo di portare un segno distintivo sugli abiti contrariamente a quanto stabilito. La situazione denunciata venne discussa in un Consiglio Generale del 13 maggio 1408 e le richieste furono accolte integralmente. Fu stabilita anche una multa di 100 fiorini contro gli ufficiali che avessero perseverato nei comportamenti condannati. Il clima cambiò profondamente alcuni anni piú tardi, agli inizi del 1427, quando giunse in città

Bernardino da Siena e iniziò la sua predicazione. Nei ripetuti sermoni, ammoní i cittadini orvietani a non bestemmiare, a non praticare i giochi proibiti, a non lavorare nei giorni del Corpus Domini e dell’Assunzione e a non avere piú rapporti con gli Ebrei. E invitò anche le autorità ad annullare le immunità concesse. La sua predicazione trovò un seguito immediato e, riunito un Consiglio Generale allargato nella giornata del 16 febbraio 1427, si approvò quasi all’unanimità (114 voti contro 3), la revoca delle concessioni fatte agli Ebrei e la stessa possibilità di prestare denaro. La decisione ebbe un impatto negativo sull’economia cittadina e, poco piú di un anno dopo, in una nuova riunione del Consiglio Generale in data 27 giugno 1428, si decise a maggioranza (55 voti a favore e 27 contro) di fare marcia indietro e di consentire ai banchieri ebrei di tornare a prestare denaro in base a nuovi patti. Di conseguenza, il 13 settembre 1428, venne stipulato un nuovo accordo, valido per ventinove anni, con un tasso d’interesse annuo consentito al 24% e con alcune clausole restritti-

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storie orvieto ve, come il divieto di acquisto di un bene immobile senza un’espressa licenza del consiglio generale. Per la parte ebraica la condotta venne firmata, anche a nome degli altri ebrei presenti in città, da Sumato (o Sumata) di Manuele e da Gaio di Musetto (vedi box a p. 58). Alla metà del Quattrocento la situazione era mutata ancora

in peggio: i nuclei familiari ebrei presenti in città e individuati con sicurezza (alcuni potrebbero non esserlo stati, soprattutto quelli non inseriti nell’attività finanziaria) risultano dimezzati (da almeno otto a quattro), le personalità piú eminenti della comunità morti o emigrati altrove. D’altronde, l’intera Orvieto viveva una fase difficile: il

pontefice Pio II, che la visitò nella giornata del 27 settembre 1460, nei Commentarii, fornisce un quadro della situazione quasi senza speranze: «Quivi sorgevano splendide case di cittadini e ampi palazzi in bozze di pietra. Il tempo ne ha distrutti molti, piú ancora furono incendiati e devastati dalle lotte civili. Restano ora le torri semidistrutte e le chiese crollate. Ma si

Orvieto in una veduta a volo d’uccello.

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vede ancora in mezzo alla città il tempio dedicato a Santa Maria Vergine, non inferiore a nessun’altra chiesa d’Italia». Una nuova condotta con Ebrei provenienti da Viterbo – i fratelli Sabato, Angelo e Mele di Aleuccio – venne stipulata nel 1460, ma fu stracciata solo tre anni dopo, a seguito della predicazione di frate Bartolomeo da Colle Val d’Elsa e della nasci-

ta di un Monte di Pietà (il secondo in Italia, dopo quello di Perugia). Nel 1468 si fece di nuovo marcia indietro e, per fronteggiare una grave crisi di liquidità, vennero richiamati i banchieri allontanati, affinché terminassero i dieci anni di condotta, che era stata loro concessa. Ciononostante, atteggiamenti e prese di posizione antie-

braiche continuarono e anzi s’intensificarono con la fine del secolo e gli inizi del Cinquecento. Il che non impedí, comunque, che Ebrei sefarditi, dopo la cacciata dalla Spagna nel 1492, arrivassero a Orvieto a partire almeno dal 1512. Tra i nuovi arrivati, spiccano le figure del noto medico Moïse de Blanis e del figlio Laudadio.

Da leggere Paolo Pellegrini, Le origini della comunità ebraica in Orvieto: note e documenti (1297-1312), in Bollettino dell’Istituto Storico Artistico Orvietano, LXI-LXIV, 2011; pp. 121-145 Cristina Trequattrini, Un comunità ebraica nella Orvieto trequattrocentesca: immigrati ed emigranti, in Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, CX, I-II, 2013; pp. 161-176 Paolo Pellegrini (a cura di), Presenze ebraiche in Umbria meridionale dal medioevo all’età moderna, Editoriale Umbra, Foligno 2017 Antonio Santilli, Orvieto nel Quattrocento, Il Formichiere, Foligno 2019; pp. 203-238

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costume e società

Quando il

Medioevo era...

solidale testi di Ilaria Taddei e Ludovica Sebregondi

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Nate sulla scia dell’attività assistenziale svolta dagli Ordini religiosi, le confraternite medievali si dedicavano alle categorie piú fragili della società. Aperte a tutti o di carattere elitario, fondate sulla solidarietà di mestiere o sulla comunità d’origine, queste associazioni provvedevano anche al benessere materiale e spirituale dei propri confratelli. Suscitando l’approvazione – ma anche la diffidenza – delle autorità religiose e politiche…

U U

omini e donne di tutte le regioni della cristianità romana si riunirono fin dal X secolo in compagnie dirette e organizzate da laici, destinate principalmente alle opere di pietà e di carità. Il fenomeno confraternale, tuttavia, non s’affermò ovunque con la stessa capillarità, né s’impose in tutto l’Occidente medievale in un medesimo arco cronologico: la nascita delle confraternite si manifestò in tempi molto diversi (dal X al XIII secolo e oltre) secondo le aree geografiche e secondo la natura stessa delle associazioni; gli ulteriori sviluppi del movimento tardomedievale furono poi ancora piú segnati dalla diversità delle esperienze confraternali che, nel corso del XIV e XV secolo, conobbero orientamenti differenti da una città all’altra, da un borgo all’altro. Le confraternite, nate in origine come unioni di preghiera in stretta relazione con le comunità monastiche, si adattarono nel corso dei secoli alle molteplici esigenze della società, sovrapponendosi talvolta ad altre organizzazioni, come per esempio le corporazioni. Quelle che il linguaggio dell’epoca chiamò fraternitates, societates, confratriae, scholae, universitates, colligationes, conjurationes, congregationes – per citare solo alcuni dei termini piú frequenti – costituirono una delle forme piú diffuse e dinamiche dell’associazionismo medievale. Al di là dell’eterogeneità delle esperienze confraternali, che ebbero tempi e finalità diverse, si possono Miracolo della reliquia della Croce al ponte di San Lorenzo, telero dipinto da Gentile Bellini per la sala dell’Albergo della Croce, nella Scuola di S. Giovanni Evangelista a Venezia, una confraternita di Battuti istituita nel 1261. 1494-1500. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

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costume e società tuttavia individuare alcune linee comuni che contraddistinsero l’intero movimento. Durante i secoli XI e XII lo sviluppo delle confraternite fu senz’altro legato alla valorizzazione della penitenza e dell’ideale apostolico tra i laici alla ricerca costante di una scelta di vita religiosa al di fuori delle strutture monastiche. Nell’ambito dell’affratellamento laicale un impulso decisivo venne dagli Ordini Mendicanti e, in particolare, dai Frati Minori, i quali ebbero un ruolo importante nella diffusione della spiritualità penitenziale. La volontà dei laici di accedere a pratiche spirituali di origine monastica appare

con chiarezza nel caso delle confraternite di Disciplinati (o Battuti) formatesi soprattutto in Italia a partire dal movimento penitenziale umbro del 1260. Questi sodalizi proposero ai confratelli pratiche sacramentali piú frequenti del precetto e, a imitazione delle sofferenze di Cristo, accordarono particolare importanza alla devozione penitenziale facendo ricorso all’autoflagellazione. Le stesse preoccupazioni spirituali animarono molti altri gruppi di laici desiderosi di impegnarsi in scelte religiose capaci di adattarsi ai loro interessi secolari. Fu questo il caso delle confraternite nate

A destra i confratelli della Misericordia inginocchiati ai lati della Vergine col Bambino nella predella della Trinità tra i Santi Bernardino e Donato in ceramica invetriata eseguita da Andrea della Robbia per il Duomo di Arezzo. 1483-1485. In basso due penitenti con cappuccio e flagello, tempera su tavola del Vecchietta (al secolo, Lorenzo di Pietro). Prima metà del XV sec. Chantilly, Musée Condé.

intorno al culto mariano e piú in particolare, in Italia, delle compagnie di Laudesi, che dedicarono gran parte delle loro devozioni alla Vergine.

La massima fioritura

Negli ultimi secoli del Medioevo, alle esigenze spirituali all’origine dello sviluppo confraternale, si sovrapposero sempre piú motivazioni di altra natura, che spinsero ampi strati della popolazione di tutte le regioni d’Europa ad aderire ai sodalizi già esistenti e a dar vita a nuove iniziative associative. Il Quattrocento segnò ovunque l’apogeo della fioritura confraternale, e queste strutture si diffusero come uno dei principali organismi associativi, capaci di modellarsi su una varietà di funzioni diverse che non includevano solo attività di carattere religioso, ma molteplici aspetti della vita comunitaria. Vari fattori incisero, piú o meno direttamente, sulla proliferazione delle confraternite tardo-medievali: dal rinnovamento della sensibilità religiosa dei laici agli effetti legati alla congiuntura della grande peste del 1348, che sconvolse duramente il succedersi delle generazioni provocando un indebolimento dei legami familiari; dalle trasformazioni politiche e sociali dell’organizzazione marzo

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comunale alla diffusione della cultura umanistica; dai nuovi modi di concepire la figura del povero e la mutua assistenza all’esigenza sempre piú forte di riconoscimento sociale dei singoli individui e dei diversi gruppi. Le confraternite tardo-medievali assunsero dunque una pluralità di fisionomie diverse per composizione, finalità, e per i rapporti variegati che intrattennero con le autorità politiche e religiose. Vi furono sodalizi a carattere vicinale, legati al quartiere o alla parrocchia, e altri, viceversa, che ebbero una partecipazione e un’influenza estese all’intera città. Alle confraternite a composizione

mercanti italiani e tedeschi ad Avignone, e varie città ospitarono sodalizi che offrivano agli artigiani forestieri assistenza religiosa, morale e materiale. La confraternita forniva inoltre agli artigiani stranieri anche la possibilità di stringere legami comunitari e d’integrarsi nel tessuto urbano con un’identità di gruppo. Nel processo di aristocratizzazione della società che caratterizzò il Quattrocento nacquero poi sodalizi che furono appannaggio dell’élite cittadina. Fu questo, per esempio, il caso di alcune scholae milanesi che nel Quattrocento riunirono prevalentemente membri del

sociale aperta, generalmente diffuse in tutti i contesti europei, si opposero forme di chiusura piú o meno elitaria. Tra queste nuove associazioni riservate a gruppi omogenei figuravano le compagnie fondate sulla solidarietà di mestiere, costituite da mercanti, orafi, fabbri, barbieri, calzolai, tintori e altri artigiani, le confraternite destinate alla stessa comunità di forestieri e i sodalizi dalla doppia connotazione (condivisione della professione e della comunità di origine). A Firenze, per esempio, i lavoratori immigrati dalla Germania e dalle Fiandre fondarono due compagnie di tessitori di lana, una intitolata a S. Caterina (1420) e una a S. Barbara (1443), e una confraternita di calzolai (S. Caterina, 1441); allo stesso modo i tessitori di seta di origine lucchese si riunirono nella compagnia di S. Marco o Ceppo dei Tessitori (1450) e gli artigiani genovesi dettero vita al sodalizio di S. Sebastiano (1474). La stessa solidarietà «nazionale» e professionale riuní lavoratori fiorentini a Roma, artigiani lombardi e toscani a Bologna,

patriziato urbano. Malgrado lo sviluppo tardo-medievale di sodalizi destinati a particolari categorie socioprofessionali, la fisionomia confraternale piú diffusa fu quella «mista», ossia con un carattere composito e una larga partecipazione degli strati «medi» della popolazione. La caritas, la piú nobile delle virtú teologali, fu il principio fondamentale di fratellanza, comune alle molteplici vocazioni che le confraternite assunsero nella loro lunga storia. In nome della carità l’intero gruppo era tenuto a partecipare ai funerali dei confratelli deceduti e a pregare costantemente per la salvezza della loro anima. L’assistenza materiale, considerata come inscindibile da quella spirituale, si concretizzava poi in aiuti finanziari in caso di malattia o di miseria, in visite a casa degli infermi, in veglie e onoranze funebri.

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Buca per la raccolta delle elemosine, nell’oratorio della confraternita fiorentina dei Buonomini.

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costume e società Nella pagina accanto, in alto pagina miniata con la Lavanda dei piedi e Battuti inginocchiati, dagli Statuti e matricola dei Devoti Battuti di S. Maria della Vita. 1260. Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio. In basso Dar da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, una delle Opere di Misericordia, affrescata in una delle lunette dell’oratorio dei Buonomini di S. Martino, a Firenze. XV sec. Il ciclo viene attribuito alla bottega di Domenico Ghirlandaio.

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Gerarchie confraternali

Quasi come un esercito Ogni confraternita possedeva una sede presso una chiesa o un convento dove gli iscritti si ritrovavano ed era regolata da una legislazione propria raccolta in statuti. All’apice della gerarchia confraternale si trovavano i «capitani», denominati anche «guardiani», «priori», «rettori», i quali dirigevano l’organizzazione della compagnia con l’aiuto di consiglieri. Altri uffici-chiave erano quelli del «correttore», ossia del confessore destinato alla cura spirituale, dei «camarlinghi», impegnati ad amministrare le finanze della confraternita,

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degli «scrivani», addetti a registrare i debitori e i creditori e a tenere l’inventario dei beni posseduti dalla confraternita. Il numero degli ufficiali che gestivano il sodalizio variava a seconda del grado di organizzazione del gruppo. A questi se ne potevano aggiungere altri, come i «visitatori» o gli «infermieri» addetti al soccorso degli infermi. La nomina degli ufficiali avveniva in generale a maggioranza di voti o attraverso procedimenti piú complessi, fondati, come per esempio a Firenze, su una duplice procedura di elezione e di sorteggio. Per alcune città è stata accertata la corrispondenza tra il sistema elettorale adottato all’interno del microcosmo confraternale e quello del governo cittadino. Anche questa era una prova eloquente dell’integrazione delle confraternite nel tessuto politico urbano. In basso pagina miniata con la Dormitio Virginis, dallo Statuto della Compagnia bolognese di S. Maria del Baraccano. 1446. Il santuario fu retto da una Compagnia laicale, che lí aveva la propria sede e che, oltre a custodire la chiesa, gestiva il Conservatorio delle Zitelle.

Queste pratiche di mutuo soccorso erano finanziate con le tasse d’iscrizione dei confratelli e, soprattutto, grazie ai lasciti testamentari e ai doni elargiti a favore dell’istituzione confraternale. A partire dagli ultimi secoli del Medioevo, la solidarietà confraternale investí poi molti altri campi dell’assistenza sociale, come il conforto spirituale ai confratelli carcerati, la carità dotale per le figlie degli iscritti e gli aiuti finanziari per le vedove e gli orfani. Le confraternite fondarono talvolta enti ospedalieri che, soprattutto nei periodi di epidemia, dovevano assicurare ai fratelli malati le cure mediche che le strutture assistenziali cittadine non riuscivano a garantire. In questi casi, le confraternite funzionavano come una forma di «previdenza sociale» che gestiva una sorta di cassa malattia a carico dei loro membri. In molte regioni d’Europa nuove confraternite si specializzarono poi in iniziative assistenziali destinate a una clientela piú vasta di quella dei confratelli. Vi furo-

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le ragioni di una scelta

Pie intenzioni, ma non solo... Secondo il retore duecentesco Boncompagno da Signa, e alcuni secoli piú tardi Martin Lutero, molti fedeli si recavano al banchetto annuale, che celebrava un momento centrale della fratellanza cristiana, solo per bere e per mangiare. È evidente che non si possono ridurre le esperienze confraternali a momenti di semplice convivialità, e sottovalutare il fervore religioso che spinse molti laici a far parte di una confraternita. Ma l’iscrizione non ebbe certamente per tutti lo stesso valore. Gli impegni confraternali non erano in effetti troppo vincolanti, tanto che gli adepti potevano iscriversi simultaneamente a piú confraternite (fu questo per esempio il caso di Lorenzo de’ Medici). La maggior parte dei sodalizi richiedeva ai confratelli il pagamento periodico di modiche somme di denaro e, spesso, la partecipazione assidua alle riunioni e agli uffici religiosi costituiva un dovere solo per i responsabili del gruppo. Se per alcuni fedeli l’adesione a una confraternita fu quindi legata a esigenze spirituali, per altri rispose a un’esigenza di socializzazione, di integrazione urbana o di elevazione sociale o fu semplicemente un mezzo per assicurarsi assistenza spirituale e materiale; per alcuni membri dell’oligarchia cittadina, fu anche uno strumento di mediazione politica capace di rafforzare il consenso popolare; per altri ancora l’iscrizione a una confraternita fu un fatto di conformità, di «moda», influenzata talvolta dalle scelte di parenti e di amici. Infine, per gran parte dei laici, la scelta confraternale fu probabilmente la risultante di molti di questi fattori. Il battesimo dei neofiti alla presenza dei membri della Confraternita di San Giovanni, committente degli affreschi realizzati da Lorenzo e Jacopo Salimbeni nell’oratorio urbinate intitolato al Battista. 1416. Il ciclo è uno dei complessi pittorici piú significativi del gotico internazionale nell’Italia centrale.

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no quindi associazioni confraternali a scopi caritatevoli che gestirono ospedali e ospizi per poveri, pellegrini, malati, orfani e altre che offrirono conforto spirituale ai condannati, che sovvennero ai bisogni dei carcerati e provvidero ai «poveri vergognosi», ossia alle persone che, pur dedite a un’occupazione, erano cadute temporaneamente in miseria e quindi costrette a chiedere la carità. Nel 1434, a Ginevra, per esempio, la confraternita dell’Eucarestia ricevette, per volontà di uno dei piú ricchi cittadini, la gestione di un ospedale fondato per il soccorso dei «poveri vergognosi». Gli interventi di mutuo soccorso promossi dalle confraternite tardo-medievali risposero dunque alle principali preoccupazioni che turbavano la vita quotidiana di ampi strati della popolazione: la malattia, la morte, l’improvvisa indigenza, la prigione e, non ultima, la dote delle figlie.

Il riconoscimento ufficiale

Le confraternite furono ufficialmente riconosciute dalle autorità ecclesiastiche. Fin dal 1237 Gregorio IX sottomise ogni confraternita romana all’approvazione pontificia. Spettò in generale ai vescovi sorvegliare le iniziative confraternali e approvare gli statuti che regolavano le pratiche religiose e dettavano le norme di vita cristiana all’interno e all’esterno dei sodalizi. Lo sviluppo delle confraternite suscitò anche l’in-

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costume e società teresse delle autorità politiche, le quali percepirono rapidamente il valore civico di queste strutture, ben inserite nel tessuto urbano e spesso parte integrante dei poteri cittadini. A Bologna, per esempio, le confraternite di penitenti, insieme alle corporazioni e alle società d’armi, svolsero un ruolo importante a sostegno del Comune di Popolo che doveva garantire l’ordine pubblico contro le violenze dei magnati. In altre parti d’Europa, come in Provenza, in Linguadoca, nel Regno d’Aragona, le implicazioni civiche delle confraternite attirarono però la diffidenza delle autorità politiche e religiose. I poteri pubblici non sottovalutarono in ogni caso le finalità politiche delle associazioni devozionali e sorvegliarono da vicino il movimento confraternale, suscettibile di creare gruppi di opposizione. I Comuni e, piú tardi, i governi signorili adottarono spesso una politica altalenante nei confronti dei sodalizi che talvolta appoggiarono, talaltra ostacolarono con misure repressive fino a decretarne la soppressione.

Per la formazione dei piú giovani

Nel panorama confraternale della fine del Medioevo Firenze costituisce un caso eccezionale. Agli inizi del Quattrocento, infatti, nacquero in tutti i quartieri della città strutture specifiche per la formazione dei Progetto per lo stendardo della compagnia dei fanciulli dello Spirito Santo di Rifredi, presso Firenze, attribuito a Piero di Cosimo. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi.

fanciulli e dei giovani: le societates puerorum, adulescentium et iuvenum. Queste fasce di età, assimilate fino ad allora agli adulti nelle compagnie miste, ricevettero a Firenze un riconoscimento istituzionale in confraternite «dedicate». Nella società fiorentina la diffusione delle confraternite riservate esclusivamente ai giovani di sesso maschile fu ampia e rapida: alla fine del secolo si contavano una decina di societates. La nascita di questi sodalizi si accompagnò alla creazione di nuove confraternite di adulti, chiamate «buche». Queste compagnie di flagellanti dalla disciplina particolarmente severa, che si riunivano la sera alla vigilia delle festività, esercitarono una sorta di protezione e di controllo sulle strutture giovanili. La creazione di una rete organizzata di confraternite destinate ai fanciulli e ai giovani, in parte controllate da specifiche compagnie di adulti, costituí un movimento tipicamente fiorentino che distinse la città del giglio dagli altri centri italiani, i quali, prima dell’età tridentina, conobbero queste strutture associative solo molto raramente. Le confraternite giovanili furono fondate su iniziativa di laici, che godettero spesso dell’appoggio degli ecclesiastici. Piú in particolare, queste strutture ebbero origine nell’ambito delle buche, le quali ebbero tra i promotori personalità di rilievo della spiritualità fiorentina, come l’arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi. Anche se la natura dei rapporti delle confraternite giovanili con le buche non rimase sempre la stessa e l’autonomia dei giovani fu diversa a seconda delle compagnie, le loro relazioni furono generalmente costruite sul modello padre-figlio, dove il sodalizio di fanciulli rappresentava la nuova generazione da formare.

L’interesse della Chiesa

Le autorità religiose intuirono rapidamente le potenzialità educative delle societates e si assicurarono il controllo del loro sviluppo. Papa Eugenio IV, con l’aiuto di Antonino, rafforzò la sorveglianza sull’istituzione confraternale e sulle attività devozionali. Anche le autorità civili mostrarono interesse per le «scuole di virtú», come questi sodalizi furono talvolta definiti dai contemporanei, che indirizzavano i giovani verso le virtú cristiane, preparandoli allo stesso tempo al governo della res publica. I Medici, a partire da Cosimo il Vecchio, sostennero e promossero queste iniziative, esercitando talvolta un ruolo di patronato nei confronti dei sodalizi giovanili. Cosimo fu benefattore della compagnia della Purificazione: comprò un terreno ai frati di S. Marco e nel giardino del convento fece costruire un oratorio per i fanciulli. Egli fu cosí celebrato come il patrono del sodalizio e ai due santi medicei, Cosimo e Damiano, fu dedicata la cappella dell’oratorio. Anche il nipote di Cosimo, Lorenzo il Magnifico, esercitò un ruolo simile di patronato nei confronti di un’altra confraternita giovanile, la compamarzo

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I capitani della confraternita della Misericordia affidano alle madri i fanciulli abbandonati in un affresco staccato dalla Loggia del Bigallo, a Firenze. 1384 circa. Firenze, Museo del Bigallo.

gnia di S. Giovanni Evangelista, della quale fecero parte due suoi figli: Giovanni, futuro papa Leone X, e Giuliano, divenuto in seguito duca di Nemours. Questi rapporti con le confraternite, come i legami che i Medici intrattennero con chiese e conventi, potevano avere fini propagandistici e ampliare l’area del consenso politico di cui Cosimo e Lorenzo ebbero bisogno per governare Firenze. In questo senso le societates giovanili, ancor piú delle confraternite di adulti, fornivano numerose occasioni per instaurare o consolidare rapporti clientelari con cittadini di diverse condizioni sociali. Le confraternite giovanili non furono aggregazioni spontanee di giovani, ma, piú di altri luoghi della formazione maschile, come la scuola e la bottega, costituirono spazi di socialità controllata e codificata.

Insegnamenti e correzioni

Alla guida della confraternita si trovavano due uomini adulti con ruoli e importanza diversa: mentre a uno o piú confessori detti «correttori» era affidata la direzione religiosa del sodalizio, il guardiano (di soli-

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to un laico) era responsabile del governo del gruppo. Nell’amministrazione della confraternita egli era aiutato da consiglieri e da vari funzionari, come i «maestri dei novizi», che gestivano l’ingresso dei fanciulli nella confraternita, i «camarlinghi», impegnati a registrare le principali deliberazioni e a tenere le finanze della compagnia, e i «sagrestani», addetti alle cure del luogo. Il guardiano, massima autorità governativa del sodalizio, svolgeva nella confraternita il ruolo di padre di famiglia: era tenuto a dare il buon esempio e aveva il potere assoluto di «corregiere, riprendere e amunire e frategli et assentagli dalla squola». Tra le «correzioni» comminate ai confratelli, l’espulsione dal sodalizio costituiva la punizione piú grave. Il guardiano regolava poi l’elezione di tutti gli altri ufficiali e dirigeva l’entrata e l’uscita dei confratelli con l’autorità di accettare i fanciulli di età inferiore a quella richiesta. L’ingresso nelle societates era in effetti sottoposto a regole precise: il fanciullo, per essere ammesso tra gli accoliti, doveva superare una serie di selezioni. Innanzitutto era necessario che gli ufficiali della confraternita raccogliessero i suoi dati anagrafici, prendendo informazioni sul suo conto da trasmettere al guardiano. Una volta accertata la sua buona reputazione, il fanciullo era finalmente «messo a partito» tra i giovani della

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costume e società

A destra miniatura raffigurante ragazzi che si esercitano in duelli e giochi, dall’edizione del De Sphaera realizzata per la corte di Milano. 1470 circa. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

compagnia: se otteneva due terzi dei voti favorevoli era iscritto alla confraternita come novizio e, a quel momento, doveva pagare una tassa di entrata. Nelle societates i fanciulli trascorrevano le fasi della vita comprese tra l’inizio della puerizia e la giovinezza inoltrata. I novizi entravano nelle confraternite a partire dai sette anni, l’età della ragione che tradizionalmente sanciva l’inizio della puerizia. Il congedo dal sodalizio, che avveniva per lo piú a 25 anni, coincideva con il termine stabilito dal diritto romano e da quello canonico per il raggiungimento della legitimas aetas, che nella Repubblica fiorentina segnava la soglia minima per accedere alle cariche pubbliche. In queste strutture, che riproducevano in miniatura

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le istituzioni del governo fiorentino, i giovani potevano familiarizzare con il sistema elettorale e apprendere l’esercizio del potere politico. Gli adepti godevano infatti di una certa libertà di autogoverno, ovvero si riconosceva loro la capacità di partecipare all’elezione dei loro ufficiali, all’ammissione dei loro confratelli e all’organizzazione delle attività confraternali.

Nel segno dell’inclusione

L’età costituiva il principale elemento di coesione del gruppo, all’interno del quale lo spirito di fratellanza originava connessioni tra fanciulli, adolescenti e giovani che altrimenti sarebbero difficilmente entrati in contatto. Questi gruppi non riunivano infatti una cerchia marzo

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Nella pagina accanto, in alto La rinuncia ai beni paterni, episodio dal ciclo delle Storie di San Francesco affrescato da Benozzo Gozzoli nella chiesa di S. Francesco a Montefalco (Perugia). 1450-1452. Alla scena assistono giovani della ricca borghesia. A sinistra particolare del recto di un desco da parto (tondo dipinto) raffigurante il gioco del civettino, tempera su tavola dello Scheggia (al secolo, Giovanni di Ser Giovanni). 1450 circa. Firenze, Palazzo Davanzati Museo della Casa Fiorentina Antica.

esclusiva di fanciulli e di giovani, ma erano aperti a tutti gli strati della popolazione: i ragazzi appartenenti alle famiglie dell’élite cittadina si trovavano cosí a fianco dei rappresentanti del popolo minuto, tra i quali erano numerosi i piccoli e medi artigiani di tutti i quartieri della città. La confraternita ricostituiva una famiglia artificiale piú ampia di quella naturale, una microsocietà ideale, senza restrizioni sociali, professionali, territoriali o politiche: una fratellanza fondata sull’armonia sociale dove i fanciulli dovevano interiorizzare le virtú civili e religiose della concordia, della solidarietà e del rispetto dell’autorità e crescere in una condizione di costante purezza. I fanciulli e i giovani si riunivano nelle confraternite durante le ore pomeridiane dei giorni festivi, ossia nei

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momenti di libertà dalla scuola o dal lavoro. In queste «tornate» i confratelli pregavano, cantavano lodi, recitavano sermoni e preparavano le sacre rappresentazioni. Le riunioni confraternali occupavano una parte importante del tempo libero degli studenti, degli apprendisti e dei giovani lavoratori, che trascorrevano il resto della settimana a scuola e in bottega. All’interno delle societates, le forme devozionali, i rituali e le attività collettive non differivano da quelle praticate nelle confraternite di adulti. Quello che cambiava era, però, il significato che le esperienze confraternali assumevano nel quadro specifico delle compagnie giovanili: una vocazione essenzialmente educativa. L’attività confraternale che piú di ogni altra incarna-

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costume e società giuliano de’ medici confratello

L’orgoglio di un calderaio Nel febbraio del 1491 il figlio undicenne di Lorenzo de’ Medici fu eletto «messere», ossia responsabile della festa organizzata dalla compagnia dell’Evangelista. Secondo la nota testimonianza del calderaio Bartolomeo Masi – due figli del quale fecero parte del gruppo –, Giuliano organizzò e finanziò le celebrazioni del carnevale, offrendo ai confratelli «tre belle colizioni» con dolci e vino trebbiano, e diresse la rappresentazione di San Giovanni e San Paolo scritta per l’occasione da Lorenzo il Magnifico. Fu anche l’attore principale del dramma sacro, messo in scena nell’orto della compagnia, che coinvolse l’insieme del sodalizio. Il messaggio politico era chiaro: sulla scena Giuliano mostrava al padre e a tutti i partecipanti le sue capacità come guida del gruppo. Si può inoltre interpretare la rappresentazione, e piú in generale la presenza dei due figli di Lorenzo tra i confratelli dell’Evangelista, nell’ottica della linea politica laurenziana diretta alla costruzione di un’ampia area di consenso popolare. Quest’ipotesi trova conferma nel racconto stesso di Masi, dal quale traspare l’orgoglio del calderaio di aver preso parte con i suoi figli a questa «cosa meravigliosa». Si può immaginare che i piccoli artigiani della compagnia si sentissero onorati dalla presenza tra i confratelli dei membri del casato mediceo.

Lorenzo il Magnifico circondato dagli artisti, affresco del pittore fiorentino Ottavio Vannini. 1634-1642. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti. In basso Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, Cappella dei Magi. Particolare della Cavalcata dei Magi in cui è ritratto Giuliano de’ Medici, che porta sul suo cavallo un leopardo maculato. Il ciclo affrescato si deve a Benozzo Gozzoli, che lo eseguí nel 1459.

va i principi e i metodi dell’educazione umanistica e allo stesso tempo i valori della tradizione cristiana era la recita dei sermoni e, soprattutto, dei drammi sacri. Sulla scena teatrale il fanciullo poteva infatti essere educato nel gesto, nella parola e nel movimento imparando a controllare l’anima insieme al corpo: attraverso la mimesi della recitazione egli avrebbe dovuto identificarsi con il modello da imitare, che normalmente era tratto da narrazioni bibliche o agiografiche. Inoltre, la recita dei sermoni, come la rappresentazione dei drammi sacri, preparava i giovani all’esercizio mnemonico e alla retorica del linguaggio. In questa prospettiva l’eloquenza sacra dei sermoni può essere messa in rapporto al valore dell’orazione nella vita civile e politica quattrocentesca e, piú in generale, all’importanza della parola nella società fiorentina.

Catarsi, pentimento e purificazione

Le pratiche recitative, come i rituali di processione, non avevano solo un valore pedagogico per i loro protagonisti, ma esercitavano una funzione purificatrice anche sul pubblico. Le processioni dei pueri, come i sermoni recitati dai fanciulli e la rappresentazione dei drammi sacri, rivestivano una funzione catartica: ve-

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A CIASCUNO LA SUA CAPPA

V

este, sacco, cappa, tabarrino: con questi e altri appellativi è stato definito l’abito che per secoli ha contraddistinto i membri delle confraternite, in particolare quelle dei «Disciplinati» o «Battuti», che rappresentavano l’istituzionalizzazione del movimento che si rifaceva a sant’Antonio da Padova e poi a Ranieri Fasani e che si era diffuso in Italia soprattutto dopo la Peste Nera del 1348. Se inizialmente i partecipanti alle pratiche penitenziali erano caratterizzati dalla nudità del torso e dalla casualità dell’abbigliamento, le vesti mutarono quando nei sodalizi si venne fissando una precisa struttura istituzionale e organizzativa. Alle spontanee e non controllate forme delle prime processioni, i Disciplinati sostituirono contegni misurati e vestiario piú decoroso, e il torso nudo fu coperto da una cappa con un ampio foro sul dorso che lasciava in evidenza la parte da flagellare. Confratello di un sodalizio di disciplinati (forse della SS. Annunziata), nel dettaglio di un affresco anonimo. XV sec. Firenze, Spedale degli Innocenti. La foggia dell’abito appare consueta: la cappa è molto larga, la buffa rimane discosta dal volto e presenta una punta arrotondata e pendente.

stiti di bianco, in sembianze angeliche, i fanciulli dovevano indurre gli adulti alle lacrime e, dunque, al pentimento. Si trattava di una funzione purificatrice, che fu poi esaltata da Girolamo Savonarola. Le societates, come piú tardi la riforma savonaroliana, non riuscirono ovviamente a modificare in profondità i comportamenti giovanili: né i membri delle confraternite, né i fanciulli del Savonarola si trasformarono in angeli, e al momento della condanna del frate ferrarese furono proprio i ragazzi a lapidare il suo corpo inanimato. Anche se i precetti confraternali non furono integrati nelle pratiche comportamentali dei fanciulli, essi corrispondevano tuttavia a un nuovo progetto di società che attesta il valore accordato all’educazione nella società fiorentina del Quattrocento. Firenze svolse in effetti un ruolo fondamentale nell’elaborazione e nello sviluppo della pedagogia umanistica. L’interesse per la condizione minorile condiviso dagli umanisti, dai riformatori religiosi e dalle autorità comunali mise in evidenza i valori positivi del fanciullo e, con un netto anticipo sul resto dell’Italia, anche l’esigenza nuova di disciplinare i comportamenti giovanili. Ilaria Taddei

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costume e società A sinistra fronte dello stendardo dei Disciplinati di S. Maria Maddalena di Sansepolcro, dipinto da Spinello Aretino. 1395-1400. New York, The Metropolitan Museum of Art. Caratteristica è l’ampia veste bianca rimborsata sopra il cordone e con un’estesa lacuna sulla schiena. La buffa, la cui punta ricade dietro la testa, aderisce al volto.

Le vesti nel Medioevo non differivano molto da zona a zona: erano costituite da una tunica lunga fino ai piedi, rimborsata in vita sopra il cordone usato come cintura, con un cappuccio che – a seconda del momento liturgico – poteva pendere sulla schiena, essere rialzato sulla fronte o calato a nascondere il volto. La veste era indossata direttamente sulla pelle e il foro appare chiaramente in numerosi dipinti, insieme al sangue fatto sgorgare dalla frusta. La particolare foggia delle vesti offriva anonimato, permetteva una maggiore concentrazione nel momento devozionale e consentiva l’eguaglianza sociale. Celare l’identità concedeva di espiare i peccati senza che venisse giudicato l’impeto nel flagellarsi, calare il cappuccio serviva a creare una barriera

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alle distrazioni esterne, infine l’uniformità delle cappe offriva parità ai membri di diversa estrazione: entrando nella compagnia e spogliandosi dei propri abiti, il confratello si spogliava anche del proprio status sociale. La veste aveva un ruolo fondamentale in quattro momenti dell’attività confraternale: l’autoflagellazione, la vestizione dei novizi, le processioni e i funerali. L’atto della «disciplina» nell’oratorio veniva investito di tensione emotiva attraverso una serie di pratiche preparatorie: ad alcune preghiere seguiva una esortazione alla penitenza, quindi i membri si sedevano, il sagrestano distribuiva gli staffili e spegneva i lumi, eccezion fatta per una apposita lanterna (oscurata da una tela nera con dipinte immagini devozionali), alla cui luce fosca marzo

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avveniva la flagellazione. Il secondo momento nel quale la veste assumeva un significato particolare era l’ingresso dei novizi, e la cappa indossata per la prima volta simbolizzava – come l’abito del Battesimo – l’inizio di una nuova vita, dedicata in questo caso alla penitenza.

Regole severe

Talora i nuovi adepti pagavano una somma per ricevere dagli ufficiali la «divisa», mentre a volte erano i confratelli stessi a procurarsi le vesti: in questi casi gli statuti sottolineano che non potevano essere realizzate su misura, ma dovevano adattarsi a qualsiasi confratello, e forse per questo motivo gli abiti appaiono spesso abbondanti. Una severa regolamentazione era riservata al modo in cui le cappe venivano custodite: non era consentito portarle fuori dalla confraternita, ma, al termine delle riunioni, i fratelli, dopo essersi rivestiti, dovevano appenderle agli appositi attaccapanni o riporle con cura in appropriate cassette. In pubblico le vesti erano usate durante le processioni e i funerali dei confratelli. Il gesto rituale della flagellazione, che permetteva l’identificazione con Cristo, costituiva un momento di forte coinvolgimento emotivo, anche perché all’esterno dell’oratorio erano spesso utilizzati scudisci formati da strisce di cuoio che producevano un forte rumore, con evidente volontà di impressionare chi assisteva all’incedere del gruppo. Le fruste potevano anche essere composte da fasci di funicelle, cinghie o fili di metallo intrecciati, mentre nell’oratorio si preferivano discipline di corda «per fuggire strepito».

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In alto particolare di una predella con san Bernardino che predica ai Disciplinati. 1440 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale. Nella pagina accanto, in basso capolettera con un Disciplinato che si flagella, dal Libro dei Capitoli della confraternita di S. Niccolò del Carmine di Firenze. 1431. Firenze, Archivio di Stato. A destra confratelli inginocchiati, frammento di Madonna della Misericordia, tempera su tavola di Benozzo Gozzoli. 1460-1465 circa. Milano, collezione privata.

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I gonfaloni

Dal legno alla tela Ogni compagnia era preceduta nelle processioni da uno stendardo, detto anche – a seconda del luogo e dell’epoca – gonfalone, pennone, vessillo, drappo, segno o insegna. Le immagini rispondevano all’esigenza di manifestare l’importanza del sodalizio, in una specie di competizione socio-economica, ma dovevano anche far riconoscere immediatamente la confraternita in un’affollata processione. I gonfaloni venivano portati in testa al gruppo e raffiguravano spesso la Madonna o il santo protettore del

sodalizio, con alcuni confratelli – spesso di dimensioni minuscole – in atteggiamento di adorazione. In epoca piú antica generalmente erano dipinti sulle due facce di una tavola, o su due tavole che venivano unite per le processioni; il legno consentiva l’uso di colori brillanti e dell’oro ma, dato il peso, dal primo Cinquecento si preferí la tela, perché il tessuto consentiva dimensioni maggiori. Nelle sfilate venivano utilizzate anche grandi croci con la figura di Cristo a tutto tondo, addobbate da un parato composto da una striscia di tessuto distesa su un supporto, a formare una specie di baldacchino. In alto la processione della compagnia dei Battuti e un confratello in preghiera davanti al Cristo crocefisso (a destra), particolari del manoscritto contenente i Capitoli del sodalizio. Modena, Biblioteca Estense Universitaria. A sinistra Madonna della Misericordia, olio su tavola di Piero della Francesca. 1445-1462. Sansepolcro, Museo Civico.

Poiché i cortei manifestavano la religiosità, ma soprattutto l’importanza e il prestigio dei sodalizi, i membri dovevano essere immediatamente riconoscibili, oltre che dallo stendardo, anche dal colore dell’abito, che variava dal bianco (il piú comune) al grigio, al turchino, al nero. Sulle vesti ricorreva il simbolo del sodalizio, dipinto, ricamato o – in epoca tarda – realizzato in argento e applicato sulla spalla o appeso al collo.

Funerali decorosi

Altri momenti pubblici in cui la veste si caricava di valore distintivo erano i funerali dei confratelli. Queste cerimonie erano molto apprezzate sia dagli appartenenti alle classi elevate, perché consentivano di sfuggire alle leggi suntuarie emanate per limitare l’ostentazione nella celebrazione della morte, che dai meno abbienti marzo

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in quanto permettevano un funerale decoroso. Testimonianze documentarie e immagini mostrano come durante le esequie i confratelli, chiusi nella loro veste, si inginocchiassero intorno al defunto, sotto un grande crocifisso retto dal portacroce con le mani coperte dalle lunghe maniche dell’abito. Con il successivo affievolirsi, soprattutto nell’Italia del Centro e del Nord, dello spirito penitenziale e con la fine della pratica dell’autoflagellazione, è però venuto meno il significato stesso della foggia delle vesti, il cui modello si era sviluppato proprio per rispondere alle diverse esigenze delle confraternite di Disciplinati: si è perciò conservata una forma di cui si è perso il significato. Le sedi delle associazioni laicali dovevano rispecchiare il prestigio sociale degli iscritti, manifestato attraverso la committenza di opere d’arte, in particolare di cicli di affreschi, pale d’altare, ruoli dei confratelli defunti, cataletti funebri e stendardi processionali.

Spazi autonomi

In Toscana le sedi delle compagnie che avevano un proprio spazio autonomo – altre si riunivano presso l’altare di una chiesa – erano spesso precedute da un vestibolo, dal quale si entrava nell’oratorio, un vano rettangolare con un altare sulla parete di fondo, mentre gli altri tre lati erano circondati dagli stalli lignei. I sedili accostati alla parete d’ingresso, sopraelevati, erano riservati a chi ricopriva le cariche, mentre nei lati lunghi prendevano posto i membri comuni, secondo una struttura che permetteva un duplice orientamento dei confratelli: verso l’altare durante le celebrazioni e verso gli «ufficiali» nelle altre fasi delle adunanze, senza voltare le spalle al tabernacolo. Formelle in pietra venivano usate dai sodalizi, come da parte di altre istituzioni, per contrassegnare i propri edifici indicandone l’appartenenza. L’emblema era ripetuto sulle masserizie di proprietà delle compagnie e veniva anche dipinto sulle candele distribuite nelle festività; il simbolo, o la figura del santo titolare, compariva ancora sulle matrici utilizzate per autenticare i

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«Tavola da morti» della confraternita di Gesú Pellegrino, con, in basso, le esequie di un confratello, tempera su tavola Niccolò di Pietro Gerini. 1404-1408. Firenze, Galleria dell’Accademia.

documenti, mentre altri stampi lignei erano usati per imprimere il simbolo sui pani benedetti distribuiti in occasione di particolari solennità.

Il voto è segreto

Un nucleo di utensili adoperati nelle confraternite era costituito dai corredi destinati alla ripartizione delle cariche e alle deliberazioni. Le votazioni avvenivano con fave, ma anche ceci o palline, bianche (per esprimere parere negativo) e nere (positivo), immesse con la mano chiusa in quello che in Toscana si chiamava «bussolotto» – costituito da due semicoppe – dal quale i voti venivano versati in una bacinella per il conteggio: la forma permetteva di proteggere il segreto del voto. Nel Quattro e Cinquecento i bussolotti erano generalmente di legno (con dipinte immagini sacre), ma venivano utilizzati anche esemplari metallici. Fave, fagioli o palline per le votazioni erano conservate in due borse riunite in apposite scatole: nella compagnia di S. Niccolò di Calenzano vicino a Prato, è ancora custodito uno di questi contenitori lignei, che rappresenta uno dei pochi esemplari quattrocenteschi superstiti di quella vasta produzione di arredi confraternali testimoniati dalle fonti. Una parte delle cariche veniva invece assegnata per mezzo di sorteggi, e a questo scopo esisteva una cassetta dove si conservavano le borse (con i nomi dei fratelli che rispondevano ai requisiti per ricoprire le diverse mansioni) da cui venivano estratti a sorte i nomi degli ufficiali; al fine di evitare brogli, per l’apertura erano necessarie tre diverse chiavi, custodite da coloro che rivestivano le cariche principali, e che dovevano essere presenti contemporaneamente. In tutte le compagnie erano poi usate tabelle – spesso vere e proprie opere d’arte arricchite da importanti figurazioni – destinate a registrare i nomi dei confratelli, degli ufficiali o dei novizi, ma anche il «ruolo» dei defunti. Ludovica Sebregondi

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di Marco Bianchini e Massimo Vitti

Roma. La Torre delle Milizie, in origine compresa nel poderoso castellum Miliciae.

Un castello nel cuore di

Roma

Sulle strutture dei Mercati di Traiano, uno dei piú maestosi complessi monumentali della Roma antica, sorse, nel Medioevo, un altrettanto imponente fortilizio, il castellum Miliciae, la cui presenza è ancora oggi testimoniata dalla torre che svetta, inconfondibile, nello skyline dei Fori Imperiali


Dossier

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Roma si conservano pochi resti di edifici civili d’epoca medievale e per di piú distribuiti in modo disomogeneo nel tessuto urbano, sicché risulta difficile ricostruire in modo sufficientemente completo quale fosse l’immagine dell’Urbe nel Medioevo. Inoltre, gli studi scientifici hanno a lungo privilegiato le ricerche su altri periodi, in quanto Roma, fin dalla fondazione, conserva vestigia monumentali di grande pregio per ogni epoca. Fortunatamente, negli ultimi decenni si è registrata un’inversione di tendenza, e ora, per lo meno per alcune aree, è possibile ricostruire con precisione l’aspetto della città tra il V e il XIV secolo. Uno di questi settori riguarda i Fori Imperiali, dove dal 1998 si stanno succedendo scavi archeologici che hanno permesso di acquisire una cospicua mole di dati,

grazie ai quali possiamo ora ricostruire la vita di quest’ area urbana anche in epoca altomedievale. La piú recente di queste indagini, da poco ultimata, ha interessato il tratto settentrionale di via Alessandrina e ha rimesso in luce una stratificazione archeologica compresa tra l’età moderna e il IX secolo, consentendo di riunire l’area archeologica dei Fori Imperiali con i Mercati di Traiano. Nuovi dati sulla stratificazione urbana di questo settore della città potranno senz’altro scaturire dallo scavo del lato orientale del Foro di Cesare, che sarà eseguito in collaborazione con l’Accademia di Danimarca.

A destra il complesso dei Mercati di Traiano visto dall’Altare della Patria. Sono evidenziati in verde gli edifici di epoca medievale: 1. Torre delle Milizie; 2. mura del XIII sec. con merlature; 3. il palazzo che è oggi sede dell’Ordinariato Militare; 4. Torre del Grillo.

I secoli di un monumento

Il complesso noto con il nome di «Mercati di Traiano», ubicato sul versante occidentale del Quirinale, è uno dei monumenti di epoca ro-

A sinistra l’area dei Fori Imperiali. In verde, il tratto di via Alessandrina da poco scavato e l’area del Foro di Cesare, che verrà presto indagata.

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mana meglio conservati fra quelli che caratterizzano lo skyline di via dei Fori Imperiali. La costruzione, realizzata da Traiano in concomitanza con il Foro, inaugurato nel 113 d.C., è stata liberata da tutte le superfetazioni tra il 1926 e il 1934 nell’ambito dell’apertura di via dell’Impero voluta da Benito Mus-

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solini. Non può sfuggire, anche a un visitatore distratto, che il complesso è sovrastato da una torre imponente, a testimonianza di un’importante fase medievale che caratterizza la vita del monumento. Negli ultimi decenni i Mercati di Traiano sono stati oggetto di interventi di recupero, restauro e

musealizzazione da parte della Sovrintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale. I lavori iniziati a partire dal 1999, in occasione del Grande Giubileo, si sono conclusi nel 2016 con il restauro e il consolidamento statico della parte inferiore nota con il nome di Grande Emiciclo, mentre già dal 2007 era stato

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Foto aerea del quartiere Alessandrino (cosí chiamato perché oggetto di importanti interventi di ristrutturazione promossi, nel XVI sec., dal cardinale Michele Bonelli, nativo di Alessandria) scattata durante i lavori di demolizione condotti fra il 1926 e il 1934: rimangono solo alcuni dei palazzi dell’isolato delimitato da via Alessandrina e da via dell’Impero, tra cui la chiesa di S. Urbano.

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inaugurato, nella parte superiore, il Museo dei Fori Imperiali. Questi interventi hanno permesso di acquisire notevoli dati scientifici sull’edificio romano (pubblicati nel 2017 in una corposa monografia) e da questo studio è emerso che gli interventi del 1926-34 hanno causato la perdita di parte dei dati relativi alla vita del complesso compresa tra l’epoca tardo-antica e l’età moderna. L’interesse per la fase medievale nell’area si è concentrata da

sempre sull’edificio piú imponente e meglio conservato: la Torre delle Milizie. Uno studio sistematico delle strutture è stato avviato solo a partire dagli anni OttantaNovanta del secolo scorso, mentre indagini archeologiche ai piedi della torre sono state effettuate tra il 2005 e il 2007. Ciò ha permesso, insieme alle recenti analisi di tutte le strutture medievali presenti nell’area, di procedere a una ricostruzione piú dettagliata dell’articolazione del castello. marzo

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I MERCATI DI TRAIANO TRA L’ETÀ TARDO-ANTICA E IL XII SECOLO

I

l lasso di tempo compreso tra il cambio di destinazione d’uso dei Mercati di Traiano in epoca romana e l’operazione di incastellamento avvenuta nel corso del Duecento è attestato da pochissimi interventi edilizi, tanto da suggerire che il monumento sia rimasto fondamentalmente tale e quale a quello di epoca romana. Sono state individuate alcune circoscritte modifiche negli elevati, con sopraelevazione solo in corrispondenza del corpo di fabbrica denominato Grande Aula. Qui vennero realizzati muri che si impostano sugli estradossi delle volte di copertura di età traianea, nulla in confronto alle sopraeleva-

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zioni eseguite dopo il 1574, quando nei Mercati di Traiano si installò il convento di S. Caterina da Siena. Piú radicali furono i cambiamenti che avvennero in corrispondenza della viabilità romana, dove, sia nel tratto settentrionale della via Biberatica, in corrispondenza della Grande Aula, sia nella strada che correva sul lato a monte della Grande Aula – vale a dire nell’attuale giardino delle Milizie –, i basolati romani vennero interrati rispettivamente per 3,70 e 6 m circa. Nel caso della via Biberatica, la quota della strada rimase invariata fino al IX secolo, poi il percorso continuò a essere utilizzato a una quota superiore.

Il muro di epoca tardo-antica (in rosso nella fotografia e in grigio nella planimetria) sull’estradosso della volta romana dopo l’asportazione della copertura in tegole e coppi.

La strada che fiancheggiava invece i Mercati di Traiano sul lato orientale venne interrata già a partire dal V secolo e il suo percorso venne definitivamente obliterato dalla costruzione di un edificio quadrangolare di 14,5 x 15,6 m. Questa struttura presenta all’interno un paramento con alternanza irregolare di blocchetti di tufo e filari di mattoni, mentre all’esterno la muratura è realizzata prevalente-

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via Quattro Novembre

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tica

via Bibera

mente in opera laterizia, con blocchetti di tufo solo in corrispondenza dello spiccato e sporadicamente nella parte alta dell’alzato. L’edificio è stato analizzato in numerosi studi inerenti le fasi medievali dei Mercati di Traiano, ma mai in maniera analitica. Una serie di importanti dati è scaturita in occasione dei lavori di recupero di questo settore nel 2002, che hanno consentito di ricostruire la cronologia delle strutture. In seguito, tra il 2014 e il 2015, nell’ambito dei lavori di restauro per il recupero degli ambienti desti-

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nati all’allestimento museale delle anfore della collezione Dressel, si è avuta l’opportunità di riesaminare il manufatto, e di ispezionare alcuni condotti per l’acqua e di effettuare un saggio di scavo sul lato meridionale davanti al portale d’ingresso alla Grande Aula. Il paramento murario interno è visibile solo parzialmente, perché è stato in gran parte ricoperto dal rivestimento idraulico della cisterna seicentesca (ambiente 3.13); solo il canale per la raccolta delle acque, alla sommità, conserva sui lati nord, est e sud

Lo scavo del tratto della via Biberatica prossimo a via Quattro Novembre. 1929. L’intervento portò al rinvenimento di varie strutture medievali, che vennero demolite. La lettera A indica lo spessore dell’interro che obliterava il percorso medievale della Silicata degli Arcioni; mentre B l’interro che ricopriva il selciato romano su cui correva la strada di X sec.

tratti del paramento in blocchetti di tufo. Nell’ambiente 3.12, dove sono visibili le murature originarie, si può constatare come l’attuale piano di calpestio non corrisponda allo marzo

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In alto la cisterna seicentesca, che, dopo il restauro, ha accolto una parte delle anfore della collezione Dressel inserita nel percorso espositivo del Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano.

spiccato del muro, poiché si trova a -1,35 m dal piede della sua fondazione, la cui quota corrisponde a quella della strada romana. I dati restituiti dal saggio di scavo, dai carotaggi e dall’analisi delle murature eseguiti nel 2015 provano che il vano non era costituito da due muri affiancati, ma da uno soltanto, il cui paramento impiega tecniche costruttive differenti. Si tratta, quindi, di un grande vano quadrangolare costituito da uno spesso muro, del quale non è possibile fissare la datazione sulla base della sola

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tecnica costruttiva. Lo scavo eseguito nel Giardino delle Milizie nel 2005-2006 fornisce elementi affidabili per collocare la sua costruzione non oltre il V secolo d.C., escludendo pertanto la datazione al XII secolo, proposta in passato.

Riserve d’acqua

Sulla base della dimensione del muro (1,80 m) e della constatazione che anche gli angoli nord-ovest e sud-ovest dell’ambiente 3.12 presentano lo spigolo arrotondato come quelli conservati nell’ambiente 3.13 (cisterna), tipici delle cisterne, si identifica l’ambiente con una grande riserva d’acqua, modificata nel Seicento in occasione della realizzazione del convento di S. Caterina da Siena. Infatti quest’area, per la sua collocazione altimetrica e il passaggio nelle vicinanze di un ramo dell’Aqua Tepula-Marcia diretto verso il Campidoglio, ospitava manufatti del genere forse già dall’epoca romana. Probabilmente, la prima cisterna si ottenne trasformando un ambiente rettangolare al piano terra di un’insula, mentre sulla via basolata che fiancheggiava la Grande Aula venne realizzata ex novo una grande cisterna, aven-

te una capienza iniziale di 700 mc. L’utilizzo di questa cisterna durò ininterrottamente fino al 1870, costituendo un elemento vitale prima per il funzionamento della fortezza e poi del convento delle Clarisse. La grande riserva tardo-antica fu tagliata nel IX-X secolo dall’apertura di una breccia sul lato settentrionale (larga 1, 45 m e alta 3,70 m), che comunica con un corridoio ipogeo in opera cementizia, voltato a botte, che fu interamente edificato in trincea nel riempimento postantico che aveva coperto il braccio settentrionale della strada romana. In tale occasione la cisterna tardoantica, o per lo meno il suo settore occidentale, venne defunzionalizzata, tramutandosi in un ambiente di passaggio; il pavimento interno venne abbassato di oltre 1,30 m, portandolo a livello degli ambienti 3.11 e 3.14 della Grande Aula, ai quali si accedeva mediante due brecce aperte nel muro perimetrale. Importanti interventi di trasformazione in epoca tardo-antica e medievale sono attestati anche in un caseggiato della parte superiore dei Mercati di Traiano (la cosiddetta insula a Cisterne), situata a monte della riserva d’acqua tardo-antica.

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Dossier salita de

l Grillo

opera a blocchetti e opera laterizia (post v secolo)

Chiesa di S. Caterina

opera listata e opera laterizia (xi-xii secolo)

Ordinariato Militare

opera a sacco (ix-x secolo)

Torre delle Milizie

opera a blocchetti (xiii secolo)

via de

lla Tor

opera laterizia (xiii secolo) bozze irregolari (xiv-xv secolo)

Giardino delle Milizie

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centr

strade medievali

Pianta della parte superiore dei Mercati di Traiano con indicate le strutture di epoca tardo-antica e medievale.

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Grande

Di questo si sono conservati alcuni ambienti del livello inferiore, che occupava il punto piú elevato dell’area (Collis Latiaris), nel luogo su cui sorse poi la Torre delle Milizie. Tra la fine dell’età antica e l’Alto Medioevo, la strada di età traianea che univa il settore superiore dei Mercati all’area della porta Sanqualis (attuale largo Magnanapoli) fu ripavimentata a una quota piú alta; in tale occasione vennero ristrutturate le tabernae al piano terreno del suddetto edificio, che si allineavano lungo il lato orientale del percorso viario, adeguando il livello dei pavimenti interni a quello del nuovo lastricato stradale e ricostruendo in opera laterizia di reimpiego l’intero fronte esterno. In epoca successiva altri interventi di ristrutturazione

a

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Aula

dovettero interessare anche i livelli superiori del fabbricato.

Alla base della Torre

La struttura muraria alla base della camera interna della Torre delle Milizie ha incorporato i muri perimetrali in opera laterizia di reimpiego di due pareti, di datazione incerta, in ciascuna delle quali si leggono le tracce di una grande trifora a colonne con capitelli di spoglio e pulvini. Un’altra parete dello stesso ambiente, con paramento in opera listata e realizzata in una fase successiva, comprende invece due grandi archi laterizi impostati su una colonna, pertinenti, molto probabilmente, a un loggiato, databile alla seconda metà del XII secolo. Gli elementi architettonici

delle trifore e del loggiato sono stati completamente inglobati all’interno della cortina in blocchetti di tufo della torre, ma alcuni di essi sono parzialmente visibili attraverso i fori praticati nella muratura. Considerando il dislivello rispetto al lastricato di epoca imperiale della strada esterna – 14,50 m circa –, le strutture suddette dovevano collocarsi piú probabilmente al terzo livello dell’insula traianea, in seguito quasi completamente demolita, testimoniando una vitalità dell’edificio antico che si è protratta fino al Basso Medioevo, con inevitabili interventi di riadattamento e parziale ricostruzione, come è attestato in altri edifici della parte superiore dei Mercati che si sono meglio conservati. marzo

MEDIOEVO


In alto resti del fronte nord-occidentale dell’insula a Cisterne. La freccia rossa indica lo spiccato del muro in opera laterizia ricostruito fra l’età tardo-antica e l’Alto Medioevo a una quota piú alta rispetto a quella originaria per adeguare gli accessi delle tabernae al livello del nuovo lastricato stradale. A destra pianta dell’edificio quadrangolare, con indicazione degli interventi successivi che portarono al ridimensionamento della cisterna (ambiente 3.13) e alla creazione di un corridoio di servizio (ambiente 3.12). Nella sezione, la cisterna (A) e l’ambiente contiguo (B), con evidenziate le quote della Grande Aula e lo spiccato dell’edificio tardo-antico. età traianea

spiccato del muro in opera listata

sezione a-a

livello della grande aula

In basso pianta con l’indicazione delle fasi delle strutture conservate nel Giardino delle Milizie.

età post traianea

età severiana

cisterna v secolo

ix-x secolo

xvi secolo

MEDIOEVO

marzo

strada

GRANDE AULA

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Dossier LA FORTIFICAZIONE DELLE «MILICIAE»

strutture preesistenti fase i torre in tufelli e laterizi fase ii fasciatura in laterizio

fasi della torre delle milizie

strutture preesistenti

fase i torre in tufelli e laterizi fase ii fasciatura in laterizio

fase i basamento in calcestruzzo

Insula a Cisterne

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T

ra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, gli edifici della parte superiore dei Mercati di Traiano, situati a monte della via Biberatica, ancora in gran parte integri, vennero trasformati in un potente complesso fortificato, che prese il nome di Castellum Miliciae. Questo importante intervento di riconversione è testimoniato da numerosi resti murari conservati nell’area, prevalentemente in opera a blocchetti e in opera laterizia di reimpiego. Essi furono fortunatamente in parte risparmiati dai grandi lavori di demolizione intrapresi dal Governatorato di Roma nel 1926-34, che isolarono le murature antiche e medievali dei Mercati dalle superfetazioni di età moderna, pertinenti il convento di S. Caterina, che – come già ricordato – si era insediato nell’area nel XVI secolo.

Sezione di fase della Torre delle Milizie e dell’insula a Cisterne.


Una parte delle strutture medievali si è conservata ai piani superiori di alcuni edifici di epoca traianea, sostituendosi alle murature originali che forse erano già crollate oppure furono demolite per l’occasione. Altre invece furono edificate interamente ex novo lungo i margini del complesso edilizio antico. Il monumento piú notevole è la Torre delle Milizie, che costituiva il mastio del castello, posto al suo vertice nord-orientale, alta attualmente 42,50 m (ma originariamente almeno 50); essa conserva due corpi parallelepipedi sovrapposti, quello superiore di larghezza minore e dotato di tre contrafforti esterni per ogni lato, separati da un camminamento di ronda merlato. La torre era in origine sormontata da un terzo corpo, piú stretto degli altri, che andò distrutto prima della metà del XV secolo, forse durante il terremoto del 1348; in tutte le raffigurazioni rinascimentali esso appare infatti già diruto. Se ne conservava un moncone alto pochi metri sul lato nord-occidentale, che venne spianato nel corso del XVII secolo dalle suore di S. Caterina, e poi riedificato nel 1932.

La Torre delle Milizie vista dal giardino.

Alta e slanciata

La Torre delle Milizie fu costruita in due fasi. Agli inizi venne realizzata una torre alta e slanciata, interamente in blocchetti di tufo, con pareti relativamente sottili (60-90 cm) e contrafforti angolari interni; i muri perimetrali erano perforati da feritoie e da finestre piú ampie, probabili postazioni per macchine da getto. Essa si innestava sulle murature del piano superiore dell’edificio preesistente, di cui si è già parlato. Gli ambienti ai livelli sottostanti vennero colmati da un possente dado in calcestruzzo con funzione di basamento, alto almeno 11 m. Attualmente resta visibile la camera interna della torre, di 6,15 x 5,50 m, alta 31 m circa, il cui pavimento si trova 14,50 m sopra il livello stra-

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marzo

dale traianeo; ai muri perimetrali si appoggia una scala lignea moderna che consente di accedere all’attuale terrazza sommitale. In una fase successiva, la struttura a blocchetti venne fasciata da una muratura cementizia di grande spessore, rivestita esternamente con opera laterizia di reimpiego, che diede forma ai due corpi sovrapposti oggi visibili. La maggior parte delle aperture della fase precedente furono tamponate; mentre furono tagliati nella muratura a tufelli nuovi varchi, tra cui i due portali di accesso, situati a un’altezza rispettivamente di 15,50 e 20 m dal suolo; questi erano raggiungibili tramite scale e ballatoi lignei esterni, total-

mente in aggetto, di cui restano in facciata due mensoloni marmorei di sostegno e gli incassi di alcune travi. Furono aperte inoltre varie feritoie tutte provviste di cornice marmorea. La costruzione di questa possente fasciatura in laterizi, che spicca sul terreno circostante a una quota notevolmente inferiore rispetto alla base della originaria torre a tufelli, comportò la quasi totale distruzione dell’insula antica. La sistemazione definitiva della torre è sicuramente anteriore al 1280-90, poiché essa è rappresentata con molta fedeltà di particolari nell’Ytalia di Cimabue ad Assisi, affresco risalente a quest’epoca; vi si vede anche il dado superiore, anco-

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Dossier La Torre delle Milizie in una veduta di Willelm van Nieulandt, anteriore al 1585, ripresa dall’imbocco di via Panisperna. Sulla destra, in secondo piano, è rappresentata la Torre dei Colonnesi.

ra integro, dotato su ogni lato di tre finestre rettangolari sovrapposte, di altezza appena inferiore al corpo intermedio. È molto probabile, in base alla conformazione visibile nel dipinto, che il corpo superiore corrispondesse alla parte sommitale della torre originaria in tufelli, risparmiata dalla fasciatura in opera laterizia di epoca successiva che aveva dato forma ai due corpi sottostanti.

Continuità di vita

Del Castellum Miliciae doveva sicuramente far parte anche la Torre del Grillo, che venne impostata sullo spigolo sud-orientale dei Mercati di Traiano, in corrispondenza del punto di innesto di due percorsi stradali che delimitavano il complesso edilizio traianeo, rispettivamente sul lato orientale (l’attuale salita del Grillo) e su quello meridionale (via di Campo Carleo), e che hanno avuto una continuità di vita dall’antichità ai giorni nostri. Nel XVII secolo la torre venne parzialmente inglobata nel Palazzo del Grillo. Attualmente soltanto la facciata settentrionale si presenta completamente libera; delle altre, è rimasta visibile la

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parte superiore, che svetta sopra i corpi di fabbrica adiacenti. Alcune delle attuali feritoie, provviste di cornice marmorea e simili a quelle della Torre delle Milizie, sono state identificate con quelle originali. La balaustra barocca del colmo ha sostituito la merlatura duecentesca. La conformazione originaria dell’edificio può cogliersi in un disegno dell’inizio del Seicento di Aloisio Giovannoli, che ne rappresenta il prospetto meridionale, ancora libero, con quattro finestre di uguali dimensioni, dotate di cornice lapidea e poste sulla stessa verticale, coronato da uno sporto merlato sostenuto da mensole. La muratura esterna della Torre del Grillo è in cortina laterizia di reimpiego, quella interna in blocchetti di tufo. In questo caso entrambe le tecniche sono riferibili alla medesima fase edilizia. Come attestato in numerose altre torri coeve, era comune utilizzare materiali diversi nelle due facce del muro perimetrale. I mattoni, materiale piú costoso e meno disponibile dei blocchetti di tufo – quantunque provenienti in larga parte dalla

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La rappresentazione della Torre delle Milizie nell’Ytalia affrescata da Cimabue nella Volta dei Quattro Evangelisti della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1288-1290.

spoliazione di edifici antichi – erano destinati preferibilmente alle cortine esterne per via delle migliori qualità meccaniche riconosciute ai laterizi, come la resistenza all’usura, alle intemperie, alle sollecitazioni dei carichi gravanti. Lungo il perimetro dei Mercati di Traiano, si trovano alcune im-

ponenti strutture interamente in opera a blocchetti, anche queste riferibili alla fortezza del XIII secolo e largamente restaurate intorno al 1930. Sul lato settentrionale dell’area, verso via Quattro Novembre, si conserva un tratto delle mura del castello, costituito da una sorta di bastione a pianta triangolare, con pronunciato profilo a scarpa, che si ergeva per un altezza di 6 m circa rispetto all’area esterna e aveva funzione di contenimento del terrapieno retrostante. Al di sopra si sviluppava la parte superiore del muro difensivo, ad andamento rettilineo, con paramento su entrambi i lati.

Un edificio grandioso

Lungo il percorso della salita del Grillo, a metà strada tra la Torre delle Milizie e quella del Grillo, si trova poi un grandioso edificio a pianta quadrangolare, di 17,50 x 17 m circa, con vari piani di finestre ad arco. L’interno, già radicalmente modificato nel XVI-XVII secolo in seguito all’insediamento del convento di S. Caterina, è oggi occupato dagli uffici dell’Ordinariato Militare. All’esterno si osservano due alte facciate a tre ordini (quella a ovest e quella a sud) quasi interamente rivestite da blocchetti di tufo. Il prospetto orientale, lungo la salita del Grillo, realizzato con la stessa tecnica, è stato intonacato in tempi recenti. Il lato settentrionale è coperto da un fabbricato di epoca successiva che gli si appoggia. L’edificio si è impostato sulle rovine del settore settentrionale di un’insula di epoca imperiale, occupando l’area in forte pendenza, già sistemata a gradoni, posta tra la salita del Grillo e il percorso viario piú alto dei Mercati di Traiano, oggi denominato via della Torre. Lo spiccato della facciata orientale, che è impostata direttamente sul marciapiede della strada antica il cui tracciato è ricalcato poco piú in alto dalla odierna salita del Grillo, si trova pertanto 10 m circa piú in basso

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Dossier

In alto la Torre del Grillo in una veduta di Aloisio Giovannoli in cui risulta ancora libero il lato meridionale. 1615 circa. A destra veduta di un tratto della cortina settentrionale del castello, in opera a blocchetti, lungo via Quattro Novembre. Sulla sostruzione a pianta triangolare si imposta il muro rettilineo in elevato.

rispetto a quello della facciata occidentale rivolta verso via della Torre e i Mercati di Traiano. Su quest’ultima, a 4,60 m di altezza, si è ben conservato il portale di accesso originario dell’edificio, attualmente tamponato, in forma di ampia apertura rettangolare sormontata da un arco ribassato in blocchetti di tufo, collegato direttamente con il piano nobile, che doveva affacciare su un ballatoio ligneo raggiungibile per mezzo di una scala. Sulla facciata meridionale sono sopravvissute almeno cinque finestre della stessa fase, con spalle e arco a tutto sesto in conci lapidei. Altre finestre analoghe delle due facciate appaiono totalmente di restauro, ma sono state probabilmente ripristinate sulla base di alcune tracce visibili. La parte superiore dell’edificio venne ristrutturata in epoca successiva, con una muratura in opera irregolare nella quale furono ricavate finestre ad arco analoghe a quelle degli ordini inferiori. In tale occasione vennero ricavati due nuovi portali di accesso arcuati, in quota con quello originario e sicuramente

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anche questi accessibili per mezzo di scale e ballatoi lignei esterni. In questa fase il fabbricato venne coperto con un tetto a due grandi falde spioventi, rappresentato in un affresco della seconda metà del XV secolo al Palazzo dei Conservatori (vedi box alle pp. 100-101), che costituisce pertanto un termine di datazione ante quem, e ripristinato nella stessa forma con i restauri del 1931. Per le sue dimensioni e per i vari ordini regolari di finestre ad arco, l’edificio rappresenta un vero e proprio unicum nel panorama dell’ar-

chitettura romana del XIII secolo, trovando confronti solo con i grandi palazzi civili delle città comunali dell’Italia centro-settentrionale.

Il palazzo padronale

Il lungo blocco di edifici della parte superiore dei Mercati di Traiano, sul lato a monte della via Biberatica, comprendente la Grande Aula e il Corpo Centrale, si conservò pressoché integro fino agli ultimi secoli del Medioevo e fu pertanto destinato a diventare il nucleo centrale del castello, ospitandone diverse marzo

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Il lato settentrionale della Torre del Grillo visto dai Mercati di Traiano.

lare, analoga a quella del piano superiore dell’edificio dell’Ordinariato Militare. Varie finestre rettangolari o ad arco illuminavano gli ambienti dove si erano in gran parte conservati gli originari muri divisori di epoca traianea. Due colonne di spoglio furono incastonate agli angoli dell’estremo corpo meridionale. I restauri del 1930 ripristinarono la facciata medievale liberandola dalle sopraelevazioni e dagli intonaci di epoca moderna, restituendone l’originario profilo ad altezze decrescenti verso sud, e ricostruendo due bifore ogivali al piano superiore, di cui si erano ritrovati alcuni resti marmorei, rappresentate anch’esse nell’affresco quattrocentesco al Palazzo dei Conservatori.

Una posizione strategica

funzioni. Solamente l’estremo settore meridionale del Corpo Centrale fu oggetto per l’occasione di una consistente ristrutturazione dovuta al collasso della struttura romana. Sopra una delle tabernae del piano terreno, che si apre lungo la via Biberatica, in sostituzione della facciata del primo piano di epoca traianea venne realizzata una parete in opera a blocchetti perforata da una fila di feritoie e con coronamento a merli; una fila di fori a sezione quadrata che corrono 1 m circa al di sotto della merlatura

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potrebbe riferirsi agli incassi delle travi di un ballatoio con funzione di camminamento di ronda. Un muro di cinta trasversale realizzato nella stessa tecnica, poi demolito intorno al 1930 per ripristinare il tracciato dell’antica via della Torre, lo collegava all’edificio che è oggi sede dell’Ordinariato Militare. Tra il XIV e il XV secolo, a fianco e al di sopra della struttura merlata a tufelli, l’intera facciata verso la via Biberatica del settore meridionale del Corpo Centrale venne ricostruita con una muratura in opera irrego-

La realizzazione di un importante complesso fortificato nel corso del XIII secolo nell’area dei Mercati Traianei è dovuta essenzialmente a due motivi: l’ottimo stato di conservazione in cui erano pervenuti fino a quell’epoca gli edifici antichi che si prestavano a essere interamente riutilizzati con pochi riadattamenti; la sua particolare collocazione strategica essendo situato sul fianco occidentale della collina del Quirinale in una posizione elevata che consentiva il pieno controllo del Campidoglio e della valle dei Fori situata tra le due colline. Il nucleo centrale del castello comprendeva il blocco edilizio di epoca traianea sul lato a monte della via Biberatica, situato in posizione elevata e panoramica. Forse proprio allo scopo di garantire alle finestre di questi edifici una piú ampia visuale verso la valle sottostante si provvide in quest’epoca a demolire il corpo del piano superiore del Grande Emiciclo, che appare già diruto in tutte le rappresentazioni rinascimentali dell’area.

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Dossier Qui sotto il fronte occidentale del settore sud del Corpo Centrale, lungo la via Biberatica. La parte superiore della facciata è stata ricostruita nel Medioevo. A. opera a blocchetti del XIII sec., con feritoie, fori per un camminamento di ronda ligneo e coronamento a merli; B. struttura in opera irregolare di XIV-XV sec.; C. colonne di spoglio inserite agli angoli del fronte meridionale del fabbricato tardo-medievale; D. bifore ricostruite nel 1930.

A sinistra i lati ovest e sud dell’edificio dell’Ordinariato Militare. Sono evidenziati il portale originario del XIII sec. (A) e quelli ricavati nel XIV-XV sec. (B, C) quando la parte superiore del fabbricato fu ristrutturata in opera irregolare.

Verosimilmente il complesso fortificato doveva occupare tutta l’area dell’antico complesso dei Mercati di Traiano, che aveva il suo limite meridionale nel percorso stradale (attuale via di Campo Carleo) che lo separava dal Foro di Augusto, mentre verso nord si estendeva ben oltre il limite odierno dell’area archeologica – segnato dalla salita Magnanapoli e dal braccio superiore di via Quattro Novembre – por-

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A sinistra muri in opera a blocchetti nel settore sud del Corpo Centrale in una foto del 1930. A sinistra un tratto della facciata medievale lungo la via Biberatica, a destra un setto trasversale che è stato demolito per ripristinare il tracciato di via della Torre.

tandosi grosso modo fino al tracciato dell’attuale via delle Tre Cannelle. Se la Torre del Grillo corrispondeva al suo spigolo sud-orientale, la Torre dei Colonnesi, di analoghe dimensioni e caratteristiche architettoniche, sopravvissuta fra i palazzi umbertini all’angolo tra via delle Tre Cannelle e via Quattro Novembre, doveva anch’essa far parte del Castellum Miliciae e coincidere con il suo spigolo nord-orientale. I limiti di questo grande isolato urbano, rimasti pressoché immutati dall’età traianea fino all’epoca moderna, sono infatti ancora ben evidenti nelle piante e nelle rappresentazioni di Roma del XVI secolo, segnati dai percorsi di via delle Tre

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Cannelle, salita del Grillo, via di Campo Carleo e a valle dal profilo del Grande Emiciclo e dal percorso viario che sarà in seguito rettificato dalla via Alessandrina.

Passaggi di proprietà

Sebbene nel XVI secolo quest’area avesse perduto la sua funzione di complesso fortificato, l’impostazione planimetrica del castello medievale, segnato dalla presenza della Torre dei Colonnesi, della Torre delle Milizie e della Torre del Grillo ai suoi tre vertici è ben evidente nella cartografia rinascimentale, in particolare nella pianta del Bufalini del 1551 e nella rappresentazione di Roma del Du Perac del 1577. La

In alto l’anastilosi di una delle due bifore medievali presso l’edificio che ospita la Casa dei Cavalieri di Rodi.

scritta «FAMILIA COMITURI» riportata nella pianta del Bufalini esattamente al centro dell’isolato ci fa comprendere come nel XVI secolo tutta quest’area fosse ancora nelle mani di un unico proprietario. Solamente il taglio della nuova Strada di Monte Magnanapoli, intrapreso da Sisto V, novità riportata nella rappresentazione di Tempesta del 1593, segnò il definitivo distacco della porzione piú settentrionale dell’isolato, comprendente la Torre dei Colonnesi, dal resto dei Mercati. La parte inferiore del complesso

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Dossier Affresco nella Sala delle Oche del Palazzo dei Conservatori, a Roma, con scena di duello tra Orazi e Curiazi, sullo sfondo dei Mercati di Traiano. Dopo il 1470. Nel tondo a sinistra: particolare del colmo dell’edificio dell’Ordinariato Militare alle spalle del caseggiato tardomedievale del Corpo Centrale. Nel tondo a destra: particolare della Torre del Grillo e della Loggia dei Cavalieri di Rodi; in primo piano sono rappresentati i ruderi di una delle tabernae lungo l’estremità meridionale della via Biberatica.

edilizio, comprendente il Grande Emiciclo e le esedre minori situate ai due lati, doveva essere parte integrante del castello medievale costituendone la cinta difensiva sul lato a valle. Nonostante l’interramento della piana del Foro di Traiano, che doveva allora avere raggiunto un’altezza di almeno 5 m rispetto al livello di epoca imperiale, la parte superiore delle facciate del Grande Emiciclo e delle due aule adiacenti emergeva dal terreno per altri 9 m, andando a formare una formidabile barriera difensiva a cui non era necessario aggiungere ulteriori strutture fortificate. In seguito alla demolizione del corpo superiore del Grande Emiciclo, l’ambulacro scoperto che correva sul colmo della facciata curvilinea poteva fungere da camminamento di ronda, direttamente controllato dalle finestre degli edifici situati sul lato a monte della via Biberatica. Gli ambienti interni del Grande Emiciclo dovevano invece essere abbandonati, destinati alla bisogna a ospitare guarnigioni di difensori. Per impedire l’invasione degli assalitori dal lato a valle era sufficiente chiudere le due strette scale laterali che salivano alla via Biberatica. La maggior parte delle strutture difensive medievali sono state realizzate lungo il limite a monte dell’area perché questo era il settore piú vulnerabile. La Torre delle Milizie si impostava a 40 m slm sulla sommità dell’altura, anticamente

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L’affresco in Campidoglio

La prima «fotografia»

La piú antica rappresentazione dei Mercati di Traiano, comprensiva delle superfetazioni medievali, compare in un affresco situato nella Sala delle Oche del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, dove il complesso architettonico antico, ripreso proprio dal colle capitolino, fa da sfondo a una scena di duello tra Orazi e Curiazi che si svolge ai piedi del Grande Emiciclo. Il dipinto, di gusto quattrocentesco, è posteriore al 1470, perché nella parte sinistra vi è rappresentata la Loggia dei Cavalieri di Rodi. L’insieme monumentale, qui inquadrato nella sua interezza anche se con molte approssimazioni, appare grosso modo nello stesso stato di conservazione in cui è raffigurato nelle vedute del secolo successivo. Il livello inferiore del Grande Emiciclo risulta quasi completamente interrato ed è già avvenuta la distruzione dell’ultimo piano dello stesso edificio, a eccezione dei due denominata Collis Latiaris, che era una sorta di anticima del Quirinale. Da questa parte il dislivello rispetto all’area esterna, corrispondente all’avvallamento dell’attuale largo

Magnanapoli, era relativamente modesto (5 m circa). Verso nord-est la pendice del colle continuava a salire, fino a raggiungere i 47 m slm della dorsale marzo

MEDIOEVO


In basso i Mercati di Traiano visti dall’Altare della Patria, prima delle demolizioni del 1926-34. Gli edifici traianei e medievali sono stati radicalmente trasformati a seguito dell’insediamento del convento di S. Caterina avvenuto nel XVI sec.

corpi laterali. La via Biberatica, trasformata nel Medioevo in una strada privata, interna al complesso edilizio, è affollata di personaggi che assistono al combattimento. Sull’altro lato della strada i caseggiati traianei della Grande Aula e del Corpo Centrale hanno già perduto la loro connotazione di complesso medievale fortificato, trasformati in una fila di palazzi signorili dotati di ampie e luminose finestre, molte delle quali aggiornate nello stile architettonico; ai piani superiori si aprono bifore o finestre crociate di gusto rinascimentale. È da notare il particolare risalto dell’edificio al centro dotato di due bifore, che corrisponde al settore meridionale del Corpo Centrale, con la facciata ricostruita in opera irregolare verso la fine del XIV secolo o al piú tardi nel successivo; esso è rappresentato esageratamente piú grande e piú elevato degli edifici sulla percorsa dall’Alta Semita (attuale via del Quirinale). L’impianto triangolare della parte superiore del Castellum Miliciae, con il mastio situato sul vertice centrale piú elevato e le due

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sinistra, allo scopo di comunicare la sua preminenza gerarchica. Ancora in quell’epoca era molto probabilmente la dimora del proprietario dell’intero complesso edilizio. Alle spalle, sulla destra, è rappresentato un tetto a due falde spioventi con una finestra sotto al colmo in cui si riconosce la parte superiore dell’edificio dell’Ordinariato Militare nella sua sistemazione definitiva, conseguente alla ristrutturazione tardomedievale in opera irregolare. Verso sinistra, dietro il caseggiato della Grande Aula, svetta la Torre delle Milizie, della quale è andato già distrutto il corpo superiore. La Torre del Grillo è rappresentata sulla destra, a fianco della Loggia dei Cavalieri di Rodi al di là di un braccio trasversale della via Biberatica, che è traslato rispetto al percorso della strada romana e costituiva in quest’epoca l’accesso principale all’area dalla parte della salita del Grillo.

torri minori poste in corrispondenza dei due opposti spigoli laterali, rimanda, in definitiva, a quella di numerosi altri castelli medievali, che sono impostati non sulla cima,

ma su un versante della montagna e sono quindi piú facilmente attaccabili dall’alto. Una cinta piú interna, di cui sono testimonianza il muro merlato

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Dossier

In alto la facciata del Grande Emiciclo dei Mercati di Traiano in un disegno di Giovanni Antonio Dosio. Seconda metà del XVI sec. La facciata è interrata fin quasi all’altezza delle chiavi d’arco del primo ordine. Il corpo delle tabernae al terzo livello è andato distrutto, a eccezione dei due settori laterali comprendenti le scale che scendevano verso il Foro di Traiano. Sulle due pagine panorama dall’attuale terrazza della Torre delle Milizie, che corrisponde al secondo camminamento di ronda. Al centro, lo scavo di via Alessandrina.

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sul filo della facciata occidentale del Corpo Centrale e il muro trasversale che lo raccordava all’edificio dell’Ordinariato Militare, serviva a proteggere il cuore del castello, caratterizzato da un ampio cortile con le riserve d’acqua, denominato platea delle Militie in un documento del Quattrocento, e delimitato, su un lato, dalla Torre delle Milizie, dall’edificio dell’Ordinariato Militare e da tratti intermedi di cortina, e, sul lato opposto, dal blocco edilizio traianeo della Grande Aula e del Corpo Centrale.

Non ci sono elementi che consentano di stabilire con certezza la destinazione d’uso dei vari corpi di fabbrica. Piú probabilmente gli appartamenti abitati dal signore dovevano situarsi nell’edificio del Corpo Centrale, considerata la posizione piú difesa, al centro della fortificazione, e con ampia visuale verso la valle sottostante, mentre l’edificio dell’Ordinariato Militare, per le sue caratteristiche architettoniche e il rapporto diretto con il tessuto viario esterno appare piú idoneo a ospitare funzioni amministrative. È stato inoltre ipotizzato che la Grande Aula potesse accogliere in quest’epoca delle guarnigioni militari, funzione che sembra particolarmente adatta per l’articolazione dello spazio interno, con file di camere su due livelli incentrate su un’ampia corte coperta; non a caso, proprio alla fine dell’Ottocento, dopo l’esproprio del convento di S. Caterina esso fu destinato a ospitare le camerate della caserma Goffredo Mameli. Per quanto riguarda la cronologia del castello, le cortine in bloc-

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chetti di tufo delle varie strutture medievali presentano caratteristiche abbastanza omogenee fra loro, che rimandano genericamente al XIII secolo, forse preferibilmente ai suoi primi decenni, se consideriamo il taglio ancora piuttosto irregolare dei blocchetti. Le fonti storiche, quasi tutte di epoca successiva, ci informano sui numerosi passaggi di proprietà che interessarono l’area.

Una base strategica

burgo, che fece della fortezza una base strategica contro il Campidoglio. Il declino avviene già a partire dal 1332, quando la proprietà fu smembrata fra Conti e Orsini e poi definitivamente con i gravi danni inferti dal terremoto del 1349, che comportò anche la distruzione del corpo superiore della torre. Appare in ogni caso evidente come la maggior parte delle opere medievali attualmente conservate compongano

un complesso fortificato con aspetti coerenti e pienamente efficiente sul piano difensivo, che appare riconducibile a un unico organico disegno progettuale. Nella sua prima fase in blocchetti di tufo, che si imposta sul terzo piano di un edificio preesistente, la Torre delle Milizie si configura ancora come un intervento di modesta portata sul piano difensivo, assimilandosi alle tante torri

I primi apprestamenti difensivi realizzati agli inizi del Duecento sono attribuiti a Pandolfo della Suburra, poi alle famiglie D’Alessio e Carboni, alle quali si deve la costruzione di alcune torri. La proprietà passa poi agli Annibaldi e ai Caetani. A questi ultimi vengono attribuiti da alcune fonti gli interventi edilizi piú consistenti. Nel 1312 vi soggiornò l’imperatore Enrico VII di LussemA destra foto satellitare con l’indicazione del perimetro del Castellum Miliciae e delle principali strutture medievali che si sono conservate al suo interno.

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Dossier che svettavano sui palazzi nobiliari dell’epoca. Invece, nella sua conformazione definitiva a corpi sovrapposti, ergendosi direttamente dal suolo e finalmente libera dagli edifici preesistenti, essa assurge alla funzione di mastio del castello, organicamente collegato con le torri del Grillo e dei Colonnesi e con i tratti di cortina intermedia, compreso il possente «bastione» triangolare a scarpa che si è conservato verso via Quattro Novembre. Il completamento della Torre delle Milizie, come si è detto, non può essere posteriore al 1280-90, quando viene rappresentata nell’Ytalia di Ci-

mabue. Nei Mercati di Traiano non si hanno resti di altri apprestamenti difensivi che possano essere ricondotti a una fase successiva. I muri in opera irregolare conservati nel settore meridionale del Corpo Centrale sono ascrivibili a un’edilizia di tipo civile e residenziale che tra la fine del Trecento e il secolo successivo si è sovrapposta alle fortificazioni duecentesche ormai in disuso.

Fortezze urbane

Il Castellum Miliciae rappresenta sicuramente il complesso urbano meglio conservato di palazzo-fortezza baronale, sebbene profondamen-

te alterato soprattutto nelle parti esterne ai Mercati di Traiano dagli interventi urbanistici della fine dell’Ottocento. Relativamente alla città di Roma le fonti dell’epoca ci parlano di accasamenta, munitio, fortellitia o castello appartenenti ad altre famiglie egemoni del XIII secolo, quali gli Annibaldi, i Colonna, gli Orsini e i Savelli. Tuttavia, i resti delle fortezze urbane di queste casate sono completamente scomparsi oppure rimangono elementi isolati e profondamente modificati rispetto all’aspetto originario come per esempio il castello dei Savelli ricavato nel teatro di Marcello.

Torre delle Milizie

Bastione

Residenza baronale

Mura

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A sinistra assonometria ricostruttiva del Castellum Miliciae. da sudest. In basso, sulle due pagine l’isolato urbano dei Mercati di Traiano e del Castellum Miliciae nella pianta di Roma del Bufalini (1551, a sinistra) e nella rappresentazione di Roma del Du Perac, 1577, con la Torre delle Milizie evidenziata nel cerchio.

Palazzo

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In questa pagina le torri del complesso fortificato delle Milizie. Dall’alto, in senso orario la Torre delle Milizie, con in primo piano la «Loggia Caetani» che ingloba parte delle mura del castello; la Torre dei Colonnesi e la Torre del Grillo.

La fortezza dei Mercati di Traiano conserva invece, come si è visto, non solo parte delle torri poste a protezione dei vertici strategici del perimetro (Torre delle Milizie, Torre del Grillo, Torre dei Colonna), ma anche parte delle mura, le riserve idriche e il palazzo con la residenza padronale (Corpo Centrale), nonché altri edifici civili (Ordinariato Militare). Anche il castellum Miliciae assume funzioni analoghe a quelle delle altre fortezze romane dell’epoca, dislocate in punti strategici per il controllo delle arterie urbane principali e in particolare di quelle che collegavano il Laterano al Vaticano. Alla fine del Cinquecento la parte superiore dei Mercati di Traiano sarà occupata dal convento di S. Caterina da Siena. Gli edifici preesistenti saranno radicalmente trasformati con l’aggiunta di nuovi corpi e sopraelevazioni, modificando la forma e la posizione di quasi tutte le aperture, coprendo con l’intonaco le cortine delle facciate. Con i lavori del 1926-34 vengono finalmente demolite tutte le superfetazioni di età moderna, e riportate

Torre del Grillo Torre dei Colonnesi

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alla luce le strutture murarie antiche e medievali, che apparivano profondamente manomesse, ma ancora conservate fino ai piani superiori. Esse furono in seguito oggetto di un consistente intervento di restauro, attento a leggere ogni traccia degli elementi architettonici originali, grazie al quale è stato possibile restituire in modo fedele la conformazione originaria dei vari corpi di fabbrica, consegnandoci in definitiva un complesso monumentale unico per il suo stato di conservazione e per la sua capacità

Da leggere Marco Bianchini, Massimo Vitti, Mercati di Traiano, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2017

di attestare le trasformazioni avvenute all’interno di un importante settore cittadino nell’arco di oltre un millennio, fra l’età traianea e il tardo Medioevo.

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Storie, uomini e sapori

Del prender cibo con le mani di Sergio G. Grasso

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l mugellano Giovanni Della Casa (1503-1556), ambizioso, brillante, colto e non ancora trentenne, fu avviato alla curia pontificia da Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III, che nel 1544 lo nominò nunzio apostolico e inquisitore generale a Venezia. La morte di quel pontefice dopo cinque anni e l’ascesa al soglio di Pietro di Giulio III, fecero sfumare il suo sogno di indossare la porpora cardinalizia. Cosí Della Casa – che già si era dedicato con fervore alla scrittura di numerosi trattati, testi poetici, prose, traduzioni e perfino sonetti amorosi e a tratti osceni – decise di ritirarsi a vita privata, prima a Venezia e poi, dal 1553, nell’abbazia di S. Eustachio a Nervesa, nel Trevigiano, dove attese per due anni di essere reintegrato nella camera apostolica da papa Paolo IV con la nomina a segretario di Stato vaticano. Durante il volontario esilio tra le dolci colline trevigiane, coltivò la sua passione per la vita mondana e per le lettere, componendo biografie, carmi, dissertazioni e trattati, tra cui un breve libretto: Trattato di messer Giovanni della Casa, nel quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto si ragiona de modi, che si debbono o tenere, o schifare nella comune conversatione, cognominato Galatheo.

Norme condivise Il gradevole e spesso ironico Galateo di monsignor Della Casa – pubblicato postumo nel 1558 – rappresenta l’evoluzione dei canoni cavallereschi del TreQuattrocento, materia su cui si era cimentato già cinquant’anni prima di lui Erasmo da Rotterdam nel De civilitate morum puerilium libellus. Il Galateo – nome che indica in tutte le lingue moderne l’insieme delle norme di comportamento accettate da un gruppo o presenti in una società – è un testo fondamentale per lo storico, lo studioso e l’antropologo, ma pochi altri possono dire onestamente di averlo letto o solo sfogliato per curiosità. Al pari di altre opere celebri come l’Apocalisse, la Divina Commedia o Il Capitale, il Galateo appartiene al novero dei classici piú citati e meno letti, a beneficio di piú moderni e attuali codici-della-cortesia, manuali-di-bon-ton e dizionari-di-buone-maniere (fortunatissimo quello

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In alto Monsignor Della Casa, olio su tavola del Pontormo (al secolo, Iacopo Carrucci). 1541-1544 circa. Washington, National Gallery of Art. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un banchetto, da un’edizione del Remède de Fortune di Guillaume de Machaut. 1350-1355 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. marzo

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In alto un banchetto nuziale, stampa facsimile di un particolare del quarto pannello della trasposizione pittorica della novella del Decameron che ha per protagonista Nastagio degli Onesti realizzata da Sandro Botticelli nel 1483. di Lina Sotis del 1984). Il che è anche ovvio, visto che i canoni di cortesia, educazione e buon gusto si adeguano all’epoca, all’ambiente e alle mode. Su una regola i «galatei moderni» concordano: l’uomo civile non mangia con le mani, pur ammettendo alcune eccezioni, come nel caso del pinzimonio, delle fragole o dei pasticcini e poco altro. Resta il fatto che portare alla bocca il cibo con le dita è da secoli dimostrazione non solo di scarsa igiene ma anche di poca raffinatezza e nessuna eleganza. Non per monsignor Della Casa, al cui tempo la forchetta era entrata da poco nei costumi borghesi italiani e il coltello era ancora prerogativa del «trinciante» o dello «scalco», ai quali spettava l’incombenza di tagliare le carni prima di servirle ai commensali. Basta sfogliare il Galateo – quello vero – per accorgersi che il suo autore non esclude l’impiego delle mani nel piatto, ma si limita solo a raccomandarne

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un uso appropriato, adeguato e civile per quei tempi, avvertendo di non comportarsi come: «coloro che noi veggiamo talora a guisa di porci [ ] non rimuover gli occhi, e molto meno le mani, dalle vivande [ ] non mangiare, ma trangugiare [ ] e imbrattandosi le mani poco meno che fino al gomito, conciano in guisa le tovagliuole che le pezze degli agiamenti sono piú nette [ ] e molto spesso non si vergognano di rasciugare il sudore che [ ] gocciola e cade loro dalla fronte e dal viso e d’intorno al collo, et anco di nettarsi con esse il naso. [ ] Doverebbono essere scacciati per tutto là dove costumati uomeni fossero. Dèe adunque l’uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sí che la tovagliuola ne rimanga imbrattata, perciò che ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dèe mangiare, non pare polito costume». In buona sostanza, scriveva Della Casa, usa pure le mani, ma non farlo in maniera «stomachevole», mancando di rispetto agli altri commensali. Eppure le prime «forchette», in osso (semplici spiedini a due punte) erano di casa nelle cucine cinesi 4000 anni fa Miniatura raffigurante una scena di banchetto, da un’edizione del De Universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

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e non erano nemmeno sconosciute al mondo greco e romano. Furono dimenticate in Occidente a seguito delle invasioni barbariche, mentre a Oriente i Bizantini ne mantenevano orgogliosamente l’uso. Quando la principessa bizantina Maria Argyropoulina sposò il doge Giovanni Orseolo, la forchetta riapparve sulle tavole veneziane, suscitando le ire di san Pier Damiani (1007-1072), che scriveva sdegnato della dogaressa: «Non toccava le pietanze con le mani ma li assaggiava appena portandole alla bocca con forchette d’oro a due rebbi»; il sant’uomo vedeva nell’innocente furcula il simbolo del tridente di Satana, delle sue corna, mentre quel nome gli rammentava la forca, il patibolo.

Il «peccato» di un compositore Nuovamente esiliata dalle tavole per qualche secolo, la forchetta riapparve nella Firenze medicea, come testimonia uno dei quattro pannelli dipinti nel 1483 da Sandro Botticelli che hanno per tema la novella del Decameron di cui è protagonista il nobile Nastagio degli Onesti. Per quanto i Medici, poche famiglie nobili fiorentine e perfino Carlo V imperatore e re di Spagna collezionassero – ma non è detto che usassero – preziose forchette in oro e argento (quelle che Caterina de’ Medici portò in Spagna quando sposò il futuro Enrico II erano state disegnate da Benvenuto Cellini), in quasi tutta Europa, fino al Settecento, la forchetta venne sdegnosamente ripudiata, considerata uno strumento stravagante, pericoloso e diabolico, al punto da essere severamente interdetta al clero, bandita nei conventi e usata furtivamente dalle persone timorate di Dio. Il celebre compositore di musica sacra Claudio Monteverdi, per esempio, ogni tanto si lasciava andare all’ebbrezza di mangiare con la forchetta, salvo far poi recitare tre messe per espiare il peccato commesso. Nella sfarzosa reggia di Versailles, ai tempi di Luigi XIV, la fourchette era uno strumento di stretta pertinenza dei cuochi di corte, che preparavano i cibi già tagliati in porzioni idonee a essere portate alla bocca senza costringere le signore ad allargare le labbra, mettendo in pericolo rossetti e mouches (finti nei). Tra cristalli, stoviglie preziose, specchi, broccati e costosissime parures, il Re Sole, i principi, le nobildonne e i cortigiani mangiavano sempre e solo in punta di dita – ma il re indossava talvolta ditali in oro – e non disponevano di tovaglioli personali. Toccava alla servitú porgere ai commensali serviettes di lino calde e umide e acquamanili d’argento con cui nettarsi le estremità, in uno dei rari momenti in cui entravano in contatto con l’acqua. A Versailles, in occasione dei pomeriggi musicali con cui la corte si ritemprava tra un pranzo e una cena, era consuetudine offrire agli ospiti vassoi colmi di piccole e sottili fette di pane o pasta, sormontate da minuscole quantità di salse, condimenti e

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ingredienti cotti o crudi. Erano i settecenteschi antenati dei nostri dei finger food, miniporzioni di cibo da mangiare con le dita senza sporcarle. Li chiamarono canapés mutuando il nome dal greco konopeîon (zanzariera), che ai tempi di Omero indicava un letto coperto da un velario, impiegato per dormire o mangiare all’aperto,

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senza essere infastiditi dagli insetti. Il canapè (con la sua versione fritta, il crouton) è diventato in Italia prima «crostino», poi «tartina», fino al piú snob vol-auvent degli anni Ottanta, una gentile sfoglia al burro subissata da mayonnaise, creme grasse, gamberetti, formaggi fusi e


Nella pagina accanto miniatura raffigurante il piccolo Massimiliano Sforza, primogenito di Ludovico il Moro, che fa merenda in un padiglione allestito in un giardino, dalla Grammatica del Donato. 1495-1500. Milano, Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana. A destra ancora una miniatura da un’edizione del Tacuinum Sanitatis raffigurante un pescivendolo nella sua bottega. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

Luigi XIV e Molière pranzano a Versailles, bozzetto di Jean-Auguste-Dominique Ingres del dipinto Il pranzo di Molière, distrutto nel 1871 nel Palais des Tuileries. 1837. Parigi, Bibliothèque-musée de la Comédie-Française. béchamel. Pur di non mangiare con le mani – lo strumento piú pratico, completo e ragionevole di cui disponiamo – invochiamo ragioni igieniche, praticità e «galateo» con cui giustifichiamo l’esistenza della forchetta, declinandone una per ogni pietanza: da pesce, da dolce, da frutta, da olive, da fonduta, da lumache, da crostacei… Le usiamo per infilzare le verdure, per tenere ferma la carne quando la tagliamo, per raccogliere il cibo o per inseguirlo nel piatto, per arrotolare gli spaghetti, per squamare il pesce o per infilare frammenti di alimenti diversi in un unico boccone squisito. E per soddisfare il naturale, sublime gesto di portare il cibo alla bocca abbiamo messo a punto altri assurdi strumenti di tortura come pinze, coltelli «cornuti», ditali di ogni foggia.

Un primato italiano In questo il Bel Paese è stato un precursore rispetto ad altre nazioni, per merito della pasta. Nell’età di Mezzo e piú ancora nel Rinascimento, il commercio di maccheroni e vermicelli era già ben avviato. Il popolino si accontentava di mangiare la pasta lunga (quando ne aveva…) afferrandola con le mani e calandosela in bocca dall’alto. Borghesi e nobili, per distinguersi dal volgo, usavano uno strumento di legno appuntito, detto punteruolo. Ma se un dente era comodo per arrotolare la pasta, due erano ancora meglio e tre erano l’ideale. La pasta è la forchetta parevano fatte

Qui sopra forchetta in ferro, lega di rame parzialmente dorato e argento di produzione italiana. XV sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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l’una per l’altra e non ci volle molto tempo prima che gli Italiani iniziassero a usare questi arnesi anche per le altre pietanze. Nel 1608 il viaggiatore inglese Thomas Coryate notò una consuetudine «che non è in uso negli altri Stati», ossia l’utilizzo di una «forcella» con cui tener ferma la carne mentre la si taglia, e precisa: «l’italiano non sopporta che il cibo venga toccato con le dita, giacché queste non sono tutte pulite allo stesso modo». Evitare di sporcarsi le mani con il cibo (o forse di sporcare il cibo con le mani) divenne un’abitudine tutta europea e dall’epoca della Rivoluzione Francese in poi la forchetta si trasformò in un oggetto comune non solo nelle case borghesi, ma anche presso il popolo di tutta Europa.

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Lo scaffale Maria Paola Zanoboni La vita al tempo della peste Misure restrittive, quarantena, crisi economica Editoriale Jouvence, Milano, 214 pp.

18,00 euro ISBN 978-88-7801-756-6 www.jouvence.it

La peste è stata per secoli uno dei flagelli piú temuti dall’uomo e in pieno Medioevo, nel 1348, il morbo diede una delle prove piú terribili della sua virulenza, sconvolgendo l’intera Europa. Altissimo fu il prezzo in termini di vite umane e non certo inferiore quello pagato dall’economia, che visse per anni una crisi durissima. Questi e molti altri aspetti vengono descritti e analizzati da Maria Paola Zanoboni – con lo stile piano e lineare che il lettori di «Medioevo» hanno imparato a conoscere – nel suo ultimo libro, che, pur dedicando molte delle sue pagine appunto alla Peste Nera, amplia i confini cronologici dell’excursus, a partire dalle prime grandi epidemie dell’antichità. E già nelle testimonianze di autori come Tucidide o Lucrezio emerge uno dei tratti distintivi

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del fenomeno, vale a dire lo sgomento di fronte a un nemico che sembrava imbattibile, mettendo a nudo l’impotenza delle comunità, a lungo sprovviste di adeguati metodi di cura e misure di prevenzione. Elemento peculiare della trattazione è la scelta dell’autrice di affiancare alla cronaca degli avvenimenti di

volta in volta narrati le riflessioni sulle implicazioni sociali, politiche ed economiche delle pestilenze, offrendo dunque un quadro articolato e «storico» nel senso piú pieno del termine. Nella seconda parte del volume, come logico corollario, il discorso si amplia ulteriormente, proponendo una storia degli ospedali, della professione medica e della farmacia, campi che anche dalle epidemie

di peste furono sollecitati a percorrere nuove strade, al fine di migliorare la propria efficacia. Lorenzo Tanzini, Francesco Paolo Tocco Un Medioevo mediterraneo Mille anni tra Oriente e Occidente Carocci editore, Roma, 462 pp., ill. b/n

39,00 euro ISBN 978-88-290-0066-1 www.carocci.it

Come scrivono Lorenzo Tanzini e Francesco Paolo Tocco nell’Introduzione, questo loro volume è frutto della scelta compiuta controcorrente rispetto alle tendenze affermatesi negli ultimi anni nel campo degli studi sul Medioevo: l’idea, infatti, è stata quella di proporre una sintesi di ampio respiro sull’intero millennio medievale, senza però agganciarlo a specifiche realtà nazionali o a un continente, ma scegliendo come osservatorio il Mediterraneo. Uno spazio che, tuttavia, non è mai stato solo geografico e le cui acque, sin dall’antichità, hanno costituito un ponte, piú che una barriera, fra le civiltà che vi si

François Bœspflug, Emanuela Fogliadini L’Annunciazione a Maria nell’arte d’Oriente e d’Occidente Editoriale Jaca Book, Milano, 165 pp., ill. col.

20,00 euro ISBN 978-88-16-41618-5 www.jacabook.it

sono affacciate. La trattazione prende le mosse a partire dall’età tardoantica, anche se, di capitolo in capitolo, la successione cronologica non viene rispettata in maniera sistematica, perché sarebbe stato altrimenti impossibile analizzare i molti eventi e fenomeni di cui il mare nostrum fu teatro nell’età di Mezzo. Sfilano dunque tutti i protagonisti «diretti», vale a dire i popoli, i regni e gli imperi insediati nelle terre bagnate dal Mediterraneo, ma anche quelli stanziati in regioni ben piú lontane eppure interessati al controllo politico ed economico di quelle acque. A riprova di una centralità che mai venne meno e nelle cui dinamiche non è difficile scorgere elementi straordinariamente simili alla realtà moderna.

Tema declinato in un numero forse incalcolabile di versioni, l’Annunciazione a Maria è uno dei momenti centrali della narrazione evangelica,

soprattutto perché, come sottolineano gli autori, il momento in cui la Vergine esplicita all’arcangelo Gabriele il proprio consenso, costituisce, di fatto, l’istante dell’Incarnazione del Cristo. Non sorprende, dunque, che, anche nel Medioevo, il prodigioso incontro sia stato scelto da pittori, scultori e miniatori, grazie ai quali possiamo marzo

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Lo scaffale oggi disporre di un corpus di immagini ricchissimo, al quale Bœspflug e Fogliadini hanno attinto per questo volume, nel quale sono riunite una trentina di Annunciazioni, in ampia parte realizzate appunto nell’età di Mezzo. Ogni opera è descritta in una scheda analitica, a comporre un Atlante che costituisce una prova concreta e vivida dell’universalità del messaggio e della sua eccezionale diffusione. Everett Fahy Studi sulla pittura toscana del Rinascimento

Fondazione Federico Zeri, Bologna-Officina Libraria, Roma, 2 voll., 582 + 408 pp., ill. col. (I vol.), ill. b/n (II vol.)

90,00 euro ISBN 978-88-3367-120-8 www.officinalibraria.net

A poco piú di due anni dalla scomparsa, l’opera, di taglio specialistico, raccoglie una selezione di scritti dello storico dell’arte statunitense Everett

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Fahy, il cui contributo alla disciplina è ritenuto fondamentale, soprattutto per le ricerche sulla pittura italiana e toscana in particolare. Al di là degli argomenti di volta in volta trattati, la vasta raccolta vuol essere anche una testimonianza del metodo seguito dal grande studioso, peraltro mirabilmente ricordato da Andrea De Marchi, il quale sottolinea, fra l’altro, il rapporto che legò Fahy a Federico Zeri, che segnò profondamente le vicende biografiche di entrambi e che si può dire sopravviva attraverso le attività della fondazione che porta il nome dello storico dell’arte italiano, che è anche coeditore dei volumi. I testi abbracciano un arco cronologico di cinquant’anni, a dimostrazione di un impegno assiduo e costante, e hanno per protagonisti nomi illustri del panorama artistico, ma anche maestri minori, molti dei quali riscoperti proprio grazie a Fahy. Il secondo tomo accoglie l’Atlante fotografico, realizzato grazie alla ricchissima raccolta personale dello studioso – oltre 40 000 immagini – che dopo essere stata

il suo fondamentale strumento di lavoro è stata da lui donata alla Fondazione Zeri. Stefania Meniconi Dante Alighieri, giovane tra i giovani Cinque studi sulla vitalità di Dante Gingko Edizioni, Verona, 178 pp.

16,00 euro ISBN 978-88-31229-19-7 www.gingkoedizioni.it

Nel settecentenario della morte, si moltiplicano le iniziative per celebrare Dante Alighieri e sono ricorrenti le considerazioni sulla sua attualità: una convinzione che anima anche Daniela Meniconi e che ha ispirato questo volume, in molte sue parti basato sulla sua attività di insegnante. Le riflessioni prendono le mosse dalla constatazione di quanto le parole del poeta siano ancora oggi capaci di suonare familiari o, per converso, di

affascinare perché all’apparenza incomprensibili e dunque bisognose di quelle note di commento che hanno segnato e segnano l’esperienza scolastica. Né mancano osservazioni originali e divertenti, come quando l’autrice propone una breve rassegna dei molti prestiti danteschi rintracciabili nella produzione di alcuni tra i piú noti cantautori italiani. E che poi il creatore della Divina Commedia possa indossare gli abiti dello «psicologo di classe» è una rivelazione inattesa e che autorizza a sperare che le sue terzine possano continuare ancora a lungo a essere attuali e vive. Un’eventualità forse piú importante di qualsiasi celebrazione. Pietro Greco Trotula. La prima donna medico d’Europa L’Asino d’oro edizioni, Roma, 210 pp.

15,00 euro ISBN 978-88-6443-555-8 www.lasinodoroedizioni.it

Obiettivo del volume, esplicitato dall’autore, è quello di «restituire a Trotula il posto che le spetta nella storia della scienza

e farla conoscere anche al grande pubblico, cercando di distinguere il vero dal verosimile e dal mito». Un desiderio ispirato dal fatto che per il personaggio in questione, passato alla storia come la prima medichessa della storia, abbondano da sempre i condizionali: sarebbe nata, sarebbe stata, ecc. E dunque Pietro Greco, pur confermando che i dati certi, a oggi, sono davvero pochi,

se non inesistenti, prova a tracciare un profilo attendibile della donna, impresa alla quale dedica la prima parte del libro. Per poi passare all’esame dei testi attribuiti a Trotula, a cominciare dal De passionibus mulierum ante in et post partum, e, infine, al carattere mitico assunto da colei che per alcuni fu la «prima ginecologa» della storia. (a cura di Stefano Mammini) marzo

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