Medioevo n. 287, Dicembre 2020

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VE SPEC RC IA EL L E LI

MEDIOEVO n. 287 DICEMBRE 2020

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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SEGRETI DI VERCELLI

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VERCELLI

Mens. Anno 24 numero 287 Dicembre 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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MEDIEVALE

IN EDICOLA IL 3 DICEMBRE 2020

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NATALE LA FORTUNA DEI MAGI



SOMMARIO

Dicembre 2020 ANTEPRIMA

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MEDIOEVO INVENTORE Misteriosa ed eclettica

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MUSEI Alla corte del Piccolo Re

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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LUOGHI VERCELLI I segreti di Vercelli medievale

testi di Gianna Baucero, Alessandro Barbero, Francesco Colotta, Alice Colombo e Daniele De Luca 16

COSTUME E SOCIETÀ BEVAGNA

I mestieri del Medioevo

Lusso da torcere

testi di Flavio Crippa e Maurizio Tuliani

16 STORIE TRADIZIONI I Re Magi La lunga scia della cometa di Franco Cardini

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Dossier L’AQUILA «Magnifica citade»

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testi di Amedeo Feniello, Simone Sisani, Alfonso Forgione, Pierluigi Terenzi, Silvia Mantini e Cristiana Pasqualetti

CALEIDOSCOPIO LIBRI La Santa Notte messa in scena Lo scaffale

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MUSICA Canzoni piene di pathos

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VE SPEC RC IA E L LE LI

MEDIOEVO n. 287 DICEMBRE 2020

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

PIEMONTE SEGRETI DI VERCELLI

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19/11/20 19:11

MEDIOEVO Anno XXIV, n. 287 - dicembre 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Barbero è professore ordinario di storia medievale all’Università degli Studi del Piemonte Orientale. Gianna Baucero è scrittrice. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Franco Cardini è storico del Medioevo. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Alice Colombo è architetto. Francesco Colotta è giornalista. Flavio Crippa è fisico ed esperto di tecnologie tessili antiche. Daniele De Luca è direttore dell’Ufficio Diocesano per i Beni Culturali Ecclesiastici e l’Edilizia di Culto dell’Arcidiocesi di Vercelli. Amedeo Feniello è ricercatore in storia medievale all’Università degli Studi dell’Aquila. Cristina Ferrari è archeologa. Alfonso Forgione è ricercatore in archeologia cristiana e medievale e all’Università degli Studi dell’Aquila. Silvia Mantini è professore associato di storia moderna all’Università degli Studi dell’Aquila. Cristiana Pasqualetti è professore associato di storia dell’arte medievale all’Università degli Studi dell’Aquila. Simone Sisani è ricercatore in storia romana all’Università degli Studi dell’Aquila. Pierluigi Terenzi è ricercatore in storia medievale all’Università di Firenze. Maurizio Tuliani è dottore di ricerca in storia medievale. Illustrazioni e immagini: Cortesia Gianna Baucero e Stefano Bobba: copertina e pp. 16/17, 19, 20, 22/23, 23, 24-25, 27, 30-31, 33, 36-39 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 5, 72/73; Fototeca Gilardi: pp. 80/81; Electa/Giorgio Nimatallah: pp. 98/99; Electa/Sergio Anelli: p. 101; Fine Art Images/Heritage-Images: p. 102; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 103 – Fondazione Museo «Il Divino Infante», Gardone Riviera (Brescia): Fotostudio Rapuzzi, Brescia: pp. 6-9 – Cortesia Guido Tassini, PUNTO P, Vercelli: cartina a p. 18 – Fondazione Museo del Tesoro del Duomo e Archivio Capitolare, Vercelli: pp. 21, 22, 28-29 – Museo Leone, Vercelli: p. 32 – Cortesia Gallo Arti Grafiche: pp. 34/35 – Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program: pp. 42/43 – Doc. red.: pp. 44-53, 54, 56-61, 66, 66/67 (alto), 82, 86/87, 94/95, 96, 113 – Shutterstock: pp. 54/55, 82/83, 84/85, 86, 97, 105, 110/111 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 62 – Cortesia Gaita Santa Maria, Bevagna: pp. 64/65, 68-71, 72, 74-77 – Alamy Stock Photo: pp. 79, 80 – Cortesia degli autori: pp. 88-93, 106/107, 108/109, 110 – Raniero Pizzi: pp. 104/105 – Gino Di Paolo: p. 109 – Cippigraphix: cartine alle pp. 66/67, 84.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Vercelli. Particolare di uno dei campanili della basilica di S. Andrea.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente protagonisti

Ildebrando da Sovana, il riformatore che «sciolse i nodi»

ambiente

Il Medioevo ecologico

dossier

Le armate di Dio


MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini

Misteriosa ed eclettica

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ra il XIII e il XIV secolo si diffuse in Europa un nuovo supporto scrittorio, la cui fabbricazione era avvolta parzialmente nel mistero, al punto che non si sapeva bene come battezzarlo: qualcuno la chiamò «cartapecora», qualcun altro «pergamena di stoffa» e, nel mondo anglofrancese, prese il singolare nome di «paper» o «papier», che permane ancora oggi, e che evoca l’antico papiro in voga ai tempi dei faraoni e dei Romani. L’invenzione della carta si deve ai Cinesi e a un periodo precedente l’epoca che noi chiamiamo Medioevo. Ma, intorno al 1300, diventarono celebri in tutta Europa le officine dei maestri cartai con sede a Venezia, a Prato, a Cividale e, soprattutto, le cartiere di Fabriano. La carta invase il mondo degli intellettuali, sostituendo progressivamente la costosissima pergamena e favorendo in modo formidabile la diffusione della cultura grazie alla stampa. L’invenzione della carta trovò però altre inedite applicazioni che gli intraprendenti lavoratori dei secoli del Medioevo videro bene di impiegare nel corso del Quattrocento. Nel 1509, Hugo Goes di York, uno stampatore inglese, ebbe l’idea di imprimere, grazie a un blocchetto di legno inciso, i disegni a motivo vegetale su fogli di carta di 30 x 40 cm circa. Il motivo era un melograno stilizzato di derivazione chiaramente orientale e islamica: si tratta del piú antico frammento di carta da parati della storia. Ben presto, i temi si ampliarono

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In alto frammenti di carta da parati con motivi architettonici, probabilmente realizzata dall’atelier di Jean-Michel Papillon. 1723-1740 circa. Parigi, Musée des arts décoratifs. A sinistra tavola realizzata da Jean-Michel Papillon nella quale si illustra la fabbricazione e la posa in opera della carta da parati. e il repertorio decorativo si allargò, includendo motivi tratti da tessuti di fabbricazione italiana o spagnola. Con questi foglietti si potevano rivestire scatole, scaffali e persino pareti, magari decorate con lo stemma di famiglia, in un modo sicuramente piú economico e quindi piú abbordabile. Per lo stesso motivo, un paio di secoli piú tardi, quando le classi piú facoltose presero a rivestire le pareti con costosissimi arazzi, o con lastre di legno scolpite, la carta da parati ebbe il proprio boom, divenendo il sostituto piú economico di quelle lussuose decorazioni. Tra i piú ricercati erano i modelli disegnati dall’olandese Hermann Schinkel ai primi del Seicento, e, verso il 1700, quelli floreali ideati dal parigino Jean-Michel Papillon. In generale, gli impieghi della carta si moltiplicarono e, fra questi, possiamo ricordare quanto avvenne, intorno al XV secolo, in Svizzera, dove si iniziarono a incollare frantumi di vetro su fogli di carta per ottenere una specie di materiale abrasivo con cui lisciare superfici di vario genere: erano i primi fogli di carta vetrata della storia.

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ANTE PRIMA

Alla corte del Piccolo Re

MUSEI • Da una statuetta

scovata nella bottega di un rigattiere (dov’era abbandonata come una bambola rotta) e salvata dall’oblio e dal degrado, inizia la storia di una grande passione, di una straordinaria collezione privata, e della fondazione di un museo interamente dedicato a Gesú Bambino

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na collezione nata dell’impegno di raccogliere, salvare e restaurare una parte importante e poco nota del nostro patrimonio culturale: da questa passione il 19 novembre del 2005 nell’ex albergo di Villa Ella a Gardone Riviera (Brescia), a poche centinaia di metri dal Vittoriale degli Italiani, è stato inaugurato il Museo del Divino Infante, il piú importante museo al mondo dedicato al culto di Gesú Bambino, che accoglie la straordinaria collezione di Hiky Mayr, composta da piú 300 pezzi, soprattutto statue di varie dimensioni, ma anche dipinti, databili dal XVI al XIX secolo.

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Il culto del Divino Infante ha origini molto antiche, ma si diffonde in tutto il mondo cristiano soprattutto intorno al Mille, con la teologizzazione del mistero dell’Incarnazione (Il Verbo che si è fatto Carne) e soprattutto nel XIII secolo, con la predicazione di san Francesco (a cui si deve anche l’«invenzione» del presepio). Il Museo raccoglie immagini e dipinti di Gesú Bambino come figura indipendente (non in braccio a Maria o collegato ad altre figure del presepe), tutti prodotti in Italia, soprattutto al Sud – di materiali vari (terracotta, legno dipinto, cera ma anche cartapesta e stoppa, talvolta

con viso e arti in legno/terracotta e corpo in stoppa con filo di ferro) e di dimensioni che variano da qualche centimetro fin quasi al metro –, che rappresentano tutte le iconografie conosciute, dal «Piccolo Re» fino al «Bambino della Passione». «Questa rappresentazione di Gesú come figura a sé stante – spiega la signora Mayr, proprietaria del Museo – inizia ad affermarsi soprattutto nel Quattrocento, epoca a partire dalla quale si sviluppa la raffigurazione del Gesú Bambino a tutto tondo, e con gli attributi In alto il presepio panoramico (25 mq), animato da oltre 200 statuine. dicembre

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del corpo umano maschile, nudo a simboleggiare la sua umanità e la sua umiltà, dando orma concreta al versetto del Vangelo di Giovanni “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”». Questi Bambini erano quasi sempre raffigurati in posa stante o piú raramente sdraiati su lettini, mentre quelli con le gambe piegate ad angolo dovevano essere in origine in braccio a Maria, quasi tutti in legno policromo, con occhi in pasta vitrea e acconciatura a boccoli, talvolta con un’aureola (nimbi in metallo), oppure, se privi di aureola, provvisti di parrucche di lunghi capelli biondi a boccoli, fatte di vari materiali, quali paglia e stoffa (ma anche di capelli veri) e corone. Piena espressione del Bambinello come figura autonoma e benedicente è il «Piccolo Re», raffigurato in piedi (molto raramente seduto), nell’atto di fare un passo, mentre benedice con la mano destra e nella sinistra spesso regge il globo sormontato dalla croce (tipico del Salvator Mundi) o lo scettro, simboli di regalità. «Generalmente datate tra il XVIII e il XIX secolo, tutte di grandi dimensioni e spesso create da veri artisti, le statue – continua la signora Mayr – erano riservate

a una committenza molto ricca o ai conventi. Raffigurano piccoli principi, abbigliati come i bimbi delle nobili famiglie dell’epoca, con biancheria intima, mantelline e lunghe vestine (dette gonnellini) in stoffe preziose, quasi sempre ricavate da scampoli di stoffe destinate alle vesti liturgiche, decorate con pizzi, fili d’oro e argento e “gemme” di pasta vitrea o pietre semidure».

L’abbigliamento e i gioielli Del corredo delle statue facevano parte anche scarpette, sandali, parrucche (secondo l’uso, per motivi igienici, di rasare i capelli e di ricoprirli con parrucche), gioielli in metallo prezioso, scapolari, rosari, mobili (culle, lettini, troni) o cuscini, e corone in ottone dorato o argento ornate con paste vitree e pietre semidure, ma talvolta anche perle e gemme autentiche, in forme tradizionali o fantasiose. Fra le opere di maggior pregio, vi è una bellissima statua alta quasi 70 cm, in terracotta policroma con corpo di stoppa su anima di filo di ferro e occhi in pasta vitrea, capolavoro di un anonimo artista del Meridione, che raffigura Gesú come preadolescente, forse in ferimento all’episodio

Errata corrige con riferimento al Dossier La città del santo cavaliere (vedi «Medioevo» n. 285, ottobre 2020) desideriamo precisare che la foto a p. 83, raffigurante il monumento ad Alberto V d’Este è di Nicola Quirico. Ci scusiamo con l’interessato per la mancata attribuzione dell’immagine. biblico di Gesú dodicenne nel tempio. Spiccano anche un Gesú di colore del XVIII-XIX secolo, molto probabilmente portato dall’Africa da un missionario, e una statua in cartapesta policroma, opera di un puparo siciliano: «I pupari infatti, oltre a realizzare le celebri marionette, spesso si specializzavano anche in raffigurazioni del Piccolo Re, raggiungendo altissimi livelli». Commoventi sono le «Sacre Bambole», in legno policromo e

Qui accanto statuetta del Bambino del tipo del «Piccolo Re». A destra particolare di un altro «Piccolo Re» benedicente in legno policromo con occhi di pasta di vetro. Italia del Sud, XVIII-XIX sec. Il Bambino indossa un sottabito d’epoca in tulle di seta.

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ANTE PRIMA abbigliarle con i colori prescritti nel corso del calendario liturgico, come vere e proprie “Barbie” dell’epoca. Talvolta venivano offerti loro anche pasti appositamente preparati».

Paesaggi paradisiaci Continuando la visita, s’incontrano i «Bambini nel Giardino del Paradiso», neonati dall’aspetto dolce e delicato, addormentati o in dormiveglia, spesso sotto campane di vetro o in teche, immersi in un paesaggio paradisiaco. «Le statuette erano spesso realizzate negli stessi conventi – spiega la signora Mayr – con materiali poveri e di recupero, quali la cera prodotta dalle api allevate nei conventi stessi, mentre i capelli, perfettamente arricciati, sono in paglia e stoffa oppure ricavati da capelli veri, tagliati dalle monache, mentre i paesaggi sono fatti con erba, conchiglie, carta cerata, stoffa, muschio e perline di vetro». Opposti nel loro messaggio e nelle emozioni che suscitano tra i visitatori sono invece i «Bambini della Passione», raffigurati nudi, in interamente snodabili, che facevano parte del corredo delle novizie destinate al convento e allontanate dalle famiglie fin da giovanissime, spesso ancora bambine, per non procurare loro una dote che avrebbe disperso parte delle ricchezze delle famiglie, come insegna Manzoni nei capitoli dei Promessi Sposi dedicati alla storia della monaca di Monza. «Alle bambine – racconta Hiky Mayr – veniva donata una bambola, fatta dai migliori artigiani, come raffigurazione sia dello Sposo Celeste che del Bambino, a compenso della maternità negata; tali bambole, che avevano anche lo scopo di confortare e di fare giocare le bambine, diventavano parte integrante della vita del convento, e per questo erano dotate di troni dorati e culle, per portarle in cappella durante le orazioni, e di un guardaroba di abiti con cui

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piedi o quasi addormentati su una croce, spesso con volto sofferente e nell’atto di offrire il proprio cuore fiammeggiate, che recano gli «arma Christi», ovvero gli strumenti della Passione (la corona di spine, la croce, i chiodi, la lancia, ecc.), a simboleggiare come Gesú fosse da A sinistra Bambino dipinto di marrone scuro, realizzato in Italia e portato in Africa dai missionari, che con tali statuette simboleggiavano come Gesú sia venuto al mondo per tutti gli uomini e l’universalità della fede cristiana. Napoli, XIX sec. In basso, a sinistra Sacra Bambola snodabile, in legno policromo, occhi di pasta vitrea e parrucca. Qui sotto statuetta di Piccolo Re in terracotta policroma e occhi in pasta vitrea. Napoli, XVIII sec.


sempre consapevole della morte che lo attendeva. Molto interessante è una statua, simile alla tipologia del Piccolo Re, ma che reca nella mano destra il proprio cuore rosso scuro, circondato da un filo d’oro, un attributo che lo configura appunto come Bambino della Passione; altrettanto insolito è un bambino immerso in un paesaggio idilliaco, ma con in mano la corona di spine. Alla stessa tipologia si può in parte ricondurre anche una delle poche statue che non ritraggono il Bambinello, ovvero un san Simonino, il piccolo Simone di Trento trovato morto a due anni e mezzo il giorno di Pasqua del 1475, delitto di cui furono accusati vari rappresentanti della comunità ebraica cittadina.

Dalla casa del vate Il Museo del Divino Infante ospita in deposito temporaneo una statua del Divino Infante ritrovata nella Priora del Vittoriale degli Italiani, di produzione tedesca, molto probabilmente appartenente al critico d’arte tedesco Henry Thode, proprietario della villa prima di Gabriele D’Annunzio. Si tratta di una statua in legno policromo databile tra il XVI e l’inizio del XVII secolo che si rifà all’iconografia del «Bambino di Praga», anche se in parte se ne discosta per le grandi dimensioni e per il materiale: quasi certamente doveva essere in origine un putto d’altare, «trasformato» appunto in Bambino di Praga, con la testa in parte spianata per far aderire la corona, sempre in legno. L’immagine indossa una particolare veste di epoca piú tarda, in legno argentato, guazzato e laccato di rosso, ed è arricchita da tre collane, una in legno, una in noccioli intagliati e perle di metallo e una in ottone con pendagli impreziositi da paste vitree incastonate.

Come i neonati in culla Il Museo accoglie anche varie raffigurazioni del Bambino avvolto in fasce, secondo una tipologia antichissima, risalente almeno alle prime raffigurazioni di Gesú neonato del XIV secolo, che riproduce molto realisticamente il modo in cui i bimbi venivano deposti nelle culle. «Le piú antiche – continua Hiky Mayr – rappresentano Gesú con le braccia aderenti al corpo, ma con le spalle scoperte. Tale iconografia si diffuse soprattutto a partire dal Barocco, ed era particolarmente apprezzata per le infinite possibilità di ornare le fasciature con pizzi, stoffe preziose, fili d’oro e argento, paste vitree e pietre dure». Sebbene il Museo sia dedicato al Bambino come figura a sé stante, non manca una sezione dedicata al Presepio. Spicca quello imponente, panoramico, di 25 mq, collocato a ferro di cavallo in uno spazio che dà l’impressione di «entrare nella scena». Il presepio è composto da piú di 200 statuine del XVIII e XIX secolo, ad animare una tipica scena napoletana che si svolge in un vivace rione con interni di abitazioni e il mercato con le

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sue bancarelle di frutta, verdura, formaggi, salumi, cibi e oggetti vari, e che mescola sapientemente elementi sacri e profani, angeli in volo, nobili riccamente vestiti e ingioiellati accompagnati dai loro cani e cavalli di gran razza e popolani e pastori con i loro umili animali, straccioni, ubriaconi, giocatori d’azzardo, Turchi, Arabi e Mori con cammelli e animali esotici, in una rappresentazione perfetta della vita quotidiana in ogni sua sfaccettature e di tutte le classi sociali. Le statuine presentano occhi in pasta vitrea e viso e arti in legno o ceramica e corpo spesso in stoppa o in filo di ferro; potevano però essere anche interamente in legno e snodabili, cosí da poter dare loro la posizione che si preferiva. Nella stessa sezione sono esposti anche presepi o statue singole provenienti da tutta Italia, soprattutto dal Sud e dall’Alto Adige, da sempre famoso per la maestria dei suoi artigiani del legno: «Ci troviamo spesso – conclude la signora Mayr – di fronte a veri e propri unicum, in quanto i nobili

facevano a gara per commissionare ai più importanti maestri i presepi più ricchi e preziosi, che diventavano veri e propri status symbol». Da notare anche due cammelli in legno di fattura popolare, probabilmente del XVI secolo, prodotti in Alto Adige: «Si tratta di statuine create da un modesto artigiano, forse un umile falegname di paese, che non aveva mai visto un cammello e che si è basato sulle poche indicazioni datagli dal committente, forse a sua volta un semplice sacerdote, come “assomiglia a un cavallo, ma ha un collo lungo e una gobba”, con un risultato un po’ grottesco e di certo non realistico, ma di grande importanza storica e artistica». Cristina Ferrari DOVE E QUANDO

Fondazione Museo il Divino Infante Gardone Riviera (Brescia), via Dei Colli, 34 Info tel. 0365 293105, cell. 335 360520; www.il-bambino-gesu.com

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

AVVISO AI LETTORI

Le pagine di questa edizione dell’Agenda del Mese sono state redatte nei giorni in cui le autorità nazionali e locali hanno emanato nuove disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.

Mostre CLASSE (RAVENNA) TESORI RITROVATI. IL BANCHETTO DA BISANZIO A RAVENNA Museo Classis Ravenna fino al 20 dicembre

I ceti dirigenti della tarda antichità hanno molti modi per autorappresentarsi. Uno dei principali è

commissionare oggetti preziosi ad artigiani specializzati. Un settore di grande prestigio è quello dell’argenteria: coppe, boccali, posate e grandi piatti sono tra gli oggetti piú richiesti dalle aristocrazie. Spesso questi oggetti recano delle raffigurazioni di miti antichi o scene agresti e di banchetto. Il senso di queste rappresentazioni si giustifica nei modelli della loro committenza. Importanti personaggi vogliono comunicare il loro status symbol, le loro radici culturali. In molti casi si tratta di prodotti di alta qualità realizzati nei piú importanti centri culturali dell’impero. Il percorso espositivo inizia da

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due grandi piatti realizzati in argento dorato di epoca tardo-antica provenienti dal Museo Archeologico di Cesena. La sequenza narrativa della mostra prende avvio dalla documentazione del loro ritrovamento e stabilisce connessioni con analoghi grandi missoria in argento che, per qualità e modalità di realizzazione, appaiono in relazione con quelli di Cesena. Inoltre partendo dalla rappresentazione del banchetto, incorniciata al centro di uno dei grandi piatti di Cesena, si sviluppa un racconto sulla produzione di suppellettili da mensa tardo antiche e sulle rappresentazioni figurative di banchetto circolanti tra le aristocrazie del tempo, derivate da modelli prestigiosi, funzionali anche a precise esigenze di affermazione e esaltazione sociale. Queste suppellettili, infatti, erano commissionate per essere donate durante alcune cerimonie o per celebrare incarichi e nomine. Ai tempi dell’impero romano, inoltre, era molto importante anche il «peso» del vasellame da cui si desumeva la ricchezza del proprietario. info tel. 0544 473717; www.classisravenna.it; www.ravennantica.it FIRENZE «…CON ALTRA VOCE RITORNERÒ POETA. IL RITRATTO DI DANTE DEL BRONZINO ALLA CERTOSA DI FIRENZE»

Pinacoteca della Certosa del Galluzzo fino al 31 dicembre

Anticipando il fitto programma di appuntamenti che nel 2021 celebreranno il 700° anniversario della morte di Dante Alighieri, la mostra propone in esclusiva l’esposizione del Ritratto allegorico di Dante Alighieri, dipinto nel 1532-1533 dal Bronzino e proveniente da una collezione privata fiorentina. L’opera campeggia sul fondo della Pinacoteca della Certosa che sul lato sinistro ospita anche i cinque affreschi del Pontormo (dipinti intorno al 1523) raffiguranti le Scene della Passione, alla cui realizzazione collaborò appunto il Bronzino, mentre Firenze era ammorbata dalla peste. Nella sala della Pinacoteca si possono inoltre ammirare le copie in scala ridotta eseguite su tela da Jacopo da Empoli e da altri pittori fiorentini dell’Accademia delle Arti del Disegno intorno al 1582. info tel. 055 2049226; e-mail: certosadifirenze@gmail. com; www.certosadifirenze.it

PERUGIA RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi fino al 6 gennaio 2021

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le

opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, dicembre

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l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che mostrano e dimostrano come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria BOLOGNA LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni fino al 10 gennaio 2021

Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni di Bologna ospita la grande mostra che riporta in città, a 500 anni dalla sua realizzazione e a 300 dalla sua dispersione, le tavole del

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BOLOGNA IDENTITÀ NASCOSTE. SULLE ORME DEI CRIPTO-GIUDEI Museo Ebraico di Bologna fino al 10 gennaio 2021

Polittico Griffoni dei ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che proprio nella città felsinea, con la maestosa pala d’altare realizzata tra il 1470 e il 1472 per l’omonima cappella nella basilica di S. Petronio, diedero avvio al loro straordinario sodalizio artistico. La mostra si compone di due sezioni. Il piano nobile di Palazzo Fava ospita «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna»: le 16 tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei prestatori sono visibili assieme alla ricostruzione del Polittico, una vera e propria rimaterializzazione della pala d’altare cosí come dovette apparire ai Bolognesi di fine Quattrocento. Il secondo piano ospita «La Materialità dell’Aura: Nuove Tecnologie per la Tutela», sezione che illustra, attraverso video, immagini e dimostrazioni con strumenti di scansione 3D, l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del Polittico. info tel. 0544 473717; https://genusbononiae.it

La mostra esplora la lunga storia degli ebrei nella Penisola Iberica (Sefarad), dai primi anni dell’impero romano, attraverso il medioevo e la fiorente Età d’Oro che vide un notevole sviluppo della cultura e dell’economia ebraica in Spagna, fino al dramma dell’espulsione, delle fughe e delle conversioni forzate da cui origina la storia dei criptogiudei. Il percorso espositivo getta luce sull’affascinante e complessa vicenda dei cripto-giudei, dei conversos («convertiti»), degli anusim (i «costretti»), dei nuovi cristiani, dei marrani, tutte definizioni che si riferiscono a uomini e donne che dalla fine

del XV secolo vissero una drammatica doppia identità: in pubblico come cristiani, ma segretamente, nell’intimità delle loro case, continuarono a osservare il giudaismo. Le loro migrazioni furono dovute alle indagini dell’Inquisizione, destinate a scovare e castigare i cripto-giudei che portavano una maschera di cristianità, e ai famosi statuti di purezza di sangue, che facevano dei marrani, sudditi di seconda categoria. La storia dei

conversos dalla penisola iberica è una storia di identità segrete, nascoste e mutevoli. Le loro tradizioni uniche e particolari durarono per generazioni, dimostrando la forza e la resilienza di un’intera comunità. info tel. 051 2911280; e-mail: didattica@museoebraicobo.it RIMINI RAFFAELLO A RIMINI. IL RITORNO DELLA MADONNA DIOTALLEVI Museo della Città «Luigi Tonini» fino al 10 gennaio 2021

Anche Rimini si unisce alle celebrazioni per il cinquecentenario della morte di Raffaello riportando in città la Madonna Diotallevi, opera giovanile dell’Urbinate che porta il nome del suo ultimo proprietario privato, il marchese riminese Audiface Diotallevi, e oggi facente parte delle collezioni dei Musei Statali di Berlino. La splendida tavola, oltre a consentire di ammirare un frutto ancora acerbo ma già carico di promesse dell’arte di Raffaello, si rivela un mezzo straordinario tramite il quale raccontare la Rimini dell’Ottocento, i suoi piú eminenti personaggi, le collezioni che svelano una ricchezza artistica finora insospettata. info www.museicomunalirimini.it

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AGENDA DEL MESE TORINO INCENSUM Musei Reali, Spazio Passerella del Museo di Antichità fino al 10 gennaio 2021

La mostra ospita come special guest una materia prima meravigliosa ed estremamente evocativa, il franchincenso o lacrime degli Dèi. Cristalli lattiginosi con sfumature verdi che ancora oggi sono estratti e lavorati in quello che gli esploratori definivano un mondo a parte, il sultanato dell’Oman. Piú precisamente è nella regione del Dhofar che troviamo la Valle dell’Incenso, un luogo straordinario, in cui crescono numerosi alberi di Boswellia sacra. Una mostra che racconta una storia lunga piú di cinque millenni. La suddivisione delle tematiche presentate lungo il percorso è sia cronologica che geografica, trasversale a piú culture, attestata non solo lungo il bacino

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione nella grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie

sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. info tel. 055 294883; www.uffizi.it del Mediterraneo, ma ben oltre, verso la Cina e il Giappone, civiltà che hanno associato all’incenso pratiche liturgiche, abitudini e costumi di vita, in modo particolare dei circoli intellettuali. info www.perfumumtorino.com FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 31 gennaio 2021

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SENIGALLIA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Palazzo del Duca fino al 31 gennaio 2021

Va in scena a Senigallia, in Palazzo del Duca, la terza e ultima tappa della mostra «Rinascimento marchigiano. Opere d’arte restaurate dai luoghi del sisma», che, per l’occasione, si arricchisce ulteriormente, presentando

una quarantina di opere. In particolare, per la prima volta dopo il sisma, viene ricomposto l’intero ciclo di Jacobello del Fiore con le Scene della vita di Santa Lucia proveniente dal Palazzo dei Priori di Fermo, presentato parzialmente nelle tappe precedenti. Di grande valore culturale è anche la campana databile al XIII secolo e molto probabilmente realizzata per la canonizzazione di san Francesco avvenuta nel 1228: si tratta della piú antica campana francescana arrivata ai nostri giorni. Da segnalare poi una stauroteca, contenente un frammento della vera croce e una coppia di reliquiari, realizzati nel XVIII secolo dall’orafo argentiere Pietro Bracci, romano di origine, ma molto attivo nelle Marche. info e-mail: circuitomuseale@ comune.senigallia.an.it MANTOVA RAFFAELLO TRAMA E ORDITO. GLI ARAZZI DI PALAZZO DUCALE A MANTOVA Complesso Museale Palazzo Ducale fino al 7 febbraio 2021

Il programma delle celebrazioni per il V centenario della scomparsa di Raffaello Sanzio vede protagonista anche Mantova, città che conserva una preziosa testimonianza del genio urbinate. Il ciclo degli arazzi con le Storie dei Santi Pietro e Paolo conservato a Palazzo Ducale fu infatti realizzato nelle Fiandre a partire dai cartoni preparatori realizzati dalla bottega di Raffaello:

questi enormi fogli dipinti commissionati da papa Leone X, in parte conservati al Victoria & Albert Museum di Londra, servirono a realizzare il celebre ciclo destinato a ornare le pareti della Cappella Sistina in Vaticano. L’edizione mantovana, che segue cronologicamente l’editio princeps romana, è dunque un’opera di straordinario pregio, certamente tra i pezzi piú costosi e prestigiosi della portentosa collezione d’arte dei Gonzaga. La mostra presenta documenti legati alla storia del ciclo, dall’acquisto da parte di Ercole Gonzaga fino alle piú recenti vicende novecentesche. info tel. 0376 224832; https:// mantovaducale.beniculturali.it FIRENZE IMPERATRICI, MATRONE, LIBERTE. VOLTI E SEGRETI DELLE DONNE ROMANE Galleria degli Uffizi fino al 14 febbraio 2021

La mostra pone a confronto gli opposti modelli che caratterizzano la rappresentazione femminile nel mondo romano, e infatti si articola in tre sezioni: gli exempla femminili negativi, i modelli positivi e infine il ruolo pubblico concesso alle matrone. L’arco temporale preso in esame comprende un periodo ampiamente documentato, quello aureo del Principato, che va dall’ascesa di Augusto alla morte di Marco Aurelio. Le opere esposte sono sculture, epigrafi, gemme e disegni, in gran parte appartenenti alla collezione delle Gallerie degli Uffizi, e con prestiti da altre istituzioni. info tel. 055 294883; www.uffizi.it



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

IL MILLENNIO DELL’AMORE

«Q

ualcuno mi dice che cos’è l’amore?», scrive il poeta Walther von der Vogelweide (1170-1230), celebre cantore della lirica cortese tedesca. A dispetto degli stereotipi, gli uomini dell’età di Mezzo vissero le pulsioni sentimentali in modo intenso e disinibito. Lo riferiscono molti testi bassomedievali sull’argomento, trattando con una certa spregiudicatezza temi ritenuti scabrosi: il sesso come bisogno naturale, i rimedi per la contraccezione, la tolleranza verso le relazioni omosessuali e il maggior rilievo assegnato alla donna nella dinamica dei rapporti di coppia... E proprio l’emergere della figura femminile assume un ruolo dominante in un periodo che segna un nuovo inizio nella raffigurazione delle passioni. Con la rivoluzione cortese, il Medioevo concepisce una sua «arte di amare», immortalandola nei versi dei poeti provenzali, dei Minnesänger tedeschi e poi degli stilnovisti italiani. Ancor prima nel tempo, era invalsa la pratica delle «lettere d’amore», sotto forma di messaggi affettuosi che le giovani nobili inviavano ai propri spasimanti dai banchi delle aule monastiche. Con il nuovo Dossier, «Medioevo» presenta insomma la storia di una grande «scoperta» che incise profondamente nel destino della cultura occidentale: l’invenzione dell’amore, che ebbe i suoi eroi simbolo in coppie perlopiú sventurate: Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, Abelardo ed Eloisa…

A NE MO L M RE ED E SE IO SS EV O O

LO/MI. L. 46/2004, art. 1, c.1, . - D.L. 353/2003 conv.

GLI ARGOMENTI

• GIOCHI DI COPPIA Una certa idea dell’amore

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MEDIOEVO DOSSIER

MEDDosIOsiEer VO

• PECCATI E PIACERI Il diavolo in corpo • COSTUMI SESSUALI Il tempo del piacere La contraccezione

LA VITA DI COPPIA IL POTERE DELL’EROS E ● MORALE E REPRESSION

• CANTAR D’AMORE I trovatori La Divina Commedia I Minnesänger

I TROVATORI ● ABELARDO ED ELOISA ● LE DONNE DI DANTE

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TRISTANO E ISOTTA

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• AMORI ILLUSTRI Abelardo ed Eloisa Tristano e Isotta

Il cantore Tannhäuser intrattiene con la sua musica la corte di Ermanno I (langravio di Turingia dal 1190 al 1217), nel castello di Wartburg. Affresco dal ciclo figurativo che illustra la saga di Tannhäuser, dipinto nello studio del castello di Neuschwanstein, in Baviera (Germania). 1890 circa.



luoghi vercelli

I segreti di Vercelli

testi di Alessandro Barbero, Gianna Baucero, Francesco Colotta, Alice Colombo e Daniele De Luca

medievale Luoghi e monumenti di straordinaria suggestione, protagonisti e memorie di un passato «internazionale»: una mostra e la contestuale pubblicazione di un libro dello storico Alessandro Barbero concorrono a raccontare la storia della città piemontese nell’età di Mezzo. Un invito alla visita...

La nebbia avvolge la sagoma inconfondibile delle torri e dei campanili che caratterizzano la basilica vercellese di S. Andrea, costruita a partire dal 1219, per volere del cardinale Guala Bicchieri, che la consacrò il 7 dicembre 1225 (i lavori furono però portati a termine nel 1227).

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epoca dal IX al XIV secolo fu un arco di tempo particolarmente intenso e florido per Vercelli. Seguendo le vicende della diocesi e del comune, oltre che dell’università e delle grandi famiglie aristocratiche urbane, si riescono a percepire in modo inedito l’organizzazione del potere, le forme della vita quotidiana, le ideologie politiche e religiose e gli sviluppi della cultura. A Vercelli si realizzano le grandi opere architettoniche, impossibile non menzionare l’abbazia di S. Andrea (1219-1227), ma anche le chiese a impianto medievale del centro storico come S. Bernardo, S. Paolo, S. Francesco, la Cattedrale (ancora presente l’impianto dell’antico campanile) e i grandi tesori custoditi nelle biblioteche e negli archivi della città. Certamente, tra i grandi protagonisti della Vercelli immediatamente pre-medievale, non è possibile omettere la missione pastorale di sant’Eusebio (IV secolo) che, grazie alla predicazione diffusa lungo il territorio che oggi conosciamo come Piemonte, rese la città e la

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luoghi vercelli LA CITTÀ 2 1

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Pianta di Vercelli con i principali monumenti civili e religiosi: 1. Abbazia di S. Andrea; 2. Cattedrale di S. Eusebio; 3. Castello; 4. Ex Ospedale Maggiore; 5. Polo espositivo ARCA; 6. S. Giuliano; 7. Torre dei Tizzoni; 8. S.Chiara; 9. Torre del Comune; 10. Torre dell’Angelo; 11. S. Cristoforo; 12. S. Salvatore; 13. Torre dei Vialardi.

diocesi imponenti e colme di grazia evangelica, tanto da lasciare importanti segni anche nei secoli successivi. Di particolare rilievo fu il periodo ottoniano, quello degli imperatori del Sacro Romano Impero originari della Sassonia, che governarono dalla fine del X secolo all’inizio dell’XI prendendo il nome da Ottone I, detto il Grande (912-973), acclamato imperatore nel 955. L’area germanica ottoniana, cuore effettivo dell’impero, conserverà il governo di tutto l’Occidente influenzando anche, e in modo significativo, la realtà della Chiesa attraverso il Privilegium Othonis. Importante si rivelerà anche la politica culturale sviluppata nell’area milanese, pavese e vercellese. Tra le figure di spicco della politica imperiale del tempo, allorché i vescovi assurgono alla

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dignità di «vescovi-conti», emerge il vescovo Leone di Vercelli, ecclesiastico seguace di Ottone III; Leone (nativo di Hildesheim), arcidiacono nel 998 e referente dell’imperatore a Roma, fu nominato vescovo di Vercelli intorno al 998/999 proprio dal sovrano. Intensa fu per il presule l’attività politica che lo vide, fra l’altro, sostenitore di Enrico II e di Corrado II, e attenta fu la sua opera quale referente strategico nei rapporti tra il papa e l’imperatore. Al periodo sono legati alcuni diplomi imperiali, svelati dall’Archivio Storico della Diocesi e dall’Archivio Capitolare, che ci indicano il vescovo Leone come riferimento primario di alcune concessioni di Ottone III in favore della Chiesa di Vercelli. (segue a p. 23) dicembre

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Uno dei campanili della basilica di S. Andrea sotto la neve.

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luoghi vercelli La facciata della basilica di S. Andrea spicca per lo straordinario impatto cromatico, con il gioco tra il verde della pietra principale, il rosso dei mattoni e il bianco del colonnato. Nella pagina accanto l’apertura della Homily XXI del Vercelli Book o Codex Vercellensis, un’antologia in versi e in prosa redatta in Old English alla fine del X sec. Vercelli, Museo del Tesoro del Duomo.

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Vercelli e l’Inghilterra

Il «regalo» di un pellegrino? Vercelli è una città antica, il cui nome deriverebbe da Wehr Celt, o «Rocca dei Celti», in omaggio alla popolazione che vi si insediò nel IV secolo a.C. Nell’89 a.C. fu conquistata dai Romani, che ne fecero un municipium e la ribattezzarono Vercellae. In epoca romana si affermò come importante nodo viario lungo le principali arterie di comunicazione tra il nord e il sud dell’impero. Nel IV secolo d.C. divenne la prima diocesi del Piemonte: il suo vescovo era Eusebio, che tradusse in latino i Vangeli legando cosí il nome della città a un manoscritto unico al mondo, il Codex Vercellensis Evangeliorum. Con le invasioni barbariche la città entrò in una fase buia, cadendo sotto il dominio del Longobardi nel 568, dei Franchi agli inizi del IX secolo e degli Ungari nell’889. La situazione migliorò con l’avvento del Comune, nel XII secolo, quando Vercelli prese parte alla battaglia di Legnano del 1176. Ma il momento «magico» fu il XIII secolo, l’epoca di Guala Bicchieri, un vercellese che diventò legato di Innocenzo III e venne mandato in Inghilterra a risolvere la terribile crisi politica creata dallo scellerato re Giovanni Senza Terra. Di ritorno dalla missione, nel 1219 Guala si fermò nella sua città natale e fondò la Basilica di S. Andrea. Pochi sanno che durante il suo soggiorno inglese Guala scrisse a Onorio III per autorizzare la costruzione della nuova Cattedrale di Salisbury, che resta tra le chiese piú belle d’Inghilterra. Pochi anni dopo, nel 1228, nella città piemontese fu fondato lo Studium in collaborazione con l’Università di Padova, il che fece di Vercelli una delle prime città universitarie d’Italia e d’Europa. In quel tempo i canonici di S. Andrea amministravano anche la chiesa e i beni di St.Andrew’s Chesterton, presso Cambridge, che nel 1217 Guala aveva ricevuto in dono da Enrico III in segno di gratitudine. I rapporti tra la basilica vercellese e St. Andrew’s continuarono sino al 1444 e contribuirono ad attirare in città un gran numero di visitatori britannici. Non a caso, fra le circa trenta strutture ospitaliere che operavano in loco nel Medioevo, una era riservata proprio ai viandanti in transito da o per le isole britanniche. Si chiamava Hospitale Santa Brigida degli Scoti e forse proprio lí un pellegrino in cammino lungo la via Francigena lasciò il noto Vercelli Book, un codice membranaceo del tardo X secolo redatto in Old English, la cui presenza a Vercelli resta ancora un mistero. In tutto il mondo, infatti, esistono solo altri tre codici analoghi e tutti si trovano in Inghilterra. Non si è mai scoperto chi abbia portato il manoscritto a Vercelli e perché, ma si sa che

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l’opera è redatta in inglese antico, la lingua che scomparve con la conquista normanna. Il manoscritto, perfettamente conservato, contiene componimenti religiosi, alcuni dei quali, come Il Sogno della Croce, sono considerati patrimonio dell’umanità. Vercelli crocevia di fede, dunque, ma anche di commercio, politica e pensiero. Questa era la città in età medievale, quando i viandanti in transito erano cosí numerosi che, a quanto si racconta, davanti alla basilica si incontravano le bancarelle dei cambiavalute e probabilmente si conversava in molte lingue. Ancora oggi Vercelli occupa un posto importante sulla Via Francigena. Nel 2019, invece, in occasione degli ottocento anni della basilica di S. Andrea, la città ha ospitato la Magna Carta di Hereford, che è un originale del documento concesso da Guala Bicchieri nel 1217. La prima Magna Carta fu annullata nell’agosto dello stesso anno da una bolla papale di Innocenzo III. Se non fosse stata riproposta da Guala Bicchieri e William Marshal nei due anni seguenti, essa sarebbe uscita di scena per sempre. Proprio grazie a un vercellese, dunque, il documento piú famoso del mondo ha potuto diffondere il suo messaggio di democrazia. Gianna Baucero

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luoghi vercelli Il Concilio di Vercelli svoltosi nel 1050 (riunito per sanzionare le tesi eretiche del filosofo Berengario di Tours) lasciò un segno memorabile nella storia ecclesiastica locale e internazionale per la significativa presenza entro le mura di influenti personalità del tempo. Il luogo in cui (forse) maggiormente si svolsero le sessioni conciliari, l’antica basilica di S. Maria Maggiore, la «Basilica maior» di origine costantiniana dove i vescovi, con grande solennità, prendevano possesso della seduta principale, è oggi scomparso.

Quelle ventitré omelie...

Tra le testimonianze documentali piú significative di quel periodo, si menziona il Vercelli Book, custodito presso il Museo del Tesoro del Duomo: manoscritto membranaceo redatto in uno Scriptorium del Sud-Est inglese verso la fine del X secolo (vedi box a p. 21). La lingua in cui è vergata l’opera è l’anglosassone. Il volume contiene ventitré omelie in prosa concernenti importanti solennità della Chiesa e sei componimenti poetici. La sua rilevanza letteraria e storica risiede nel fatto che, insie-

borghi del Nord e del Centro Italia avviene cosí il distacco dal mondo feudale: resesi indipendenti dal potere imperiale, diverse città si costituiranno in Liberi Comuni. Nel XII secolo sarà Federico Barbarossa che, con l’incoronazione del 1152 alla guida del Sacro Romano Impero, tenterà una difficile e controversa restaurazione, anche a livello locale, contro le libertà comunali. La battaglia di Legnano (1176) segnerà la sconfitta del Barbarossa nei confronti della neocostituita Lega Lombarda e condurrà alla successiva «Pace di Costanza», siglata nel 1183 mediante un accordo tra l’imperatore e i rappresentanti dei comuni alleati. Anche Vercelli, che aveva aderito alla Lega Lombarda nel dicembre 1167, parteciperà a questo importante avvenimento. me ad altri tre codici coevi conservati nel Regno Unito, contiene una buona parte della produzione poetica in antico inglese. Infatti, ben undici delle ventitré omelie sono attestate unicamente nel Vercelli Book e costituiscono, pertanto, un documento linguistico e culturale preziosissimo. Il suo arrivo a Vercelli è attestabile presumibilmente tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo. Con la fine delle grandi invasioni si rinvigorisce la stabilità dei territori e delle città, e anche il mondo culturale trae beneficio da questa situazione. Per molti

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Le grandi opere del cardinale

Con il XIII secolo prosegue la rinascita intellettuale dei comuni, che vede Vercelli protagonista di straordinari avvenimenti. È il florido periodo del cardinale Guala Bicchieri. Grazie al suo ruolo politico ed ecclesiastico internazionale, soprattutto a seguito delle sue legazioni in Francia e Inghilterra, prendono vita le grandi opere della città: l’Abbazia di S. Andrea e l’antico Ospedale di Vercelli (noto oggi come il Dugentesco). Il comune di quel tempo si distingue in particolare per le attividicembre

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In alto e a destra due immagini dell’interno della basilica di S. Andrea. Nella pagina accanto, in basso diploma imperiale con il quale Ottone III prende sotto la propria protezione i canonici di Vercelli con tutti i loro beni, stilato il 31 dicembre 997. Vercelli, Archivio Capitolare.

tà civili, le cui testimonianze attestano la presenza fra Duecento e Trecento di un insediamento universitario. La potenza dell’impero si affievolisce dopo le sconfitte di Federico Barbarossa a Legnano (1176) e, piú tardi, di Manfredi a Benevento (1266) segnando cosí la fine del dominio politico imperiale su gran parte della Penisola. Enrico VII di Lussemburgo tenterà nel 1308 di restaurare il potere imperiale in Italia trovan-

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do, però, molte difficoltà con papa Clemente V e Roberto d’Angiò (re di Napoli 1309-1343). Nel frattempo, anche Vercelli era stata investita dalle lotte tra guelfi e ghibellini: rispettivamente le famiglie dominanti degli Avogadro da una parte, e dei Bicchieri e dei Tizzoni dall’altra. Nel 1335, la città passa sotto il dominio dei Visconti, un governo che vide alternarsi periodi di relativa pace e prosperità con fasi turbolente.

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Immagini del chiostro della basilica di S. Andrea. A pianta rettangolare, presenta arcate a tutto sesto, rette da fasci di quattro colonnine romaniche. Negli intradossi degli archi, si conservano decorazioni dipinte con motivi geometrici e «grottesche».

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Nel 1378 prende corpo il noto Scisma d’Occidente, con papa Gregorio XI che torna a insediare nuovamente a Roma la sede apostolica. L’Europa si divide cosí tra due pontefici fino al 1417, anno della fine del Grande Scisma. In questo periodo particolare, dal punto di vista religioso, culturale e politico, il papato perde il carisma dei secoli precedenti lasciando spazio all’aristocrazia e alla nuova borghesia locale. A quest’epoca si riferisce l’imponente (240 cm) pergamena proveniente dal Fondo Caresana della Biblioteca Diocesana Agnesiana; il documento è di grande interesse poiché descrive minuziosamente il patrimonio fondiario di un membro della piccola aristocrazia del contado vercellese del XIV secolo. Sappiamo infatti che la famiglia dei de Dionixiis si affermò, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, grazie al rapporto di dipendenza instaurato con i Canonici della Cattedrale di Vercelli, proprietari di vasti beni fondiari nell’area di Caresana. Alla fine del Medioevo, il matrimonio di Filippo Maria Visconti con Maria, figlia del duca Amedeo VIII di Savoia, proietta Vercelli nella sfera di influenza sabauda. Daniele De Luca

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luoghi vercelli alessandro barbero e vercelli

Un Medioevo da scoprire e da studiare

Il caso, che è tanto importante nelle nostre vite quanto nella storia, mi ha condotto a Vercelli nel 1998, come professore associato (e poi, dal 2003, professore ordinario) di storia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro». Non sempre le destinazioni accademiche comportano anche una svolta nell’orientamento degli studi e della ricerca, ma Vercelli è una città a cui un medievista, cresciuto a Torino alla scuola di Giovanni Tabacco, non poteva restare indifferente. Importante centro di cultura episcopale, di riflessione teologica e filosofica, di produzione e conservazione di manoscritti nell’Alto Medioevo – ed è una problematica a cui ha dedicato importanti ricerche la mia collega sulla cattedra vercellese, Germana Gandino – Vercelli è stata nel XII e XIII secolo una delle città comunali piú vivaci in un’area, il Piemonte, che solo negli anni in cui io ero studente ha cessato d’essere considerata come «feudale», periferica e arretrata rispetto all’Italia dei comuni, per venire invece riscoperta come una delle aree originali d’incubazione del movimento comunale. Lo sviluppo delle istituzioni cittadine, la dialettica con il potere episcopale, la formazione

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di un’inquieta aristocrazia di milites e di combattive società di popolo, i feroci conflitti delle parti hanno avuto in Vercelli un teatro piú modesto, sí, come dimensioni rispetto alle piú popolose città della Lombardia medievale, ma non certo in ritardo sui tempi né privo di sviluppi originali e di conseguenze durature. Piú tardi, nei secoli XIV e XV, Vercelli ha avuto il destino, unico fra le civitates dell’Italia di Nord-Ovest, di appartenere per quasi un secolo alla dominazione viscontea, e poi di passare bruscamente sotto il dominio sabaudo; la città e le sue élites hanno quindi dovuto imparare per due volte a reinventare il proprio ruolo all’interno di due Stati principeschi molto diversi, uno italiano e l’altro d’impronta transalpina. Nell’epoca in cui i nascenti Stati regionali negoziavano le proprie prerogative e le proprie entrate con i gruppi dirigenti delle città che venivano via via assorbite nella loro orbita, e le istituzioni comunali continuavano a sopravvivere con indiscussa vitalità sotto il controllo del potere signorile, Alessandro Barbero e, qui sotto, la copertina del suo ultimo libro, Vercelli medievale, pubblicato per i tipi della Gallo Arti Grafiche.

Vercelli ha costituito un laboratorio di grande interesse per lo storico che al di là di una prospettiva meramente istituzionale cerchi di comprendere le effettive dinamiche del potere, in quella società colpita, sí, da epidemie, guerre e carestie, ma che dimostrava di fronte a queste sfide una straordinaria capacità di reazione. Ho dunque cominciato a studiare il Medioevo a Vercelli poco dopo aver cominciato a insegnare nella sua università. E non ho piú smesso di farlo, grazie anche alla ricchezza dei suoi archivi, tale da fare invidia sotto certi aspetti a città ben piú importanti. Penso alle carte dell’Archivio vescovile e dell’Archivio capitolare, già soltanto le piú antiche delle quali, pubblicate fin dall’inizio del Novecento nella «Biblioteca della Società Storica Subalpina» del Gabotto, costituiscono un materiale di enorme interesse; ai fondi di famiglie nobili e di enti religiosi conservati all’Archivio di Stato (ma anche all’Archivio di Stato di Biella); e alle stupende fonti dell’Archivio Storico del Comune, senza dubbio da questo punto di vista uno dei piú ricchi del Piemonte, con le sue serie di protocolli notarili, di libri contabili e di registri giudiziari, e con i preziosi cartulari e libri iurium prodotti dal comune, prima fra tutte la serie dei Biscioni. Ma tutto questo non è ancora sufficiente a spiegare come mai lo studio della Vercelli medievale mi abbia assorbito fin dall’inizio e cosí a lungo. Non si capirebbe il percorso di cui questo libro è il risultato senza lo stimolo continuo rappresentato dall’attività della Società Storica Vercellese. Una società che sotto la guida, al mio arrivo, del suo storico fondatore e animatore, Rosaldo Ordano, e poi in tempi piú recenti sotto dicembre

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A destra piazza Cavour, l’antica «Piazza Maggiore», nel cuore del centro storico. In basso il broletto di Vercelli.

quella di Giovanni Ferraris ha dato enorme impulso ai suoi congressi, aumentando vistosamente il numero, se non la qualità (altissima fin dall’inizio) dei relatori e la mole degli atti, e coordinando proficuamente il lavoro di tutti gli studiosi interessati alla storia della Vercelli medievale, in un modo che non ha uguali, io credo, in nessun’altra città, oltre a continuare la regolare pubblicazione del «Bollettino Storico Vercellese» in cui mi onoro di aver pubblicato il primo dei saggi compresi in questo volume. In questo contesto ho potuto approfondire, studiando il caso vercellese, due linee di ricerca che mi sono sempre state care e che avevo già sviluppato prima di approdare a Vercelli: lo studio del mondo aristocratico, signorile e feudale, e quello dello Stato tre-quattrocentesco, in particolare dello Stato sabaudo. Il contesto di un ventennio di ricerche sulla Vercelli medievale non sarebbe completo senza menzionare la vitalità

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culturale assicurata alla città dalla presenza di un’attenta e illuminata Fondazione bancaria, i cui presidenti e segretari hanno sempre dimostrato la massima disponibilità verso le necessità della ricerca e dell’editoria, e il lievito aggiunto dalla presenza della Facoltà di Lettere e Filosofia, oggi Dipartimento di Studi Umanistici, alle cui iniziative – che si tratti di congressi, come quello recente per il centenario della basilica di S. Andrea, organizzato dal collega Saverio Lomartire, o di progetti di ricerca come gli scavi del monastero di Castelletto, diretti dalla collega Eleonora Destefanis – sono da ricondurre alcuni dei saggi

qui riproposti; mentre altri ancora, soprattutto quelli proiettati sul quasi invisibile trapasso dal Medioevo all’Età Moderna, devono molto al dialogo con il collega Claudio Rosso. Piú in generale, studiare la Vercelli medievale ha significato confrontarmi continuamente con altri studiosi egualmente attirati dalla ricchezza delle sue fonti e dei problemi che pongono: come Rinaldo Comba e i suoi scolari milanesi – Paolo Grillo, Riccardo Rao, Beatrice Del Bo –, come tanti colleghi torinesi, da Francesco Panero a Paolo Rosso, come gli studiosi cresciuti nel seno della Società Storica Vercellese, da Gianmario Ferraris a Giorgio Tibaldeschi. Ai ricordi di tante discussioni durante le cene al Paiolo, al Giardinetto o alla Vecchia Brenta, all’amicizia della Società Storica Vercellese e del suo presidente Giovanni Ferraris che hanno accettato di pubblicare questo volume, e al ricordo di Rosaldo Ordano cui si deve la rinascita degli studi sulla Vercelli medievale, è dedicata questa raccolta degli articoli che dal 2003 al 2018 ho pubblicato su temi e problemi del Medioevo vercellese, cui sono particolarmente felice di aggiungere anche alcuni inediti che finora non avevano ancora potuto vedere la luce. Alessandro Barbero

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La mostra La mostra «I segreti della Vercelli medievale» è allestita nello spazio espositivo ARCA, ricavato nella navata centrale dell’ex chiesa di S. Marco. L’esposizione prende le mosse dagli studi condotti da Alessandro Barbero (vedi box alle pp. 26-27) e illustra le opere d’arte e i documenti che testimoniano l’importanza del capoluogo piemontese nel Medioevo. Info tel. 351 6221629; e-mail: prenotazioni.vercelli@gmail.com; www.comune.vercelli.it

In alto, a sinistra diploma episcopale con la donazione del vescovo Attone ai canonici di S. Maria e S. Eusebio di Vercelli. 945. Vercelli, Archivio Capitolare. Qui sopra il Crocifisso in lamina d’argento nella cattedrale di S. Eusebio. X sec. A sinistra iniziale miniata D in un breviario realizzato in uno scriptorium della Francia settentrionale. Inizi del XIII sec. Vercelli, Biblioteca Capitolare.

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In alto, a sinistra pagine del I volume della raccolta di codici detta Biscioni. 1337-1345. Vercelli, Archivio Storico del Comune di Vercelli, Sezione Codici. In alto, a destra pagina del Codice A, Codex Vercellensis

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Evangeliorum. IV sec. Vercelli, Biblioteca Capitolare. In basso la legatura in argento sbalzato e dorato del codice A, Codex Vercellensis Evangeliorum. Oreficeria lombarda, metĂ del X sec. Vercelli, Museo del Tesoro del Duomo.

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IN VIAGGIO CON IL CARDINALE L’uomo simbolo della «vocazione internazionale» di Vercelli nel Medioevo fu il cardinale Guala Bicchieri, inviato in Inghilterra da papa Innocenzo III come legatus a latere. Dotato di virtú diplomatiche e talento giuridico, forní un contributo determinante alla stesura della Magna Charta di Francesco Colotta Sulle due pagine ancora un’immagine della basilica di S. Andrea. Nella pagina accanto ritratto del cardinale Guala Bicchieri.

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n Vercellese illustre figura nella schiera dei grandi personaggi del Medioevo britannico. Il porporato Guala Bicchieri sbarcò oltremanica il 20 maggio del 1216 con una missione quasi disperata da compiere: salvare la turbolenta Inghilterra dalla guerra baronale e dall’invasione francese. Come legato aveva ricevuto l’incarico da papa Innocenzo III di mettere ordine in un regno di eccezionale importanza strategica per la cristianità occidentale, sul quale governava il plantageneto Giovanni Senza Terra. Giovanni, facile all’irascibilità e affetto da patologica megalomania, aveva dichiarato guerra alla Chiesa per una questione che sembrava solo «di principio». Nel 1205 il sovrano si era infatti opposto alla nomina del nuovo arcivescovo di Canterbury, eletto dai monaci della città del Kent, indispettendo papa Innocenzo III che mirava invece a piazzare i suoi uomini negli arcivescovadi con l’obiettivo di attuare il progetto di riforma del clero deliberato dal Concilio Laterano del 1179. La controversia sulla nomina dell’arcivescovo di Canterbury era presto degenerata in uno scontro tra poteri con atti di vicendevole belligeranza: l’espulsione dei religiosi di Canterbury e, per ritorsione, la scomunica del sovrano decretata dal pontefice nel 1209. Ma il dissidio piú violento – come noto – contrapponeva la corona a una schiera di nobili, i quali si sentivano vessati dal costante aumento dei tributi. Alcuni tra i ribelli avevano stretto un’alleanza con il figlio del

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luoghi vercelli «costituzione» che assegnava agli aristocratici una serie di prerogative in materia feudale. Il documento, tuttavia, cosí come era stata formulato, ledeva gli interessi del possessore dei diritti feudali sul regno – la Chiesa di Roma – che dichiarò subito nullo il provvedimento. Saggiamente, però, il pontefice, mosse le sue pedine diplomatiche e affidò nel 1216 a un cardinale adatto alla mansione, Guala Bicchieri, il compito di risolvere in loco la controversia. Lo inviò in terra britannica come legatus a latere, il titolo piú alto della gerarchia degli ambasciatori ecclesiastici che spesso valeva come credenziale per un candidato al soglio pontificio.

Un potere enorme

sovrano di Francia, Luigi VIII, che da tempo stava pianificando un’invasione dell’Inghilterra. Visto il precipitare degli eventi, Giovanni Senza Terra aveva deciso di moderare gli intenti bellicosi, scendendo a patti prima con la Chiesa e in seguito con i nobili in rivolta: a questi ultimi concesse nel 1215 la Magna Charta, una nuova

Il porporato vercellese si trovò investito di un enorme potere in Inghilterra: oltre a rappresentare il papa, ricevette dal re morente Giovanni l’incarico di occuparsi della tutela del giovanissimo erede al trono, Enrico III. Si ipotizza che sia stato proprio Guala Bicchieri a incoronare Enrico nella cattedrale di Gloucester, preferita in quell’occasione alla tradizionale sede di Canterbury per evitare un’imboscata nemica. Guala Bicchieri si mise al lavoro con un gruppo di saggi per stilare una seconda versione della Magna In questa pagina il cofanetto del cardinale Guala Bicchieri. 1220-1225. Vercelli, Museo Leone. Nella pagina accanto, a sinistra lunetta del portale sinistro della basilica, con il rilievo raffigurante Guala Bicchieri che offre il modellino della chiesa a sant’Andrea. Nella pagina accanto, a destra, in alto il portale mediano della basilica di S. Andrea, con il rilievo raffigurante il martirio del santo al quale la chiesa è intitolata.

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Charta. Il suo contribuito si rivelò determinante nel perfezionamento della riforma, operando nella duplice veste di esperto di materie giuridiche e di religioso dalla spiccata sensibilità sociale. Nei suoi anni a Vercelli era stato infatti testimone della difficile convivenza delle leggi comunali con quelle imperiali, ovvero degli interessi della nascente borghesia cittadina con le pretese dei sovrani germanici.

Come una crociata

Nell’immediato, il nuovo provvedimento ebbe pochi riflessi di pace. I nobili ribelli, spalleggiati dal regno di Francia, restavano sempre sul piede di guerra e solo in un secondo momento avrebbero meditato di rompere l’alleanza. Nel frattempo, a ogni modo, le fila dell’esercito inglese si erano rafforzate proprio grazie a un’abile iniziativa strategica di Guala Bicchieri, il quale aveva impresso al conflitto con gli invasori francesi lo stigma della crociata. Alla vigilia della grande controffensiva inglese, il religioso arringò i soldati invitandoli a liberare la propria terra dagli infedeli: il 20 maggio 1217, l’esercito assediò il castello di Lincoln, una delle principali roccaforti nemiche, e prevalse. I Francesi in seguito si arresero, sottoscrivendo il duro trattato di Lambeth, altro atto valutazione negativa andava anche oltre le analisi strettamente documentali, imputando agli Italiani inviati dal papa un atteggiamento in genere avido e utilitaristico. Questa stroncatura trasse ispirazione dalle tesi di due cronachisti britannici coevi, Ruggero di Wendover e Matteo Paris, che negli anni della Riforma protestante conobbero una grande fortuna in funzione anticattolica.

Le fatiche (premiate) del cardinale

concepito con la supervisione di Guala Bicchieri. Luigi VIII fu accompagnato personalmente dal cardinale e da una scorta armata sulla costa meridionale dell’Inghilterra, dalla quale prese il largo verso la madrepatria. Una parte della storiografia inglese non espresse un giudizio lusinghiero sull’operato del dinamico legato di Vercelli. Alcuni rilievi critici derivavano dal fatto che diversi connazionali del porporato erano diventati proprietari di beni espropriati al clero filo-francese. Ma la

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Ufficialmente, però, nelle alte sfere della politica inglese, il lavoro del cardinale venne giudicato piú che prezioso: lo dimostra il generoso atto di donazione concesso da Enrico III nei confronti del suo vecchio tutore. Al prelato il monarca cedette l’abbazia di S. Andrea a Chesterton, presso Cambridge, un bene molto redditizio, allegando un esplicito encomio al beneficiario, il quale «aveva faticato a lungo e con sacrificio per la nostra pace e per quella del nostro regno». Guala Bicchieri decise di girare la donazione a una comunità di canonici agostiniani di Vercelli e utilizzò, poi, i proventi che derivavano da Chesterton per costruire una grande basilica della sua città dedicata anch’essa a sant’Andrea. La chiesa inglese nel 1440 cambiò proprietario per via forzosa, con una decisione d’ufficio di Enrico IV, passando al King’s Hall di Cambridge (oggi Trinity College, compreso nel complesso universitario cittadino). I Vercellesi lo considerarono un esproprio e si rivolsero nel 1480 a papa Sisto IV, ma il pontefice non riuscí a ottenere risultati con la sua azione diplomatica.

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luoghi vercelli

UNA CITTĂ€ DI CHIESE E TORRI

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di Alice Colombo La cittĂ di Vercelli, anche se si presenta con un aspetto profondamente modificato dal corso dei secoli, risulta tuttavia fortemente caratterizzata dalla presenza di edifici medievali, che continuano ad essere parte integrante della vita cittadina e a rappresentare una pre-

Veduta prospettica di Vercelli realizzata dal disegnatore tedesco Friedrich Bernhard Werner (1690-1778).

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ziosa testimonianza storica, artistica e culturale del suo prestigio. L’aspetto di Vercelli nel Medioevo era quello di una fiorente cittadina, caratterizzata dalla presenza di diverse torri. Alcune di esse appartenevano alle nobili famiglie vercellesi e altre erano le torri campanarie delle moltissime chiese che sorgevano in città . Alcune di esse sono ancora visibili oggi, mentre altre sono state modi-

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ficate nel tempo e in alcuni casi distrutte, in particolar modo quelle civili, durante le guerre tra guelfi e ghibellini che caratterizzarono la storia di molti centri urbani italiani nel Basso Medioevo. La cattedrale di S. Eusebio, il Duomo di Vercelli, conserva le tracce di una della piĂş antiche basiliche cristiane del Vercellese, voluta dallo stesso Eusebio, nel IV secolo,

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luoghi vercelli Veduta notturna della Torre dei Vialardi, una delle meglio conservate di Vercelli. Eretta nel XV sec. è a pianta ottagonale e si conclude con una serie di finestre ogivali.

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In questa pagina l’esterno e l’interno della della cattedrale di Vercelli. Intitolata a sant’Eusebio, la struttura oggi visibile, innalzata su un piú antico luogo di culto paleocristiano, è frutto di fasi costruttive diverse, succedutesi fra il XVI e il XIX sec. Sulla destra della foto dell’esterno, si riconosce il campanile, unico elemento medievale superstite dell’antica chiesa.

sul luogo della sepoltura di san Teonesto. Una prima ricostruzione del Duomo di Vercelli, sorto sul sepolcro di san Teonesto del III-IV secolo, è riconducibile al VI secolo, e questa ipotesi, oltre a essere supportata dal reperimento di tratti di muratura risalenti a periodi precedenti, è confermata anche dal ritrovamento di un’epigrafe in versi scritta dal «Vescovo poeta» san Flaviano, quattordicesimo vescovo di Vercelli (metà VI secolo). L’unico elemento medievale ancora ben visibile, invece, è il campanile, edificato verso la metà del XII secolo per volere del vescovo Uguccione (presule di Vercelli dal 1150 al 1170), quando la chiesa conservava ancora il suo grandioso impianto a cinque navate, aspetto che mantenne fino all’intervento di demolizione e ricostruzione avviato nel 1570. La parte inferiore del campanile è romanica, in particolare i primi due livelli, ma venne sopraelevata grazie a un lascito avvenuto nel 1404. Durante il XVIII secolo il campanile venne rimaneggiato e vi fu aggiunta la cella campanaria.

La prima cattedrale

Inizialmente a Vercelli, come già accennato, la cattedrale della città non era l’attuale Duomo. La chiesa piú importante era S. Maria Maggiore, dedicata a Maria Santissima e denominata «la Maggiore», in quanto matrice di tutte le chiese della diocesi. Le prime testimonianze scritte ufficiali relative a essa risalgono ai diplomi del X secolo di Berengario, Ugo e Lotario II, alle concessioni del vescovo Attone (presule di Vercelli

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luoghi vercelli A sinistra la Torre dell’Angelo, costruita tra il XIV e il XV sec. A base quadrata, si sviluppa con un corpo ottagonale di fattura medievale, coronato da una balconata caratterizzata dalle caditoie. La sopraelevazione merlata venne costruita nel 1875, in ossequio all’idea romantica del Medioevo. Nella pagina accanto i giardini don Secondo Pollo, antistanti la cattedrale di S. Eusebio, sotto la neve.

zona cimiteriale. La chiesa primitiva doveva essere a tre navate, absidata a oriente, con una ricca decorazione ad affresco. Nella due sacrestie sono ancora visibili alcuni lacerti degli affreschi medievali. L’edificio venne parzialmente distrutto e ricostruito, probabilmente tra il XIII e il XIV secolo, poi ulteriormente modificato e decorato in periodo barocco, assumendo l’aspetto odierno. Dell’antica chiesa medievale, inoltre, si può ancora ammirare il campanile ornato da pregevoli decorazioni ad archetti pensili.

Nuove fondazioni

dal 924 al 960) e ad alcune donazioni coeve. Il vescovo fece risalire la costruzione della chiesa di S. Maria Maggiore alla volontà dell’imperatore Costantino I. Secondo la tradizione, l’attuale chiesa di S. Giuliano era presente a Vercelli fin dai tempi di sant’Eusebio, e si narra che questi vi si fosse rifugiato quando venne perseguitato dagli ariani. Non vi sono molte testimonianze scritte riguardanti la fondazione della chiesa di S. Giuliano, ma dai documenti conservati negli archivi parrocchiali si evince che la chiesa fosse annoverata tra le parrocchie vercellesi già nel 1185. Tra il XVI e il XVIII secolo la chiesa subí importanti interventi di modifica, sia dal punto di vista architettonico, sia dal punto di vista artistico, che le conferirono l’aspetto odierno. A Vercelli si attesta l’esistenza di un altro edificio di culto presente fin dal V secolo. Sullo stesso luogo dove si trova l’attuale chiesa sconsacrata di S. Vittore, nel V secolo sorgeva una chiesa inserita in una

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Alcuni secoli dopo vennero edificati molti altri luoghi di culto, chiari esempi di architettura medievale. Tra questi, la chiesa di S. Bernardo, l’abbazia di S. Andrea, l’ex chiesa di S. Marco, la chiesa dei Ss. Tommaso e Teonesto in S. Paolo e la chiesa di S. Agnese in S. Francesco. La fondazione del priorato di S. Bernardo risale al 1164. La chiesa, fin dalle origini, ricoprí le funzioni di parrocchia, e, nel 1522, fu ceduta agli Agostiniani con relative approvazioni papali risalenti al 1524. Nel 1630 Vercelli superò la pestilenza che, secondo la tradizione, cessò dopo un voto della comunità alla Vergine, invocata con il nome di Maria Santissima Salute degli Infermi. La devozione divenne sempre piú diffusa e, nel XIX secolo, si decise di realizzare il santuario della Madonna degli Infermi, ampliando la chiesa medievale e arrivando, cosí, alla definizione del santuario con l’attuale aspetto. Pochi decenni dopo l’edificazione della chiesa di S. Bernardo, nelle vicinanze della medesima, venne fondata l’abbazia di S. Andrea, uno dei simboli di Vercelli, la cui origine è legata al cardinale Guala Bicchieri, illustre diplomatico al servizio del papato. Tra i numerosi incarichi che svolse, vi è quello di legato pontificio in Inghilterra. Guala Bicchieri tornò in Italia con alcuni canonici regolari di S. Vittore di Parigi, tra i quali il teologo Tommaso Gallo, e, nel 1219, fondò l’abbazia di S. Andrea, considerata uno dei piú precoci esempi di architettura gotica in Italia, dove gli elementi gotici delle costruzioni cistercensi si innestano sulla tradizione costruttiva locale di gusto tardo-romanico. Pochi decenni dopo la fondazione dell’abbazia di S. Andrea e poco distante dalla medesima e dalla chiesa di S. Bernardo, venne edificata la chiesa di S. Marco, che costituisce ancora oggi uno degli esempi piú evidenti dell’architettura gotica a Vercelli. La costruzione della dicembre

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chiesa degli Eremitani di S. Agostino venne avviata nel 1266, ma il nuovo tempio venne terminato e consacrato solamente nel XV secolo. La facciata è ottocentesca ed è frutto dell’intervento di ricostruzione progettato da Giuseppe Locarni e dei successivi restauri. Attualmente la chiesa contiene al suo interno lo spazio definito «ARCA», utilizzato per mostre, esposizione ed eventi di straordinario interesse culturale.

Una denominazione curiosa

Nello stesso periodo della fondazione della chiesa di S. Marco, intorno al 1260, venne eretta anche la chiesa di S. Paolo, chiamata attualmente chiesa dei Ss. Tommaso e Teonesto in S. Paolo. L’attuale denominazione deriva dalle complesse vicende di piú chiese sorte nel cuore del centro storico di Vercelli. La chiesa di S. Paolo venne edificata dai Domenicani verso il 1260 e venne fortemente modificata nel 1420 e nel 1786. Al volgere del XIII secolo, a Vercelli venne costruita un’altra importante chiesa gotica: la chiesa di S. Francesco (oggi S. Agnese in S. Francesco) venne edificata a partire dal 1292, sul luogo dove si trovava la chiesa di S. Salvatore di Mercatello.

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Attualmente l’edificio ci appare fortemente modificato degli interventi del XVII-XVIII secolo. Dell’originaria chiesa medievale, però, sono ancora ben visibili i prospetti laterali, l’abside e il campanile edificato nel 1423. Infine, meritano una menzione particolare anche alcuni campanili, che rappresentano un’importante testimonianza dell’architettura medievale a Vercelli, anche se si trovano in un contesto urbano differente da quello originale. In particolare, si ricordano i campanili delle chiese di S. Michele e del Santo Spirito. L’odierna chiesa di S. Michele, situata nel centro storico, risale al XVIII secolo, ma l’impianto originario è di epoca medievale e una bolla del 1142 annovera la chiesa di S. Michele tra le parrocchie cittadine. Secondo il Cusano, la chiesa di S. Michele è da considerarsi tra le piú antiche di Vercelli, anche se probabilmente in origine sottoposta a diversa intitolazione. Come il campanile della chiesa di S. Michele, anche il campanile della chiesa del Santo Spirito risulta l’unico elemento supersite dell’architettura medievale della chiesa originaria, per quanto modificato e attualmente immerso in un contesto settecentesco.

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tradizioni i re magi

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La lunga scia della cometa di Franco Cardini

Tra le fonti cristiane canoniche, solo Matteo narra le gesta dei Magi venuti dall’Oriente in cerca del neonato re dei Giudei. La vicenda di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, esotica e colma di elementi fiabeschi, si diffonderà soprattutto nel Medioevo, arricchendosi di elementi tratti dagli scritti apocrifi, da leggende e dalla misteriosa vicenda delle reliquie. Dando vita, inoltre, a una ricchissima trasposizione artistica

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a «storia» dei Magi, i tre «re» che resero visita al Bambino di Betlemme recandogli in dono oro, incenso e mirra, ha avuto uno straordinario successo in tutto il mondo cristiano; ma è presente anche nelle tradizioni mazdaica e musulmana. Essa è stata rinarrata piú volte, in uno straordinario numero di scritti a carattere evangelico, la maggior parte dei quali è considerata tuttavia «apocrifa» (vale a dire di dubbia ispirazione divina) dalle Chiese cristiane ufficiali. Il testo evangelico che conosciamo come quello «di Matteo» sarebbe stato redatto intorno al 70, presumibilmente prima in aramaico, quindi in greco. A noi è pervenuta solo la seconda versione, in cui (2, 1-12) si racconta dei «màgoi» venuti «dall’Oriente» in cerca del «re dei Giudei», del quale avevano scorto «la stella». Convocati i sacerdoti e i saggi d’Israele, Erode chiese loro dove sarebbe nato il Messia: essi risposero che ciò sarebbe avvenuto in Betlemme, com’era stato annunziato dal profeta Michea. Il re ricevette allora in segreto i màgoi e li interrogò accuratamente sulla stella, prima di congedarli, raccomandando loro di fargli sapere dove fosse il Bambino, in modo che anch’egli potesse recarsi ad adorarlo. I màgoi ripartirono, seguendo la stella che li precedette sino a fermarsi sul luogo dov’era Gesú: dopo averlo adorato aprirono i loro scrigni, e gli offrirono oro, incenso e mirra. Quindi, avvisati in sogno di non tornare da Erode, rientrarono al loro Paese, seguendo un’altra strada. (segue a p. 46)

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Adorazione dei Magi, tempera su tavola di Andrea Mantegna.1495-1505. Los Angeles, J. Paul Getty Museum.

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tradizioni i re magi Nella pagina accanto la lastra dell’altare del duca longobardo Ratchis su cui è scolpita a rilievo la scena dei Magi che recano i loro doni a Gesú. 737-744. Cividale del Friuli, Museo Cristiano. In basso i Magi, guidati dalla stella, giungono a Betlemme; rilievo sul sarcofago che in origine accoglieva le reliquie di san Celso. IV sec. Milano, S. Maria dei Miracoli presso S. Celso.

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Le origini

Sacerdoti del «Tempo Increato» In origine, i magû erano soltanto una tribú della Media, cioè della Persia settentrionale, che però deteneva una sorta di monopolio di rituali e pratiche a carattere magico-astrologico-divinatorio. Pare che già durante l’impero persiano achemenide i «magi», colpiti nel VI secolo a.C. da una condanna del Gran Re Serse perché esponenti del culto «daivico» (cioè del sistema mitico-religioso prezoroastriano), o piú probabilmente perseguitati per ragioni politiche, si sarebbero sparsi per la Caldea, degradando al livello di ciarlataneria e di stregoneria la loro scienza originariamente sacrale. Da qui la fama ambigua di quella che poi, dal loro nome, i Greci hanno chiamato maghèia e i Latini magia. Fra il I e il II secolo, nel De Iside et Osiride, Plutarco aveva parlato della concezione dualistica propria del mazdaismo persiano e dei riti officiati dai Magi in onore dei due grandi Principi della Luce (Ahura Mazda) e delle Tenebre (Angra Mainyu): per la verità anch’egli lascia irrisolto il grande tema dell’effettivo rapporto tra Magi e ortodossia zarathustriana. Ma con l’impero partico degli Arsacidi, succeduti agli Achemenidi persiano-meridionali, il ruolo dei Magi doveva essersi rafforzato. Oggi si tende a pensare che, in realtà, i Magi si proponessero come una casta sacerdotale-sapienziale all’interno della quale, con i segreti del rito e dell’osservazione degli astri, si custodiva il nucleo di un messaggio in grado di superare il dualismo mazdaico riconducendo Luce e Tenebra a un originario Principio superiore, Zurvan Akarakana (il «Tempo Increato»), signore di tutte le cose. L’idea del tempo che ciclicamente si rinnova conduceva il mazdaismo detto appunto «zurvanita» alla costante attesa messianica di un «soccorritore divino», il cui ruolo sarebbe stato quello di aprire ciascuna era di rinnovamento e di rigenerazione dopo la fase di decadenza che l’aveva preceduta. In tal senso, il mazdaismo si collega all’attesa messianica che, in forme diverse, si riscontra altresí non solo nell’ebraismo e nel cristianesimo (piú tardi anche nell’Islam, soprattutto in quello sciita e ismailita), ma anche nel mitraismo, nel buddhismo, nell’induismo soprattutto vishnuista (si pensi alla dottrina dei successivi avatara, le discese di Vishnu nel mondo sotto forme sempre diverse).

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tradizioni i re magi Altri elementi del tradizionale racconto relativo ai Magi – il loro numero, i loro nomi, la qualifica di «re», i colori delle vesti, il fatto che uno di loro fosse «nero» (cioè africano) – sono stati aggiunti dalla tradizione evangelica apocrifa e si sono andati arricchendo con apporti di varia origine: anche popolare, soprattutto da quando, a partire dal IX-X secolo, fiorirono in Europa «sacre rappresentazioni» (Officia Stellae, Officia Magorum) che accompagnavano nelle chiese o sui sagrati di esse le cerimonie liturgiche dell’Epifania, secondo una tradizione analoga a quella che presiedeva alle celebrazioni del periodo pasquale per la morte e la resurrezione di Gesú. Sotto il profilo teologico, era importante che i Magi rappresentassero la primitia gentium, i primi fra i pagani ad aver riconosciuto e adorato il Signore. Per questo il loro culto fu tanto fortunato, diffuso, incoraggiato e radicato tra i convertiti d’origine non-ebraica. Durante l’Alto Medioevo e in età carolingia, sembra che la leggenda e il culto dei Magi fossero utilizzati a due livelli: anzitutto in quanto supporto della conversione dei popoli barbarici, dato il carattere di «stranieri» dei misteriosi personaggi del Vangelo di Matteo (anche se un elemento d’inquietudine poteva provenire proprio dalla loro qualifica di «magi» appunto, dunque «maghi», che li poneva sotto una luce piuttosto ambigua); e quindi in un senso politico, dal momento che la loro qualifica di «re» – già affermata nella tarda antichità – e il loro gesto vassallatico nei confronti del Bambino concorrevano a ribadire il carattere sacrale della funzione regia in quanto tale e ad affermare, al tempo stesso, il culto della regalità del Cristo. Ciò giustifica, appunto, la frequenza e la solennità delle cerimonie liturgiche e paraliturgiche delle quali essi erano i protagonisti, e che costituiscono una delle basi del teatro medievale. Tuttavia, il culto della memoria dei Magi, e addirit-

tura di certe loro reliquie, subí un drastico mutamento nel 1164, in seguito a un episodio milanese. E a questo riguardo molte cose vanno puntualizzate. Nella storia del rapporto fra Milano e i Magi, tre sono stati i momenti di maggior evidenza: la traslazione delle reliquie da Costantinopoli al capoluogo lombardo, la seconda traslazione, che significò per la città la perdita del sacro patrimonio a favore di Colonia, e infine le processioni dell’Epifania di cui si ha sicura testimonianza a partire dal 1336. Come si vede, Milano sembra aver avuto con il culto dei Magi un rapporto privilegiato; ma, se questo è certamente vero, non si può affermare con altrettanta sicurezza che tale relazione abbia presentato nel tempo caratteri di continuità.

Una cassa impossibile da trasportare

Una tradizione, peraltro non documentata prima della fine del XII secolo, vuole che, verso la fine del IV, il nobile greco Eustorgio si recasse nella città lombarda come inviato di Costantino, venendovi acclamato grazie alle opere meritorie quale vescovo. Tornato a Costantinopoli per sollecitare l’approvazione dell’imperatore, egli ricevette in dono da sant’Elena le reliquie dei Magi. Le varianti di questa leggenda sono numerose; altrettanto può dirsi delle vicende miracolose che accompagnarono tale traslatio: tuttavia, esse lasciano immutato il nucleo del racconto, che si conclude con l’arrivo nei pressi della città; qui, a un certo punto, la cassa contenente le sacre reliquie diviene cosí pesante da costringere Eustorgio a fermarsi e fondare, come spinto da un richiamo divino, la chiesa che prenderà il suo nome. Due vescovi milanesi sono ricordati col nome di Eustorgio: il primo morto nel 331, il secondo nel 518. È difficile dire se davvero al primo dei due si debba la traslazione, e non è solo il carattere fantastico del Cofanetto ovale per reliquie in argento, con tracce di doratura, sulla cui fronte è rappresentata l’adorazione dei Magi. Produzione lombarda, prima metà del V sec. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto il Dreikönigenschrein (Reliquiario dei tre re), la spettacolare arca voluta dal vescovo di Colonia Filippo di Heinsberg per accogliere i sacri resti dei Magi, portati da Rinaldo di Dassel da Milano nella città tedesca nel 1164 per volere di Federico Barbarossa. L’opera fu commissionata all’orafo francese Nicolas de Verdun e la sua lavorazione, piú volte interrotta, venne ultimata solo nel 1220. Colonia, Duomo.

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racconto a impedire di trovarvi prove certe; si rimane anche stupiti di fronte all’assenza di cenni nelle fonti coeve o comunque relativamente poco posteriori a una vicenda di tale rilevanza. A Milano la tradizione delle reliquie dei Magi e del loro viaggio da Costantinopoli sembra raggiungere una vera importanza solo in occasione della perdita delle stesse a favore di Colonia: il che appunto accadde nel 1164. All’inizio dell’estate di quell’anno – due anni dopo la distruzione della città ribelle all’impero, disposta dall’imperatore Federico I, l’arcicancelliere imperiale Rinaldo di Dassel trasportava da Milano a Colonia – città della quale era arcivescovo – le reliquie dei Magi. Nella caccia alle reliquie della quale il Medioevo ci ha lasciato larghe testimonianze, è questo un episodio molto noto. Da una parte i Magi venivano ricollegati alla figura del Prete Gianni – il leggendario re cristiano d’Asia che proprio in quegli anni si era fatto vivo in Occidente con

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una lettera al papa e all’imperatore e che sosteneva di discendere appunto da uno dei tre re –, dall’altra, nella loro qualità di re che adoravano il Re dei Re, costituivano un affascinante e immediato richiamo ai valori di elezione divina e di sacralità connessi al potere regale.

Il valore simbolico dei doni

La caratteristica feudale dell’omaggio nella grotta di Betlemme era evidente per la sensibilità medievale, e tale si sarebbe mantenuta viva anche nell’iconografia, con caratteri estremamente chiari e coscienti, fino a tutto il Quattrocento. Gli stessi doni dei Magi, oltre a simboleggiare la divinità, la regalità e l’umanità del Cristo, potevano interpretarsi come un’allusione alla società «trinitaria» su cui insistevano i teologi come i teorici della politica: l’oro per i re e quindi per la militia e la gerarchia civile, l’incenso per il clero, la mirra per i «fedeli alla terra», artigiani e contadini. La lettura feudale del mito,

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tradizioni i re magi tradizioni

Protettori dei pellegrini Protettori di viaggiatori e pellegrini e invocati insieme ad altri santi quando si stava per intraprendere un viaggio, i Magi venivano perciò ritenuti anche patroni del viaggio estremo: e a loro ci si rivolgeva quindi per invocare una buona morte, serena e in grazia del Dio Bambino al quale essi avevano recato, in Betlemme, la mirra, presagio di morte e pegno di immortalità. In Germania, le iniziali dei loro nomi, C+M+B – Caspar, Melchior, Balthasar – si scrivevano col gesso sulla porta delle case il giorno dell’Epifania e servivano a proteggere esseri umani e animali da demoni e stregonerie. Dalla fine del XII secolo, un flusso continuo di pellegrini – provenienti soprattutto dall’Italia settentrionale, dalla Francia orientale, dal mondo germanico e poi anche scandinavo e boemo-polacco – passò per Colonia per venerarvi non solo le reliquie di sant’Orsola, ma anche quelle dei Magi. Comuni erano le insegne di pellegrinaggio raffiguranti – in forma di piccoli distintivi di metallo appuntati sui berretti o sui mantelli da viaggio – l’Adorazione dei Magi o la cattedrale di Colonia. Circolavano anche i filattieri, cioè i «brevi» – amuleti costituiti da strisce di carta o di pergamena – che recavano scritti i nomi dei Magi e una breve preghiera. Tali amuleti si dicevano consacrati dal contatto con i crani dei tre re ed erano lontana dall’odierno modo di pensare come dall’origine orientale della leggenda, doveva apparire familiare e immediata all’ambiente che ruotava attorno all’imperatore. Anzi, potrebbe servire a chiarire addirittura, almeno in parte, il motivo della traslazione: la città di Milano, ribelle al suo signore, non era piú degna di custodire le spoglie dei tre vassalli perfetti del Re Celeste. Secondo la ricostruzione tradizionale dell’itinerario dell’arcicancelliere imperiale, legittimata dalla sua lettera alla Chiesa di Colonia, Rinaldo mosse da Milano con il suo prezioso carico il 10 giugno del 1164; si recò prima a Pavia, per prender congedo dall’imperatore, che ivi in quel momento risiedeva, e il giorno successivo, da Vercelli, indirizzò alla sua Chiesa di Colonia una lettera nella quale avvertiva del suo arrivo e del sacro bottino che recava con sé, specificando che avrebbe seguito il cammino attraverso la Borgogna e la Francia. Toccò difatti

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Medagliette devozionali in terracotta con i tre re. VI-VII sec. Londra, The British Museum

recati indosso contro i pericoli del viaggio, l’emicrania, l’epilessia, le febbri, gli incantesimi. Un manoscritto duecentesco conservato a Parigi nella Bibliothèque SainteGeneviève afferma che gli epilettici potevano essere curati mormorando al loro orecchio una giaculatoria nella quale si ripetevano i nomi dei Re Magi e i loro rispettivi doni. Nell’Europa centrale e occidentale la devozione per i Magi si radicò profondamente, tanto da entrare a far parte dei culti regali da un lato, del folclore dall’altro. Santa Brigida di Svezia si recò a Colonia per venerare «Tres Reges et alios infinitos martyres», con evidente allusione innanzitutto a sant’Orsola e alle Undicimila Vergini. Che il pellegrinaggio di Colonia fosse caro e gradito ai re, è provato, per esempio, da un documento del 1482 nel quale Luigi XI di Francia – sovrano tutt’altro che incline a slanci devozionali – concedeva una rendita di 3000 lire tornesi, tratta da fonti relative alla contea di Champagne, alla cattedrale di Colonia, in onore dei «trois saincts Roys Jaspar, Baltasar et Melchior…». Torino, passò il Moncenisio e transitò per Borgogna, Lorena e Renania. A Colonia giunse, a sentire gli Annales Agrippinenses, nel giorno di Santa Maria Maddalena, il 23 giugno, mentre la Chronica regia coloniensis segnala il suo arrivo un mese dopo, il 23 luglio.

Un’arca grandiosa

Molte chiese e molti luoghi tra Francia, Germania, Italia e Svizzera attuali si contendono la gloria e il privilegio di aver ospitato il cancelliere e le reliquie dei Re Magi; né mancano tradizioni locali relative a case od ospizi che sarebbero stati per la comitiva luoghi di riparo, né frammenti delle arcane reliquie lasciati in regalo. Giunti a Colonia, i sacri resti furono deposti nella chiesa di S. Pietro, piú tardi trasformata nella splendida cattedrale che ancora oggi si ammira; per il riposo dei tre re fu foggiata un’arca d’argento dorato dicembre

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In alto l’adorazione dei Magi nel reliquiario dei tre re di Colonia (vedi foto a p. 47), e, a destra, la facciata del Duomo della città tedesca, intitolato ai santi Pietro e Maria, che custodisce l’opera.

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tradizioni i re magi dal lavoro molto simile a quella, piú famosa, che ad Aquisgrana custodiva e custodisce il corpo dell’imperatore Carlo Magno (vedi foto a p. 47). Solo nel 1247 papa Innocenzo IV concesse indulgenze per i pellegrini che si fossero recati a Colonia per venerarvi le spoglie dei Magi. Si era in un momento nuovamente delicato, anzi decisamente negativo, nei rapporti fra il papa e il re di Germania, che allora era l’imperatore Federico II: e proprio per questo, forse, il pontefice intendeva mantenere buoni rapporti con i borghesi delle città tedesche. Sulla base di queste indulgenze, a partire dal 1249, si prese a edificare, sull’impianto della chiesa

di S. Pietro, la celebre, splendida cattedrale gotica. Dal canto suo, Colonia, rimase fedele ai suoi re: nelle occasioni solenni, il Santissimo Sacramento veniva portato in processione da tre sacerdoti che recavano sulla fronte corone d’oro in onore dei patroni cittadini. Dal Duecento in poi, la venerazione dei Magi si diffuse in modo molto vasto e profondo: i loro nomi divennero frequenti nell’onomastica europea, mentre alcuni centri – come Embrun in Francia – dedicavano loro le cattedrali. L’adorazione del Fanciullo da parte dei Magi venne inclusa nell’elenco delle «Sette gioie della Vergine», eventi per i quali si nutriva una devozione particolare.

Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, Cappella dei Magi. La parete Sud, con il segmento della Cavalcata dei Magi guidato da Baldassarre, tradizionalmente identificato con l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo. Il grandioso ciclo affrescato (vedi anche alle pp. 60-61) si deve a Benozzo Gozzoli, che lo eseguí nel 1459.

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A partire dal Duecento forse, e sicuramente dal Trecento, in molte località si affermò una nuova forma di venerazione per i Magi; si trattava di cerimonie pubbliche che fornivano una dimensione teatrale e spettacolare della liturgia che si svolgeva il giorno dell’Epifania. Sappiamo, per esempio, che il 6 gennaio, a Friburgo, probabilmente in ricordo del passaggio delle reliquie, si svolgevano feste e processioni in cui si celebravano le storie dei Magi. Una cerimonia milanese del 1336, testimoniata dal cronista Galvano Flamma, appartiene a tale categoria. Nel 1227 la chiesa di S. Eustorgio era passata ai Domenicani, che paiono essere stati imporIn basso miniatura di scuola fiorentina raffigurante l’Adorazione dei Magi, particolare di un Graduale della Biblioteca del convento di S. Marco a Firenze. 1280-1299.

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Magi e turismo

Insegne rivelatrici Sulle strade d’Europa i Magi hanno lasciato molti segnali: devoti, sí, ma perfino «turistici». A Gmund, in Svevia, una lapide rammenta il passaggio del corteo con i corpi santi; e innumerevoli sono gli alberghi e le osterie che tra Lombardia, Svizzera, Borgogna, Germania meridionale e Boemia si denominano Ai Tre Re, Alle Tre Corone (e tre corone figurano anche sull’arme cittadina di Colonia, divisa di rosso e d’argento, i colori tradizionali dell’impero), Alla Stella (una stella figura come tipica insegna degli osti e degli albergatori proprio in ricordo dei re-pellegrini, e in molte città medievali la stella era il simbolo della corporazione degli albergatori), oppure semplicemente Al Moro, con riferimento al Mago già da allora o poco piú tardi raffigurato come bruno o addirittura nero.


tradizioni i re magi A sinistra Roma, catacomba dei Ss. Marco e Marcelliano. L’Adorazione dei Magi dipinta nell’arcosolio dei Tre fanciulli e dei Magi. Seconda metà del IV sec. In basso particolare del portale ligneo della basilica di S. Sabina (Roma) raffigurante l’omaggio dei tre re. 432 circa.

che allora divideva le due città, ormai avviate a costituire attorno a loro due Stati territoriali. Tra la fine del Medioevo e il primo Rinascimento la vera grande festa cittadina, della quale furono patroni (o, come allora si diceva, «Magnifici Signori») i membri delle famiglie degli Strozzi prima, dei Medici poi, fu la festa dell’Epifania. Essa sembra essere stata avviata nel 1390 proprio grazie a un artista lombardo, Baldassare degli Ubriachi, esule forse dalla Milano viscontea nemica di Firenze. L’esempio milanese doveva essere ormai obliterato, forse superato: modello della processione potevano forse essere, semmai, i corteggi solenni delle ambascerie che sovente giungevano a Firenze e nelle quali non mancavano – tale era la moda del tempo – gli elementi esotici e pittoreschi, gli animali rari, i costumi sfarzosi. I casi milanese e fiorentino sono emblematici della realtà profonda del culto dei Magi. Una realtà risplendente, leggendaria: ma, anzitutto e soprattutto, politica.

Un tema eccezionalmente diffuso

tanti promotori dell’evento. Non casualmente, l’Officium Stellae che si svolse con la stessa magnificenza alcuni decenni piú tardi, nel 1390, a Firenze, fu anch’esso organizzato dai Domenicani di S. Marco: segno quindi di un interesse dell’Ordine verso la promozione del culto. A questo punto, va sottolineato il nesso tra Milano e Firenze, già notato en passant dal fatto che il culto reso ai Magi nella domenicana S. Eustorgio di Milano potesse essere ripreso, a partire dalla fine del Trecento, nella domenicana S. Marco di Firenze: nonostante l’ostilità

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Il viaggio dei Magi dall’«Oriente» dietro la stella e quindi la loro adorazione dinanzi alla povera grotta o alla capanna di Betlemme corrispondono a due temi iconici che, con molte varianti, sono tra i piú rappresentati nell’arte cristiana, sia occidentale, sia orientale (greca e russa soprattutto). Per quanto la base del racconto sia la già ricordata e scarna narrazione dell’evangelista Matteo (2, 1-12), molte caratteristiche e infiniti particolari dei mosaici, degli affreschi, delle pale d’altare, delle miniature che illustrano i due episodi resterebbero inspiegabili, o potrebbero venir considerati frutto della fantasia e magari dell’arbitrio degli artisti o dei loro committenti, se non fossero invece riconducibili, almeno in gran parte, alla serie dei Vangeli apocrifi greci, siriaci, armeni, arabi ed etiopici, che furono redatti in tempi diversi, ma lungo tutto l’arco del I millennio d.C., e che, tradotti in topoi iconici, passarono anche nella tradizione occidentale. In costante, profondo dialogo con questi testi si andò affermando nell’Alto Medioevo – si pensi alla teoria dei Magi nei mosaici di S. Apollinare Nuovo di Ravenna (vedi foto alla pagina accanto) – la nostra tradizione iconica occidentale, sostenuta da un acceso dibattito esegetico che dei «tre santi re» ha fatto, di volta in volta, il simbolo delle tre «razze primigenie» della Terra scaturite dai tre figli di Noè, dei tre Continenti della vecchia ecumène, dei tre Stati del mondo (i sacerdoti, i guerrieri, i produttori), dei tre momenti dell’esistenza umana (la giovidicembre

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nezza, la maturità, la vecchiaia), dei tre aspetti del tempo (il passato, il presente, il futuro). Si racconta – ma pare episodio storicamente davvero avvenuto – che nel 614, quando i Persiani dello shah sasanide Cosroe occuparono la Palestina – allora controllata dall’impero romano d’Oriente –, saccheggiando anche Gerusalemme, giunti a Betlemme, si arrestarono timorosi dinnanzi alla basilica della Natività e non osarono danneggiarla. Erano rimasti ammirati e intimoriti davanti a un mosaico raffigurante i Magi nel tradizionale costume persiano: un po’ simili, forse, a come li vediamo ancora nei dipinti delle catacombe, oppure scolpiti su alcuni sarcofagi, o ancora in S. Apollinare Nuovo a Ravenna. Ci si è chiesti se, in realtà, questo atteggiamento rispettoso non dipendesse in qualche modo dai rapporti, ostili ma segnati anche da forti legami diplomatici, tra le due corti di Ctesifonte e di Costantinopoli. O magari dal fatto che, secondo la leggenda, l’impe-

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Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare di uno dei grandi mosaici parietali, con l’Adorazione dei Magi. 561568. Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, giunti a Betlemme dall’«Oriente» per rendere omaggio al «re dei Giudei», vestono abiti persiani e indossano il tipico berretto frigio.

ratore persiano aveva due mogli cristiane, la bizantina Maria e l’aramaica Scirin. Quest’ultima è conosciuta anche dalle fonti latine, sotto il nome di Caesara: ma il suo nome vero ha nell’etimo il concetto della «dolcezza». Lo schema dell’adorazione dei Magi, nella sua forma piú antica, si modella su quello della proskinesis (dal greco proskuneo, «prostrarsi riverentemente mandando un bacio», è un atto di adorazione consistente in una prostrazione profonda, n.d.r.) e dell’offerta dei doni all’imperatore romano da parte dei sovrani barbari, che accorrono devoti verso il trono e vi s’inginocchiano, oppure si prosternano nella proskinesis, portano i loro costumi

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tradizioni i re magi araldica

Un colore per ogni età Fra Due e Seicento, l’Europa fu attraversata da una trascinante passione araldica. Non solo si discusse delle regole per la formalizzazione delle «armi» araldiche (vale a dire di quegli insiemi di figure e di colori che costituiscono l’insegna), ma si giunse a immaginare che l’araldica fosse stata una costante della storia dell’umanità e che tutti – a cominciare da Adamo – avessero posseduto un’arme. Dal momento che la cavalcata e l’adorazione dei Magi erano due tra le scene piú spesso rappresentate in scultura e in pittura, si ritenne ovvio attribuire insegne anche ai tre re. Nei loro corteggi, infatti, si notano spesso le bandiere, che rinviano ai due concetti-base: i Magi come pagani e i Magi come astrologi. La bella miniatura che rappresenta l’incontro dei tre distinti corteggi dei Magi nelle Très Riches Heures del duca Giovanni di Berry, al Museo Condé di Chantilly, presenta tre tipi di bandiere, una rossa, una bianco-oro e una azzurra. I tre colori – con alcune variabili – si collegano ai tre Magi e hanno probabilmente un rapporto con le tre età della vita, le tre fasi del giorno (alba, meriggio, tramonto) e i colori delle tre fasi alchemiche (albedo, rubedo, nigredo). I simboli ricorrenti sulle bandiere sono astrali: sole,

luna, stelle. Nel dipinto Le sette gioie di Maria di Hans Memling compare nella bandiera una figura che potrebbe essere una divinità pagana o un demonio. I signori di Baux in Provenza, che pretendevano di discendere dal re-Mago Baldassarre, avevano scelto come arme araldica una stella d’argento in campo vermiglio. La stella era senza dubbio un’allusione a quella che aveva guidato i santi re verso il Bambino.

(come quello persiano, con il caratteristico berretto appuntito) e hanno le mani coperte da un tessuto, per non entrare in contatto con i doni destinati al sovrano, contaminandoli. Tale scena è per esempio raffigurata nel piedistallo marmoreo dell’obelisco di Teodosio nell’Ippodromo di Costantinopoli. In Occidente, tuttavia, questo legame storico con le cerimonie imperiali andò perdendo col tempo di significato. Fin dal IX-X secolo, la tradizione paraliturgica degli Officia Stellae e degli Officia Magorum si fondava

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In alto miniatura raffigurante l’incontro dei Magi, dal Très Riches Heures du Duc de Berry dei fratelli Limbourg. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

sulla liturgia dell’Epifania, per immettere nel tessuto dell’immaginario dei fedeli particolari variamente desunti dall’influenza diretta o indiretta degli apocrifi (il nome e il numero dei Magi, la loro provenienza, gli abiti che ormai avevano abbandonato le forme persiane per assumere sempre piú connotati regali sottolineati dalle corone, i gesti del viaggio e dell’indicazione reciproca della stella, la stella stessa che sovente è un angelo e reca nel suo centro l’immagine del Bambino, i gesti dell’adorazione rappresentati dalla proskinesis del dicembre

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Mago anziano che reca in dono l’oro mentre, dietro di lui, gli altri due in piedi si apprestano all’omaggio o indicano a loro volta la stella). Il culto dei Magi in Occidente sembra comunque avere preso avvio solo a partire dal XII secolo, come testimonia la produzione iconografica che, con l’eccezione delle testimonianze paleocristiane e tardoantiche o di chiara influenza bizantina, non trova frequenti raffigurazioni dei tre re prima del romanico. Fondamentale importanza ebbe, fino al Duecento, il

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Roma, basilica di S. Maria in Trastevere. Particolare dei mosaici del catino absidale raffigurante l’Adorazione dei Magi. Il grande ciclo musivo fu realizzato negli ultimi anni del pontificato di Innocenzo II (1130-1143).

testo dello pseudo-Beda per la diffusione della leggenda in campo tanto figurativo quanto letterario; nel Duecento fu poi la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, tradizionale e inesauribile fonte per gli artisti dei secoli successivi, ad accrescere la loro fama in Occi-

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tradizioni i re magi Sulle due pagine trittico con episodi della vita del Cristo, tempera su tavola di Andrea Mantegna. 1463-1464. Firenze, Galleria degli Uffizi. Lo scomparto centrale è dedicato all’Adorazione dei Magi. Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Iconografia

Il re venuto dall’Africa Nell’Adorazione dei Magi del Mantegna custodita agli Uffizi figura un «re mago» inginocchiato che ha caratteristiche somatiche indubbiamente africane. Nell’iconografia dei Magi, dal Duecento in poi, appare con sempre maggior frequenza un re «moro» e tale consuetudine risale all’idea che i Magi rappresentassero le tre razze discendenti dai figli di Noè e che i discendenti di Cam – forse in punizione per l’irriverenza del personaggio nei confronti del padre – fossero neri. Poiché ogni razza s’era insediata in uno specifico continente, il «re moro» rappresentava i Camiti, quindi l’Africa. Ma poiché i Magi sono ritratti anche d’età diversa, il Mago «moro» è di solito il piú maturo o il piú giovane. Anche i nomi tradizionali – Baldassarre, Gaspare, Melchiorre – variano a seconda delle tradizioni: nome, età e colore della pelle costituiscono attributi «tradizionali» dei tre re, ma vengono combinati tra loro in modo differente. Committenti e artisti agivano, al riguardo, con una sostanziale libertà. Intanto la figura del «moro» come «negro» si affermava in un altro tipo iconico: san Maurizio, il martire capo della Legione Tebana.

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Qui sotto pala dell’Adorazione dei Magi (particolare), tempera su tavola di Gentile da Fabriano. 1423. Firenze, Galleria degli Uffizi. Il dipinto fu commissionato dal ricco banchiere e raffinato amante delle arti Palla Strozzi per la cappella di famiglia situata nella chiesa fiorentina di S. Trinita.

A sinistra Adorazione dei Magi, predella d’altare di un polittico (oggi smembrato) dipinto da Masaccio per la chiesa pisana di S. Maria del Carmine. 1426. Berlino, Staatliche Museen.

dente; nel Trecento vi si sarebbe aggiunto il testo del Carmelitano tedesco Giovanni di Hildesheim. Se le reliquie dei Magi, sottratte a Milano a titolo di punizione in quanto città ribelle all’impero, erano state trasferite a Colonia, la metropoli lombarda non tardò – senza reclamare il ritorno dei santi corpi – a rivendicarne almeno il culto. Tutto ciò era particolarmente significativo in quanto, con i Visconti, Milano era divenuta

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la principale città ghibellina d’Italia. Dal momento che a Colonia il culto si era qualificato come chiaramente imperiale, il ricondurlo a Milano aveva il senso di una dichiarazione di lealistica fedeltà nei confronti dell’impero. Nel Trecento, la cavalcata dei Magi il giorno dell’Epifania era oggetto d’una manifestazione popolare molto apprezzata. I Visconti, gran signori ghibellini e grandi mecenati, donarono molti tesori d’arte alla Certosa del-

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tradizioni i re magi Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, Cappella dei Magi. La parete Est, con il segmento della Cavalcata dei Magi dipinta da Benozzo Gozzoli guidato da Gaspare (vedi anche alle pp. 60-61). 1459.

la loro città prediletta, Pavia: tra essi, un monumentale trittico «d’avorio» (in realtà ossa e denti d’ippopotamo e ossa di bue, di cavallo e anche di maiale) decorato da oltre 160 tra formelle e statuette. Era un’opera uscita alla fine del Trecento dalla celebre bottega d’un affascinante quanto enigmatico personaggio, che portava egli stesso il nome di un re Mago: Baldassarre degli Embriachi, di famiglia ligure ma radicata in Lombardia. Piú tardi Baldassarre passò – in circostanze che restano misteriose: era caduto in disgrazia? – a Firenze, dove beninteso il suo cognome assunse la forma «Ubriachi»: lí dovette trovarsi bene, perché acquistò proprietà e perfino una cappella – dedicata ai Re Magi – nella chiesa domenicana di S. Maria Novella, dove, nel testamento datato 1395, dichiarava di voler essere sepolto. Ma le cose andarono diversamente: pochi anni piú tardi, Baldassarre, che pure era stato tanto legato ai Visconti da far sospettare d’essere un loro agente (ma che infine aveva scelto di dimorare nella grande nemica dell’egemonia viscontea, Firenze) passò a Venezia, città allora del resto alleata dei Fiorentini. Qui, tra il 1400 e il 1409, ricevette vari pagamenti per l’altare eburneo della Certosa pavese, tra le cui formelle scolpite figurava naturalmente l’Adorazione dei Magi. A Venezia si trovavano anche i suoi figli Giovanni e Antonio, che infatti nel 1431 si sarebbero spartiti l’eredità paterna.

Una devozione speciale

La bottega degli Embriachi ha disseminato d’immagini dei Magi l’Europa del tempo: essa lavorava infatti per importanti committenti, fra cui i duchi di Borgogna e di Berry. Baldassarre aveva senza dubbio familiarità con la leggenda e il culto dei tre re: quando si era trovato a Milano al seguito dell’imperatore Carlo IV, può darsi ne avesse veduto la processione. Segni sicuri ci informano che per i Magi Baldassarre nutrí una speciale devozione, che forse gli proveniva dai suoi stessi genitori, che l’avevano battezzato con il nome di uno di loro. Certo, era stato lui a scegliere che la sua cappella in S. Maria Novella fosse dedicata ai tre re. Sembra che nell’ultimo decennio del Trecento fosse proprio Baldassarre degli «Ubriachi» a inaugurare a Firenze feste dei Magi sul modello di quelle milanesi. Da allora, la devozione ai «santi re» si radicò nella città toscana e venne accolta dalle principali famiglie dell’aristocrazia del tempo. Sorse anche un sodalizio laicale devoto, la «Compagnia dei Magi», che collaborò alle feste di San Giovanni del 1428. Per la verità, si ha l’impressione che i vari corteggi che a Firenze si tenevano nel periodo carnevalesco, poi all’inizio della primavera, quin-

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1. GASPARE Il piú giovane dei Magi veste un elegante abito bianco, che, come gli altri che si possono vedere nell’affresco, è una testimonianza eloquente dello sfarzo diffuso presso le classi piú abbienti. di alla fine di giugno per le feste del patrono Giovanni Battista, fossero ormai occasioni per sfoggiare scene e allegorie di vario genere, senza diretto riferimento (o comunque non con esclusivo riferimento) alla festa che volta per volta solennizzavano. Cosí, anche il corteggio dei Magi non doveva essere incentrato solamente su di essi. Nell’Epifania del 1429, il palco del re Erode era stato eretto in piazza della Signoria, mentre un altro palco era stato innalzato in piazza S. Marco per la Vergine e il Bambino. Nel pomeriggio si ebbe il vero e proprio corteggio, con circa settecento persone a cavallo, fra cui i Magi e i loro compagni, evidentemente membri della «Compagnia dei Magi». Facevano parte del corteo, però, anche altri personaggi, quali tre giganti, un «uomo salvatico» e un carro con David che con la fionda colpiva Golia (vero è che David ha qualche rapporto con i Magi e l’Epifania, dal momento che Betlemme è appunto la sua città, e per questo egli è figura del Cristo e il Cristo è a sua volta «Nuovo David»).

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2. BALDASSARRE Raffigurato con i

Sulle due pagine fotomosaico che mostra lo sviluppo delle pitture di Benozzo Gozzoli.

tratti di un uomo dalla pelle scura, in età matura, indossa abiti in broccato verde e reca una corona d’oro, ornata da piume verdi, bianche e rosse (i colori dei Medici). È stato ipotizzato che in lui si possa riconoscere un ritratto dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo.

3. MELCHIORRE Il piú anziano dei Magi ostenta una lunga barba di foggia orientale e veste un sontuoso abito in broccato oro e cremisi, simile a quello dei fanciulli che lo accompagnano.

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Nella pagina accanto, in basso uno scorcio della corte interna di Palazzo Medici Riccardi, a Firenze. La sfarzosa dimora, che comprende la Cappella dei Magi, sorse alla metà del Quattrocento, per volere di Cosimo il Vecchio e su progetto di Michelozzo.

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La Cappella dei Magi

Genesi di un capolavoro Il Palazzo Medici di via Larga, a Firenze, destinato a diventare la sede definitiva della famiglia, sorse per iniziativa di Cosimo il Vecchio (1389-1464), vero responsabile dell’espansione finanziaria della sua casata e, nei fatti, primo signore della città. All’interno dell’edificio Cosimo volle aprire anche una cappella privata, la cui progettazione venne affidata all’architetto Michelozzo di Bartolomeo e sulle cui pareti l’artista fiorentino Benozzo Gozzoli affrescò poi la Cavalcata dei Magi. Il nuovo palazzo fu l’unica dimora medicea dotata di una cappella privata: fino ad allora, l’autorizzazione

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ad aprirne una era stata concessa solo a principi e signori e, a quella data, almeno formalmente, i Medici erano ancora semplici cittadini. Lo straordinario privilegio fu frutto di una dispensa accordata nel 1422 da papa Martino V. Il ciclo di Benozzo Gozzoli è uno dei maggiori capolavori dell’arte medievale per la ricchezza dei materiali impiegati, in particolare gli ori e gli azzurri, all’epoca costosissimi. Stupisce la complessità delle sinopie, dettagliate fin nei minimi particolari, e sovrabbondanti di personaggi, soprattutto vegetali e animali.

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tradizioni i re magi

Adorazione dei Magi, tempera su tavola con fondo oro di Giotto di Bondone. 1320 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. L’opera faceva parte di un ciclo composto da sette scene, con altrettanti episodi della vita di Cristo, verosimilmente commissionato da una chiesa dell’Ordine francescano.

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Con tutto ciò, il corteggio del 1429 sembra carico anche di elementi piú propriamente carnevaleschi, e comunque di tipo allegorico, che allontanano in qualche modo la celebrazione dei Magi dal suo valore tradizionale di rievocazione sia pur pittoresca di un episodio evangelico. Patroni e in gran parte finanziatori della festa fiorentina dei Magi all’inizio del Quattrocento erano gli esponenti della famiglia oligarchica degli Strozzi. Appunto per la loro cappella in S. Trinita il pittore Gentile da Fabriano, nel 1423, eseguí la splendida pala dell’Adorazione dei Magi, ora conservata agli Uffizi (vedi foto a p. 57, in alto). Ma, a partire dal 1434 – da quando cioè Firenze cadde in potere di Cosimo de’ Medici, il quale peraltro lo esercitò in una forma larvata (una «criptosignoria», l’hanno definita gli storici), ma anche molto dura –, i Medici non potevano permettere che la festa dei Magi, che sembra fosse allora la piú celebrata e amata dai Fiorentini, fosse gestita dalla famiglia rivale. Cosí, mentre da un lato i Medici riuscivano a battere sul terreno politico e perfino a far esiliare gli Strozzi, dall’altro Cosimo attraeva il sodalizio che organizzava la festa, la Compagnia de’ Magi, nella sua sfera di potere. Egli la indusse a prendere stanza nella chiesa di S. Marco, di cui era parrocchiano illustre, le accordò protezione e il suo patronato e certo prese ad accollarsi in tutto o in parte le spese del corteggio dell’Epifania. In cambio, beninteso, la festa del 6 gennaio tendeva a trasformarsi sempre piú in un’occasione per celebrare la potenza, la gloria, la ricchezza del suo casato.

I torcetti per san Marco

Nell’Epifania del 1443 il convento di S. Marco era in festa in una maniera del tutto speciale: vi si celebrava la consacrazione della nuova chiesa ai santi Marco, Cosma e Damiano; i due santi fratelli, patroni dei medici, erano anche i patroni della famiglia Medici, e il capo di essa portava il nome di uno di loro. Papa Eugenio IV, ancora a Firenze – dove dal convento di S. Maria Novella presiedeva il concilio –, giunse allora a S. Marco seguendo quello che era forse il tradizionale corteggio della festa dei Magi, che probabilmente (ma non ne abbiamo prove) procedeva proprio dall’uno all’altro dei due conventi domenicani fiorentini. Nel 1445 la Signoria dispose che l’offerta dei torcetti a san Marco ogni Epifania, che era stata sospesa, riprendesse; ma ogni anno Cosimo offriva, a titolo personale, sedici libbre di cera. Di per sé, il gesto non era certo sconveniente: ma il suo significato poteva ben apparire un programma e forse una sfida. Spettava alla Signoria il dovere – e il privilegio – dell’offerta della cera ai patroni: quella di Cosimo, in tal caso, non acquistava il valore di un’implicita pretesa «signoriale»? Nel 1447 il figlio secondogenito di Cosimo, Giovanni, figurava nella commissione dei «festaioli» della Compagnia de’ Magi. Ma è probabile che essa fosse

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ogni anno provvista di un parente o di un uomo di fiducia di Cosimo, il quale – come apprendiamo da una lettera di sua moglie Contessina de’ Bardi – amava partecipare ogni Epifania al corteggio dei Magi: non sappiamo se nei panni di uno di essi, ma certo riccamente abbigliato. Sua veste preferita in quella occasione era un indumento tessuto in oro, quindi molto probabilmente un ricchissimo broccato; ma nel 1451 – forse per il particolare rigore della stagione, forse perché cominciava a invecchiare – egli scelse per la stessa occasione una veste foderata di pelliccia. È senza dubbio una coincidenza che il celebre nipote di Cosimo il Vecchio, cioè Lorenzo di Piero poi detto «il Magnifico», nascesse proprio il 1° gennaio del 1449: quel giorno era dalla Chiesa dedicato, fra gli altri santi, anche a Melchiorre e Gaspare. Ma la circostanza acquista un valore particolare se pensiamo che proprio Lorenzo figura in un ritratto idealizzato come il mago Gaspare, il piú giovane dei tre re – iuvenis imberbis, lo aveva definito lo pseudo-Beda –, sulla parete est della cappella della nuova dimora di Via Larga che Cosimo si fece costruire da Michelozzo, sempre sulla stessa strada ma un po’ piú a mezzogiorno rispetto alle vecchie case dei Medici (vedi box e foto alle pp. 60-61). L’affresco della cappella fu dipinto da Benozzo Gozzoli nel 1459; in esso l’artista ritrasse un perfetto efebo, simbolo piú che effigie realistica dell’allora dieci-dodicenne Lorenzo di Piero nelle vesti del Mago piú giovane. Si dice che la veste con la quale Benozzo ha abbigliato il bel giovinetto sia la stessa con la quale questi, nell’aprile del 1459, aveva debuttato dinanzi ai cittadini armeggiando in via Larga, in una sera illuminata dalle fiaccole, in onore di Galeazzo Maria, figlio di Francesco Sforza duca di Milano e a quel tempo principale alleato della Firenze di Cosimo, che aveva denunziato ormai l’antico legame con Venezia. D’altronde, Benozzo si è ispirato, per gli abiti dei tre Magi effigiati nella cappella, alle vesti che nel 1423 Gentile da Fabriano aveva messo indosso ai suoi Magi, dipinti su commissione e in onore della famiglia Strozzi. La citazione non poteva passare inosservata ai Fiorentini del tempo e ha, nella sua intenzionalità, il valore d’una risposta e d’un gesto trionfale: l’appropriarsi delle spoglie del nemico vinto. Non è escluso che Gentile avesse ritratto vesti realmente indossate da qualche membro della famiglia Strozzi durante uno dei molti corteggi dei Magi che si facevano in Firenze dal 1390 in poi, o che le avesse con la sua pittura suggerite; e che per l’armeggeria del 1459, gli stessi abiti indossati dal giovanissimo Lorenzo s’ispirassero alla pala Strozzi per significare che le aspirazioni all’egemonia sulla città, un tempo proprie di quella famiglia, erano ormai definitivamente passate a loro. Gozzoli non faceva che legittimare e fissare per sempre, con il suo affresco, quella vittoria e quelle pretese. I Magi erano, una volta di piú, simbolo di dominio.

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bevagna i mestieri del medioevo gaita santa maria

Lusso da torcere L L L’ARTE DELLA SETA

di Flavio Crippa

a Gaita Santa Maria ha scelto fin dalle origini di presentare fra i mestieri in gara nel Mercato delle Gaite la lavorazione della seta, attività fra l’altro testimoniata e descritta con molti particolari nella documentazione degli archivi di Foligno. La seta è una fibra tessile molto apprezzata e oggetto, già nel mondo classico, di una vivace attività commerciale, anche se per secoli le popolazioni mediterranee hanno indossato tessuti di seta senza conoscerne l’origine. Si riteneva persino che la seta venisse raccolta il mattino presto da alberi particolari esistenti in Oriente! Solo intorno all’anno 550 alcuni monaci seguaci del vescovo Nestorio portarono dall’Asia orientale a Costantinopoli, capitale dell’Impero d’Oriente, un certo numero di uova da cui sarebbero presto nati i bachi in grado di produrre in Occidente la «seta cinese», sul mercato ormai da secoli. Si trattava del Bombyx mori, insetto selezionato in Cina circa 3000 anni prima e per molti secoli allevato su concessione imperiale. Questo baco si nutriva solo di foglie di «gelso nero», pianta che produce more scure già presente in Occidente. Il «gelso bianco», oggi molto diffuso, fu invece importato dall’Asia anni dopo. I monaci rivelarono anche una fondamentale scoperta cinese, ossia

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Un’immagine della tessitura della seta effettuata dalla Gaita Santa Maria.

Una delle materie prime piú pregiate della storia, la seta, nasce da un insetto, il Bombyx mori, capace di secernere un lungo filamento del quale, nell’antica Cina, si intuí il potenziale sfruttamento. Ebbe cosí inizio una storia lunghissima, di cui anche l’Italia – e l’Umbria – furono protagoniste e che la Gaita Santa Maria ha fatto rivivere, ricostruendo fedelmente i macchinari in uso nei secoli del Medioevo


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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Le molte strade del prezioso filo Il termine Seidenstrasse (Via della Seta) apparve per la prima volta nel 1877, nei Diari della Cina (Tagebücher aus China) del geografo e viaggiatore tedesco Ferdinand von Richthofen (1833-1905). In realtà, sarebbe piú opportuno parlare di «vie» della seta, considerando i molti tragitti e diramazioni che si sviluppavano per migliaia di chilometri e che, dalla capitale cinese, Chang’an (oggi Xi’an), raggiunsero il Mediterraneo.

Tan Tan a a Ven V e ene ezi ez zziia Gen G Ge enova en ova ov va Ve Pis P iis sa sa Fiirre Fir F enz en nz nze Nap Na N ap a poli poli ollii ol

Co C Cos os osttan ta antin an tin ti iinopo nopo op op po oli (Issta (Is ttan an a nbul b ) bu

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Le «vie» della seta Percorso principale Itinerario descritto nel manuale per mercanti di Francesco Balducci Pegolotti (1330-1340)

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Percorsi alternativi Il canale imperiale in epoca Yuan (1279-1368) Rotte marittime

A sinistra un baco da seta (Bombyx mori) secerne i filamenti che danno vita al suo bozzolo e dai quali si ricava successivamente il filo di seta.

che il filo del bozzolo è unico, il piú lungo presente in natura, e si può svolgere interamente: basta cercarne il capofilo sulla superficie del bozzolo bagnata con acqua calda e tirarlo sino a che non finisce, avvolgendolo poi

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Sam am marc arcan and and nda

sull’aspo di raccolta mosso a mano; i fili dei bozzoli si possono anche accoppiare a piacere. L’insieme di queste operazioni è la trattura della seta. Nell’arco di circa due secoli l’allevamento del bigatto e la tecnica della trattura dei bozzoli per produrre seta di qualità mai vista si diffuse in tutto il Mediterraneo. In Occidente, da millenni, tutti i fili destinati a tessere tessuti – ladicembre

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a

A sinistra tavoletta lignea raffigurante la leggenda della «Principessa della seta», che, andando in moglie al re di Khotan, nascose uova di baco e semi di gelso nel suo copricapo, introducendo cosí la sericoltura nell’Asia centrale, da Dandan Oilik (Khotan, Xinjiang, Cina). VIII sec.

Alm A lm mali a gia i (Al (A Almat Al Almat ma aty at y)) Tok To okm ok ma mak ak ak Tal T allas a as

Ham Ha ami a Yum Yu Yum men

Ka Kas K ashga as hg hg ga ar Yar Y Ya arkan kka and an

Tu Tur urfan ur urfan an an

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Cha Cha Ch hang ng' n g''a g an n (Xi ((X X 'an 'a an) Yan Yangzh Yan angzh g ou gz ou

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na, cotone, canapa – venivano ottenuti da fibre corte, trasformate in filo attraverso un processo di torsione; la seta ottenuta con la trattura cinese, invece, dava un filo già pronto, lungo a piacere: una novità che destò grande sorpresa. A partire dal 1250 circa la manifattura serica divenne in Occidente una vera e propria «industria moderna» e la seta si trasformò gra-

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dualmente in un «prodotto occidentale» restando tale fino alla metà del Novecento. Nel corso della quarta Crociata (1204), che sotto l’apparenza di una guerra contro l’Islam e in difesa della Terra Santa si rivolse in realtà contro l’impero bizantino, gli Europei arraffarono, a Corinto come a Costantinopoli e altrove, il piú possibile. Si appropriarono anche di tre utilissimi macchinari di

ideazione asiatica, della cui origine si sa ancora molto poco: la ruota da filare, necessaria per torcere le fibre corte e ottenere un filo della lunghezza desiderata, ma utile anche per incannare, che si diffuse rapidamente nelle città e nelle campagne europee; il telaio orizzontale alto, uno strumento per produrre tessuti molto pratico e avanzato, che ottimizzò il lavoro dei tessitori europei; e, infine, il torcitoio circolare da seta mosso a mano, ossia la macchina ricostruita a Bevagna. Al momento di lasciare l’area mediorientale per rientrare in patria, i crociati lucchesi caricano su una delle loro navi proprio quest’ultimo congegno, dopo averlo visto spesso in funzione in quelle regioni. A Lucca lo rimontano e lo provano: è costituito da un gabbione cilindrico in legno chiamato «pianta», con una parte interna, sempre cilindrica, detta «giostra»; lo spinge una persona che cammina dentro la macchina, mentre una seconda regola l’avvolgimento del filo torto sugli aspi e riannoda eventuali fili rotti.

I vantaggi della meccanizzazione

Il torcitoio, che ha un diametro di circa tre metri e si estende per altrettanti in altezza, può stare in una stanza. Dai disegni pervenuti si osserva che una singola macchina riesce a torcere contemporaneamente 72 fusi (divisi in due ordini circolari, chiamati «valichi», uno basso e l’altro piú alto, da 36 fusi ciascuno), con inseriti altrettanti rocchetti di seta. Dopo 6-8 ore, il filo dei rocchetti è tutto torto e avvolto in matasse sugli aspi posti appena sopra i rocchetti. La torcitura eseguita a mano, fino ad allora in uso, con al piú due rocchetti per volta, richiedeva il lavoro di una persona per 10-12 ore: si determinava cosí, a parità di addetti, un miglioramento da 1 a 50. La produttività del torcitoio era incomparabile!

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I Lucchesi riescono a mantenere segreto il torcitoio per poche decine di anni. Conflitti interni e guerre con la vicina Pisa nel corso del XIII secolo, ma anche la migrazione di chi fugge dalla città, portano però altrove le conoscenze tecniche. Nel Trecento, a causa di altri scontri armati, il torcitoio viene costruito e utilizzato a Firenze, poi migra a Bologna, Venezia e Milano, e viene successivamente copiato perfino a Norimberga. Presto se ne costruiranno centinaia di esemplari con molte varianti, comprese quelle mosse da ruote idrauliche, che aumentano notevolmente la capacità di lavoro. In

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Sulle due pagine il torcitoio ricostruito dalla Gaita Santa Maria e un momento della sua utilizzazione da parte di Alfredo Properzi, che è stato uno degli artefici della sua realizzazione.

effetti, si tratta della macchina piú complessa comparsa in epoca preindustriale, la sola che, nel suo principio funzionale, è rimasta immutata per 700 anni. Come tale ha dato un impulso fondamentale alla nascita del sistema industriale.

Una tradizione secolare

La scelta della Gaita Santa Maria di ricostruire l’«Arte della Seta» nacque nel 1995 dalla constatazione della notevole importanza che questa fibra aveva in Umbria nel tardo

Medioevo: un’importanza che non diminuí nei secoli successivi, se è vero che nel Settecento esistevano intorno a Bevagna campi con gelsi e un consorzio per la vendita dei bozzoli e che ancora nel 1970 un gran numero di donne si dedicava all’allevamento del baco e alla vendita dei bozzoli. Dopo le necessarie verifiche la decisione finale fu presa all’inizio del 1997. Il merito spetta a un gruppo di studiosi e volonterosi consiglieri della Gaita, quali Anacleto e Pia Giorgetti, Atdicembre

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tilio Mattioli, Alfredo e Gianluigi Properzi e Anna Fanelli. La ricerca dei metodi di lavorazione medievale ha portato questi appassionati a contattare fin dal 1997 i musei di tecnologie seriche della provincia di Como, negli ultimi due secoli la piú vasta area italiana del settore. Il caso ha voluto che il Civico Museo della Seta Abegg di Garlate possedesse il torcitoio circolare meccanizzato piú antico e funzionante e che il direttore di questa istituzione avesse completato nel

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1991 il lungo restauro di tre macchinari tessili antichi oggi esposti, tutti funzionanti, al Museo della Moda e delle Arti Applicate di Gorizia. Tra loro figurava un «torcitoio circolare da seta» manuale: costruito nel 1765 nel Goriziano, è in assoluto il piú antico esemplare di questo tipo pervenuto fino a noi. La delegazione incaricata dalla Gaita Santa Maria, naturalmente, visitò la struttura e in quell’occasione ebbe le indicazioni per procurarsi i bachi da seta da allevare, per trovare

rocchetti di seta greggia incannata da porre in lavorazione sul torcitoio e, infine, per costruire una bacinella trecentesca con cui effettuare la trattura dei bozzoli. L’abilità dei tecnici Giampaolo Ciancabilla e Marco Massini, inviati dalla Gaita a disegnare e riprodurre ogni particolare del torcitoio per ricostruirlo fedelmente, fu tale che nel maggio 1997, a quattro mesi dall’inizio dei lavori, la macchina era già terminata e in funzione. Il torcitoio era dotato di 144 fu-

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Una festosa immagine del popolo della Gaita Santa Maria.

si, tutti con rocchetti pieni di seta greggia, divisi in due ordini circolari identici (valichi), disposti con 72 fusi ciascuno, uno in alto e uno in basso; ciascuno dei due valichi era diviso in 12 settori, ognuno col proprio aspo. In totale, dunque, possedeva 24 aspi, capaci di avvolgere contemporaneamente 144 matasse. Restava però una questione aperta: il torcitoio ricostruito era sí antico, ma la struttura era quella risalente al Sei-Settecento, con 6 fusi per ogni settore di ciascun valico, mentre nel Tre-Quattrocento ve n’erano solo 3. La modifica, che raddoppiava e migliorava la produzione, fu introdotta da Leonardo da Vinci a Milano verso il 1485 e subito imitata ovunque. Un secondo problema era rappresentato dal fatto che nei torcitoi circolari da seta, per ragioni di dinamica strutturale, la

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«giostra» può ruotare solo in senso orario e cosí i fusi, con il risultato che la torsione del filo ottenuta è unicamente quella «di torto», che gli specialisti indicano con «S».

Le migliorie di Leonardo

Affinché i fusi possano ruotare in senso orario, invece di muoverli tutti come si fa con la fune esterna trascinata dalla giostra, li si muove con una circonferenza di legno dall’interno, sempre trascinata dalla giostra del torcitoio. In questo modo si ottiene la torsione detta «di filato», indicata con «Z». Avendo a disposizione anche questo tipo di torsione è possibile produrre filati molto pregiati, difficili da realizzare, come l’organzino, inventato sempre in Oriente. Fu ancora una volta Leonardo da Vinci a perfezionare il meccanismo, introducendo, al posto della circonferenza, una sequenza di settori circolari premuti dall’interno contro i fusi.

Proporre la copia fedele del torcitoio settecentesco di Gorizia fu un ottimo punto di partenza per la Gaita Santa Maria. Ma l’obiettivo restava quello di adeguare pienamente la macchina all’epoca di riferimento delle gare, passando a 3 fusi per settore e modificando la circonferenza interna per cambiare tipo di torsione su un valico. Nel 2004, finalmente, gli interventi furono effettuati – a titolo gratuito – da Luciano Franceschini e Gianni Giubila della ditta Celi di Terni, la stessa che esegue le ottime ricostruzioni dei grandi torcitoi seicenteschi di Caraglio (Cuneo) e di quelli della metà del Settecento di San Leucio a Caserta. A seguire il progetto e i lavori fu ancora il direttore del Museo Abegg del Comune di Garlate. Il torcitoio assunse cosí tutte le caratteristiche della splendida macchina ricostruita che è possibile ammirare oggi a Bevagna. dicembre

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LA SEGA IDRAULICA

LA FORZA DELL’ACQUA

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opo avere portato a termine nel 1997 la ricostruzione del torcitoio circolare a mano, i consiglieri della Gaita Santa Maria possono dedicarsi all’allestimento del secondo mestiere, che vorrebbero di livello paragonabile a quello già realizzato. Questa volta, a polarizzare l’attenzione dei volontari sono le acque del fiume Clitunno, che scorre a ridosso del loro rione e da secoli mantiene in attività – circostanza ormai molto rara – un mulino da grano. L’uomo ha da sempre dimestichezza con l’acqua, senza la quale non esisterebbe: si accorge da subito che la sua potenza può essere un pericolo, ma anche un grande vantaggio e questa consapevolezza lo porta, alcuni millenni fa, a inventare la ruota idraulica. Ora sí che l’acqua diventa un aiuto prezioso alle sue at-

tività! La può innalzare per irrigare i campi, ma anche utilizzare per muovere macine, torni, trapani, torcitoi e molti altri dispositivi.

Un documento prezioso

L’idea, dunque, è quella di far rivivere un’attività legata alla forza dell’acqua, ma come? Per descrivere la genesi del nuovo mestiere, bisogna tornare indietro a prima del 1997, al 1993, quando Alfredo Properzi, noto ricercatore e consigliere della Gaita Santa Maria, legge il libro di Roland Bechmann Villard de Honnecourt. La pensée technique au XIIIe siècle et sa communication. Si tratta di un’analisi dettagliata dei 33 fogli superstiti di un taccuino lasciato da Villard de Honnecourt, probabilmente risalente agli anni 1225-1235 e contenente disegni tecnici di varie cattedrali, dalla finezza eccezionale. Properzi studia il testo e, fatto straordinario, vi trova il disegno di una sega idraulica del XIII secolo completa di ogni componente e osservata mentre sta tagliando un tronco d’albero per ricavare ta-

vole di legno. Colpito dal disegno, decide di esaminare, nell’Archivio storico del Comune di Gubbio, la documentazione relativa alle attività svolte nel Trecento e i relativi regolamenti: trova cosí lo statuto dell’Arte dei falegnami, dove legge che, tra gli addetti, figurano anche i «segatori di tavole» di legno, circostanza che trova conferma in un analogo statuto fiorentino. È proprio la documentazione che serve, e nella forma migliore, visto che completa la rappresentazione della sega idraulica, ben documentata e datata, col mestiere di segatore di tavole contemplato nell’Arte dei falegnami. Tutte attività relative al XIII e XIV secolo. Nel 2001 il consiglio della Santa Maria, presieduto dal Console Gianluigi Properzi, decide di costruire la nuova macchina come «secondo mestiere» della Gaita, utilizzando le acque del Clitunno quale storica e prestigiosa fonte di energia per la ruota idraulica. In quello stesso anno cominciano i lavori. Incaricati del progetto e della costruzione sono

La sega idraulica ricostruita dalla Gaita Santa Maria a partire da un disegno del XIII sec.

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bevagna i mestieri del medioevo Sega idraulica di Villard de Honnecourt 1215-1235

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1. lama in acciaio della sega 2. coppia di bielle per la trazione della lama 3. quattro manovelle azionate dalla ruota idraulica 4. sostegni mobili delle bielle 5. albero della ruota idraulica 6. ruota idraulica in legno 7. pale della ruota idraulica 8. corrente d’acqua del canale

Marco Massini e Giampaolo Ciancabilla, affiancati dal responsabile del Civico Museo della Seta Abegg di Garlate, lo stesso gruppo che ha già realizzato il mestiere della seta.

Difficoltà interpretative

Il primo approccio al disegno di Villard evidenzia subito le difficoltà di interpretazione del grafico tecnico originale, steso con modalità molto differenti rispetto al modo di disegnare di oggi. Per esempio, l’orientamento fisico e la funzione dei componenti mobili della sega

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9. supporto albero della ruota idraulica 10. r uota con sporgenze dure di spinta del tronco 11. p ianta giovane flessibile per richiamare la lama 12. f orcella in legno di sostegno del richiamo 13. tronco durante il taglio in tavole 14. g uide di contenimento del tronco sotto taglio

non sono facili da capire. Non è un caso se i modelli realizzati fino a pochi decenni fa hanno limiti di funzionamento molto evidenti, riflesso di errori di interpretazione di alcune parti. Nelle caratteristiche della sega disegnata da Villard si notano scelte condizionanti, tipiche dell’epoca. Cosí la lama ha i denti orientati per segare solo durante la discesa, quando viene tirata in basso, mentre il ritorno in alto deve farlo a vuoto non potendo segare. Ma nonostante ciò non sempre è pronta per la discesa successiva.

Il grosso albero della ruota idraulica è prolungato all’esterno di essa per arrivare dentro la struttura della sega. Qui è munito di una ruota con quattro robusti spuntoni radiali (manovelle) che spingono dall’alto in basso due leve accoppiate (bielle, va e vieni), disposte per tirare la lama dentata della sega verso il basso mantenendola verticale. A ogni giro della ruota, la coppia di leve muove la lama quattro volte. La risalita della lama e delle bielle è attuata grazie all’energia elastica di richiamo di un piccolo fusto di pianta legnosa giovane, che viene flessa e messa in tensione quando la lama scende. Terminata la forzatura della discesa, il fusto piegato della pianta si raddrizza, riportando lama e bielle in alto dov’erano. Ma può accadere che lo spostamento verso l’alto non sia completo e nascano problemi. Il funzionamento della lama è complesso: questa, a parte i denti, è piana e resta sempre ben verticale grazie allo scorrimento tra due guide lisce e oliate, una in alto e l’altra in basso. Ogni dente ha un fronte anteriore, tale da staccare subito dal tronco una piccola scheggia di legno, ovvero un granello di segatura. La parte posteriore del dente è obliqua per reggere la spinta durante il taglio e non piegarsi. Modello della sega idraulica documentata da Villard de Honnecourt. Münster, Universität Münster, Institut für Technik und ihre Didaktik.

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I denti sono anche leggermente divergenti verso i lati esterni della lama in modo alternato (istradatura). Ciò serve a ricavare nel tronco un solco largo circa tre volte lo spessore della lama per farla operare con minore difficoltà, scaricando cosí con poco attrito la segatura che crea. L’albero motore della ruota idraulica è perpendicolare al tronco da tagliare e si trova appena sotto di esso. In quel punto sull’albero è inserita una piccola ruota munita di sei protuberanze non rigide, ma dure, che spingono il tronco contro i denti della lama per favorirne il taglio senza interruzioni. Anche le ruote idrauliche sono il frutto di esperienze maturate nel tempo e da millenni sono suddivise in categorie strutturali molto differenti. La scelta del tipo di ruota per la sega in questione viene dalla tipologia del bacino e dell’unico salto d’acqua utile del fiume Clitunno prossimo alla Gaita, salto sfruttato in antico da un mulino da grano ancora

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presente, ma fermo da molto tempo, e da un secondo mulino adiacente, piú recente e attivo.

Massimo sfruttamento

Nella parte inferiore della ruota le pale sono immerse nel flusso d’acqua del canale di alimentazione, in modo che ogni singola pala sia tutta investita dal flusso senza perdite sopra, sotto o laterali. La saracinesca, una barriera di legno del canale di alimentazione che regola il flusso d’acqua proveniente dal bacino di accumulo, viene gestita a mano a seconda del livello disponibile e della forza richiesta, cosí da sfruttare al

massimo la spinta dell’acqua, consumando solo la quantità necessaria. Nel giugno 2001, dopo cinque mesi di intenso lavoro, la sega idraulica è terminata. Viene provata con il taglio di piú tronchi e considerata in grado di lavorare in modo efficiente e può quindi essere proposta nella Gara dei Mestieri. E cosí nelle edizioni successive del Mercato delle Gaite. È interessante osservare che alla fine del Medioevo Leonardo da Vinci, nella sua immensa produzione, studiò anche questo congegno risolvendo diversi problemi. Nella versione perfezionata dal genio toscano, per esempio, il ritorno della lama viene assicurato direttamente dalla ruota idraulica: in tal modo la lama è sempre in posizione corretta quando deve scendere e, se si vuole, quando sale può segare. Cosí facendo la produttività cresce. Altre modifiche leonardesche, non meno importanti, ridussero la fatica degli addetti al carico e all’alimentazione del taglio. Peccato che gli uomini del Due-Trecento non le conoscessero ancora. Flavio Crippa

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bevagna i mestieri del medioevo L’OSTE ALBERGATORE

CI VEDIAMO ALLA «LUNA»!

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uella dell’oste-albergatore è una delle professioni medievali piú comuni. Del resto la crescita economica delle realtà urbane e l’intensificarsi degli scambi commerciali che si registrò nell’Europa occidentale a partire dal X-XI secolo determinarono un notevole incremento degli spostamenti per fini commerciali, politici e religiosi, tale da suscitare il bisogno di servizi di accoglienza capillari e capaci di soddisfare le esigenze di molte categorie sociali. Nell’ambito della Gara dei Mestieri del Mercato delle Gaite, l’interesse della Gaita Santa Maria per questa professione nacque, oltre che dalla volontà di rappresentare un’attività molto diffusa e tipica della società bassomedievale, anche umbra, dalla certezza di riuscire a offrire una ricostruzione fedele e verosimile dell’ambientazione di una locanda bevanate del Trecento. Piacque soprattutto la sfida di ricostruire con rigore scientifico il mondo dell’accoglienza professionale, rappresentando in modo completo e articolato tutti gli aspetti dell’universo che ruotava intorno a una locanda, sfatando luoghi comuni e riproponendo scene di vita rigorosamente documentate. Quello dell’accoglienza a pagamento era infatti un settore ben regolamentato dalla normativa comunale, attenta a esercitare un controllo sia fiscale che sociale su un luogo d’incontro e aggregazione di persone di diversa condizione e provenienza. La scelta di questo mestiere da parte della Santa Maria si spiega inoltre con la disponibilità di ambienti che si adattavano perfettamente alle caratteristiche di una locanda medievale e consentivano di allestire la fedele ricostruzione del mestiere.

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L’albergo e la locanda, genericamente indicati nelle fonti anche con il termine hospitium, erano gli esercizi predisposti a somministrare cibo e a offrire il pernottamento agli ospiti. Tali strutture si distinguevano nettamente dalle taverne o dai cellieri, in cui era consentita solo la mescita di bevande. Se lungo il cammino una sosta di emergenza, dovuta alle pessime condizioni atmosferiche o a qualche inconveniente di viaggio, costringeva tutti i viaggiatori ad adattarsi ai servizi dell’unica locanda esistente, nei centri abitati piú grandi la qualità dell’accoglienza variava molto.

Insegne «parlanti»

L’insegna era uno degli elementi piú identificativi della professione, sia quale richiamo visivo, sia per la capacità di veicolare il messaggio di ospitalità dell’oste. Cosí alcune locande si rifacevano ai simboli dell’accoglienza (le chiavi, le frasche), altre agli elementi astrali cari ai viaggiatori (la stella, la luna) o alle virtú del bestiario medievale (il gallo, il pavone, l’oca), altre ancora alle protezioni del potere locale (la corona, il re), oppure invocavano la protezione dei santi piú amati dal popolo (sant’Antonio, san Michele, san Giovanni). L’insegna era anche la garanzia di un luogo sicuro per il viaggiatore, tanto che vi potevano essere apposti i simboli dell’appartenenza alla Corporazione di riferimento e dell’autorità locale. Prendendo a modello un documento del XV secolo relativo alla committenza di un’insegna per un oste di San Quirico d’Orcia, nel Senese, la Gaita Santa Maria ne riprodusse una per la sua locanda, seguendo fedelmente le indicazioni contenute

Uno degli ambienti della «Luna», ricostruzione di una tipica locanda bevanate trecentesca.


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bevagna i mestieri del medioevo

nella fonte. Si trattava di una tavola in legno da esporre «a bandiera», con i lati verticali piú lunghi; unica variante il simbolo dipinto al centro che dava il nome alla locanda, una luna, e in basso, ai due lati, gli emblemi dell’Arte degli Albergatori e dell’autorità locale. La locanda ricostruita riproduceva la realtà di un locale di medie dimensioni perfettamente adeguato alle caratteristiche della cittadina di Bevagna in età bassomedievale. L’hospitium della Luna era uno stabile che presentava il tipico sviluppo su piú livelli. Al piano terreno l’ingresso si apriva sull’ambiente principale adibito a taverna con il banco della mescita e diversi tavoli in cui gli avventori potevano consumare vino e pasti caldi. Al lato del refettorio si trovava la cucina, un ambiente con focolare per la cottura dei cibi, piani in legno per la lavorazione delle pietanze, la madia del pane, oltre a numerosi utensili, come paioli, pentole, mestoli, coltelli, pinze, mortai, bicchieri e contenitori di varie dimensioni per la conservazione di alimenti e verdure. Alla Luna l’attività della cucina

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era gestita dalla moglie dell’oste, quotidianamente occupata a preparare le pietanze per gli avventori con l’aiuto dell’anziana madre e di una nipote. Anche il figlioletto di 11 anni dava una mano alla conduzione dell’albergo, portando in un cesto di vimini le verdure raccolte nell’orto della famiglia e andando alla fonte a prendere l’acqua.

Il forno per il pane

In un ambiente adiacente alla cucina si trovava il forno che l’oste accudiva personalmente, strumento indispensabile per ogni albergo degno di questo nome: utilissimo per la conduzione della locanda, veniva sfruttato anche per cuocere il pane, che l’oste vendeva direttamente o che infornava per conto di terzi. In molte città gli albergatori erano addirittura assimilati alla Corporazione dei panettieri e, come tali, avevano licenza di cuocere e vendere il pane per la cittadinanza. Il prestigio di un albergo era determinato, allora come oggi, dalla qualità del locale e dei servizi offerti. Le strutture che miravano ad accogliere i personaggi piú facoltosi e di

alto rango disponevano di camere ampie, ben arredate e fornite di suppellettili di pregio, nonché di un adeguato sistema di riscaldamento. Inoltre offrivano il servizio di stallaggio e il personale per accudire e ferrare i cavalli dei viaggiatori. Tali privilegi erano però destinati a pochi, mentre la maggior parte degli hospitia aveva dimensioni ridotte e offriva servizi piú modesti, pur in una varietà di ambienti che andava dalle locande di medie dimensioni a piccoli locali, dove spesso si divideva la camera e perfino lo stesso letto. La Luna di Bevagna offriva l’ospitalità di due camere al piano superiore, modeste quanto a dimensioni, ma arredate con due grandi letti, buone e fresche lenzuola di lino, una bella coltre in lana per l’inverno, un mobilio essenziale, costituito da una cassapanca, un piccolo desco (tavolo) e un paio di treppiedi. Dava luce e aria a ogni stanza una finestra, che si poteva chiudere e oscurare con un doppio tendaggio. Guillaume, l’oste della Luna, era un signore sui quarant’anni, d’origine tedesca. La presenza in Italia di ristoratori di origine germanica, dicembre

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Sulle due pagine immagini che documentano i servizi offerti dalla Luna: ristorazione, pernottamento e servizio di stallaggio.

stando ai documenti, era tutt’altro che rara e, per la Gaita, funzionale all’idea di rappresentare la produzione della birra, al tempo meglio conosciuta come «cervogia». Guillaume, infatti, la offriva agli avventori del suo locale in alternativa al vino del luogo. La birra era prodotta nel celliere ubicato a poca distanza dalla locanda e, durante la Gara dei Mestieri, l’oste mostrava a un suo ospite le varie fasi necessarie per ottenere la bevanda: selezione e preparazione del luppolo e degli aromi, fermentazione, filtraggio, riposo nelle botti. A questo punto la birra era pronta per essere gustata. Ma chi erano gli avventori di una locanda come la Luna? I clienti erano della piú diversa origine e condizione sociale: piccoli commercianti in viaggio verso i mercati fuori dal loro territorio, vetturali, uomini in cammino per motivi personali, pellegrini agiati che cercavano di evitare la promiscuità degli ospedaletti. Insieme a loro, però, frequentavano gli alberghi anche personaggi poco raccomandabili, avventurieri, ladruncoli, giocatori d’azzardo, figure che vivevano alla

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giornata e che trovavano in questi spazi le condizioni ideali per mettere in atto le loro azioni delittuose. Non apparirà strano, quindi, che le locande fossero anche luoghi pericolosi e costantemente tenuti sotto controllo dalle autorità.

Dadi truccati

Ecco che nella taverna della Luna, intorno a un tavolo, quattro uomini giocavano a «zara», un gioco d’azzardo con i dadi che consisteva nell’indovinare il punteggio prima del lancio. Due giocatori erano bari, che cercavano di «spennare» gli altri usando il trucco dei dadi implumbati. A interrompere i loro piani, però, arrivano d’improvviso le guardie comunali, chiamate dall’oste per sedare una lite scoppiata al piano superiore tra due occasionali compagni di strada che, conosciutisi il giorno prima in un albergo vicino a Perugia, avevano deciso di viaggiare insieme e di condividere la camera. Uno dei due, evidentemente, era un furfante fintosi viaggiatore per accompagnarsi all’altro e derubarlo alla prima occasione. Sparito il denaro, il derubato ac-

cusava il compagno di stanza ed era scoppiata una lite furibonda, tanto che l’oste non aveva avuto altra scelta che far intervenire la forza pubblica. Ma il ladro, certamente dotato di una certa esperienza, aveva provveduto a nascondere fuori dall’albergo la refurtiva, tanto che le guardie, non trovandogli indosso denari, non poterono arrestarlo. Non mancarono invece di far notare all’altro la sua dabbenaggine, visto che avrebbe dovuto nascondere il denaro nella giubba e poi riporla sotto il cuscino mentre dormiva. Certamente da quel momento i due si sarebbero separati, ma ormai il danno era fatto e alla vittima non restava che il rammarico di essersi unito a un compagno sconosciuto. Evidentemente ignorava i consigli di Paolo da Certaldo, che, nel suo Libro di buoni costumi, stigmatizzava cosí i pericoli del viaggio e le cattive compagnie presenti negli alberghi: «se vai in alcuno luogo di rischio, muoviti a tua posta, e va senza dirlo a persona dove vadi. Anzi, se vai a Siena, di’ tu vadi a Lucca: e andrai sicuro dalla mala gente». Maurizio Tuliani

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testi di Amedeo Feniello, Simone Sisani, Alfonso Forgione, Pierluigi Terenzi, Silvia Mantini e Cristiana Pasqualetti

L’AQUILA

«Magnifica citade»

In un privilegio datato 1254 Corrado IV di Svevia stabilisce che nasca una nuova città, filoimperiale e antifeudale. I tanti castelli, i piccoli villaggi e gli insediamenti sparsi si aggregano, cosí, in un unico e rilevante nucleo urbano che, nell’arco di pochi decenni, diventa lo snodo cruciale dei grandi percorsi della transumanza e il crocevia degli scambi commerciali tra il Nord e il Sud della Penisola Gonfalone della città dell’Aquila, dipinto su seta di Giovanni Paolo Cardone. 1579. L’Aquila, Museo nazionale d’Abruzzo.


Dossier

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dificare una città non è un’impresa semplice: un assunto perfetto per L’Aquila. La sua origine non appartiene a quella storia caotica e tumultuosa dell’esplosione di tante costellazioni di città omogenee, ma diverse, simili, ma differenti, a cui diamo il nome di rivoluzione urbana medievale, cominciata nel corso del fatidico XI secolo. L’Aquila vive un’altra storia, piú recente, ma non per questo meno avvincente, che merita di essere raccontata. La genesi della città non fu rapida. Non si immagini cioè una fondazione avvenuta da un giorno all’altro. Anzi, ci vollero diversi decenni prima che essa raggiungesse una fisionomia stabile. Ma quando ancora L’Aquila non aveva preso forma, che cosa c’era nella prima metà del Duecento? Un mondo frammentato. Con due diocesi, antiche, separate. Da una parte Amiterno, dall’altra Forcona. Intorno, altri borghi e castelli; e tante

Sulle due pagine miniatura raffigurante la battaglia di Benevento, combattuta nel 1266 dalle truppe di Carlo I d’Angiò contro le forze guidate da Manfredi di Sicilia, figlio naturale di Federico II. Lo scontro si concluse con la vittoria degli Angioini e la morte dello stesso Manfredi. In basso sigillo con l’effigie di Corrado IV, sovrano che ebbe un ruolo decisivo nello sviluppo della città dell’Aquila.

terre, possesso dei Cistercensi di S. Maria di Casanova. Un universo fluido, incoerente e poco organico. Inserito in un contesto feudale instabile e violento, ostile alla casa di Svevia, tanto da spingere l’imperatore Federico II a costruire, in questo tratto strategico per il regno di Sicilia, una serie di fortezze per contenerne il ribellismo. Un coacervo, insomma. Difficile da frenare e da riportare all’ordine. Un primo tentativo di fondare proprio lí, tra Amiterno e Forcona, una città, non è però attribuibile a

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Federico. Ci pensa papa Gregorio IX, acerrimo nemico dell’imperatore, nel 1229, in modo da creare un aculeo antimperiale ai confini del regno. Ma la proposta non regge. Le basi non sono solide. E poi l’imperatore è piú forte e blocca qualsiasi progetto che non collimi con la sua politica. La città, dunque, non nasce. Ma era nata un’idea: trasformare i tanti castelli, piccoli villaggi e insediamenti sparsi in un unico e rilevante nucleo urbano. L’epoca di Federico sembra trascorrere cosí. Senza un nulla di fatto. Ma qualcosa cova sotto la cenere. Perché, prima della città, già si

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forma una coscienza cittadina. È il rifiuto della pressione feudale, d’una serie immaginabile di angherie e di soprusi che spinge i gruppi piú attivi di questa congerie insediativa a creare una nuova città in contrapposizione ai caotici poteri locali.

Una spinta dal basso

Un obiettivo chiaro, che traspare in tutta la sua evidenza nelle parole del cronista Buccio da Ranallo, morto nel 1363: «Lo cunto serrà d’Aquila, magnifica citade / Et di quilli che la ficiro con grande sagacitade / per non esser vassalli cercaro la libertade / Et non volere signore se non la mage-

stade». L’Aquila nasce cosí, da una violenta spinta dal basso. Da una spinta rivoluzionaria. Con la coerente convinzione che uniti si vince contro l’oppressione dei signori feudali. Attraverso un processo di crescita che si dipana, tra alterne vicende, nel periodo di interregno tra la morte di Federico II e la nascita del nuovo regno angioino. Sedici anni circa, durante i quali questa gestazione produce i suoi effetti, scaturiti da una volontà non solo di natura politica – con la consapevolezza del ruolo cruciale della città in questo settore del regno –, ma anche economica, in cui L’A-

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Dossier A sinistra stemma settecentesco dell’Aquila, nel Forte Spagnolo.

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quila si propone come snodo dei grandi percorsi della transumanza e di crocevia dello scambio tra Nord e Sud della Penisola. È Corrado IV, il figlio di Federico, a dare il primo segno dell’esistenza della città. Tra il 1253 e il 1254 egli stabilisce che nasca la città dell’Aquila, con uno scopo preciso, filoimperiale e antifeudale. Non a caso, viene liberato da ogni obbligo chi si fosse

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La facciata della basilica di S. Maria di Collemaggio, fondata nel 1288 da Celestino V, fuori le mura cittadine.

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trovato a vivere entro i suoi confini. E, soprattutto, si ordinava l’abbattimento delle rocche feudali. Sembra dunque che un primo centro urbano già esista e che attenda solo l’imprimatur istituzionale. È un momento chiave della storia della formazione dell’Aquila, cui ne segue un secondo, drammatico e violento, quando la nuova città viene coinvolta nello scontro tra Manfredi e il papato.

È il 1257. Papa Alessandro IV decide di trasferire la sede episcopale da Forcona nella nuova città: un atto fondamentale, che sancisce ruolo, pretese e legittimità del centro urbano. Un atto, però, che è anche una presa di posizione, filopapale. Per Manfredi è un affronto. Nel 1259 ordina di assalire la città, che viene letteralmente spazzata via. «Né casa vi rimase, né pesele, né tic-

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Dossier La città e i suoi monumenti

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Pianta dell’Aquila con i suoi principali monumenti civili e religiosi: 1. Forte Spagnolo, Museo nazionale d’Abruzzo; 2. Basilica di Collemaggio; 3. Silvestro; 4. Palazzo Franchi; 5. S. Maria di Paganica; 6. S. Pietro di Coppito; 7. S. Domenico; 8. S. Bernardino; 10. Duomo di S. Massimo e Palazzo Arcivescovile; 11. S. Marco; 12. S. Giusta; 13. S. Flaviano; 14. Fontana delle Novantanove Cannelle; 15. S. Maria di Roio; 16. S. Quinziano (S. Pietro di Sassa).

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to», scrive Buccio da Ranallo. La storia dell’Aquila, appena cominciata, sembra chiudersi qui. In un destino di morte e distruzione, definitivo. Le cose invece procedettero diversamente. Certo, come scrive ancora Buccio, la ripartenza fu difficilissima, al punto che la città «se’ anni stette sconcia», per sei anni fu semiabbandonata, coi suoi cittadini scampati nei paraggi. Tuttavia, si apre ora la fase finale della formazione. La discesa di Carlo I d’Angiò offre nuovi spiragli. Dopo la battaglia di Benevento, nel 1266, L’Aquila viene praticamente rifondata. A questa rinascita contribuiscono molteplici fattori. A partire, è evidente, dall’interesse di Carlo I di avere, ai confini del regno, una città fedele. Un altro elemento decisivo fu rappresentato dalla componente locale, che aveva

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piano urbanistico, come appare evidente nei patti stipulati dal re con la cittadinanza. Che previde anche l’ampliamento del tessuto urbano, includendo nella cinta l’altura di Collemaggio. Nasceva una nuova città, con uno schema ippodameo, pronta a ospitare ben quindicimila fuochi, all’incirca tra i trenta e i quarantamila abitanti. C’erano voluti quasi quarant’anni dall’idea di papa Gregorio, ma ora l’Aquila esisteva, davvero. Amedeo Feniello

vissuto in maniera esaltante la prima esperienza urbana, quando la città si era dimostrata protagonista nelle vicende del territorio, tanto dal punto di vista politico quanto economico e sociale.

Una replica perentoria

Ancora una volta, però, le cose furono tutt’altro che pacifiche. Lo scontro con la componente feudale si riaprí. Essa si rivolse direttamente al re per avere ragione contro la «rea villanaglia» aquilana, pregandolo di «non refare la città». La risposta di Carlo fu perentoria, contro i signori e a favore della ricostruzione: segno di quanto al sovrano angioino stesse a cuore la città, per il ruolo crescente assunto nella regione. E, in effetti, l’Aquila venne ricostruita in breve tempo, con un vero e proprio dicembre

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La romanizzazione

Un compromesso riuscito L’occupazione romana del territorio aquilano – collocato in antico a cavallo tra area sabina (conca amiternina) e area vestina (valle dell’Aterno e altopiano di Navelli) – si realizza nei decenni compresi tra il IV e il III secolo a.C., nel contesto delle guerre tra Roma e i Sanniti. Già nel 325 a.C., durante la seconda guerra sannitica, l’intenzione dei Vestini di schierarsi sul fronte antiromano conduce a una rapida campagna militare, che vede l’antica popolazione italica duramente sconfitta e costretta, nel giro di una ventina d’anni, a siglare un trattato di alleanza con Roma (302 a.C.), funzionale a garantire alle forze romane il transito verso la costa adriatica. A distanza di qualche anno, nel quadro del rinnovato scontro con i Sanniti, i Romani conquistano Amiternum (293 a.C.), snodo viario di importanza strategica: si tratta della prima tappa della conquista romana dell’alta Sabina, completata nel 290 a.C. grazie a una campagna militare che permise a Roma di estendere il controllo fino al territorio pretuziano (l’odierno Teramano) e alla costa adriatica. In queste ultime zone la conquista ebbe conseguenze molto pesanti sul popolamento locale: a differenza delle piú miti attitudini manifestate nei confronti dei Vestini, Sabini e Pretuzi vennero annientati e il loro intero territorio fu incamerato dal demanio romano. Come di consueto, l’occupazione militare si accompagnò

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in primo luogo all’organizzazione razionale della rete viaria, con l’apertura, al principio del III secolo a.C., di due importanti assi stradali destinati a collegare Roma alla costa adriatica: la via Cecilia (un diverticolo della Salaria tracciato in direzione di Amiternum e di Hatria) e la via Valeria (il prolungamento della via Tiburtina, che nel tratto finale seguiva la valle dell’Aterno-Pescara). Le due strade erano collegate da una bretella tracciata lungo la valle dell’Aterno, l’altopiano di Navelli e la valle del Tirino, coincidente con un antico percorso della transumanza, che, dopo gli interventi di sistemazione voluti dall’imperatore Claudio alla metà del I secolo d.C., prese il nome di via Claudia Nuova. In termini di assetti amministrativi, la strutturazione della conquista venne attuata secondo due distinte strategie: mentre il trattato di alleanza consentí alle comunità vestine di preservare per oltre due secoli le originarie forme di autogoverno, l’alta Sabina fu interessata, subito dopo il 290 a.C., da un massiccio intervento di colonizzazione, che condusse alla scomparsa delle culture locali. La romanizzazione del L’anfiteatro di Amiternum (frazione San Vittorino, L’Aquila). Realizzato verso la metà del I sec. d.C., l’edificio poteva accogliere fino a 6000 spettatori. Oggi se ne conservano le 48 arcate, su due piani, che ne delimitano il perimetro.

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Dossier distretto giunge a pieno compimento al principio del I secolo a.C., quando anche i Vestini – schierati sul fronte degli insorti italici durante la guerra sociale – ottennero la cittadinanza romana. A partire da questo momento, l’unificazione giuridica dell’intera Penisola consente a Roma di rimodellare in forma quanto piú possibile omogenea le strutture amministrative locali, al fine di razionalizzare e armonizzare il rapporto tra potere centrale e autonomie municipali. Nell’area in esame, uno degli esiti piú evidenti del processo di romanizzazione è la nascita di due importanti centri urbani, Amiternum e Peltuinum, destinati ad accentrare le funzioni amministrative in un territorio in certo modo refrattario all’urbanizzazione e caratterizzato, fin dall’età preromana, da un popolamento di tipo sparso, frammentato in piccoli nuclei insediativi a carattere vicano. Amiternum dovette svilupparsi già a partire dall’inizio del III secolo a.C. a seguito della distruzione dell’abitato preromano che sorgeva a monte, nell’area dell’odierna San Vittorino: nata in funzione dei coloni romani insediati in quest’area e sede dei funzionari (praefecti) inviati inizialmente da Roma per amministrare il territorio, la nuova città assunse veste propriamente urbana solo piú tardi, alla fine del I secolo a.C., in connessione con l’ottenimento della piena autonomia municipale. Sviluppi analoghi contraddistinguono il centro di Peltuinum: il sito, frequentato già in età arcaica, venne selezionato all’indomani della guerra sociale come polo amministrativo del distretto vestino «cismontano» in virtú della sua centralità rispetto a un territorio piuttosto articolato al suo interno, comprendente non solo la valle dell’Aterno, ma anche l’altopiano di Navelli e la valle del Tirino. Il territorio – popolato da numerosi insediamenti minori (vici): tra gli altri, quelli di Furfo (presso Barisciano), Aufenginum (Fagnano Alto), Incerulae (Navelli) – era fin dall’origine suddiviso in due distinti settori, facenti capo ai

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A destra resti dell’antica città di Forcona, sede episcopale nei primi secoli del Medioevo. In basso resti della città di Peltuinum, uno dei piú importanti centri amministrativi della regione in epoca romana.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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centri di Aveia (Fossa) e di Aufinum (presso Capestrano), rispetto ai quali Peltuinum si pone come una ulteriore e sovraordinata realtà istituzionale, con funzione di raccordo tra le diverse realtà locali e Roma: un assetto amministrativo senza dubbio peculiare nel quadro dell’Italia romana, che si configura come una sorta di compromesso tra la vocazione insediativa di tradizione preromana e le nuove esigenze di centralizzazione. Il quadro insediativo di età romana è completato dalla presenza diffusa di santuari rurali, destinati ad articolare la vita sociale ed economica del territorio. L’esempio piú significativo è costituito senza dubbio dal santuario di Civita di Bagno: un complesso monumentale a terrazze edificato tra il II e il I secolo a.C., dedicato al culto di origine sabina della dea Feronia. Significativamente collocato al confine tra il comparto amiternino e quello peltuinate, a rimarcarne la valenza «comunitaria», il santuario doveva, come di norma per

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queste strutture, ospitare mercati periodici: un luogo dunque non solo di cerimonie religiose ma anche di incontri e di scambi, destinato a intercettare il vasto movimento di uomini e merci legato alla pratica della transumanza. Gli equilibri creati dal governo romano in questa regione si sfaldano progressivamente già dal V secolo d.C., in connessione con la piú generale crisi del settore occidentale dell’impero. Ne fanno le spese in primo luogo i grandi poli urbani di Amiternum e Peltuinum, a conferma, se vogliamo, del carattere in certo modo artificiale di insediamenti inscindibilmente legati agli assetti amministrativi imposti da Roma. L’abbandono delle città romane, i cui resti sorgono ora in aperta campagna, coincide in modo significativo con la rioccupazione nel corso dell’Alto Medioevo dei villaggi preromani, piú facilmente difendibili e in fondo piú aderenti alla vocazione socio-economica e insediativa del territorio. Simone Sisani

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

DALLE CURTES AI CASTELLI

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l paesaggio che caratterizza il territorio aquilano è da sempre condizionato da forme insediative tipicamente medievali, basate sul sistema dei villaggi di alta collina, qui maggiormente funzionali rispetto agli insediamenti di pianura di epoca classica. Già dall’VIII-IX secolo, le prime fonti documentarie testimoniano lo svilupparsi di quel sistema organizzativo delle proprietà fondiarie basato su particolari tipologie di aziende agricole, dette curtes, attorno alle

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quali sorsero numerosi insediamenti sparsi di piccolissime dimensioni. Sono note, infatti, numerose attività produttive, perlopiú votate allo sfruttamento dei pascoli e dei boschi. Probabilmente gravitanti su centri abitati piú consistenti, queste attività erano associate a piccole casae, disposte su modesti rilievi a mezza costa lungo i versanti interni delle montagne, nei pressi dei rarefatti terreni coltivabili che ancora oggi caratterizzano il territorio. Nell’area soggetta alle antiche

diocesi di Amiternum e Furconia, rispettivamente alle estremità ovest ed est dell’attuale città dell’Aquila, il paesaggio fu caratterizzato da rari appezzamenti di terra coltivata, vaste estensioni di bosco e terreno destinato al pascolo. Un mondo di agricoltura povera, integrata dalla pastorizia, dalla bassa densità demografica, con nuclei abitati estremamente ridotti. In questo quadro, caratterizzato da insediamenti sparsi e aziende agricole, inizia a delinearsi quel fenomeno che oggi conodicembre

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I resti del castello di Ocre, sorto in posizione dominante sul territorio circostante a 998 m slm.

resti della fortificazione, probabilmente localizzata a monte dell’abitato di Genzano di Sassa, dove era ubicato anche il precedente insediamento curtense, in relazione diretta con gli insediamenti rurali legati allo sfruttamento e alla gestione del territorio. Lo stesso fenomeno si manifesta per gli altri castelli citati dalle fonti in questo particolarissimo frangente storico, come i castelli di Sinizzo, di Preturo, di Camarda, di Roio e di Marana.

Un’evoluzione naturale

sciamo come «incastellamento» e che finí con il condizionare il paesaggio aquilano fino ai nostri giorni. Al contrario di aree limitrofe come quella teramana o sabina, questo territorio non presenta un numero cospicuo di castelli prima dell’avanzata dei Normanni. Si ha notizia di poche fortificazioni sorte tra il X e l’XI secolo, tra le quali spicca la precoce presenza del castello di Sassa, citato come castellum già alla metà del IX secolo. Attualmente non si conservano

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Dunque, con ogni probabilità, queste fortificazioni non sono altro che l’evoluzione naturale di quegli insediamenti legati allo sfruttamento del suolo; non a caso, nessuna di queste costruzioni risulta realizzata a fini prettamente difensivi. Ubicate in aree precedentemente menzionate come curtes, villae o casali, le strutture risultano spesso accompagnate dalla presenza di un edificio di culto piú antico, ulteriore prova dell’esistenza di un precedente insediamento sparso. La nascita di queste poche fortificazioni, però, non incise in maniera determinante sull’organizzazione territoriale, che sembra rimanere ancorata alle precedenti strutture di tipo curtense, caratterizzate da abitati aperti e, probabilmente, legate a iniziative delle signorie fondiarie che iniziano a fare la loro comparsa nel territorio proprio a partire dal X secolo. Solo con l’avvento di queste figure di signori locali si pongono le basi per l’accorpamento dei piccoli insediamenti che costellano il paesaggio e che detteranno la nascita dell’incastellamento nell’area. Questo processo è infatti legato ai tentativi sempre piú insistenti di accrescimento dei propri possedimenti, spesso tramite le «usurpazioni», di cui le fonti documentarie riportano numerosi esempi nel territorio abruzzese, citando gli attori di queste dinamiche come raptores

e invasores. Si tratta di piccoli proprietari terrieri che ampliarono il proprio dominio con la forza, sia col sottrarre beni di proprietà dei grandi monasteri abruzzesi e laziali, indeboliti anche dagli incombenti raids saraceni, sia consentendo la nascita di nuovi centri rurali fortificati. Le prime usurpazioni relative al territorio in analisi compaiono nella documentazione a nostra disposizione in seguito all’elezione di Campone ad abate del monastero imperiale di Farfa nella prima metà del X secolo. Si trattava di un laico appartenente all’aristocrazia reatina, introdotta nel territorio da Ugo di Provenza, che riuscí a imporre in queste diocesi aristocratici in cerca di fortuna provenienti dalla Borgogna e permise a numerosi esponenti di questa nobiltà di espandere i propri possessi su vaste porzioni di territorio controllato dalla sua abbazia, fino a sconfinare dal semplice possesso di terre. Infatti, non accontentandosi piú di usurpare terre ai monasteri, questi personaggi procedettero alla loro fortificazione e, dunque all’incastellamento, per un migliore controllo sul territorio, approfittando anche della debolezza degli enti ecclesiastici in seguito alle invasioni saracene.

Terra di frontiera

Nonostante questi primi esempi di fortificazioni avviatisi con la fine del X secolo, solo a partire dal periodo normanno ebbe luogo la decisiva modifica dell’habitat dell’odierna area aquilana, tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo, quando questa zona assunse un ruolo strategico nella vita del regno, spazio di frontiera con i possedimenti della Chiesa e di giunzione con le nuove vie dei flussi commerciali centrosettentrionali. Ciò appare evidente da diversi fattori, come, per esempio, la posizione dei castelli o le quote di edificazione. I primi insediamenti risultano sempre ubicati a quote relativamen-

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Sulle due pagine mappa dei castelli dell’Aquilano: in rosso, le fondazioni normanne; in blu, le strutture fortificate non identificabili con certezza; in giallo, i siti in cui si presume sorgesse un castello.

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te basse – considerando la particolare orografia del territorio – comprese tra i 780 m di Sassa e gli 850 m slm di Roio, con un differenziale di quota rispetto alla piana coltivabile circostante inferiore ai 150 m. Diverso, invece, è il discorso per i successivi castelli normanni che raggiungono spesso quote elevate, fino ai 998 m slm di Ocre, ai 1105 m di Pizzoli, ai 1208 m di Tornimparte o i 1220 della rocca di Barete, con un differenziale spesso dicembre

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A sinistra, in basso e nella pagina accanto, in basso i resti del castello di Cascina, le cui strutture denotano la chiara influenza normanna.

notevole, che si aggira sui 400 m. Appare dunque chiara la valenza militare di queste nuove fortificazioni, ubicate in punti strategici a controllo delle vallate e della viabilità sottostante, con minore attenzione verso una ottimale gestione economica delle risorse. In seguito all’interesse suscitato dal particolare ruolo strategico dell’Abruzzo settentrionale, cerniera di confine con lo Stato della Chiesa, il paesaggio subí una profonda

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e radicale trasformazione proprio durante i secoli interessati dalle conquiste normanne, con un embrionale incastellamento antinormanno, stravolto e successivamente riutilizzato dai nuovi conquistatori.

Insediamenti accentrati

Questa nuova ondata di incastellamento previde la concentrazione della popolazione in insediamenti accentrati appositamente difesi e la successiva costituzione di un terri-

torio compatto a loro politicamente ascrivibile, con la massiccia e diffusa riorganizzazione delle colture e dell’allevamento transumante. Come si può facilmente intuire, dunque, tra la fine dell’XI secolo e la metà di quello successivo, l’Abruzzo interno assistette a un proliferare di castelli con funzione sia difensiva che offensiva. Mentre alcuni castelli si devono ai signori locali per timore dell’arrivo dei Normanni, altre costruzioni furono

opera proprio dei conquistatori, che li realizzarono – spesso seguendo i caratteri tipici dei fortilizi d’Oltralpe – prima come vere e proprie teste di ponte, per la conquista del territorio amiternino-forconese, area nevralgica dello scacchiere normanno, poi per una piú ottimale difesa della frontiera settentrionale del regno. I castelli presenti nel territorio rispondevano a esigenze squisitamente militari, ben diversi da quelli che, sorti nel corso del X-XI secolo per ragioni di natura economica e demografica, erano connessi con la rinascita agraria e dunque piú mirati alla riorganizzazione dei territori che a scopi difensivi. I nuovi fortilizi rappresentano la radicale trasformazione delle strategie di insediamento dell’XI-XII secolo, sia per la

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Dossier Dalla Francia all’Abruzzo

Didascalia aliquatur adi odis Château Ganne à La Pommeraye que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

PIANO DI CAMPAGNA

Motta d’Olivet nella foresta di Grimbosq

loro particolare ubicazione a diretto controllo del territorio, sia per le loro caratteristiche morfologiche, topografiche e architettoniche. Grazie alle indagini archeologiche in atto nel territorio aquilano, è possibile stabilire con un certo grado di sicurezza che durante la nascita della frontiera normanna solo alcuni di questi castelli furono fondati ex novo con una forte connotazione militare, mentre in altri siti fu messa in atto una ingente ristrutturazione degli insediamenti

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La planimetria del castello di Ocre (al centro), messa a confronto con due complessi francesi, dei quali riprende i criteri di sfruttamento dello spazio e di articolazione interna.

preesistenti, per meglio adattarli alle nuove esigenze di difesa che stavano emergendo.

Alla maniera normanna

Ruggero II lasciò il governo di queste terre ai signori locali che in precedenza li avevano controllati, senza imporre feudatari di stirpe normanna, con una originale condizione con strutture difensive ascrivibili all’ambito culturale normanno (legate alla tipologia della motte and bailey, insediamento fortificato

tipico della regione della Normandia e dell’Inghilterra meridionale) ma gestiti da personale locale, appartenenti ai lignaggi tradizionalmente presenti nella zona. Diversa fu invece la gestione di alcune aree piú esterne, ubicate lungo il confine del regno, come le Terre Sommatine (il territorio gravitante attorno ad Amatrice, l’estrema frontiera settentrionale), annesse solo nel 1149 a seguito della conquista di Rieti e concesse a suffeudatari minori dei signori amiternini. dicembre

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BALLIUM

MOTTA

BASSA CORTE TORRE SEMICIRCOLARE

DONJON

FOSSATO

La strategia di difesa del regno messa in atto da Ruggero II potrebbe aver previsto una sorta di «cuscinetto» costituito da questa prima linea difensiva, destinata semplicemente a vigilare e dare l’allarme in caso di pericolo, dando il tempo ai grandi feudatari dell’entroterra di organizzare le difese. Si tratta di un sistema di controllo del tutto nuovo rispetto a quelli precedenti, nel quale le fortificazioni non avevano piú una funzione di barriera attiva o di presidio armato, ma solo quella di

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sentinelle costantemente vigili per avvisare tempestivamente in caso di attacchi esterni.

Confronti puntuali

Nei territori di confine, dunque, venivano lasciate fortificazioni minori, concesse in suffeudo, eventualmente «sacrificabili» a vantaggio dell’entroterra, dove la strategia del regno prevedeva di affiancare ai castella già esistenti nuovi insediamenti basati sul modello normanno della «motta», come chiaramente

Un’altra veduta a volo d’uccello dei resti del castello di Ocre, sulla quale è sovraimpressa la ricostruzione virtuale delle varie strutture. Le indagini archeologiche hanno provato la derivazione del complesso dal modello normanno delle motte and baileys attestate nella Francia settentrionale e nell’Inghilterra meridionale.

emerso dalle indagini archeologiche del castello di Ocre e dalle ricognizioni su quelli di Cesura, Leporanica e Cascina, di chiara influenza normanna. Queste fortificazioni, appartenenti alla tipologia della motte and bailey, costituite inizialmente da strutture in legno e successivamente trasformate in pietra, presentano puntuali confronti con «castelli-matrice» ubicati nel Nord della Francia e nell’Inghilterra meridionale. Ne sono esempi la motte and bailey d’Olivet nella foresta di Grimbosq e lo Château Ganne à La Pommeraye, entrambi nella regione di Calvados in Normandia, alle porte di Caen, o la shell keep di Restormel Castle ubicata nella cittadina di Lostwithiel, nel Sud-Est della Cornovaglia (Inghilterra sudoccidentale). Le nuove opere che si affiancarono e sovrapposero a quelle esistenti furono inizialmente costituite, nella maggior parte dei casi, da torri di avvistamento poco complesse distanti dai siti abitati, indispensabili in un territorio accidentato come quello in oggetto. Solo dopo la definitiva conquista del regno si passò alla realizzazione sistematica di veri e propri castelli di residenza feudale. Le soluzioni adottate nell’Aquilano, dall’epoca normanna in poi, rappresentano, dunque, una sintesi tra il bagaglio di esperienze culturali e tecniche dei nuovi conquistatori e i saperi locali, proficuamente integrati nella gestione di un territorio impervio e in gran parte ancora indomito, ma estremamente importante per i Normanni da un punto di vista strategico e militare. Alfonso Forgione

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Dossier Il governo della città

Il potere dei mercanti imprenditori Nel 1354 gli Aquilani furono sconvolti da un assassinio clamoroso: il conte di Montorio Lalle Camponeschi, loro leader politico, fu sgozzato dal principe Filippo di Taranto. L’Aquila si stava allora riprendendo dalla grave crisi dovuta alla peste nera del 1348 e al violento terremoto del 1349, che rischiò di spopolarla. Lalle affrontò l’emergenza facendo costruire steccati di legno grosso al posto delle mura crollate, costringendo la popolazione a rimanere nella città diroccata. L’intervento dimostrò che il conte deteneva il potere reale sulla città pur non avendo alcun titolo formale, e permise a L’Aquila di rifiorire e di riprendere il processo di crescita inaugurato qualche decennio prima. Sin dai primi del Trecento, appariva evidente che questa città nuova, sorta intorno alla metà del secolo precedente, avrebbe costituito un importante polo politico ed economico del Mezzogiorno e anche del centro Italia. Collocata ai confini settentrionali del regno e sulla «via degli Abruzzi», che collegava Firenze e Napoli, era presto diventata un centro commerciale di rilievo. Artefici di questo successo furono i mercanti-imprenditori locali, capaci di sfruttare le enormi disponibilità di pascoli per le greggi ovine per produrre e smerciare panni di lana di media qualità, accumulando patrimoni che reinvestivano poi in varie attività, non ultima quella bancaria. Il loro raggio di azione fu via via piú ampio: già nella prima metà del Trecento, alcuni si legarono alle compagnie toscane che operavano nel regno, principalmente quelle fiorentine. Ma lo sviluppo commerciale fu sostenuto anche dalla monarchia angioina, in particolare da re Roberto, attraverso privilegi che agevolavano l’attività, specialmente sul piano fiscale. Emblematico di questa «triangolazione» fra L’Aquila, Angiò e Firenze è un episodio che riguarda uno dei maggiori mercanti del primo Trecento, Giacomo di Tommaso detto Gaglioffo. Nel 1327 Carlo duca di Calabria, erede al trono e allora signore di Firenze, chiese a Gaglioffo di acquistare in Abruzzo 6000 montoni, 3000 suini e 2000 vacche per la sua corte nella città toscana, con buona pace dei macellai fiorentini. Gaglioffo doveva anticipare un’ingente somma per quel numero straordinario di capi di bestiame, operazione che poteva permettersi solo un grande mercante dotato di capitali consistenti. A questo spiccato dinamismo economico non corrispondeva ancora un protagonismo politico dei mercanti. Fino alla metà del Trecento, altri erano i soggetti che si contendevano la guida della città, membri di un’aristocrazia cittadina con Pianta prospettica della città dell’Aquila realizzata dal geografo francese Pierre Mortier nel 1698.

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Dossier L’Aquila, chiesa di S. Giuseppe Artigiano (già S. Biagio). Il monumento funebre di Lalle Camponeschi, conte di Montorio, assassinato nel 1354 dal principe Filippo di Taranto. 1432. L’opera viene attribuita allo scultore Gualtiero d’Alemagna.

legami ancora forti con il territorio, da cui erano provenuti anche i primi abitatori dell’Aquila. Le famiglie Pretatti e Camponeschi si resero protagoniste di una sanguinosa lotta per il controllo della città e l’esclusione degli avversari dagli anni Trenta del secolo. Nulla poterono i capitani, gli ufficiali posti dalla monarchia a capo dell’amministrazione cittadina, contro la loro forza militare e il loro radicamento sociale. Anche per questa ragione la corte, dopo aver tentato piú volte di pacificare le parti, si schierò con i Camponeschi, quando i Pretatti si dimostrarono meno inclini a rispettarne le direttive. Espulsi per l’ennesima volta i rivali, Lalle Camponeschi ottenne il titolo di conte di Montorio e la legittimazione di fatto della propria preminenza politica. Ma

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la corte non abbandonò il proposito di pacificare la città e a questo scopo inviò in missione Filippo di Taranto: di fronte al fermo rifiuto di Lalle di riammettere gli esuli, il principe perpetrò l’atroce assassinio del 1354. Lo sgomento che colse gli Aquilani, vividamente descritto dal cronista Buccio di Ranallo, non impedí loro di elaborare un progetto politico straordinario per il regno di Napoli: affidare alle corporazioni il governo della città. Con l’avallo della monarchia, nacque il cosiddetto Reggimento ad Arti, guidato da un collegio di governo e da un consiglio in cui sedevano gli immatricolati a cinque gruppi di associazioni di mestieri: dottori di leggi e notai; mercanti; artigiani dei metalli; artigiani delle pelli; mercanti di bestiame. Il secondo gruppo, i mercatores, costituí il nucleo di una nuova élite politica, frutto del dinamismo economico e sociale dei decenni precedenti che si concretizzò in una forma istituzionale ispirata ad alcune città dell’Italia comunale, ma allo stesso tempo aderente alla realtà locale. L’affermazione del mondo corporativo non provocò la marginalizzazione di quello aristocratico che, anzi, si rese protagonista ancora per decenni delle lotte di fazione. Qualcosa era cambiato, però: il gruppo dirigente istituzionale diventò un nuovo attore in questo campo, talora promuovendo la pace a tutti i costi – anche escludendo tutte le parti dalla città – talaltra fornendo un sostegno piú o meno velato alla fazione dominante, quasi sempre i Camponeschi. La seconda metà del Trecento fu infatti marcata dal rinnovato antagonismo con i Pretatti, che ebbe una battuta d’arresto nel 1381, quando il leader di questa fazione, Ceccantonio, fu catturato e condannato a morte. L’obiettivo fu colto anche grazie agli sforzi della regina Giovanna I, che osteggiava i Pretatti perché restii ad accettare la pace voluta dalla corte. Ma c’erano anche altre ragioni che rinverdivano i contrasti: il Grande Scisma della Chiesa e la contesa dinastica angioina condussero le parti a schierarsi su fronti contrapposti. Dopo la morte di Ceccantonio, i Camponeschi oscillarono fra l’una e l’altra fedeltà, subendo un breve esilio imposto dal vittorioso Ladislao. La fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento trascorsero sotto il segno dell’incertezza, per la mutevolezza delle posizioni dell’Aquila e dei gruppi politici al suo interno. Ma sotto il regno di Giovanna II il corpo politico cittadino si ricompattò. Guidata da Antonuccio Camponeschi, nel 1423-1424 L’Aquila resistette eroicamente all’assedio di Braccio da Montone, che morí senza poterla espugnare. Il progetto braccesco naufragò. E il Nord del regno fu salvo anche grazie agli Aquilani. Pierluigi Terenzi dicembre

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TERRA DI SNODI E DI INCONTRI

L’

Abruzzo è una cerniera nella geopolitica tra Medioevo ed età moderna: terra di confine tra regno di Napoli e Stato Pontificio è anche ponte tra Adriatico e Oriente, mantenendo il suo ruolo di tessuto di transizione dove la circolazione delle idee, della cultura e dei mercati imprimeva la ricchezza delle contaminazioni e delle convivenze. L’Aquila ebbe già dalla sua fondazione la caratteristica di essere città composita, formata dalle numerose popolazioni inurbate del contado e quindi dai loro dialetti e dalle loro culture, divenuta tappa di mercanti e di pellegrini, che la at-

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traversavano per il giubileo di Celestino V, per la ricchezza della lana e la preziosità dello zafferano, e mèta di artisti, circolanti nella Penisola e in Europa, che committenti nobili coinvolgevano nell’abbellimento di dimore e cappelle.

Tensioni latenti

Nel secondo Quattrocento, l’età aragonese segnò L’Aquila con l’inizio di un glorioso momento di sviluppo economico e culturale, pur con le latenti tensioni di convivenza con le fazioni filoangioine. Molti privilegi furono concessi alla città dal re Alfonso d’Aragona, con numerose esenzioni fiscali, con la valorizzazio-

Uno scorcio del Forte Spagnolo, realizzato su progetto dell’architetto militare Pirro Luis Escrivà da Valencia e innalzato sul punto piú alto della città nel 1534.

ne del tratturo L’Aquila-Foggia che consentiva la transumanza verso la regia dogana di Foggia, con il riconoscimento dell’Arte della Lana e l’istituzione delle due fiere di maggio, capaci di favorire un’enorme circolazione di uomini e capitali. Neanche il forte sisma del 1461, che impose una onerosa ricostruzione, riuscí ad arrestare il secolo del Rinascimento dell’Aquila, che prosperò per i suoi commerci – soprattutto lana e zafferano –, estendendo

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Polittico di San Giovanni da Capestrano, tempera su tavola assegnata all’artista convenzionalmente designato come Maestro di san Giovanni da Capestrano, dalla chiesa di S. Bernardino. 1480-1485 circa. L’Aquila, Museo nazionale d’Abruzzo. Al centro campeggia la figura del santo, che reca in mano il vessillo crociato con il monogramma bernardiniano. Nei quattro pannelli laterali sono rappresentati altrettanti episodi della vita di Giovanni: a sinistra, in alto, la messa celebrata alla presenza dei crociati; in basso, la battaglia di Belgrado, combattuta dai crociati contro i Turchi; a destra, in alto, la predica tenuta a L’Aquila, durante la quale furono guariti alcuni indemoniati; in basso, la morte del santo.

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le proprie relazioni fino a Firenze, Genova e Venezia, nonché in Francia, Olanda e Germania, diventando la realtà urbana piú importante del regno, dopo Napoli. Il terremoto del 1461, seguito ai numerosi sismi del secolo precedente, aveva provocato l’arrivo di molte maestranze dal Milanese, dal Varesotto, dal Vomasco e dalla valle d’Intelvi, giunte in città per la ricostruzione del suo tessuto urbano, portando, insieme alle loro competenze, anche le loro culture ricostruttive, in un fenomeno destinato a ripetersi per tutti i sismi successivi, fino a quello recente del 2009. Questi flussi di uomini crearono anche nuovi insediamenti nella città ferita, che si accresceva di botteghe in cui si parlavano altri dialetti, cosí come delle Confraternite di Sant’Ambrogio e, successivamente, di San Carlo. Si sviluppò anche una coscienza architettonica antisismica, che si confrontò con altre aree d’Europa nell’utilizzo di presidi lignei inseriti negli edifici destinati a limitare i danni dei crolli. Tra Medioevo ed età moderna L’Aquila fu sottoposta a molti terremoti, che spesso ne modificarono l’impianto senza mai sconvolgere la morfologia urbanistica. La città tendeva sempre a riedificarsi su se stessa fino al grande sisma del 2 febbraio 1703, che disegnò l’immagine tardo-barocca della città moderna.

Dal contado alle New Towns

Tra Quattro e Cinquecento, L’Aquila è città demaniale che estende le sue giurisdizioni nell’area extra moenia. Questo rapporto cosí intenso con il territorio fuori dalle mura costruí la morfologia dell’immagine urbana come un corpo con le sue membra: il contado in realtà fu, per secoli, il polmone economico dell’Aquila, con pascoli che rendevano ottimo bestiame e pregiata lana, mentre il prezioso crocus sativus aveva permesso mercati ricchi e assidui di

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Dossier zafferano, con acquirenti italiani e tedeschi, favorendo la nascita di un ceto mercantile attivo e molto abile nell’imprenditoria. Uno snodo di passaggio centrale nel rapporto città-territorio avviene quando al termine del periodo aragonese L’Aquila si schiera su posizioni filofrancesi, incoraggiando la cosiddetta rivolta antispagnola del 1528, dalla quale derivò un clima di forte tensione nella dialettica con il territorio circostante. Il contado, privo di rappresentanti nelle istituzioni municipali e soggetto a tassazioni onerose, si ribellò chiedendo aiuto all’esercito francese accampato sulla costa. Le truppe spagnole, tuttavia, ripresero solidamente la città, imponendo tre pesanti oneri: la separazione della città dal contado e la fine dell’aquilana libertas, il pagamento della pesante tassa del Taglione e la costruzione del Castillo per volere di don Pedro de Toledo. Infatti, affidandosi all’ingegno dell’architetto valenziano Louis Pirro Escrivà, il nuovo viceré intendeva proseguire la linea delle grandi fortificazioni militari che proteggevano il regno. Con la separazione dell’Aquila dal contado, l’anello che si era chiuso nella città per fondarla era ora distaccato da un atto politico: in questo territorio i castelli furono assegnati ai capitani spagnoli o venduti a nuovi feudatari, che con l’acquisizione dei titoli nobiliari, acquistarono nuova visibilità politica negli spazi di governo della città. Questi borghi, con le estinzioni delle famiglie del patriziato aquilano, divennero Comuni fino al progetto del 1927 della Grande Aquila, voluto dal podestà Adelchi Serena (anno V dell’era fascista), in cui otto di questi paesi persero la loro autonomia per essere inglobati nel Comune dell’Aquila. Attualmente questi centri hanno visto crescere nel loro territorio, dopo il devastante recente sisma del 2009, le cosiddette New Towns, agglomerati di case dor-

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mitorio che hanno ospitato, e ospitano ancora, molta parte della popolazione dell’Aquila, in un abbraccio di accoglienza, ma anche di divisione, che richiama note antiche.

Predicatori, pellegrini e «buttatelli»

Nella prima metà del Quattrocento san Giovanni da Capestrano inoltrò alla Camera della città la richiesta di fondazione di un ospedale cittadino. Questo evento fu molto importante per la storia dell’Aquila, che ebbe il suo Ospedale Maggiore legittimato dalla bolla pontificia Licentia fundandi unum hospitale, con la quale Niccolò V, nel 1447, aggregava all’ente i patrimoni degli altri ospedali urbani. Nasceva all’Aquila, dunque, l’Ospedale S. Salvatore, circa negli stessi anni in cui nasceva a Milano la Ca’ Granda. L’ospedale non era un luogo solo di assistenza al malato, ma anche di ricovero, di cura, di protezione per «buttatelli», bambini abbandonati, donne sole, indigenti e viandanti. La dimensione dell’ospitalità al povero come Christomimètes mutò la sua caratteristica nel processo di laicizzazione all’assistenza, che coinvolse molti istituti di cura dei malati e di raccolta di pellegrini in Italia. Il S. Salvatore nasce con la caratteristica di essere un ospedale laico, voluto dal Comune della città, sul modello di esempi della Penisola centro-settentrionale, come Siena e Firenze che rappresenta, proprio per questo, un caso originale nel Meridione. Nel Quattrocento la città fu nota anche per la lunga presenza di tre grandi santi francescani: san Bernardino da Siena, san Giovanni da Capestrano e san Giacomo della Marca. Alla morte di san Bernardino, nel maggio 1444, la cittadinanza ottenne da papa Eugenio IV l’autorizzazione a custodirne le spoglie per le quali fu edificata la monumentale basilica eponima, accanto all’Ospedale S.

I miracoli di Sant’Antonio da Padova, olio su tela di Pompeo Cesura. 1566. L’Aquila, basilica di S. Bernardino. L’opera narra due dei miracoli piú famosi del santo: in primo piano, Antonio discolpa una donna sospettata di adulterio rendendo possibile la testimonianza del figlio piccolo. Sullo sfondo, il miracolo della mula: rinchiuso per alcuni giorni nella stalla senza cibo dal suo padrone, un eretico che aveva messo in dubbio il sacramento dell’Eucarestia, l’animale non mangiò l’ostia che sant’Antonio gli aveva offerto, ma vi si inginocchiò davanti, riconoscendo la natura sacra della particola, al che l’eretico si convertí.

Salvatore, per volere dell’amico san Giovanni da Capestrano. Molti artisti segnarono il Rinascimento aquilano: Raffaello Sanzio che intrecciò rapporti con la ricca famiglia Branconio e dipinse la Visitazione per la chiesa di S. Silvestro (oggi al Museo del Prado a Madrid), e prima, Saturnino Gatti autore del ciclo di affreschi di Collemaggio e quello molto piú elaborato di Tornimparte. Ancora, i pittori Andrea De Litio, Francesco da Montereale, Pompeo Cesura, Giovanni Paolo Cardone, i Bedeschini.

Un allievo di Gutenberg

Nel 1481 Adamo da Rottweil, allievo di Johann Gutenberg, impiantò all’Aquila una delle prime tipografie, consentendo una larga diffusione di opere preziose nella Penisola, ma anche in Europa. L’arrivo di Rottweil segnò profondamente il Rinascimento aquilano, mentre le stamperie cittadine iniziarono a commerciare con Fabriano per l’acquisto della carta. Autori importanti venivano a stampare all’Aquila, in una circolazione di uomini e idee in cui la città incrociò reti nazionali e internazionali. Tra le numerose opere, oggi conservate nel fondo antico della Biblioteca Salvatore Tommasi e appartenute ai conventi aquilani, si annovera un esemplare rarissimo dicembre

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Nella pagina accanto Visitazione, olio su tavola trasferito su tela. 1517. Madrid, Museo del Prado. L’opera fu commissionata dalla famiglia Branconio a Raffaello, che ne realizzò il disegno preparatorio, affidando il dipinto vero e proprio a uno dei suoi assistenti, identificato da alcuni con Giulio Romano e da altri con Giovan Francesco Penni. In basso la maschera funeraria in cera di san Bernardino da Siena.

del manuale inquisitoriale per la persecuzione delle streghe, il Malleus Maleficarum, cosí come c’è la Geometria di Girolamo Pico Fonticulano, l’architetto che influenzò, con la sua proposta, gli interventi di ordine urbanistico nella città. Fonticulano si occupò della ristrutturazione del Palazzo del Capitano del Popolo, che poi lasciò per la corte di Madama: Margherita d’Austria, figlia naturale dell’imperatore Carlo V, duchessa di Parma e Piacenza, giunse all’Aquila il 16 dicembre del 1572, per porre la sua dimora nella città, di cui il fratello, il sovrano di Spagna Filippo II, le aveva affidato il governo fino alla morte, che sopraggiunse nel gennaio del 1586.

Alla corte di Margherita

Nella seconda metà del Cinquecento la scena aquilana è caratterizzata dalla presenza della corte tardo-rinascimentale dell’erede imperiale Margherita d’Austria. Palazzo Margherita assunse, nel cuore dell’Aquila spagnola, il ruolo di laboratorio politico, simbolico e scenografico, inaugurando una fase di recupero di prestigio culturale a cui la città aspirava da tempo e che identificò con l’erede di Carlo V. Un ingresso fastoso con apparati artistici e propagandistici realizzati da intarsiatori e artisti accolsero Margherita, che da poco era tornata dalle Fiandre, in cui era stata governatrice. Tra monarchia spagnola e corte Farnese, Madama governò

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con equilibrio, anche organizzando sul piano amministrativo i suoi Stati Farnesiani d’Abruzzo, alcuni dei quali precedentemente medicei. Nella corte all’Aquila si parlavano piú di quattro lingue tra i musici della cappella musicale, i medici, gli speziali, gli artisti, i cancellieri, i notai e i segretari, oltre a tutto il personale di corte, di molte e diverse provenienze. Madama ospitò frequenti visite di personaggi illustri, in occasione delle quali la città si trasformava per cerimoniali e ca-

valcate, come quelle per l’ingresso del cardinale Alessandro Farnese, del marito il duca Ottavio, del figlio condottiero Alessandro, e come l’ingresso notturno, fastoso, di Giovanni d’Austria, venuto a trovare l’amata sorella, appena reduce dalla vittoria nella battaglia di Lepanto. L’Inventario farnesiano 372 ci consente di entrare in punta di piedi in questa piccola reggia rinascimentale nella quale Margherita conservava, oltre ai suoi tesori, i suoi gusti, le sue sensibilità: casse e bauletti con trine e profumi, cuscini di velluto «negro spelato per il cocchio», usati nei suoi numerosi e lunghi viaggi nelle Fiandre con la sua numerosa corte, attraversando Alpi e lunghe pianure verso le terre del Nord Europa. Nel palazzo aquilano c’erano poi reliquie, dipinti e ampolle di essenze forse del Gran Sasso, dove si recava il suo consigliere Francesco de Marchi, autore della prima ascesa nel 1573. E poi archivi di documenti e arazzi giganteschi, come quelli raffiguranti la Festa delle Driadi e Perseo alla corte di Atlante, che oggi ornano le sale del palazzo romano del Quirinale. In questo «Rinascimento» artistico e di rappresentazioni, L’Aquila entrava negli itinerari europei, scambiando esperienze politiche con il Nord Europa, confluendo nelle migrazioni sociali delle maestranze milanesi e nel loro know how, commerciando con mercanti tedeschi lane e spezie, stampando esemplari di letteratura e diritto, ma anche di botanica e medicina in una circolazione di contaminazioni culturali, che resero la città al centro di reti vicine e lontane. Silvia Mantini

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L’ARTE AQUILANA NEL MEDIOEVO

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l 29 agosto 1294 l’eremita Pietro del Morrone fu incoronato con il nome di Celestino V nella basilica di S. Maria di Collemaggio, da lui stesso fondata sul luogo in cui la Vergine gli era apparsa per esortarlo a erigere un tempio in suo onore. Con la sua maestosa facciata a coronamento orizzontale, dal suggestivo disegno geometrico a conci calcarei bianchi e rosa, i tre magnifici rosoni aperti in corrispondenza degli ampi portali strombati, e la Porta Santa sul fianco sinistro, Collemaggio incarna il volto stesso dell’Aquila medievale, in quanto sintesi delle principali caratteristiDue immagini della Fontana della Rivera, detta delle «Novantanove Cannelle», una per ciascuno dei villaggi che, secondo la tradizione, avevano contribuito alla fondazione dell’Aquila. Costruita dall’architetto Tancredi da Pentima, venne inaugurata nel 1272.

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che architettoniche cittadine. Al tempo della cerimonia papale la basilica non era però del tutto compiuta e dovettero trascorrere molti decenni e due terremoti – nel 1315 e nel 1349 – perché i lavori giungessero a termine. Del resto, la città stessa appariva solo parzialmente edificata agli occhi di quanti parteciparono all’eccezionale evento. Fondata nel 1254, l’Aquila aveva dovuto soccombere, già nel 1259, alla distruzione ordinata da re Manfredi, sicché l’attività edilizia interrotta sul nascere poté riprendere soltanto con l’avvento della dinastia angioina nel regno di Sicilia. Risultato dello slancio architettonico impresso dalla propizia situazione politica è il piú antico ed emblematico monumento civico: la Fontana della Rivera, detta «Novantanove Cannelle», per via del leggendario numero attribuito ai villaggi che avevano contribuito al-

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Trittico di Beffi, tempera su tavola del Maestro omonimo, detto anche Maestro delle Storie di San Silvestro. Fine del XIV-inizi del XV sec. L’Aquila, Museo nazionale d’Abruzzo.

la fondazione della città. Costruita entro le mura, a ridosso della Porta Rivera, in un borgo sede di attività manifatturiere che necessitavano di abbondanza d’acqua, la monumentale opera pubblica fu inaugurata nel 1272. Oggi si presenta come una grande piazza in forma di quadrilatero irregolare, delimitata su tre lati dalle vasche che ricevono acqua attraverso le «cannelle», grottesche protomi umane e animali in pietra chiara alternate a formelle in pietra rossa. La bicromia connota anche il disegno a scacchiera delle pareti che s’innalzano sopra le vasche e che si devono a un’aggiunta di poco posteriore. La fontana è infatti il frutto di modifiche e ampliamenti che corrispondono a momenti significativi della storia cittadina. Alla fase piú antica appartiene il fronte principale, rivolto a oriente, con mascheroni tardo-duecenteschi aggiornati sulla cultura gotica circolante nel regno di Sicilia. Un’epigrafe incastonata in questo prospetto tramanda il nome dell’architetto e scultore Tancredi da Pentima, nonché quello del promotore, Lucchesino da Firenze, governatore dell’Aquila, ricordato con versi d’elogio dal poeta civico Buccio di Ranallo.

La divisione della città

Nel frattempo, la città si veniva articolando in quattro Quarti, ognuno a sua volta ripartito in locali, aree edificabili assegnate ai villaggi fondatori. Ciascuno di essi s’impegnò a edificare la propria chiesa con piazza e fontana antistanti, conservandole il titolo della parrocchia di origine, a cui si aggiunse la specificazione del locale di appartenenza. All’attività edilizia dei locali si affiancò quella promossa dagli Ordini mendicanti: i Francescani arrivarono all’Aquila prima del 1255; li seguirono i Domenicani nel 1257. Sorta col favore di Carlo II d’Angiò e profondamente trasformata nel suo interno a seguito del terremoto del 1703, la chiesa di S. Domenico esiste

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto l’interno, riccamente affrescato, della chiesa di S. Maria ad Cryptas, presso Fossa, vera e propria antologia della pittura locale fra Medioevo e Rinascimento. Nella pagina accanto particolare degli affreschi del prebisterio della chiesa di S. Silvestro. 1405 circa.

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tuttora con i suoi muri imponenti, con il suo gotico portale aperto sul braccio del transetto rivolto verso il centro cittadino e con i suoi preziosi resti di affreschi tardo-trecenteschi. Determinante sostegno alle fabbriche cittadine venne anche dai lasciti testamentari delle famiglie

piú importanti, come i Gaglioffi, cosí soprannominati dal capostipite Giacomo di Tommaso, arricchitosi con il commercio della lana, che fu all’origine di tante fortune e iniziative artistiche nei secoli della massima fioritura aquilana. Se a causa del ripetersi dei terredicembre

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annesso a un’abbazia benedettina, con le pareti interamente affrescate prima del 1263 da pittori di origine romana, e la chiesa di S. Maria ad Cryptas, presso Fossa, vera e propria antologia della pittura locale fra Medioevo e Rinascimento, restituita al culto e ai visitatori da un recentissimo restauro. Degli affreschi tardoduecenteschi, distribuiti fra la cappella presbiteriale e l’aula, il principale responsabile fu quel Gentile da Rocca (Roccamorice) che, nel 1283, licenziò il trittico ad ante mobili del Museo nazionale d’Abruzzo proveniente proprio da S. Maria ad Cryptas. moti la maggior parte delle chiese cittadine è stata profondamente rinnovata, alcuni insediamenti religiosi del territorio aquilano hanno meglio preservato gli antichi arredi liturgici e apparati pittorici. Fra i numerosi esempi possibili, vanno citati l’oratorio di S. Pellegrino a Bominaco,

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L’influenza di Assisi

Per la storia dell’arte aquilana il Trecento è quasi tutto all’insegna del riflesso che le straordinarie novità della basilica di S. Francesco di Assisi ebbero nell’Italia centrale appenninica «alla sinistra del Tevere». Lontana dagli indirizzi arti-

stici della capitale del regno, posta com’era ai confini settentrionali del dominio angioino in Italia, l’Aquila e il suo territorio rimasero ugualmente estranei alla diffusione dei polittici di origine toscana, ai quali si preferirono come pale d’altare i tabernacoli a custodia dell’effigie tridimensionale della Madonna o di un santo, dotati di ali pieghevoli o sportelli dipinti con storie sacre. A questo genere di ricettacoli, quasi sempre perduti o smembrati, appartennero le Madonne in legno intagliato, dipinto e dorato provenienti dalle chiese di S. Maria ad Cryptas e di S. Silvestro all’Aquila, solo per citare due splendidi esempi fra quelli esposti nella temporanea sede del Museo nazionale d’Abruzzo a Borgo Rivera. Verso il 1377 costituisce un’importante novità nel panorama artistico aquilano l’arrivo in città di Antonio d’Atri, pittore di cultura emi-

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto la piazza del Duomo, cuore del centro cittadino aquilano, in una foto scattata prima del sisma del 2009.

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Sulle due pagine una veduta dell’Aquila, sviluppatasi nel cuore di un’ampia conca, a poco piú di 700 m slm.

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liano-adriatica attivo per le chiese di S. Domenico e di S. Amico (1381); a un suo seguace forse locale si deve invece la Madonna col Bambino fra i santi Giovanni Battista e Pietro Celestino dipinta nella lunetta della Porta Santa di Collemaggio. Occorre attendere i decenni iniziali del Quattrocento perché un pittore abruzzese realizzi un trittico come pala d’altare: l’opera, oggi nel Museo nazionale d’Abruzzo, proviene dalla chiesa di S. Maria del Ponte a Tione, non lontano da Beffi, località che dà il nome al maestro, verosimilmente identificabile col documentato Leonardo da Teramo (1385-1435). Sul fondo oro riccamente operato sono raffigurati la Madonna col Bambino in trono e Angeli al centro, la Natività, con l’Annuncio ai pastori e un donatore a sinistra, la Morte e l’Incoronazione della Vergine a destra. Al Maestro di Beffi è attribuita la decorazione pittorica riscoperta nel 1947 sopra la volta settecentesca del presbiterio di S. Silvestro all’Aquila, vertice del gotico internazionale in Abruzzo, fra gli esiti piú interessanti del tempo anche al di là dei confini della regione. Cristiana Pasqualetti

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Da leggere L’Aquila, a cura di Alessandro Clementi, in Federiciana, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2005; anche on line su treccani.it Andrea Casalboni, La fondazione della città di L’Aquila, in «Eurostudium», 2014; pp. 65-93; anche on line su academia.edu Maria Rita Berardi, I monti d’oro. Identità urbana e conflitti territoriali nella storia dell’Aquila medievale, Liguori Editore, Napoli 2005 Alessandro Clementi, Storia dell’Aquila, Laterza, Roma-Bari 1998 Pierluigi Terenzi, L’Aquila nel Regno. I rapporti politici tra città e monarchia nel Mezzogiorno medievale, il Mulino, Bologna 2015 Alfonso Forgione, Scudi di Frontiera. Dinamiche di conquista e di controllo normanno dell’Abruzzo aquilano, All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino 2018 Alessio Rotellini, Aristocrazia e potere nell’Abruzzo interno medievale, in «Quaderni del Bullettino Abruzzese di storia patria» XXXI, 2015 Tersilio Leggio, Ad fines Regni, Libreria Colacchi, L’Aquila 2010

Stefano Boero, «Per mantenimento d’infermi», per «hospitalità di poveri», «buttatelli seu bastardi». Gli ospedali abruzzesi negli archivi di stato ed ecclesiastici, in «RiMe», IV/1, 2019; pp. 103-129 Raffaele Colapietra, Spiritualità, coscienza civile e mentalità collettiva nella storia dell’Aquila, DASP, Lanciano 2009 Maurizio D’Antonio, Ita terræmotus damna impedire: note sulle tecniche antisismiche storiche, in Abruzzo, Carsa Edizioni, Pescara 2018 Michele Maccherini (a cura di), L’arte aquilana del rinascimento, L’Una, L’Aquila 2010 Silvia Mantini, L’ Aquila spagnola: percorsi di identità, conflitti, convivenze (secc. XVI-XVII), Aracne Editrice, Roma 2009 Walter Capezzali (a cura di), Il Palazzo di Margherita d’Austria all’Aquila, Carsa Edizioni, Pescara 2010 Silvia Mantini, Margherita d’Austria, 1522-1586: costruzioni politiche e diplomazia, tra corte Farnese e monarchia spagnola, Bulzoni Editore, Roma 2003

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La Santa Notte messa in scena LIBRI • Chiara Frugoni rilegge l’«invenzione» del

presepio da parte di san Francesco, sottolineando i valori ideologici e politici dell’operazione. Il cui fine principe era quello di ribadire il messaggio di pace e fratellanza universale trasmesso dall’Assisiate

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ra gli episodi piú noti della vita di san Francesco di Assisi, merita senz’altro un posto di onore la rappresentazione del presepio a Greccio (Rieti), nella notte di Natale del 1223. Si tratta di un momento di grande commozione, che ribadisce il legame emotivo tra l’Assisiate e l’immagine di Gesú, ma il suo significato va oltre questa innegabile valenza mistica. A tale proposito, Chiara Frugoni aggiunge un nuovo tassello alla conoscenza quanto piú approfondita di un Francesco «recuperato» sotto le continue riscritture e reinterpretazioni della sua figura. Con questo libro agevole e prezioso, che segna l’esordio di una nuova casa editrice, l’episodio di Greccio è riportato alle sue dimensioni e intenzioni originarie. Come suggerisce il titolo, infatti, la nostra visione del presepio di san Francesco si può arricchire grazie a una serie di «sorprese» che derivano dall’attenta analisi dei testi e delle interpretazioni figurative. L’idea in sé di rappresentare il presepio in una modalità scenica (o «teatrale») non era affatto innovativa, tanto per cominciare. E dunque, qual era la peculiarità dell’approccio di Francesco? Mentre le consuete messinscene prevedevano figuranti che agivano

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nello spazio sacro di una chiesa, il futuro santo chiede che il presepe sia rievocato all’aperto, con una vera e propria mangiatoia, alla sola presenza di un bue e di un asino. Non era previsto alcun attore o qualsiasi altro oggetto di scena, quale poteva essere un’icona scolpita o dipinta. I soli occhi della mente dovevano scorgere la presenza di Gesú Bambino, grazie alle parole di una predica emozionante, che Francesco stesso rivolse ai convenuti.

Nutrirsi della parola di Cristo Proprio l’importanza scenica data al fieno e agli animali indica che le sue parole dovettero ribadire un messaggio di pace e di fratellanza universale, al di là di ogni barriera e di ogni dissidio. Il bue e l’asino si nutrono del fieno della mangiatoia, esattamente come ogni popolo può nutrirsi della parola di Cristo, anche se non segue il suo insegnamento oppure lo ignora. Si trattava quindi di un messaggio importante, con una valenza molto concreta e «attuale», non solo in una sfera prettamente religiosa. Era un’immagine semplice e al tempo stesso provocatoria, in un’epoca in cui il confronto con gli Ebrei e con l’Islam veniva sempre ricondotto alla logica della

Chiara Frugoni Un presepio con molte sorprese. San Francesco e il Natale di Greccio Mauvais Livres, Roma, 160 pp., 51 figg. col. 30,00 euro ISBN 979-12-80264-00-8 https://mauvaislivres.com conquista e della sottomissione, con il cupo clangore delle armi a fare da sottofondo. Il messaggio evangelico si contrapponeva cosí alla sferzante logica delle crociate, e san Francesco – dopo tante angherie, sofferenze e delusioni – ritrovava il modo di esprimere con piena autenticità gli ideali e i modi della sua esperienza cristiana, contro le logiche dei suoi stessi confratelli, ormai allineati ai dettami del papato. Nel grande ciclo francescano di Assisi attribuito a Giotto, l’evocazione del presepio di Greccio rende bene il modo in cui l’episodio venne rimodellato. In una chiesa, nel festoso scenario di un coro elegantissimo, la notte sacra di Betlemme ispira una semplice messinscena, con gli animali ridotti a statuine e con il Bambino – impersonato da un neonato o raffigurato da una scultura – deposto nella greppia dallo stesso Francesco, in un silenzioso atto di commozione e di reverenza. Furio Cappelli dicembre

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Il presepio di Greccio, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

Lo scaffale AA.VV. C’era una volta il Medioevo Sognato. Immaginato. Rappresentato Festival del Medioevo, Edizioni Fotolibri, Gubbio, 388 pp.

20,00 euro ISBN 978-88-85581-43-2 www.festivaldelmedioevo.it

Architetture, cinema e letteratura. Serie tv e pubblicità. Fumetti e canzoni. Ma anche arredi, abiti, gioielli, illustrazioni e giochi di ruolo. Il Medioevo è fra noi. Percepito e

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sognato. Immaginato e reinventato. Rielaborato, ricostruito e a volte anche stravolto. Rievocato in ogni città d’Europa, attraverso feste, giostre, palii e grazie a memorie storiche secolari. È un tempo sospeso. Un sogno che abita in modo stabile nel nostro immaginario collettivo. Riemerge in saghe televisive e film. Ispira videogiochi e fumetti, musiche e canzoni. E condiziona perfino i

linguaggi della politica. Questo «Medioevo dopo il Medioevo», vagheggiato e idealizzato già nell’Ottocento, influenza ancora oggi, in modo profondo, le società occidentali: dall’arte alla politica, dal costume alle mode, dalla cultura di massa alla religione. Lo definisce una parola nuova: medievalismo, che descrive la ricezione, l’utilizzo e la rappresentazione postmedievale

dell’affascinante età di Mezzo. Una eterna miniera da cui vengono estratti di continuo modelli, esempi e identità. Questi i contributi riuniti nel volume: Introduzione, Tommaso di Carpegna Falconieri; Mi scusi, dov’è il Medioevo?, Franco Cardini; Viollet le Duc, l’uomo che inventò il Medioevo, Federico Fioravanti; Il Medioevo vittoriano, Davide Iacono; La sognante ricerca dei Preraffaelliti, Umberto

Longo; L’eterno mito di Artú, Davide Iacono; Il Barbarossa pietrificato, Federico Fioravanti; La maledizione dei templari, Sonia Merli; Le fiabe perdute di Tolkien, Franco Cardini; Condottieri di celluloide, Davide

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Iacono; Notre Dame, cuore d’Europa, Franco Cardini; La Santa Sofia di Edmondo De Amicis, Geraldine Leardi; San Marino, un’identità neomedievale, Tommaso di Carpegna Falconieri; Il Borgo di Torino, Davide Iacono; Passeggiare dentro un sogno: la magia

della Scarzuola, Federico Fioravanti; Lo straordinario caso de Il nome della Rosa, Arnaldo Casali; L’Eco di Guglielmo da Baskerville, Franco Cardini; Partita a scacchi con la morte, Franco Cardini; Brancaleone, «lesto de lingua e de spada»,

Arnaldo Casali; Il cinema barbarico, Arnaldo Casali; Stanley Kubrick, il medievista, Furio Cappelli; Boccaccio al cinema, Arnaldo Casali; Robin Hood, i cento volti del supereroe, Arnaldo Casali; Il colorato Medioevo di Walt Disney, Arnaldo Casali;

Paperon de Paperoni? Era un vescovo, Federico Fioravanti; Principesse, regine, guerriere: da Uta ad Arya Stark, Francesca Roversi Monaco; Star Wars e gli astronauti in cattedrale, Arnaldo Casali; Fenomenologia di Games of Thrones, Riccardo Facchini;

Vestivamo alla vichinga, Davide Iacono; La leggenda di Ragnarr Lodbrock, Federico Fioravanti; Il Carlo Martello di Villaggio e De André, Daniela Querci; Guccini, Filemazio e la notte di Bisanzio, Federico Fioravanti. (red.)

Canzoni piene di pathos MUSICA • Il gruppo statunitense Cut Circle si cimenta

brillantemente con le chansons di Johannes Ockeghem

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igura singolare della cultura musicale della seconda metà del XV secolo, Johannes Ockeghem è uno dei massimi esponenti della scuola polifonica fiamminga. Celebrato e osannato sia in vita che dopo la morte, ebbe un’esistenza intensa, professionalmente e musicalmente. Le varie cariche onorifiche ricoperte gli valsero consistenti benefici economici: fu Primo cappellano presso la corte di Francia e tesoriere della cattedrale di Saint-Martin di Tours. La registrazione proposta dal gruppo americano Cut Circle affronta la produzione di Ockeghem attraverso una lettura appassionata dell’integrale delle sue chansons, genere musicale molto diffuso nel XV secolo. L’antologia si apre – né poteva essere altrimenti – con la celeberrima deplorazione sulla morte di Ockeghem, Nymphes des bois, che un altro grande rappresentante della polifonia fiamminga, Josquin Desprès, volle dedicare al suo insigne collega. I brani che seguono

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svelano le straordinarie architetture contrappuntistiche di Ockeghem, frutto di una vena creativa che riesce a infondere nelle chansons un profondo pathos emotivo, caratterizzato al tempo stesso da complessità e arditezze musicali tipiche dello stile del compositore.

Alternanza di toni e di temi Variegate sono le tematiche affrontate nei 24 brani, dove al tono melanconico e amoroso si alternano brani vivaci e dal tono giocoso. La scelta interpretativa dell’ensemble Cut Circle vede l’impiego di sei cantanti, diretti da Jesse Rodin, che si cimentano egregiamente in queste chansons. Eccellente è la dizione – non cosí scontata per un gruppo anglofono –, cosí come l’approccio vocale, che si presenta filologicamente corretto e lontano da ogni preziosismo. La vocalità è diretta, forse a tratti rozza, ma sicuramente vicina allo spirito delle musiche eseguite. Ottima risulta anche la scelta acustica, che opta

Johannes Ockeghem. Les chansons Cut Circle, direzione di Jesse Rodin Musique en Wallonie (MEW 1995), 2 CD www.musiwall.uliege.be per le sonorità di un ambiente al chiuso, privo di riverberazione, quale doveva essere il contesto in cui queste musiche erano eseguite. Fondato nel 2003, il gruppo Cut Circle è una «perla rara» nel panorama statunitense dedito alla musica antica e questa pregevole registrazione ne conferma l’alto livello e la maturità artistica. Franco Bruni dicembre

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