Medioevo n. 286, Novembre 2020

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MEDIOEVO n. 286 NOVEMBRE 2020

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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L’INCHIESTA

Mens. Anno 24 numero 286 Novembre 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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QUANDO L’EUROPA INCONTRÒ IL MONDO

IN EDICOLA IL 4 NOVEMBRE 2020



SOMMARIO

Novembre 2020 ANTEPRIMA

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MEDIOEVO INVENTORE Quel caldo e scoppiettante simbolo della famiglia

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ARCHEOLOGIA Il Pennino sul lago

6

RESTAURI Per sempre splendenti Un «recupero» eccellente

10 16

ITINERARI Visioni di Maria

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MOSTRE Dal Danubio alla laguna

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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COSTUME E SOCIETÀ

STORIE

BEVAGNA

L’INTERVISTA

Batti e ribatti...

Un universo di enigmi

I mestieri del Medioevo

testi di Andrea Barlucchi e Arnaldo Casali

Medioevo globale

Quando il mondo erano gli altri intervista a Paolo Grillo, a cura di Roberto Roveda

58

32

58 LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Campania

Dalla Germania con rigore di Francesco Miraglia

32 MOSTRE Parma Incontri ravvicinati con Benedetto di Stefania Romani

50

100

CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Monaci e buongustai 108 LIBRI Lo scaffale

Dossier

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di Paolo Garbini

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EL AM I

PA RM AN A T M AE ST RO

IL

MEDIOEVO n. 286 NOVEMBRE 2020

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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23/10/20 17:06

MEDIOEVO Anno XXIV, n. 286 - novembre 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Andrea Barlucchi è ricercatore e professore aggregato di storia medievale presso l’Università di Siena, sede in Arezzo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Arnaldo Casali, giornalista, storico e saggista, è direttore artistico di Popoli e Religioni-Terni Film Festival. Francesco Colotta è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Garbini è professore associato di letteratura latina medievale e umanistica presso «Sapienza» Università di Roma. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Francesco Miraglia è architetto. Stefania Romani è giornalista. Roberto Roveda è cultore della materia in storia medievale all’Università di Bergamo. Jenny Servino è responsabile del Museo internazionale e biblioteca della musica-Istituzione Bologna Musei. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Cortesia Gaita San Giorgio, Bevagna: copertina (e pp. 64/65) e pp. 59-71 – Mondadori Portfolio: Album/Oronoz: p. 5; Album/Quintlox: p. 37; AKG Images/British Library: pp. 40/41, 42, 110; Hervé Champollion/AKG Images: pp. 108/109; The Print Collector/Heritage Images: pp. 112/113 – Cortesia Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento: pp. 6-8 – Ufficio stampa Istituzione Bologna Musei: pp. 10-14 – Ufficio Stampa Museo Poldi Pezzoli: pp. 16-17 – Cortesia Sistema Museale del Chianti e del Valdarno fiorentino: pp. 18-21 – Ufficio stampa Civita Tre Venezie: p. 22 – Doc. red.: pp. 32/33, 35, 36/37, 38/39, 44-46, 53, 54 (sinistra), 55, 56/57 (basso), 73-99, 111, 112 – Cortesia Foto Amoretti, Parma: pp. 50, 52/53, 54 (destra) – Shutterstock: pp. 51 – Cortesia Edoardo Fornaciari, Parma: pp. 56/57(alto) – Cortesia Concetta Di Lorenzo e Attilio Troianiello: pp. 100-101, 102/103, 104-105, 106-107 – Cortesia Corrado Valente: p. 103 – Patrizia Ferrandes: cartina alle pp. 34/35, 102. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Bevagna (Perugia). La realizzazione di una tavola nella bottega del dipintore ricostruita dalla Gaita San Giorgio.

Prossimamente terra santa

Tutte le armate di Dio

brescia

Un museo per il divino infante

medioevo nascosto

San Cristoforo sul Naviglio


MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini

Quel caldo e scoppiettante simbolo della famiglia

«P

arlerò senza biasimo degli uomini, ma narrerò l’amore del mio dono. Essi avevano occhi e non vedevano (…) ignoravano le case di mattoni, le opere del legno: vivevano sottoterra come labili formiche, in grotte fonde, senza il sole»: cosí il grande drammaturgo greco Eschilo fa parlare Prometeo nella tragedia dedicata al Titano che aveva osato rubare il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini, il Prometeo incatenato. E, in effetti, la necessità di procurarsi e addomesticare il fuoco per riscaldare, illuminare e cucinare risale all’alba dei tempi. I nostri moderni caminetti hanno dunque i loro progenitori nei focolai paleolitici, negli ipocausti romani e, soprattutto, nelle caminate del Medioevo, vere antenate di ciò che comunemente chiamiamo camino. La soluzione adottata all’incirca sino al Mille, non era poi dissimile da quelle messe a punto nell’antichità: il focolare, infatti, era sistemato al centro della stanza e, sul tetto, si apriva un foro che favoriva la fuoruscita del fumo. Cosí facendo, si teneva il fuoco lontano dalle pareti, spesso costruite in legno, diffondendo luce e calore in modo uniforme. Vi erano però almeno due grandi inconvenienti: il fumo e il rischio di incendi. I Romani avevano creato una stanza apposita in cui accendere il riscaldamento, tollerando che le pareti venissero annerite dal fumo: atrio, infatti, deriva proprio da ater, che significa nero. Quanto agli incendi, invece, essi scoppiavano spesso per il fatto che i tetti erano costruiti con legno e paglia e una piccola scintilla poteva essere fatale. Pare si debba ai Normanni l’idea di costruire una cappa e una canna fumaria per convogliare il fumo fino alla parte terminale del camino oltre il tetto. L’introduzione di nuovi materiali edilizi portò alla pro-

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gressiva sostituzione delle case in legno con edifici realizzati in pietra e mattoni: inizialmente ciò avvenne per castelli, abbazie e palazzi episcopali. Una simile innovazione permise la nuova disposizione del camino negli edifici: la realizzazione di canne fumarie in pietra o mattoni, infatti, consentí l’addossamento del camino alle pareti e la possibilità di porlo in qualunque ambiente, vuoi per riscaldarsi, vuoi per cucinare, diminuendo drasticamente il pericolo di incendi. Del camino, e della stanza in cui sorgeva, Jacques Le Goff scrisse che si trattava del «simbolo della famiglia, luogo di incontri, di parole scambiate, di giochi». Cosí nacque, di fatto, il camino moderno, diretto predecessore dei nostri caminetti. Nel corso dei secoli furono apportate notevoli migliorie: se ne occuparono, tra gli altri, Leonardo da Vinci, nel suo Codice Atlantico, in cui offre la prima teorizzazione dell’apporto di aria comburente esterna, e Leon Battista Alberti, il quale, nel De re Aedificatoria, tratta della collocazione ideale del camino negli ambienti descrivendone le dimensioni, dal focolare sino alla dispersione dei fumi. Quasi inutile aggiungere che, dai Paesi nordici, l’invenzione si diffuse ben presto in tutta Europa: in Italia apparve tra il 1200 e il 1300, dapprima a Venezia (1227), e poi a Pisa (1298). Il padovano Francesco Carrara lo avrebbe introdotto a Roma nella seconda metà del Trecento, quando ormai, stando al cronista Giovanni Musso, a Piacenza ogni casa era dotata di camino. Raffigurazione allegorica di Febbraio, rappresentato da un uomo che si scalda davanti a un camino e da una donna che fila. 1482-1485. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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ANTE PRIMA

Il Pennino sul lago

ARCHEOLOGIA • Sorta lungo una

strada di grande importanza strategica, la fortezza di Castel Penede, nel Trentino, dominava il territorio circostante e fu perciò assai ambita. Ecco perché la sua storia, ora rivelata da scavi e restauri, è scandita da ripetuti assedi

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uove ricerche ridanno vita a una delle testimonianze di archeologia medievale piú rilevanti della storia del Garda e del Trentino, quella del dosso di Castel Penede. Il complesso fortificato è ubicato a 258 m slm, occupando il limite meridionale del promontorio roccioso del comune di Nago proteso verso il lago di Garda, lungo un tracciato seguito dalla strada di età romana che da Trento giungeva a Torbole, un percorso che continuò a essere strategicamente fondamentale in età tardo-antica e medievale. Anche

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In alto Castel Penede (Trento). Una veduta dei resti del castello medievale che rende evidente la sua felice posizione strategica, a controllo del territorio circostante e del lago di Garda.

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In alto e a sinistra due immagini delle strutture rivelate dai recenti interventi di scavo archeologico. Le indagini hanno permesso di accertare tre fasi di vita principali del complesso fortificato, comprese tra il XII e il XVI sec.

per questo motivo la fortezza di Penede, identificata da alcuni studiosi con il Pennino citato nel canto XX dell’Inferno di Dante, costituiva un sito nevralgico, per la sua posizione su uno sperone roccioso posto a chiusura del valico tra la conca della foce del Sarca e la valle di Loppio, uno dei pochi passaggi dall’Alto Garda alla valle dell’Adige, rientrando in un sistema di fortificazioni a controllo dell’area con Castel San Zenone e le torri del Belvedere.

Conquiste e riconquiste Eretto da Ulrico II d’Arco tra il 1196 e il 1210, quasi certamente nel trambusto degli anni che seguirono alla rinuncia del vescovo Corrado di Beseno – nei quali si registrano diversi disordini e sopraffazioni a danno dei diritti della Chiesa di Trento –, il castello ha subito diversi assedi nel corso della sua storia: nel 1243 viene espugnato dal conte Rizzardo di San Bonifacio, mentre nel 1340 viene conquistato da Nicolò

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ANTE PRIMA Immagini degli scavi che hanno riportato alla luce le strutture del castello. principali della vita del castello, che coprono un arco cronologico compreso tra il XII e il XVI secolo.

Prima del castello

d’Arco, sostenuto nell’impresa dalle truppe del duca di Milano Luchino Visconti. Ma solo nel 1703, dopo essere stato assediato e diroccato dalle truppe francesi nel contesto della guerra di successione spagnola, il castello cadde in rovina e venne definitivamente abbandonato. Lo sperone difeso da mura presenta attualmente un acrocoro verso sud e un ulteriore settore insediativo nel settore opposto: nell’area occupata dal complesso fortificato sono rilevabili cinque linee di difesa, che racchiudono all’interno tracce

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murarie di edifici in cui si riconoscono la residenza dei feudatari, una cisterna, un cunicolo intonacato e l’osservatorio militare. Gli interventi condotti da archeologi e restauratori hanno messo in luce, consolidato e restaurato le antiche murature interne e perimetrali, restituendo l’assetto originario dell’imponente struttura, cosí come rilevato nella planimetria del 1615, oggi conservata a Innsbruck, presso il Tiroler Landesarchiv: l’analisi stratigrafica degli elevati ha infatti consentito di riconoscere tre fasi costruttive

Uno scavo archeologico, coordinato dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trento, in collaborazione con l’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza, ha poi iniziato a indagare un vasto e articolato complesso edilizio di epoca romana costruito lungo le pendici del dosso su cui sorge il fortilizio, mettendo in luce anche tracce di una prima frequentazione del sito a partire alla seconda età del Ferro (corrente culturale di Fritzens-Sanzeno). L’insediamento di età romana che precede l’edificazione del castello viene quindi installato proprio in continuità con quello preesistente di epoca protostorica, organizzandosi su poderosi terrazzamenti, raccordati tra di loro mediante un sistema di scalinate monumentali composte da blocchi squadrati di calcare. Le ricognizioni nell’area circostante il complesso fortificato hanno infine evidenziato la presenza di numerose altre strutture murarie che fanno ritenere l’insediamento di età romana piuttosto esteso, forse addirittura fino all’area sommitale. Il progetto di ricerca e di valorizzazione dell’intero dosso di Castel Penede permetterà nei prossimi anni con l’approfondimento delle indagini, lo studio dei risultati e la loro divulgazione, assieme al restauro di altre strutture, di aprire al pubblico l’intero complesso archeologico. Il progetto di restauro è seguito e coordinato dall’Ufficio beni architettonici e dall’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento, mentre l’impresa esecutrice è la Tecnobase srl con l’assistenza archeologica di Arc-Team. Giampiero Galasso novembre

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A Paestum per ripartire I

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

l Sindaco di Capaccio Paestum, il patrimonio archeologico in chiave Direttore del Parco Archeologico piú esperienziale e sostenibile» si di Paestum e il Direttore della discuterà sulla valorizzazione dei Borsa, avendo condiviso che non territori, che deve essere improntata c’erano le condizioni per svolgere da una governance sostenibile. la Borsa Mediterranea del Turismo In questo contesto Federparchi, Archeologico dal 19 al 22 novembre Automobile Club d’Italia, 2020, per assicurare a tutti i Confagricoltura, Legambiente, protagonisti sicurezza e soddisfazione, hanno ritenuto Touring Club Italiano condividono la necessità di di non annullare la XXIII edizione, ma di posticiparla pensare anche una mobilità contemporanea, che guardi da giovedí 8 a domenica 11 aprile 2021, lasciando al prossimo futuro e che integri l’automobile con i immutato il programma anche negli orari, nuovi mezzi di trasporto e con l’innovazione sostenibile. come già da tempo pubblicato. Avendo ACI già sperimentato progetti che trovano il La decisione è stata presa nel rispetto dei 100 espositori miglior equilibrio possibile tra auto e natura, proprio in che con il loro investimento qualificano il Salone, dei 250 quest’ottica, le vetture citycar 100% elettriche all’interno relatori che con la loro partecipazione contribuiscono al dei Parchi Nazionali, partendo con un progetto proprio programma scientifico, dei buyer e degli operatori turistici nel nostro Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e che danno vita all’incontro tra la domanda e l’offerta, dei Alburni potrebbero rappresentare un progetto itinerante giornalisti e dei media partner che ne assicurano il riscontro di educazione alla eco-sostenibilità. mediatico, dei partner istituzionali e delle prestigiose realtà che collaborano e patrocinano, consentendo la migliore realizzazione della BMTA. La nuova data consentirà anche ai tanti visitatori e addetti ai lavori di vivere Paestum e la bellezza del Parco Archeologico, sito UNESCO, con i colori della primavera, che siamo certi sancirà la definitiva ripartenza del nostro Bel Paese e del turismo in chiave piú esperienziale e sostenibile, oltre che rivolto alla Errata domanda di prossimità, tematiche tutte a cui la Borsa si è ispirata in questa edizione. Infatti, protagonista corrigesarà con il turismo culturale all’insegna dell’esperienza unica eal riferimento autentica, nonostante l’aspetto esperienziale sia già di Nella Conferenza «Il treno Dossier L’umanista che andò alle crociate (vedi storico per la connessione per sé alla base dell’offerta. Oggi piú che mai, infatti, n. 220,territoriale delle destinazioni archeologiche» viene «Medioevo» aprile 2015) desideriamo qualsiasi offerta deve avere i caratteri dellaprecisare sostenibilità, presentata una nuova forma che la medaglia in bronzo riprodotta a di turismo, che permetta che come si evince dal ricco programma, è l’altro tema al viaggiatore percorrere p. 93 (in basso) ritrae MalatestadiNovello (alil nostro Paese in modo importante di questa edizione. Dunque, unsecolo nuovoDomenico Malatesta, sostenibile e lungo le tratte storiche delle ferrovie, 1418-1465) signore modo di proporre e vivere il turismo, oltre all’invito ammirando paesaggicome magnifici e toccando località di di Cesena, e non Sigismondo Malatesta, ad aumentare gli standard di qualità, al rinnovamento struggente bellezza. Esistono indicato in didascalia. Dell’errore ci scusiamo con 800 chilometri di tratte e all’adeguamento delle strutture. «In quest’anno in disuso l’autore da dell’articoloferroviarie e con i nostri lettori. e abbandonate, che attraversano dimenticare Paestum con la sua BMTA rappresenta la parchi nazionali, aree protette e territori densi di storia ripartenza del turismo archeologico», ha dichiarato il e cultura. I treni rappresentano l’antico progresso, la Fondatore e Direttore della BMTA Ugo Picarelli. produttività e la connessione tra tutti i piccoli territori Oltre alla presenza di new entry come Roma Capitale, che attraversano e puntando i riflettori sulle ferrovie Provincia di Trento, Visit Brescia, Visit Emilia e turistiche, in particolare quelle storiche, i viaggiatori Fondazione Vulci, registriamo le conferme del MiBACT, possono riscoprire un patrimonio immenso, fatto di del Parco Archeologico del Colosseo, di Automobile Club antichi tracciati, gallerie e vecchi convogli che rievocano d’Italia, della Regione Siciliana, di Visit Romagna. il passato del nostro Paese. Nella Conferenza «I parchi per la valorizzazione del Per info: www.bmta.it


ANTE PRIMA

Per sempre splendenti RESTAURI • Cinque corali del Museo della musica

di Bologna sono stati affidati alle cure dei restauratori. Con l’obiettivo di recuperarne lo sfavillio originario e di restituirli alla fruizione di studiosi e appassionati

L’

Istituzione Bologna Musei ha presentato, in collaborazione con l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna (IBACN), un progetto di valorizzazione del patrimonio bibliografico del Museo internazionale e biblioteca della

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musica di Bologna relativo a cinque preziosi manoscritti liturgici miniati. L’intervento si inquadra come ideale prosecuzione di un precedente progetto condotto negli anni 2003-2005 sul fondo dei manoscritti liturgici posseduti dal Museo della Musica e dalla

Tutti i codici riprodotti sono conservati presso il Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna. In basso Jenny Servino, Antonella Salvi, Roberto Grandi e Alberto Calciolari durante la presentazione del progetto di restauro dei codici liturgici.

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Biblioteca dell’Archiginnasio, promosso dallo stesso IBACN in collaborazione con il Comune di Bologna e con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nell’ambito del progetto della Biblioteca Digitale Italiana. Da quel progetto – che permise lo studio, la catalogazione, la conversione digitale e il restauro conservativo di oltre 50 manoscritti liturgici – furono esclusi, per motivi di estrema complessità legata alle dimensioni e alle condizioni conservative, cinque corali miniati di grandi dimensioni

(in media 59 x 41 cm), di rilevante pregio storico-artistico, ricchi di miniature, in parte pergamenacei.

Da chiese e monasteri Grazie alla collaborazione con l’IBACN, il nuovo progetto riporterà agli antichi splendori anche questi preziosi codici musicali. Si tratta, in particolare, di due antifonari domenicani risalenti al XIII-XIV secolo, compilati per il monastero femminile di S. Maria Maddalena di Val di Pietra, che per affinità grafico-decorative e liturgiche

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sono legati ai manoscritti 519 e 520 del Museo Civico Medievale di Bologna e con i quali formano un ciclo liturgico completo; un salterioinnario olivetano proveniente da S. Michele in Bosco; un gradualekyriale proveniente dal monastero domenicano femminile di S. Agnese, realizzato tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, che sembra sia il gemello di un codice della Biblioteca Estense di Modena; infine un graduale domenicano del XVI secolo. Lo studio completo su tutto il fondo, da cui sono state tratte alcune

In questa pagina e nella pagina accanto, in alto due capilettera miniati e la coperta di un graduale-kyriale proveniente dal monastero femminile di S. Agnese. Fine del XIII-inizi del XIV sec. anticipazioni, sarà pubblicato entro l’anno e permetterà finalmente di conoscerne la storia e le particolarità grazie all’impegno del professor Cesarino Ruini (già docente di storia della musica presso l’Università di Bologna) e delle musicologhe Stefania Roncroffi, per i manoscritti, e Milena Basili, per i frammenti.

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ANTE PRIMA

In alto pagina di un salterio-innario olivetano, da S. Michele in Bosco. A destra pagina di un antifonario domenicano compilato per il monastero domenicano femminile di S. Maria Maddalena di Val di Pietra. XIII-XIV sec. Nella pagina accanto pagina di un graduale domenicano, compilato per una comunità religiosa domenicana, probabilmente bolognese. XVI sec. Il corpus dei libri liturgici del Museo della musica, composto da oltre un centinaio di volumi manoscritti e a stampa databili tra il X e il XV secolo, compresi i cinque di imminente restauro, costituisce parte del patrimonio librario musicale ereditato da padre Giovanni Battista Martini (1706-1784). La sua ricca collezione che all’epoca raggiunse oltre 17 000 volumi, oggi ne conta oltre 100 000, tra documenti musicali a stampa dal XVI al XVIII secolo, manoscritti, autografi, lettere e oltre 12 000 libretti d’opera. In particolare, il fondo dei manoscritti liturgici si distingue per rilevanza sia dal punto di vista bibliografico che storicoartistico, anche in virtú della sua eterogeneità: ne fanno parte messali,

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innari, graduali, cantorini, vesperali, rituali e processionali. Alcuni sono raccolte di frammenti con notazioni musicali di diversa provenienza e datazione e presentano capilettera decorati o miniati, altri sono in pergamena, altri ancora riportano i tipici caratteri gotici in rosso e nero.

Il progetto di valorizzazione Il progetto consta di varie fasi, coordinate da un gruppo di lavoro tecnico-scientifico a partecipazione

mista Museo della musica e IBACN, d’intesa con la Soprintendenza archivistica e bibliografica per l’Emilia-Romagna, a garanzia dello svolgimento delle procedure nel rispetto della normativa prevista dal Codice dei Beni culturali e del Paesaggio. Il primo step sarà costituito dalla realizzazione di uno studio conoscitivo sulle legature e sulle coperte condotto da Maria Letizia Sebastiani (direttrice dell’Istituto Centrale per il Restauro novembre

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ANTE PRIMA Pagina di un antifonario domenicano compilato per il monastero domenicano femminile di S. Maria Maddalena di Val di Pietra. XIII-XIV sec.

e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario), preliminare all’individuazione delle metodologie di intervento idonee per le classi di materiali. L’intervento di restauro conservativo sarà affidato a Massimiliano Pandolfi, restauratore specializzato in codici e direttore tecnico della società Il Laboratorio

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di Firenze. La fase finale riguarderà la riproduzione digitale dei cinque manoscritti, che ne garantirà la piú vasta fruizione da parte di studiosi, ricercatori e appassionati di tutto il mondo, grazie alla possibilità di esaminarli anche a distanza attraverso il web, e la realizzazione di appositi contenitori in cui i

manoscritti verranno condizionati, al fine di mantenere parametri ambientali idonei a garantirne la migliore conservazione e trasmissione nel tempo, ma anche di consentirne una piú facile e meno traumatica movimentazione trattandosi di volumi di grandi dimensioni. Jenny Servino novembre

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Ritorno al Rinascimento D

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Immagini delle ultime edizioni della rassegna «Usi&Costumi», che quest’anno ha come tema portante il Rinascimento. L’ingresso alle aree chiuse della zona fieristica è consentito solo indossando la mascherina. Non è necessaria alcuna prenotazione e i biglietti si acquistano direttamente alle biglietterie dell’ente fiera. Viene comunque consigliato lo scarico dal sito del coupon per l’ingresso ridotto con registrazione personale (un biglietto ridotto per ogni visitatore), che altrimenti dovrà avvenire al momento dell’ingresso ai padiglioni, dove verrà effettuata anche la misurazione della temperatura corporea. Info: tel. 345 7583298 o 333 5856448; e-mail: info@usiecostumi.org; www.usiecostumi.org

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

opo Armi & Bagagli a Piacenza Expo, la regione Emilia-Romagna si candida a ospitare il 7 e 8 novembre prossimi il secondo appuntamento post Covid-19 piú atteso da appassionati di storia e tradizioni: «Usi & Costumi-Viaggio nel tempo tra luoghi, sapori, rievocazioni storiche», fiera internazionale che da nove anni porta a Ferrara Fiere visitatori dall’Italia e dall’estero. Un’edizione, questa, che si contraddistingue per aver voluto porre come proprio focus centrale un tema particolarmente e storicamente caro alla Città di Ferrara: quello del Rinascimento. Un Rinascimento che non si dovrà intendere solo come disamina del passato che, a cavallo tra XV e XVI secolo, vedremo indossato, ricostruito o cucinato in alcuni degli stand allestiti in fiera, bensí anche come declinazione di quanto nel presente della città estense si sta realizzando per rilanciare il tessuto socio/ culturale e produttivo dopo il tragico lockdown. Con uno sguardo rivolto però anche al futuro, a cui guarda con particolare fiducia l’ente fieristico del neopresidente, da poco insediatosi, Andrea Moretti. Ecco quindi che il tradizionale ritrovo di storici, artigiani, sportivi (a loro è dedicata principalmente la nuova area destinata al Tiro con l’Arco «Sagitta Expo»), appassionati di musica, arte, spettacolo di strada o di enogastronomia tradizionale, apre nel 2020 a una nuova mission collettiva: quella di recuperare il passato, per declinarlo al presente cosí da costruire delle solide basi per il futuro delle nuove generazioni. Un futuro che veda nella cultura, nella storia e nella valorizzazione dei Beni Culturali la base solida su cui costruire nuove, concrete opportunità occupazionali. «Usi & Costumi» ancora una volta diviene cosí, grazie ai suoi oltre duecento espositori, il punto di incontro dei rappresentanti di tutti i vari settori interessati al filone del Turismo della Memoria, comparto che mai come oggi diviene fondamentale per qualsiasi strategia di sviluppo sostenibile delle singole comunità. Dopo il successo ottenuto nel 2019, anche quest’anno vi sarà l’area dedicata al Piccolo Salone del Romanzo Storico «Scripta Manent», prima iniziativa in Italia dedicata a questo particolare settore dell’editoria, che negli ultimi anni sta avendo sempre maggiore successo. La Fiera sarà aperta: sabato 7 novembre dalle 10,00 alle 19,00 e domenica 8 novembre dalle 10,00 alle 18,00.


ANTE PRIMA

Un «recupero» eccellente

RESTAURI • La Madonna con il Bambino dipinta da Andrea Mantegna nei primi

anni Novanta del Quattrocento è uscita dai laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, per riprendere il suo posto nelle sale del Museo Poldi Pezzoli di Milano

T

orna a farsi ammirare, finalmente «recuperato», uno dei capolavori del Museo Poldi Pezzoli di Milano: la Madonna con il Bambino di Andrea Mantegna, restaurato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Per l’occasione è stata allestita una mostra-dossier «Mantegna ritrovato», che presenta l’opera raccontandone le diverse fasi dell’intervento conservativo e le vicende collezionistiche. Gli interventi effettuati da Giuseppe Molteni (1800-1867) nel XIX secolo avevano modificato a tal punto l’aspetto del dipinto da renderlo difficilmente giudicabile. Non a caso, l’opera era stata attribuita dalla critica alle piú varie fasi dell’attività di Mantegna: dal periodo giovanile trascorso a Padova, all’inizio del soggiorno mantovano del pittore avvenuto

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tra il 1462 e il 1470, fino alla sua tarda attività, nell’ultimo decennio del Quattrocento, opinione che è prevalsa negli ultimi anni. Il recupero della pittura originale di Mantegna consente ora di esprimere un giudizio piú sicuro sull’opera, databile quindi agli inizi degli anni Novanta del Quattrocento.

Un pedigree di tutto rispetto Il dipinto vanta un’illustre provenienza: nell’Ottocento apparteneva allo storico dell’arte Giovanni Morelli (1816-1891), fra i piú rilevanti conoscitori di opere d’arte antiche della sua epoca. Nel 1861 la tela fu alienata per 2000 lire a Gian Giacomo Poldi Pezzoli; la vendita venne effettuata per pagare un debito di gioco di Morelli. Nell’inventario redatto nel

1879, alla morte di Gian Giacomo, il valore venale attribuito all’opera da Giuseppe Bertini, primo direttore del Museo Poldi Pezzoli, era già lievitato a ben 15 000 lire. Gian Giacomo Poldi Pezzoli nel 1863 fece restaurare il dipinto a Giuseppe Molteni, direttore della Pinacoteca di Brera nonché ritrattista e amico della famiglia Poldi Pezzoli. Molteni era noto nell’ambiente artistico per i suoi interventi di tipo «integrativo», DOVE E QUANDO

Museo Poldi Pezzoli Milano, via Manzoni 12 Orario dal mercoledí al lunedí, 10,00-13,00 e 14,00-18,00 Info tel. 02 79.4889/6334 https://museopoldipezzoli.it/; @poldipezzoli, #mantegnaritrovato novembre

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che pretendevano di migliorare l’aspetto estetico dei quadri antichi secondo il gusto accademico in vigore all’epoca. Nella Madonna col Bambino, Molteni impreziosí la veste rossa della Vergine con marezzature dorate e ridipinse completamente il manto blu dal risvolto verde, i cui pigmenti originali si erano irrimediabilmente alterati. Prolungò inoltre arbitrariamente le braccia di Maria sui bordi laterali, dando l’impressione che i personaggi si stagliassero davanti a una finestra e alterando completamente, in tal modo, l’impostazione compositiva e prospettica data all’immagine dall’artista padovano.

Analisi minuziose

Sulle due pagine la Madonna con il Bambino del Mantegna e l’allestimento della mostra-dossier realizzata per il suo ritorno nel Museo Poldi Pezzoli di Milano.

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L’Opificio delle Pietre Dure ha iniziato l’intervento conservativo nel marzo 2019 e ha dapprima svolto un’approfondita campagna diagnostica proseguita anche in accompagnamento all’intervento di restauro vero e proprio. L’approfondimento diagnostico è stato necessario anche per comprendere a fondo la tecnica esecutiva, lo stato conservativo del dipinto, per definire piú accuratamente l’entità dell’intervento di Molteni e, infine, chiarire alcune piccole scoperte che si andavano rivelando. In particolare, in corrispondenza del manto della Vergine, le indagini hanno rilevato una doppia versione pittorica: una stesura in Blu di Prussia, caratterizzata da un panneggio di gusto tipicamente ottocentesco, riconducibile quindi alla mano di Molteni; e, al di sotto di questa, una stesura ancora molto integra in Azzurrite, nella quale si è potuta riconoscere la versione pittorica originale. Anche il ricco motivo dorato che decorava la veste rossa era quasi interamente da attribuire a Molteni: le pennellate di oro in conchiglia possedevano un carattere eccessivamente

pittorico e seguivano motivi di fantasia ricostruttiva. Infine la vernice a mastice, con la quale il restauratore intendeva proteggere gli strati pittorici, aveva alterato profondamente l’opera rendendola esteticamente assimilabile a un dipinto a olio e celando le peculiarità della particolare tecnica esecutiva a tempera magra utilizzata da Mantegna. L’intervento di restauro si è quindi indirizzato al ristabilimento di un equilibrio formale, attraverso la graduale rimozione della vernice che alterava l’aspetto originale dell’opera, cosí come definito dalla tempera magra: originariamente il dipinto era infatti caratterizzato da un effetto opaco e quasi pulvirulento della superfice, a imitazione degli stendardi o della pittura murale. (red.)

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Visioni di Maria ITINERARI • I territori del Chianti, rinomati in tutto il mondo per

la loro produzione vinicola, possiedono anche un ricco patrimonio storico-artistico. In larga parte realizzato per rendere omaggio alla Vergine, il cui culto era qui particolarmente vivo e sentito

I

borghi di Greve in Chianti, San Casciano e Tavarnelle Val di Pesa sono immersi nella campagna che circonda Firenze, punteggiata da vigne, ulivi, pievi, resti di torri e di castelli, che si susseguono a scandire economia, storia e arte di un habitat naturale a forte vocazione turistica. Un habitat in cui il secolare diffondersi del culto mariano ha favorito l’esecuzione di pregiate opere, ora conservate in piccoli

musei sparsi in tutta l’area campestre. Dopo la crisi causata dalla peste del 1348, il capoluogo toscano si ritrovò a fronteggiare una situazione esplosiva a livello politico e sociale che facilitò la propagazione della locale iperdulia (alta venerazione), le cui radici affondano in una icona del XII secolo, nota come Madonna di Impruneta, Signora di «Firenze» e «delle Acque». Legato alla vita religiosa di questa

In alto Madonna del Latte e Santi, dipinto su tavola di Neri di Bicci. Anni Settanta del XIV sec. Tavarnelle Val di Pesa, Museo d’arte sacra. A sinistra Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Giovanni Evangelista, dipinto su tavola attribuito a Ugolino di Nerio. Tavarnelle Val di Pesa, Museo d’arte sacra.

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biografiche, dallo stile che tradisce inflessioni e ritmi di derivazione tardo-gotica, seppur già rivolto alle novità rinascimentali. Risale invece alla fine dell’VIII secolo una lastra di arenaria, con decorazione a ornato depresso raffigurante una croce con intrecci di nastri e vortici, visibile nella vicina Pievania romanica di S. Leolino che custodisce, tra l’altro, un trittico dalla luminosa plasticità con Vergine, Bambino e quattro Santi di Mariotto di Nardo, e una Maestà con Santi del Maestro di Panzano, oltre a un dossale duecentesco attribuibile a Meliore; fra i pochi pittori dell’epoca ad aver firmato alcune sue creazioni, in piena maturità, il maestro fiorentino intensificò ricerca di espressività e di spazio definito, pur mantenendo raffinate linee decorative. A poca distanza, si incontra Tavarnelle il cui nome deriva da «tabernulae», luoghi di sosta e ristoro lungo la «via regia» che univa Firenze In basso San Michele Arcangelo, opera di Coppo di Marcovaldo. San Casciano in Val di Pesa, Museo «Giuliano Ghelli». porzione di Toscana, è Greve, importante centro vinicolo, caratterizzato dalla sua piazza triangolare porticata, ma celebre anche per il Museo di Arte Sacra, organizzato negli spazi dell’ex convento di S. Francesco.

Una collezione variegata La significativa realtà museale ospita una interessante raccolta di quadri, sculture, paramenti e arredi sacri a testimoniare la rilevanza artistica del territorio, come una Croce Reliquiario in cristallo di rocca, eseguita fra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, un bassorilievo in marmo trecentesco rappresentante San Francesco, o lo stucco dipinto raffigurante la Madonna col Bambino attribuito a Nanni di Bartolo, scultore di cui abbiamo scarse notizie

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ANTE PRIMA a Siena e quindi a Roma. I dintorni sono disseminati di edifici religiosi, come la gotica S. Lucia al Borghetto, che conserva un pregevole Crocifisso di scuola trecentesca e un’Annunciazione del prolifico Neri di Bicci, amante di vivide tonalità cromatiche, presente anche nel Museo di Arte sacra, allestito nei

locali della pieve romanica di S. Pietro in Bossolo, con manufatti provenienti dalle chiese dei piccoli nuclei abitativi abbandonati. A pezzi originari del piviere omonimo, esposti nel salone centrale al primo piano – come una Maestà attribuita a Meliore, un’ancona con soggetto analogo di Lorenzo

di Bicci, capo di una attiva bottega che continuò la sua attività per tre generazioni, e oggetti di argenteria, quali croci astili duecentesche e un calice in rame dorato e smaltato del XIV secolo – si affiancano elementi giunti dal piviere di S. Donato in Poggio, nella seconda sala, quali un trittico trecentesco ascritto a Ugolino di Nerio. Allievo di Duccio di Buoninsegna, Ugolino si caratterizzò per lo stile elegante e denso di spiritualità, contribuendo significativamente alla divulgazione della lezione senese. Numerose furono le committenze che ricevette da parte dei Francescani: polittici, adesso in parte smembrati, come dimostrano i reperti nella chiesa di S. Maria sul Prato di San Casciano in Val di Pesa, scrigno di preziose opere, preservato dall’Arciconfraternita di Misericordia. Qui si possono inoltre ammirare un Crocifisso dell’influente e sensibile Simone Martini, noto per la resa plastica e l’attenzione per le arti suntuarie, e un pergamo in marmo della metà del Trecento, firmato Giovanni di Balduccio.

Nell’antico centro etrusco Adagiato sulle colline che dividono le valli del fiume Pesa e del fiume Greve, San Casciano assunse, già dall’epoca etrusca, un ruolo fondamentale nella storia del Chianti per la sua posizione strategica, divenendo castello difensivo a partire dal XIII secolo, epoca della sua annessione alla Repubblica fiorentina. E proprio dal vicariato locale sono stati promossi i lavori che hanno dato vita al Museo «Giuliano Ghelli», incentrato su archeologia, arte sacra e architettura, attuale polo culturale della comunità: il percorso ingloba anche l’oratorio di S. Maria del Gesú, sede originaria della collezione. Partendo da antichi Annunciazione, opera di pittore fiorentino della metà del XIV sec. Greve in Chianti, Museo d’arte sacra.

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In basso Madonna con il Bambino, dipinto su tavola attribuito a Meliore di Jacopo. Seconda metà del XIII sec. Tavarnelle Val di Pesa, Museo d’arte sacra. L’opera era collocata in origine nell’oratorio di S. Michele a Casaglia.

Qui sopra fusto scolpito dal Maestro di Cabestany raffigurante l’Annuncio ai pastori e facente parte del ciclo con Storie della Natività di Cristo che corre sui lati dell’opera. XII sec. San Casciano in Val di Pesa, Museo «Giuliano Ghelli». documenti, come l’etrusca «stele dell’arciere», nella sala d’ingresso, si arriva alla sezione dedicata alla grande varietà delle abitazioni primitive, passando per il settore inerente la produzione che va dal XII al XIX secolo, con nomi eccellenti della pittura fiorentina e senese dell’età medievale. E proprio la sagrestia della collegiata è il luogo di esposizione del fusto in alabastro databile al XII secolo, decorato con scene della Natività e

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del Bagno di Maria, presumibilmente la base di una fonte battesimale o di un candelabro per il cero pasquale, attribuito al Maestro di Cabestany, ignoto artista francese del quale esistono testimonianze nell’abbazia di S. Antimo a Montalcino e nella parrocchia di Cabestany, in Occitania, da cui ha preso il nome.

L’Arcangelo in trono Indubbiamente, però, il lavoro piú celebre è il dossale raffigurante San Michele Arcangelo con globo crucifero e lancia, seduto su un trono, circondato da sei episodi relativi alla sua leggenda, eseguito a tempera con argentature a mecca, intorno agli anni Sessanta del Duecento, da Coppo di Marcovaldo,

prima che fosse fatto prigioniero dai Senesi, dopo la battaglia di Montaperti. La pala proviene dalla chiesa di S. Angelo a Vico l’Abate, cosí come la prima opera nota di Ambrogio Lorenzetti, datata 1319, rappresentante la Madonna col Bambino; il dipinto, dove le mani di Maria sorreggono solidamente il figlio, presenta figure dalle forme plastiche, dalla resa eccezionalmente naturalistica che si avvicinano al linguaggio di Giotto e di Arnolfo di Cambio. Identico soggetto è quello trattato nelle due tavole trecentesche, realizzate rispettivamente dal Maestro del Trittico Horne e da Cenni di Francesco. Mila Lavorini

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ANTE PRIMA

Dal Danubio alla laguna MOSTRE • Nel segno

di un piú che auspicabile ritorno alla normalità, le Gallerie dell’Accademia varano un progetto destinato a portare a Venezia importanti opere concesse in prestito da raccolte di tutto il mondo

U

n capolavoro per Venezia è la nuova iniziativa lanciata dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia che vedrà esposte nelle sale del museo, a rotazione nei prossimi mesi, alcune opere di qualità straordinaria del Rinascimento veneto, provenienti dai maggiori musei internazionali. Si tratta di prestiti eccezionali, di dipinti che solo in rare occasioni hanno lasciato la propria sede espositiva d’origine. Il progetto nasce dall’intento del museo di recuperare e riannodare i rapporti e le relazioni internazionali in una città cosí fortemente colpita, dal punto di vista dei visitatori stranieri, dalle recenti calamità, in particolare l’acqua alta del 12 novembre scorso e poi la pandemia mondiale di Covid-19. L’intento è quello di riaffermare quel respiro internazionale e quella propensione al dialogo, che da sempre contraddistingue la dimensione sociale e culturale di Venezia. Il primo dipinto esposto alle Gallerie fino al prossimo 17 gennaio 2021, è la Sacra conversazione con i santi Caterina e Tommaso, del 1526-28, di Lorenzo Lotto, proveniente dal Kunsthistorisches Museum di Vienna. L’opera, che ben si presta a

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dialogare con lo splendido Ritratto di giovane gentiluomo, sempre di Lotto, appartenente alle Gallerie, rappresenta probabilmente uno dei capolavori assoluti dell’intera produzione del pittore veneziano.

All’ombra della quercia In un soleggiato pomeriggio estivo Maria, seduta sull’erba, sostiene il bambino in piedi sopra un ceppo. L’abito azzurro, ampiamente drappeggiato a formare idealmente una struttura piramidale, sottolinea la solennità del personaggio. A un nastro posto intorno al collo sono legati dei fogli ripiegati con caratteri vergati a mano, illeggibili, interpretati come testi sacri o preghiere. Alle spalle della Madonna, la quercia, che sostituisce il tendaggio della tradizione quattrocentesca, proietta sulle figure ombre irregolari stupendamente

naturali. Santa Caterina in un abito di prezioso tessuto verde e mantello rosso, con al fianco la ruota della tortura, è inginocchiata a sinistra di Maria e regge un libro in mano. Al suo fianco san Tommaso tiene appoggiata alla spalla la lancia che trafisse il costato del Cristo. Dalla parte opposta, un angelo incorona la Madonna con una ghirlanda di pervinche, innescando la dinamica della composizione che si snoda da sinistra verso destra. (red.) DOVE E QUANDO

Gallerie dell’Accademia Milano, via Manzoni 12 Orario dal mercoledí al lunedí, 10,00-13,00 e 14,00-18,00 Info tel. 02 79.4889/6334 https://museopoldipezzoli.it/; @poldipezzoli, #mantegnaritrovato novembre

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AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA LA LEZIONE DI RAFFAELLO. LE ANTICHITÀ ROMANE Villa di Capo di Bove sull’Appia Antica fino al 29 novembre

L’esposizione presenta attraverso dipinti, incisioni, libri e disegni alcuni contenuti della lettera scritta dall’Urbinate a papa Leone X nel 1519: parole che hanno originato un nuovo sguardo sugli antichi reperti e provocato una rivoluzione umanistica e scientifica. La rassegna si articola intorno a due focus. Il primo è la fortuna della Lettera, la quale rivive nella storiografia, nella letteratura, nella produzione figurativa del XIX secolo,

divenendo un testo di riferimento per le politiche di tutela delle nazioni europee. Il secondo è l’attività di rilievo e catalogazione dei monumenti antichi svolta dal maestro e dai suoi discepoli, in particolare da Pirro Ligorio. Quest’ultimo, architetto e studioso napoletano, è stato un fondamentale interprete della lezione raffaellesca e ha tradotto in disegni architettonici e appunti grafici i sepolcri antichi collocati lungo

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a cura di Stefano Mammini

la regina viarum e la via Latina. A partire dal celebre scritto – riprodotto su uno schermo che ne consente lo sfoglio e l’ascolto – le opere in mostra raccontano la consacrazione internazionale di Raffaello come padre della moderna cultura della tutela del patrimonio monumentale, archeologico e artistico. info tel. 06 477881; www. parcoarcheologicoappiaantica.it CLASSE (RAVENNA) TESORI RITROVATI. IL BANCHETTO DA BISANZIO A RAVENNA Museo Classis Ravenna fino al 20 dicembre

I ceti dirigenti della tarda antichità hanno molti modi per autorappresentarsi. Uno dei principali è commissionare

oggetti preziosi ad artigiani specializzati. Un settore di grande prestigio è quello dell’argenteria: coppe, boccali, posate e grandi piatti sono tra gli oggetti piú richiesti dalle aristocrazie. Spesso questi oggetti recano delle raffigurazioni di miti antichi o scene agresti e di banchetto. Il senso di queste rappresentazioni si giustifica nei modelli della loro committenza. Importanti personaggi vogliono comunicare il loro status symbol, le loro radici culturali. In molti casi si tratta di prodotti di alta qualità realizzati nei piú importanti centri culturali dell’impero. Il percorso espositivo inizia da due grandi piatti realizzati in argento dorato di epoca tardoantica provenienti dal Museo Archeologico di Cesena. La sequenza narrativa della mostra prende avvio dalla documentazione del loro ritrovamento e stabilisce connessioni con analoghi grandi missoria in argento che, per qualità e modalità di realizzazione, appaiono in relazione con quelli di Cesena. Inoltre partendo dalla rappresentazione del banchetto, incorniciata al centro di uno dei grandi piatti di Cesena, si sviluppa un

racconto sulla produzione di suppellettili da mensa tardo antiche e sulle rappresentazioni figurative di banchetto circolanti tra le aristocrazie del tempo, derivate da modelli prestigiosi, funzionali anche a precise esigenze di affermazione e esaltazione sociale. Queste suppellettili, infatti, erano commissionate per essere donate durante alcune cerimonie o per celebrare incarichi e nomine. Ai tempi dell’impero romano, inoltre, era molto importante anche il «peso» del vasellame da cui si desumeva la ricchezza del proprietario. La mostra, che si inserisce perfettamente nel percorso espositivo del Classis Ravenna, punto culturale di riferimento per chiunque voglia conoscere la storia della città, tre volte capitale, dalle origini all’anno Mille, approfondisce un aspetto della vita e della cerimonialità tardo antica alle quali il Museo dedica molta attenzione. Unitamente alla basilica di S. Apollinare in Classe, definita una dei piú grandi esempi di basilica paleocristiana e dotata di meravigliosi mosaici e all’Antico Porto di Classe, considerato uno dei principali scali portuali del mondo romano e bizantino, unico per suggestione, Classis Ravenna costituisce il Parco Archeologico di Classe. info tel. 0544 473717; www.classisravenna.it; www.ravennantica.it FIRENZE «…CON ALTRA VOCE RITORNERÒ POETA. IL RITRATTO DI DANTE DEL BRONZINO ALLA CERTOSA DI FIRENZE» Pinacoteca della Certosa del Galluzzo fino al 31 dicembre

Anticipando il fitto programma novembre

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come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del di appuntamenti che nel 2021 celebreranno il 700° anniversario della morte di Dante Alighieri, la mostra propone in esclusiva l’esposizione del Ritratto allegorico di Dante Alighieri, dipinto nel 1532-1533 dal Bronzino e proveniente da una collezione privata fiorentina. L’opera campeggia sul fondo della Pinacoteca della Certosa che sul lato sinistro ospita anche i cinque affreschi del Pontormo (dipinti intorno al 1523) raffiguranti le Scene della Passione, alla cui realizzazione collaborò appunto il Bronzino, mentre Firenze era ammorbata dalla peste. Nella sala della Pinacoteca si possono inoltre ammirare le copie in scala ridotta eseguite su tela da Jacopo da Empoli e da altri pittori fiorentini dell’Accademia delle Arti del Disegno intorno al 1582. Si tratta quindi dell’imperdibile occasione sia di ammirare un’opera poco visibile - poiché proveniente da una collezione privata - in un ambiente coinvolgente e storicamente attinente, sia di riscoprire il fascino della Certosa fiorentina

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Un viaggio di ritorno travagliato, che ai tre secoli di attesa ha sommato altro tempo, se possibile ancor piú interminabile nella sua incertezza: ma finalmente il capolavoro ritrovato è pronto a rivelarsi. Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni di Bologna ospita la grande mostra che

PERUGIA

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio 2021. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota

BOLOGNA LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni fino al 10 gennaio 2021

in cui per quasi sette secoli arte e devozione, cultura umanistica e Fede si sono sedimentate rendendolo un luogo dove «Quella quiete, quel silenzio e quella solitudine» tanto cari a Pontormo, fanno pari con la bellezza e l’indubbio interesse che suscita. info tel. 055 2049226; e-mail: certosadifirenze@gmail. com; www.certosadifirenze.it

RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi fino al 6 gennaio 2021

antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neo-rinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria

Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli

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AGENDA DEL MESE riporta in città, a 500 anni dalla sua realizzazione e a 300 dalla sua dispersione, le tavole del Polittico Griffoni dei ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che proprio nella città felsinea, con la maestosa pala d’altare realizzata tra il 1470 e il 1472 per l’omonima cappella nella basilica di S. Petronio, diedero avvio al loro straordinario sodalizio artistico. Un lavoro di oltre due anni e il coinvolgimento di 9 Musei internazionali proprietari delle singole tavole, la metà dei quali ubicati fuori dai confini nazionali, hanno dato vita a un evento eccezionale per la storia dell’arte, che ha il merito, tra le altre cose, di ridefinire la centralità della città di Bologna nel panorama rinascimentale italiano. La mostra si compone di due sezioni. Il piano nobile di Palazzo Fava ospita «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna»: le 16 tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei prestatori sono visibili assieme alla ricostruzione del Polittico, una vera e propria rimaterializzazione della pala d’altare cosí come dovette apparire ai Bolognesi di fine Quattrocento. La superba pala d’altare dedicata a san Vincenzo Ferrer fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni all’interno della basilica di S. Petronio a Bologna. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese Francesco del Cossa, allora all’apice della sua straordinaria carriera artistica, iniziata intorno al 1456 e stroncata dalla peste nel 1478. I contatti tra l’artista e il capoluogo emiliano, attivi per quasi un ventennio, si tradussero nella realizzazione di alcuni capolavori come

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l’Annunciazione di Dresda, la Madonna del Baraccano e la Pala dei Mercanti. Il Polittico Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Del Cossa e De’ Roberti lavorò alla cornice il maestro d’ascia Agostino de Marchi da Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, Pompeo Aldrovandi, monsignore e poi cardinale, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso dell’Ottocento i dipinti entrarono nel giro del mercato antiquario e del collezionismo, giungendo, infine, ai nove musei che oggi custodiscono le opere, la metà dei quali hanno sede fuori dai confini nazionali. Il secondo piano ospita «La Materialità dell’Aura: Nuove Tecnologie per la Tutela», sezione che illustra, attraverso video, immagini e dimostrazioni con strumenti di scansione 3D, l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del Polittico. info tel. 0544 473717; https://genusbononiae.it ROMA IL TEMPO DI CARAVAGGIO. CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE DI ROBERTO LONGHI Musei Capitolini, Sale espositive di Palazzo Caffarelli fino al 10 gennaio 2021

Lo storico dell’arte Roberto Longhi si dedicò allo studio del Caravaggio, all’epoca uno dei pittori «meno conosciuti

dell’arte italiana», già a partire dalla tesi di laurea, discussa con Pietro Toesca, all’Università di Torino nel 1911. Una scelta pionieristica, che tuttavia dimostra come il giovane Longhi seppe da subito riconoscere la portata rivoluzionaria della pittura del Merisi, cosí da intenderlo come il primo pittore dell’età moderna. In mostra è esposto uno dei capolavori di Caravaggio, acquistato da Roberto Longhi alla fine degli anni Venti: il Ragazzo morso da un ramarro. Quattro tavolette di Lorenzo Lotto e due dipinti di Battista del Moro e Bartolomeo Passarotti aprono il percorso espositivo, con l’intento di rappresentare il clima artistico del manierismo lombardo e veneto in cui si è formato Caravaggio. Oltre al Ragazzo morso da un ramarro è in mostra il Ragazzo che monda un frutto, una copia antica da

Caravaggio, che Longhi riteneva una «reliquia», tanto da esporla all’epocale rassegna di Palazzo Reale a Milano nel 1951. Seguono oltre quaranta dipinti degli artisti che per tutto il secolo XVII sono stati influenzati dalla sua rivoluzione figurativa. info e prenotazioni tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it TORINO INCENSUM Musei Reali, Spazio Passerella del Museo di Antichità fino al 10 gennaio 2021

La mostra ospita come special guest una materia prima meravigliosa ed estremamente evocativa, il franchincenso o lacrime degli Dèi. Cristalli lattiginosi con sfumature verdi che ancora oggi sono estratti e lavorati in quello che gli esploratori definivano un mondo a parte, il sultanato novembre

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dell’Oman. Piú precisamente è nella regione del Dhofar che troviamo la Valle dell’Incenso, un luogo straordinario, in cui crescono numerosi alberi di Boswellia sacra. «Attorno a un granello di franchincenso – spiega Silvana Cincotti, curatrice della mostra – si sono riunite le energie di un anno per realizzare questa mostra, mettendo a fuoco, di volta in volta, la prima imperante necessità, creare cultura e conoscenza». Una mostra che racconta una storia lunga piú di cinque millenni. La suddivisione delle tematiche presentate lungo il percorso è sia cronologica che geografica, trasversale a piú culture, attestata non solo lungo il bacino del Mediterraneo, ma ben oltre, verso la Cina e il Giappone, civiltà che hanno associato all’incenso pratiche

liturgiche, abitudini e costumi di vita, in modo particolare dei circoli intellettuali. «Il tema del sacro, dal mondo mitologico alle celebrazioni liturgiche – osserva Gabriella Pantò, direttrice del Museo di Antichità – si dipana tra i reperti archeologici del Museo di Antichità dalla protostoria all’Alto Medioevo, mentre evocano memorie di Paesi lontani i materiali di collezione di Palazzo Reale, forse frutto di scambio di doni tra antichi monarchi o dignitari. Suggestioni di mondi lontani nel tempo e nello spazio che i Musei Reali sono lieti di offrire al pubblico». info www.perfumumtorino.com FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE

Palazzo Pitti

fino al 31 gennaio 2021

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica

dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it SENIGALLIA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Palazzo del Duca fino al 31 gennaio 2021

Dopo essere stata presentata ad Ascoli Piceno e a Roma, va in scena a Senigallia, in Palazzo del Duca, la terza e ultima tappa della mostra «Rinascimento marchigiano. Opere d’arte restaurate dai luoghi del sisma», che, per l’occasione, si arricchisce ulteriormente, presentando una quarantina di opere. In particolare, per la prima volta dopo il sisma, viene ricomposto l’intero ciclo di

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AGENDA DEL MESE Bracci, romano di origine, ma molto attivo nelle Marche. info e-mail: circuitomuseale@ comune.senigallia.an.it MANTOVA RAFFAELLO TRAMA E ORDITO. GLI ARAZZI DI PALAZZO DUCALE A MANTOVA Complesso Museale Palazzo Ducale fino al 7 febbraio 2021

Il programma delle celebrazioni per il V centenario della scomparsa di Raffaello Sanzio vede protagonista anche Mantova, città che conserva una preziosa testimonianza del genio urbinate. Il ciclo degli arazzi con le Storie dei Santi Pietro e Paolo conservato a Palazzo Ducale fu infatti realizzato nelle Fiandre a partire dai cartoni preparatori realizzati dalla bottega di Raffaello: questi enormi fogli dipinti commissionati da papa Leone X, in parte conservati al Victoria & Albert Museum di Jacobello del Fiore con le Scene della vita di Santa Lucia proveniente dal Palazzo dei Priori di Fermo, presentato parzialmente nelle tappe precedenti. I recenti restauri compiuti sul ciclo sono stati molto importanti poiché hanno permesso di affermare con certezza che si tratta di una pala ribaltabile, dove i pannelli si potevano all’occorrenza richiudere uno sull’altro per svelare le reliquie poste in una nicchia sul retro, e non di un dossale come ha sempre sostenuto la storiografia. Di grande valore culturale è anche la campana databile al XIII secolo e molto probabilmente realizzata per la canonizzazione di san Francesco avvenuta nel 1228: si tratta della piú antica campana francescana arrivata ai nostri giorni. Originariamente

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si trovava nella chiesa di S. Francesco, a Borgo, una frazione di Arquata del Tronto, e ora è conservata nei depositi del Forte Malatesta di Ascoli Piceno. Da segnalare poi una stauroteca, contenente un frammento della vera croce e una coppia di reliquiari, realizzati nel XVIII secolo dall’orafo argentiere Pietro

dei Gonzaga. La mostra presenta documenti legati alla storia del ciclo, dall’acquisto da parte di Ercole Gonzaga fino alle piú recenti vicende novecentesche. info tel. 0376 224832; https:// mantovaducale.beniculturali.it FIRENZE IMPERATRICI, MATRONE, LIBERTE. VOLTI E SEGRETI DELLE DONNE ROMANE Galleria degli Uffizi fino al 14 febbraio 2021 (dal 3 novembre)

La mostra pone a confronto gli opposti modelli che caratterizzano la rappresentazione femminile nel mondo romano, e infatti si articola in tre sezioni: gli exempla femminili negativi, i modelli positivi e infine il ruolo pubblico concesso alle matrone. L’arco temporale preso in esame comprende un periodo ampiamente documentato, quello aureo del Principato, che va dall’ascesa di Augusto alla morte di Marco Aurelio. Le opere esposte sono sculture, epigrafi, gemme e disegni, in gran parte appartenenti alla collezione delle Gallerie degli Uffizi, e con prestiti da altre istituzioni. info tel. 055 294883; www.uffizi.it

Londra, servirono a realizzare il celebre ciclo destinato a ornare le pareti della Cappella Sistina in Vaticano. L’edizione mantovana, che segue cronologicamente l’editio princeps romana, è dunque un’opera di straordinario pregio, certamente tra i pezzi piú costosi e prestigiosi della portentosa collezione d’arte novembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

IL MILLENNIO DELL’AMORE

«Q

ualcuno mi dice che cos’è l’amore?», scrive il poeta Walther von der Vogelweide (1170-1230), celebre cantore della lirica cortese tedesca. A dispetto degli stereotipi, gli uomini dell’età di Mezzo vissero le pulsioni sentimentali in modo intenso e disinibito. Lo riferiscono molti testi bassomedievali sull’argomento, trattando con una certa spregiudicatezza temi ritenuti scabrosi: il sesso come bisogno naturale, i rimedi per la contraccezione, la tolleranza verso le relazioni omosessuali e il maggior rilievo assegnato alla donna nella dinamica dei rapporti di coppia... E proprio l’emergere della figura femminile assume un ruolo dominante in un periodo che segna un nuovo inizio nella raffigurazione delle passioni. Con la rivoluzione cortese, il Medioevo concepisce una sua «arte di amare», immortalandola nei versi dei poeti provenzali, dei Minnesänger tedeschi e poi degli stilnovisti italiani. Ancor prima nel tempo, era invalsa la pratica delle «lettere d’amore», sotto forma di messaggi affettuosi che le giovani nobili inviavano ai propri spasimanti dai banchi delle aule monastiche. Con il nuovo Dossier, «Medioevo» presenta insomma la storia di una grande «scoperta» che incise profondamente nel destino della cultura occidentale: l’invenzione dell’amore, che ebbe i suoi eroi simbolo in coppie perlopiú sventurate: Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, Abelardo ed Eloisa…

A NE MO L M RE ED E SE IO SS EV O O

LO/MI. L. 46/2004, art. 1, c.1, . - D.L. 353/2003 conv.

GLI ARGOMENTI

• GIOCHI DI COPPIA Una certa idea dell’amore

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MEDIOEVO DOSSIER

MEDDosIOsiEer VO

• PECCATI E PIACERI Il diavolo in corpo • COSTUMI SESSUALI Il tempo del piacere La contraccezione

LA VITA DI COPPIA IL POTERE DELL’EROS E ● MORALE E REPRESSION

• CANTAR D’AMORE I trovatori La Divina Commedia I Minnesänger

I TROVATORI ● ABELARDO ED ELOISA ● LE DONNE DI DANTE

IL MILLENNIO IL MILLENNIO DELL’AMORE

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AMORE

DI MEZZO PASSIONE E POESIA NELL’ETÀ

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TRISTANO E ISOTTA

2020 Rivista Bimestrale N°41 Novembre/Dicembre

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• AMORI ILLUSTRI Abelardo ed Eloisa Tristano e Isotta

Il cantore Tannhäuser intrattiene con la sua musica la corte di Ermanno I (langravio di Turingia dal 1190 al 1217), nel castello di Wartburg. Affresco dal ciclo figurativo che illustra la saga di Tannhäuser, dipinto nello studio del castello di Neuschwanstein, in Baviera (Germania). 1890 circa.



l’intervista medioevo globale

Quando il

mondo erano gli altri

intervista a Paolo Grillo, a cura di Roberto Roveda

È mai esistita un’età in cui noi Europei non ostentavamo – quanto oggi – la nostra superiorità sociale e politica? Un’epoca in cui, invece di usare prepotenza e forza, era necessario dialogare con un mondo esterno, già connotato da rapporti culturali ed economici secolari? Sono le domande al centro di un’affascinante indagine intrapresa da Paolo Grillo, alla riscoperta delle antiche rotte della globalizzazione...

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ell’immaginario di noi Europei, il Vecchio Continente è sempre stato e continua a essere il centro del mondo. È il continente che ha «scoperto» gli altri, grazie al coraggio dei suoi grandi esploratori, ed europea è la civiltà che ha avviato il progresso tecnico e scientifico di cui oggi godiamo. Si tratta di un classico esempio di eurocentrismo, come rivela un recente saggio dal titolo Le porte del mondo (Mondadori, 2019). Ne abbiamo parlato con l’autore, Paolo Grillo, docente di storia medievale all’Università di Milano. rofessor Grillo, nel libro lei racconta P l’incontro tra Europa e resto del mondo proprio partendo da una prospettiva

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diversa dalla solita, una prospettiva che, in epoca medievale, vedeva gli abitanti del nostro continente ben consci di vivere alla periferia di un mondo ricco, colto, civilizzato e multipolare. Un mondo connesso da rapporti commerciali e culturali antichi di secoli e all’interno del quale gli Europei avrebbero dovuto ritagliarsi un ruolo sviluppando il dialogo e i commerci, non certo imponendo le loro regole oppure cercando di affermarsi con gli eserciti. Ma quali caratteristiche aveva questo mondo connesso che evoca l’idea di una globalizzazione ante litteram? «In quello che noi chiamiamo “Vecchio Mondo” (ossia Asia, Africa ed Europa) esistevano grandi e ricchi imperi, fra cui i piú importanti e antichi erano i califfati arabo-persiani,

Miniatura raffigurante alcuni navigatori nell’Oceano Indiano, che si orientano servendosi delle stelle e di un astrolabio, dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo miniata dal Maestro della Mazarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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la Cina, i principati indiani, quelli indocinesi e l’Etiopia. Fra questi vigeva, almeno dall’VIII secolo, una grande connessione commerciale fra la sponda araba del Mediterraneo, l’Africa subsahariana, l’Oceano Indiano e quello Pacifico, che faceva circolare saperi e ricchezze e rispetto alla quale gli Europei furono a lungo periferici. A questo pro-

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posito la studiosa americana Janet Abu-Lughod nel suo volume Before European Egemony del 1989 descrive un vero e proprio sistema-mondo, che funzionava grazie a sottosistemi interconnessi tra loro». uali erano questi sistemi di interconQ nessione? «Il circuito commerciale attivo sul

Mare del Nord si univa attraverso le fiere della Champagne a quello mediterraneo. Il Mediterraneo era a sua volta messo in comunicazione con il Pacifico occidentale e l’Asia centrale attraverso Alessandria, in Egitto, e il Mar Nero e cosí via. Janet Abu-Lughod ha individuato complessivamente otto aree – Europa centrale, Mediterraneo, Asia

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l’intervista medioevo globale

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Itinerario di Marco Polo (1271-1295)

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centrale, Golfo Persico, Mar Rosso, Pacifico occidentale, Pacifico orientale e Indonesia, Cina e Mar Giallo – che creavano un unico sistema-mondo imperniato sugli Stati mongoli e che fungevano da elemento di unione tra Europa, Asia e Africa. A questo sistema di connessioni individuato dalla AbuLughod ne possiamo poi aggiungere almeno un altro, ovverso quello dell’Africa occidentale e delle piste carovaniere che mettevano in relazione le miniere d’oro del Niger e

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Srinagar

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Itinerario di fra Guglielmo di Rubruck (1252-1256)

Diocesi

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Shiraz

Conquiste dei successori mongoli

Divisione del territorio intorno al 1260

Khotan

Kandahar

Itinerario di fra Giovanni di Pian del Carpine (1245-1247)

Principati russi tributari dell’Orda d’Oro

Tarim

Kashgar

Balkh

Conquiste di Gengis Khan (1206-1227)

Area di incursioni e di occupazione temporanea

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tribú mongola

del Senegal con il Mediterraneo e da qui all’Europa». ei ha detto in precedenza che, rispetto L a questi sistemi di connessioni attivi almeno dall’VIII secolo, gli Europei rimasero a lungo periferici. Quando cambiò questa situazione? «Per gran parte del Medioevo il mondo frequentato dagli Europei si limitava al bacino del Mediterraneo e al Mare del Nord. Nel XIII secolo, però, l’espansione del mondo occidentale verso oriente e le

grandi conquiste mongole aprirono nuovi spazi per gli Europei che entrarono cosí in contatto con altre civiltà, come quelle di Cina, Persia, India ed Etiopia. Anche se noi Europei, affascinati dalla figura di Marco Polo, tendiamo a mettere il nostro continente al centro del processo di connessione tra Europa e resto del mondo, il motore della globalizzazione del DuecentoTrecento furono i Mongoli. Non a caso, gli studiosi parlano oramai di “svolta mongola” nella storia e novembre

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definiscono l’arco temporale che va dal 1220 al 1350 come un lungo “secolo mongolo”».

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li Europei dell’epoca erano consapeG voli di non essere i motori principali di questa prima globalizzazione? «Sí, certamente. Gli Europei si accostarono alle civiltà della Cina, ai califfati arabo-persiani e anche al mondo africano con molto rispetto, perché ne ammiravano la ricchezza e la potenza militare. Anche dal punto di vista religioso vi era curiosità e non disprezzo verso i riti praticati dalle popolazioni asiatiche. L’arte e la moda persiane e, soprattutto, cinesi divennero popolarissime e imitate dalle élite occidentali. Non vi era dunque alcun complesso di superiorità europeo, che è invece un ingombrante retaggio della stagione coloniale del XVIII e del XIX secolo». I n che modo i Mongoli furono il motore di questa prima globalizzazione? «Prima di tutto, grazie alle loro conquiste i Mongoli poterono creA sinistra cartina che mostra gli itinerari abitualmente percorsi dai viaggiatori europei nel corso del XIII sec. In basso miniatura raffigurante i Polo che recano al Gran Khan i doni inviati da papa Gregorio X, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

L’autore Paolo Grillo insegna storia medievale all’Università degli Studi di Milano. Ha svolto periodi di insegnamento presso l’École Normale Superieure di Parigi e presso l’Université de Paris IV, Sorbonne. È membro del comitato di redazione delle riviste Società e storia e Études angevins. È membro del collegio dei docenti del Dottorato in Storia, cultura e teorie della società e delle istituzioni dell’Università degli Studi di Milano, del Centro interuniversitario di studi «Le polizie e il controllo del territorio» (CEPOC) ed «Esperto della materia» per il Ministero dell’Istruzione del Canton Ticino. Il suo principale campo di ricerca è la storia sociale, politica, istituzionale e militare dei comuni italiani fra i secoli XII-inizio XIV. Fra i suoi libri piú recenti: Milano guelfa (13021310) (2013), Le guerre del Barbarossa. I comuni contro l’imperatore (2014), L’aquila e il giglio. 1266: la battaglia di Benevento (2015), Nascita di una cattedrale (2017), La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell’Italia del Duecento (2018). are un sistema politico coeso tra il Medio e l’Estremo Oriente. Garantirono la sicurezza delle vie di comunicazione, attuarono una politica doganale favorevole ai traffici e promossero gli scambi commerciali, tecnologici e culturali. I principi mongoli diedero vita, infatti, a corti cosmopolite che attirarono migliaia di artigiani, medici, astronomi, religiosi, musicisti, pittori, falconieri e guerrieri provenienti dall’Europa, dal mondo arabo e dall’Asia centrale verso le grandi capitali mongole. In realtà i primi a muoversi verso Oriente furono i

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frati francescani e domenicani, attratti dal fatto che i Mongoli erano molto curiosi nei confronti delle religioni dei popoli vicini e sembravano disposti alla conversione. I frati, infatti, riuscirono a fondare alcuni importanti conventi in Asia centrale, in Cina e in India. A loro fecero seguito i mercanti italiani, attratti dalle grandi opportunità commerciali della Cina e della Persia (da cui compravano soprattutto seta) e dell’India (che forniva ottime spezie e perle), ma anche dell’Asia centrale e dell’Africa subsahariana. Non mancava poi una folla di avventurieri, mercenari e, talvolta, truffatori

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che si sparsero sulle vie terrestri e marittime dell’Asia e dell’Oceano Indiano. Gli spostamenti di mercanti, dotti, predicatori e guerrieri e anche avventurieri crearono grandi network di persone che innervarono il mondo afro-euroasiatico del XIII e XIV secolo. Di questo network gli Occidentali, che pure hanno lasciato una mole di testimonianze enorme, sono stati solo una porzione ridotta in una estesissima rete di affari che abbracciava i tre continenti e vedeva attivi Arabi, Berberi, Persiani, Cinesi, Ebrei, Indiani e Tibetani». Nel libro lei afferma che a permettere il

funzionamento di questa enorme rete di traffici fu l’argento e non l’oro... «L’oro era piú raro e tendeva a circolare in ambiti piú ristretti, come il bacino del Mediterraneo, anche perché i Mongoli avevano difficoltà a rifornirsi di questo metallo prezioso per il blocco commerciale attuato dal potente Egitto dei Mamelucchi. Questi ultimi controllavano i traffici provenienti dai ricchi giacimenti auriferi dell’Africa subsahariana. Venne quindi favorita la diffusione della coniazione di monete d’argento nell’Asia centrale, una diffusione che seguí quasi fedelmente l’espansione commerciale latina attraverso la Persia e lunnovembre

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In basso miniatura raffigurante Accidia e la sua corte, dal cosiddetto Codice Cocharelli, un manoscritto realizzato a Genova, su incarico della famiglia da cui prende nome.

Fine del XIV sec. Londra, The British Library. L’opera raccoglie raffigurazioni allegoriche dei vizi usate come monito educativo per il giovane Giovanni Cocharelli.

In alto miniatura raffigurante i Polo in viaggio verso le Indie, dalla tavola dei mari del mondo nota come Atlante catalano, perché realizzata appunto da geografi catalani attivi a Maiorca; ultimata nel 1375, l’opera fu donata al re di Francia Carlo V. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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l’intervista medioevo globale go la cosiddetta “via della seta”. I mercanti europei furono in un certo senso favoriti, perché, all’inizio del XIV secolo, furono scoperti e messi in sfruttamento i grandi giacimenti di Kutná Hora, in Boemia, e quelli di Iglesias in Sardegna. Lo sfruttamento di queste miniere permise agli Europei di partecipare attivamente ai commerci internazionali, potendo contare su una abbondante dotazione del mezzo di pagamento piú diffuso e richiesto sui mercati. La grande richiesta di argento favorí quindi i mercanti europei, che ne disponevano in grandi quantità e potevano cosí effettuare a buon mercato acquisti di merci di lusso in Oriente». I n questo mondo sempre piú connesso, assieme alle merci si spostavano anche le persone. Erano spostamenti di singoli individui oppure movimenti di piú vasta portata? «Ci si spostava individualmente, come detto in precedenza, ma si muovevano anche intere comunità e popoli, per scelta oppure perché obbligati. Le guerre di conquista dell’epoca portarono i vincitori a scacciare gli sconfitti, occupandone i territori. Nella seconda metà del Duecento, cosí, i cristiani si impossessarono di buona parte della Spagna musulmana mentre gli islamici trovavano rifugio nell’Africa settentrionale. I musulmani mamelucchi occuparono la Terra Santa, obbligando i difensori cristiani a rifugiarsi nelle isole dell’Egeo oppure in Europa. Ai profughi latini si unirono comunità provenienti dall’Armenia, comunità che sopravvissero per secoli in Occidente. L’avanzata mongola provocò un vero e proprio esodo della popolazione araba dall’Iraq e dalla Siria verso l’Egitto e gli stessi territori cristiani. Le guerre misero in movimento anche masse di combattenti e nel Duecento e Trecento si affermò su scala globale il fenomeno del professionismo

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militare. I mercenari piú abili erano assai richiesti e si spostavano a largo raggio per ottenere ingaggi non diversamente dai mercanti e dai predicatori. Vi furono cavalieri cristiani che si arruolarono al servizio dei sultani maghrebini del Marocco oppure dell’imperatore di Costantinopoli o al servizio dei khanati della Persia. Ma non era un fenomeno che riguardava solo gli Europei. I cavalieri delle tribú turche dell’Anatolia e dell’Asia centrale erano richiesti dall’Africa settentrionale alla Cina e i soldati abissini erano molto ricercati per la scorta alle navi dato che erano in grado di intimorire anche i piú feroci tra i pirati. Poi a circolare erano purtroppo anche gli schiavi». a schiavitú viene spesso sentita come L un fenomeno legato all’espansione europea dell’età moderna. Che cosa accadeva, a questo proposito, nel Medioevo? «La tratta degli schiavi dell’epoca moderna ha conosciuto numeri impressionanti, ma la schiavitú era molto presente anche in epoca medievale e le conquiste mongole misero in marcia attraverso l’Eurasia grandi masse di lavoratori forzati destinati a essere impiegati nelle abitazioni, nei campi oppure nelle miniere. In tutti i Paesi dell’Africa settentrionale, poi, si faceva largo uso di manodopera servile proveniente dall’Africa subsahariana, mentre un gran numero di prigionieri provenienti dal Caucaso costituiva la spina dorsale dell’esercito egiziano. In Europa occidentale la schiavitú era pressoché assente, se si eccettuano le grandi città mediterranee, la Sicilia, la Spagna meridionale e le colonie italiane d’Oriente. Per l’Italia, per esempio, si trattava di poche centinaia di persone la cui cifra aumentò leggermente dopo la peste nera quando ci fu necessità di nuova forza lavoro per colmare i buchi demografici». Torniamo agli Europei che si recavano

Miniatura raffigurante le operazioni di carico di una nave mercantile. XIV sec. Torino, Biblioteca Nazionale.


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l’intervista medioevo globale in Oriente per propria scelta, per commerciare, predicare, conoscere oppure combattere. Quale patrimonio trasmisero all’Europa questi viaggiatori? «Il pieno inserimento dell’Europa nei grandi circuiti commerciali mondiali portò nel nostro continente grandi ricchezze (tra cui l’oro del Mali, che permise la coniazione del fiorino a Firenze) e nuove tecnologie, come la polvere da sparo o la lavorazione dei broccati di seta. L’esperienza personale dei viaggiatori permise di mettere in dubbio molte leggende che l’Europa medievale aveva ereditato dall’età classica e di sottolineare l’importanza della verifica empirica rispetto al sapere teorico. Infine, i grandi navigatori della fine del Quattrocento, come Cristoforo Colombo e Vasco de Gama, si mossero proprio spinti dalla volontà di emulare i loro predecessori e di aprire vie di commercio verso l’Asia, anche se sfruttando itinerari differenti. Ma fu molto importante anche il lascito culturale». Di quale tipo di lascito si tratta? «Gli Occidentali appresero l’esistenza di un mondo molto piú vasto e complesso di quello a cui erano abituati. Per l’Europa questa globalizzazione medievale rappresentò una grande sfida intellettuale, perché bisognava, prima di tutto, imparare a comunicare con le nuove genti con cui si veniva in contatto. Già nel XII secolo era normale che i mercanti impegnati nei traffici mediterranei comprendessero e parlassero l’arabo, ma i nuovi spazi asiatici imponevano altre importanti sfide linguistiche. I primi a raccogliere la sfida furono Francescani e Domenicani che per avviare la loro opera di predicazione cominciarono ad apprendere il persiano e molte lingue dei popoli dell’Asia centrale. Il concilio di Vienne del 1312 ordinò addirittura la creazione presso le principali università di cattedre destinate agli insegnamenti delle lingue

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orientali. Il cinese era considerato troppo esotico, ma venivano insegnati il cumano, il persiano, l’arabo, cioè gli idiomi considerati “franchi” e che, nei territori controllati dai Mongoli, rappresentavano i principali strumenti di comunicazione condivisa come oggi l’inglese». Come furono accolti dalla società oc-

cidentale questi contatti diretti con il mondo extraeuropeo? «L’apertura verso nuovi mondi suscitò grandi entusiasmi. Solitamente siamo abituati a sentirci descrivere la società medievale occidentale in termini di chiusura mentale e di grande conservatorismo culturale, mentre invece è stupefacente constatare la vera e propria ondata di novembre

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curiosità e interesse che, a cavallo del Duecento e Trecento, si sviluppò nei confronti dei Paesi esotici che si erano appena aperti ai traffici commerciali e ai viaggi di mercanti e religiosi. Il fascino per l’Oriente era tanto diffuso che, nel 1331, nelle strade di Londra fu possibile assistere a una parata di cavalieri inglesi travestiti da guerrieri mon-

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goli e rivestiti di panni preziosi provenienti dall’Oriente». roprio la circolazione di drappi di seP ta dalla Cina e dalla Persia fu il frutto piú evidente di questa fascinazione, come ci racconta nel libro. Come mai? «Il mondo mongolo attribuiva effettivamente una particolare importanza alle stoffe e ai vestiti come

Un’altra miniatura dal Codice Cocharelli raffigurante un nobiluomo impegnato in una transazione con un mercante, il cui segretario prende nota dell’atto. Fine del XIV sec. Londra, The British Library.

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Ancora una miniatura dal Codice Cocharelli in cui il peccato di gola è rappresentato dall’immagine di un sovrano che banchetta, affiancato dai suoi attendenti e allietato da musici. Fine del XIV sec. Londra, The British Library.

segno di prestigio, di prosperità, del proprio status sociale, dato che i nomadi avevano bisogno di simboli facili da trasportare. Per questa ragione, anche prima delle grandi conquiste, i Mongoli disponevano di grandi quantità di tessuti serici, che ottenevano dai vicini come tributi e pagamenti in caso di scambi. Dopo aver assoggettato la Cina e la Persia ebbero però accesso alle raffinate tecnologie tessili di quelle regioni e ne favorirono lo sviluppo e la diffusione. Il prodotto piú pregiato e ricercato divenne il cosiddetto nasij, ossia il broccato ricavato intrecciando fili di seta colorati e fili d’oro per formare disegni e motivi decorativi. Il giallo-dorato era il colore che rappresentava il potere dei khan, per cui i nasij simboleggiavano lo stretto rapporto di chi li indossava con la corte e la familiarità con le dinastie regnanti». ’Oriente, insomma, si impose anche L nella moda? «Sí, le decorazioni orientali, soprattutto raffigurazioni di animali esotici, fiori di loro e dragoni si fecero rapidamente strada nella moda. Tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, tessuti cinesi e persiani compaiono in numerosi inventari di beni appartenuti a famiglie nobili, sovrani e chiese un po’ in tutto l’Occidente. Probabilmente i maggiorenti facevano sfoggio di questi tessuti pregiati nelle occasioni solenni e lo stesso Dante Alighieri ne rimase impressionato tanto da usarli come termine di paragone per descrivere gli sfavillanti colori del mostro Gerione che nell’Inferno trasporta lui e Virgilio dal settimo cerchio entro le Malebolge. Ancora: nel 1284 il vescovo tedesco Hartmann di Augusta

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fu sepolto con un vestito di broccato di produzione asiatica, conservatosi fino a oggi. Nella tomba del signore di Verona Cangrande della Scala, morto nel 1329, sono stati poi ritrovati frammenti di tessuti provenienti dalla Persia. Insomma, i panni tartarici ebbero un successo e una diffusione enorme nelle classi elevate dell’Occidente». ’Oriente influenzò anche le tecniche L europee di realizzazione dei tessuti? «Certo, per rispondere a questa nuova richiesta la produzione occidentale si adeguò rapidamente e nel corso del Trecento, i tessuti serici prodotti a Lucca e a Venezia, in precedenza ispirati a modelli arabi e bizantini, cominciarono a riprodurre motivi cinesi. Già nel 1317 i drappi di foggia mongolica prodotti nelle due città potevano convivere nel tesoro dei re di Francia con quelli originali. Anzi la qualità dei prodotti italiani era tanto alta che divenne possibile esportarli in Egitto e in Persia, dove fecero concorrenza alle produzioni locali. Questa è un’altra prova di quanto intenso fosse lo scambio tra l’Occidente e l’Oriente fra Duecento e Trecento. Un’ulteriore testimonianza ci è fornita dal fatto che la pittura occidentale fu influenzata dai colori, dallo stile e dai temi dei tessuti e delle decorazioni che provenivano dall’Asia centrale e orientale. Molti uomini e donne raffigurati nelle pitture italiane dell’epoca sono, infatti, rivestiti di broccati e tiraz». on esisteva quindi diffidenza nei conN fronti di un Oriente certo affascinante, ma anche misterioso e, in fin dei conti, anche molto ricco e potente? «L’Oriente non incarnava solo valori positivi. Nelle miniature sopravvissute da un manoscritto miniato noto come Codice Cocharelli – dal nome della famiglia genovese che lo fece realizzare –, ritroviamo soggetti esplicitamente orientali, usati però per mostrare un catalogo di vizi

che vuole essere un monito educativo per un giovane della famiglia, Giovanni Cocharelli: per esempio, il peccato di gola è rappresentato da un banchetto che si svolge alla corte di un khan mongolo. I fondamenti di una vita moralmente retta si ritrovano nella solidità della tradizione cavalleresca, latina e cristiana. Non tutto quello che viaggiava verso occidente dall’Oriente era quindi visto come positivo. Le nuove connessioni tra Europa, Asia e Africa portarono, infatti, a guerre di dimensioni inedite per l’Occidente medievale. Portarono al fenomeno della tratta degli schiavi, con decine di migliaia di persone in schiavitú, al trasferimento di nuove tecnologie destinate ad aumentare il potere distruttivo degli eserciti, come la polvere da sparo, che viaggiò da est a ovest, e i trabucchi che fecero il percorso inverso. Soprattutto, la combinazione di guerre e spostamenti di persone avrebbe diffuso in quasi tutto il mondo e riportato nel Mediterraneo un nemico insidioso e assente da quasi mezzo millennio: la peste». a peste determinò la fine di questa L prima globalizzazione medievale? «Non fu la peste da sola, perché l’epidemia si sommò ad altri fattori. Prima di tutto: per piú di mezzo secolo, tra la metà del Duecento e gli anni Quaranta del Trecento, il mondo afro-euro-asiatico visse una stagione di rapporti intensi e fertili, ma questo non determinò una situazione di pace e dialogo. Le guerre tra le grandi potenze dei tre continenti e all’interno dei continenti stessi si susseguirono e misero spesso a repentaglio il flusso delle merci e delle idee, anche se le ragioni dell’economia potevano temporaneamente sovrastare la politica. A dare un colpo probabilmente decisivo al mondo globale medievale furono però le crisi interne che scuotevano i principati eredi del grande impero di Gengis

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l’intervista medioevo globale Miniatura raffigurante la cura degli appestati, da La Franceschina, libro sulla vita di san Francesco e dei primi Francescani. XV sec. Perugia, Biblioteca Comunale Augusta. Le fonti descrivono una gravissima epidemia che colpí, nel 1475 e per cinque anni, il territorio perugino.

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Khan, crisi legate a problemi di successione, rivalità, competizioni tra gruppi aristocratici e popoli sottomessi. Tutto questo portò a una sostanziale scomparsa del predominio mongolo sull’Asia nei decenni a cavallo della metà del XIV secolo. Anche l’Europa non rimase indenne da grandi conflitti dato che nel 1337 era cominciato tra Inghilterra e Francia quel lungo scontro chiamato Guerra dei Cent’anni, destinato a terminare solo nel 1453. Nello stesso periodo, a Costantinopoli, tra il 1341 e il 1347, scoppiò una violenta contesa per il trono, che mise l’impero d’Oriente in ginocchio e lo lasciò in balia della crescente potenza dei Turchi ottomani. A questa situazione di instabilità si aggiunse la peste che infuriò in Europa per alcuni anni facendo danni enormi, ma a cui la società medievale seppe reagire con straordinaria abilità. Nonostante i lutti e le perdite demografiche, la vita riprese rapidamente dopo la fine dell’epidemia, le campagne e le città conobbero nuova vitalità, le attività commerciali, artigianali e intellettuali si rianimarono rapidamente. I grandi commerci internazionali non recuperarono invece la loro precedente vitalità. Nella nuova situazione politica venne, infatti, a mancare l’elemento unificante del grande dominio mongolo. I commerci tra l’Europa, Cina e India continuarono, ma solo attraverso il Mar Rosso e il porto di Alessandria d’Egitto. La via lungo la Persia era chiusa dai Turchi ottomani, e Alessandria e Aden rimasero le sole porte verso oriente, porte attraverso le quali continuarono a passare ancora le merci, ma sempre meno uomini e idee. Era, insomma, finita la grande stagione della globalizzazione medievale in cui era abituale per mercanti, viaggiatori e predicatori spingersi verso l’Asia. La situazione cambiò ancora a partire dagli anni Trenta del Quattrocento, quando le caravelle, grazie

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l’intervista medioevo globale Il drappo di Sant’Emidio, sciamito con scene di caccia entro clipei, dalla Siria. Fine dell’VIII-inizi del IX sec. Ascoli Piceno, Museo Diocesano.

ai progressi delle tecniche di navigazione, permisero agli Europei di navigare gli oceani. Ma questo è già l’inizio di un’altra storia». n’ultima domanda: il modo in cui U gli Europei si rapportavano con l’esterno nel Medioevo può esserci di insegnamento anche per l’oggi? «Il mondo del XIII-XIV secolo era indubbiamente, come quello odierno, un mondo multipolare, nel quale grandi potenze economiche e militari come la Cina, la Persia,

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l’Egitto, il sultanato di Dehli e l’impero del Mali erano contemporaneamente rivali e partner commerciali. Gli Europei dell’epoca furono molto abili e ambiziosi nell’inserirsi in questo quadro: lo fecero pacificamente, senza pretese egemoniche e con grande rispetto verso gli altri interlocutori. In tal modo seppero trarre grandi vantaggi dall’inserimento in questa globalizzazione ante litteram, acquisendo ricchezze e saperi tecnologici che si sarebbero poi rivelati fondamentali».

Da leggere Paolo Grillo, Le porte del mondo. L’Europa e la globalizzazione medievale, Mondadori, Milano 2019 288 pp., 22,00 euro (disponibile anche e-book) ISBN 9788804717430





mostre parma

Incontri ravvicinati con Benedetto

di Stefania Romani

La città per la quale progettò il magnifico e originale Battistero rende omaggio al piú famoso dei «magistri Antelami», esponendo le sue sculture con modalità inedite, tali da farne apprezzare ogni dettaglio. Un viaggio alla scoperta di uno dei piú fecondi talenti creativi del primo Medioevo

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In questa pagina il Battistero di Parma, progettato da Benedetto Antelami e costruito fra il 1196 e il 1216. Nella pagina accanto altorilievi di Benedetto Antelami con le allegorie dei mesi di Settembre (a sinistra) e Giugno. Il primo è evocato da un mietitore, mentre del secondo è simbolo un contadino intento alla vendemmia. Le sculture fanno parte del ciclo dei Mesi e delle Stagioni che l’artista realizzò per il Battistero.

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ra le opportunità regalate da «Parma Capitale italiana della cultura 2020+21», c’è quella di ammirare vis-à-vis le sculture realizzate da Benedetto Antelami per la loggia interna del Battistero cittadino. «Per l’esposizione temporanea dei Mesi e delle Stagioni – racconta Barbara Zilocchi, curatrice della mostra – l’idea è stata quella di portare a terra, nell’edificio battesimale, le opere ricollocate nella loro posizione originaria dopo i restauri degli anni Novanta». «Il ciclo esposto – continua Zilocchi – ritenuto incompiuto, conta i dodici mesi e due stagioni, la primavera e l’inverno: il racconto del tempo di Dio si unisce a quello dell’uomo, con il susseguirsi dei lavori, che hanno una ciclicità legata proprio ai mesi, alle stagioni e ai ritmi della terra. Le attività rappresentate esprimono il rapporto di equilibrio fra uomo e ambiente, che connotava la società rurale medievale». Osservando le opere da vicino, i visitatori possono ammirarne la materia, la tecnica scultorea, la la-

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vorazione, le superfici scolpite ma non levigate; inoltre hanno la possibilità di scoprire il non finito in alcuni blocchi, che nel retro sono appena sbozzati, perché pensati per essere inseriti in una struttura muraria. Il percorso espositivo permette anche di condividere un punto di vista privilegiato sull’area della piazza, quello di Benedetto, scultore e architetto, proveniente da una delle stirpi di «magistri Ante-

lami», originari della valle d’Intelvi, l’area montuosa fra i laghi di Como e di Lugano, non lontana dal confine con la Svizzera.

Il percorso espositivo

L’itinerario ad anello della mostra parte da Marzo, con cui, spiega Zilocchi, «iniziava l’anno medievale. Altro mese favorito è Settembre, nel quale il contadino vendemmia, lasciando cadere i tralci nella tinozza, con il segno zodiacale corrispondente della bilancia. In altri casi i segni sono scolpiti in modo scorporato rispetto al mese di riferimento». Le opere sono collocate su espositori illuminati, corredati dalla descrizione relativa al singolo pezzo, all’intero Battistero e all’Antelami, che si firma in qualità di scultore nel 1178 per la Deposizione nella Cattedrale e nel 1196 sulla trabeazione

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della lunetta a nord dell’edificio battesimale. Fra i materiali esposti che la curatrice segnala, figura Gennaio, ispirato a Giano bifronte, che ha due volti, ed è presentato in modo che si veda anche il viso retrostante attraverso uno specchio. Il soggetto è un anziano che si scalda al fuoco, con un volto che guarda al passato e uno in avanti. La Primavera è invece una giovane donna con una veste a pieghe, tenuta ferma da una cintura, e una corona di fiori in testa. Il suo portamento nobile ricorda l’iconografia della Regina di Saba, custodita al Museo diocesano assieme a Salomone, due profeti e due arcangeli provenienti dall’esterno del Battistero: dopo i restauri gli originali sono al museo, le copie in pietra nella collocazione medievale. Il Battistero ha un piano pavi-

A sinistra Parma. Veduta di Piazza Duomo, con la Cattedrale, intitolata a santa Maria Assunta, e il Battistero di S. Giovanni Battista. In alto le statue di Salomone e della Regina di Saba, realizzate da Benedetto Antelami per la decorazione esterna del Battistero. Parma, Museo Diocesano.

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mostre parma Altorilievi di Benedetto Antelami con le allegorie dei mesi di Novembre (a sinistra), sormontato dal segno zodiacale del Sagittario, e Gennaio, per il quale l’artista si rifece al modello del Giano bifronte.

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mentale sopraelevato rispetto alla piazza, quindi la mostra, tramite una rampa, a partire da dicembre sarà accessibile anche ai disabili, per la volontà inclusiva degli organizzatori. Tutti pertanto potranno ammirare una scultura raffinata, matura, vicina al gotico, con un realismo possente, ma appena stilizzato, e linee eleganti che mitigano il senso di forza proprio del romanico.

Il percorso di un maestro

Della biografia di Benedetto, che, come detto, rientrava fra i «magistri» della val d’Intelvi, si conosce poco: nato attorno al 1150 e scomparso nel 1230, prima di lavorare a Parma, dove è intervenuto nella Cattedrale e ha progettato in toto il Battistero, lasciando un segno nella storia dell’arte romanica, è stato impegnato a Genova, città in cui scolpisce i leoni stilofori della facciata del Duomo. L’artista sembra aver avuto legami diretti con la plastica francese, in modo particolare con quella provenzale, in occasione di un soggiorno avvenuto fra il 1165 e il 1170, tanto che sono stati ricondotti alla sua mano alcuni capitelli del chiostro di Saint-Trophime ad Arles. Sembra che lo scultore abbia guardato al Portale dei Re della Cattedrale di Chartres, dove le figure, addossate o affiancate alle colonne, si stagliano in modo deciso rispetto al fondo, diventando a tutto tondo. Statue allungate, con panneggi classicheggianti e disegno netto, descrizione particolareggiata di barbe e capelli rappresenterebbero un modello di impronta naturalistica importante per Antelami, erede della tradizione romanica, che con lui tocca il culmine, ma iniziatore del gusto gotico. Nella città emiliana lo scultore e architetto esordisce con gli interventi nella Cattedrale. La sua opera firmata e datata, la Deposizione, risalente al 1178, faceva parte di un pulpito distrutto. La lastra, connotata da una spiccata orizzontalità, è ricca di riferimenti al mondo clas-

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sico piú che a quello paleocristiano e rappresenta l’episodio evangelico all’interno di una fascia con motivi ornamentali, che si snoda lungo tre lati come una «U» rovesciata. Nella parte alta la decorazione a girali è interrotta dal legno della croce, che domina visivamente tutta la scena, animata da diversi personaggi, con i lunghi bracci volti a sottolinearne lo sviluppo in orizzontale. Nella fascia superiore corre la scritta con data e firma «ANNO MILLENO CENTENO SEPTUAGENO OCTAVO SCULTOR PATRAVIT MENSE SECUNDO ANTELAMI DICTUS SCULPTOR FUIT HIC BENEDICTUS», ovvero «Nel secondo mese dell’anno 1178 uno scultore terminò [l’opera]. Questo scultore fu Benedetto, detto Antelami». Sempre nella fascia superiore si trovano la personificazione della Luna e del Sole, rispettivamente a destra e a sinistra. Il sole brilla su Maria, su Giovanni – che simboleggia anche gli altri apostoli –, sulle pie donne e sulla personificazione della Chiesa, cioè sull’universo che nasce grazie al sacrificio di Gesú. La luna

rischiara appena la notte dei soldati romani, che si giocano la tunica di Cristo, e la personificazione della Sinagoga, che allude agli Ebrei e piega la testa in segno di sconfitta, per intervento dell’arcangelo Raffaele.

Un’onda di movimento

Al centro della rappresentazione il corpo ormai privo di vita di Cristo, inclinato verso sinistra, viene sollevato da Giuseppe d’Arimatea, mentre Maria, aiutata dall’arcangelo Gabriele, che le aveva annunciato la maternità, stringe una mano del figlio. A destra Nicodemo, issato su una scala, toglie il secondo chiodo dalla croce. Rispetto alle altre figure in posizione statica, sono Cristo, Giuseppe e Nicodemo a generare un’onda di movimento che parte dal fulcro del sacro legno e sembra sottolineata dal volo degli angeli in posizione speculare rispetto alla croce. Nonostante la rigidità di alcuni personaggi, che pare riecheggiare gli schemi bizantini, la Deposizione sottende una visione nuova, per la ricerca spaziale, la resa di particolari naturalistici, la carica espressiva

Capitello scolpito da Benedetto Antelami con Storie della Genesi. Faceva parte della decorazione della Cattedrale parmese ed è ora esposto nel Museo Diocesano.

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mostre parma il battistero

Citazioni e innovazioni Nel 1196 Antelami si dedica alla costruzione del Battistero di Parma, che ha pianta ottagonale all’esterno e decaesagonale all’interno. Gli otto lati esterni sono scavati da quattro ordini di logge architravate sormontate da un quinto ordine chiuso, elemento di novità che cita modelli classici e prelude al gotico. Il portale nord, da cui entrava il vescovo in forma solenne, è sovrastato dalla lunetta con Adorazione dei Magi, figure di profeti e apostoli, mentre lungo gli stipiti della porta due alberi genealogici rappresentano i rami della discendenza del Messia. L’ingresso occidentale, il principale, conta nella lunetta il Giudizio Finale, la Resurrezione dei morti nell’architrave e negli stipiti le opere della misericordia e le sei età dell’uomo. Nell’ingresso a sud è scolpita l’allegoria della vita secondo la leggenda di Barlaam, vecchio eremita grazie al quale si convertí al cristianesimo il principe indiano Josaphat. Lungo il basamento del Battistero si dipana lo Zooforo, una successione continua di 75 formelle con soggetti simbolici e fantastici. All’interno il perimetro è articolato da sedici nicchioni e la cupola è suddivisa in sei fasce concentriche, affrescate nel terzo decennio del Duecento da artisti padani che si rifanno a iconografie bizantine. della Vergine, i panneggi e gli ornamenti degli abiti realizzati con il trapano. Al pulpito di cui faceva parte questa lastra sono riconducibili anche tre capitelli figurati, con scene dal Libro della Genesi e dal Libro dei Re. Le edicole e i timpani con arco ribassato che incorniciano gli episodi sembrano rimandare alla decorazione architettonica del Portale dei

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Assieme ai Mesi e alle Stagioni, Antelami progetta lunette con la Fuga in Egitto e David che suona il salterio. Nella prima galleria a est i pittori del XIII secolo collocarono i dodici Mesi e le due Stagioni del cantiere antelamico, che non portò a termine l’intero ciclo. Re di Chartres. In Adamo ed Eva condotti nel Paradiso terrestre lo scultore si rifà all’iconografia tardo-antica, con un Dio giovane e senza barba, somigliante al Cristo che in età paleocristiana riprendeva le fattezze di Apollo. Allo stesso complesso appartenevano anche la lastra con la Maiestas Domini, purtroppo molto consunta, e quattro leoni stilofori.

In alto l’interno della cupola del Battistero, articolato in sedici nicchioni, affrescati in fasce concentriche da artisti padani. Terzo decennio del Duecento. A destra la Deposizione, realizzata da Benedetto Antelami nel 1178.

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È molto piú tardo il Portale dei Mesi, scolpito da Antelami sempre per la Cattedrale nella piena maturità, fra il 1210 e il 1215, e poi smembrato. Delle sculture che ne facevano parte rimangono l’allegoria di Novembre, Salomone e la Regina di Saba. Nella prima il contadino che estrae rape dalla terra è raffigurato con la testa quasi di profilo, il corpo piú ruotato verso lo spettatore, il busto piegato in avanti, lo sguardo rivolto verso il basso, in una posa plastica che suggerisce l’idea del movimento, evidenziato dalle pieghe del semplice abito alle ginocchia. Sopra di lui, il segno zodiacale corrispondente al mese, il Sagittario, colto nell’attimo in cui sta per scoccare la freccia, è in dimensioni ridotte e rappresentato come un bipede, che dell’equino mantiene gli zoccoli, la coda e la chioma assimilabile a una criniera. Anche in questa figura il dinamismo nasce dalla divaricazione delle gambe e dall’inarcarsi del busto. Salomone e la regina di Saba si incontrano, come raccontato nella Bibbia, nel Primo Libro dei Re e nel Secondo Libro delle Cronache. Incuriosita dalla fama della straordinaria saggezza del re, la regina si reca in Israele per metterlo alla prova con

domande difficili, portando dall’Arabia prodotti esotici, come spezie, cammelli, oro, preziosi.

Nella piena maturità

Benedetto ritrae Salomone con la corona in testa, il viso leggermente ruotato, il manto drappeggiato da una cascata di pieghe a «V»: l’espressione del volto è attenta e le labbra socchiuse, in segno di saluto o nell’atto di rispondere. La regina, con il capo lievemente abbassato, trattiene con una mano i panneggi dell’abito. La veste sottolinea il leggero movimento delle gambe e l’ovale delicato del volto esalta lo sguardo rivolto verso il basso, per accogliere il saluto del re o aspettare le sue risposte. Le due opere, che nella parte posteriore non sono finite, ma semplicemente scalpellate, richiamano la statuaria antica, per monumentalità, naturalezza e cura dei dettagli, sottendendo però la tensione della plastica francese. L’opera matura di Benedetto fonde raffinatezza, realismo e linee eleganti, realizzando uno dei fondamenti dell’estetica medievale, l’unione armonica fra scultura e architettura. Oltre che a Parma, dal 1180 Antelami lavora per un decennio nel Duomo di Fidenza (Parma), progettandone la facciata e i gruppi plastici realizzati da collaboratori. L’influenza della sua arte, intensa fino alla metà del Duecento in tutta l’Italia settentrionale, si avverte nei Mesi del Duomo di Cremona e in quelli del Duomo di Ferrara, nelle opere plastiche di S. Marco a Venezia e nella facciata di S. Andrea a Vercelli.

Dove e quando «Antelami a Parma: il lavoro dell’uomo, il tempo della terra» Parma, Battistero, Cattedrale e Museo Diocesano Info www.piazzaduomoparma. com, www.parma2020.it

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bevagna i mestieri del medioevo gaita san giorgio

LO ZECCHIERE

Batti e ribatti... di Andrea Barlucchi

Le monete vivevano una lunga storia e, prima di tintinnare in tasche e borsellini o essere accumulate in forzieri e casseforti, prendevano forma grazie al lavoro di una folta schiera di mastri artigiani. A capo dei quali operava lo zecchiere, incaricato non solo del loro coordinamento, ma anche, e soprattutto, di vigilare sul rigoroso rispetto delle norme per la fabbricazione dei pezzi, in particolare per ciò che riguardava il peso e le percentuali dei metalli impiegati

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no dei tratti tipici della vita quotidiana in età bassomedievale è l’uso generalizzato del denaro per ogni transazione, da quelle di piccola entità sui mercati a quelle della finanza internazionale: a partire dalla metà del XII secolo le zecche per coniare nuove monete si moltiplicano in tutta Europa grazie anche alla maggiore disponibilità di argento derivata dalla scoperta di grossi filoni argentiferi nelle Colline Metallifere, in Sassonia e in Carinzia. La considerazione del carattere ordinario assunto dall’uso della moneta in questo periodo indusse la Gaita San Giorgio a realizzare, nel 2001, la ricostruzione di una zecca medievale; una piccola zecca per una piccola città come Bevagna, ma nella quale le diverse fasi lavorative fossero rappresentate nella loro completezza. Tutte le zecche dell’epoca infatti, da quelle dei regni a quelle delle realtà comunali piú piccole, dovevano seguire gli stessi passaggi tecnici per battere moneta. L’operazione di coniazione delle nuove monete poteva essere condotta in prima persona dall’ente comunale oppure, piú spesso, appaltata a imprenditori privati, in genere mercanti-banchieri talvolta riuniti in società. Alcune famiglie dalla chiara vocazione imprenditoriale si erano specializzate in questo settore: per esempio i fiorentini Frescobaldi, oggi noti come produttori di vino Chianti, ai primi del Trecento avevano in gestione contemporaneamente la zecca di Castel Capuana per il re di Napoli, quella di Londra per il re d’Inghilterra e quella di Merano per il vescovo di Trento e il conte del Tirolo. L’appaltatore della zecca, denominato zecchiere, stipulava un capitolato con le

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autorità nel quale erano fissati valori monetari, quantità, pesi, metalli e titoli, infine naturalmente i diritti di signoraggio. A lui era affidata l’organizzazione della produzione, dall’individuazione dei locali adatti all’ingaggio degli artigiani specializzati; dalla tenuta dei libri contabili alla custodia dei preziosi metalli impiegati.

Tutto in una stanza

Riguardo agli edifici nei quali avveniva la coniazione, abbiamo una grande varietà di soluzioni, ma nell’eventualità che la zecca fosse stata appaltata poteva bastare una semplice casa privata, anche di piccole dimensioni, con un unico stanzone in modo da consentire allo zecchiere di abbracciare con un solo sguardo tutte le fasi lavorative. Il processo produttivo della moneta era infatti articolato su varie fasi che si succedevano come in una moderna catena di montaggio, con l’unica differenza rispetto all’oggi che mancava il nastro trasportatore. Nella ricostruzione operata a Bevagna, la scelta dei locali in cui installare la zecca cadde su un edificio di origine romana che aveva svolto funzioni di magazzino e che ben si prestava sia per la forma rettangolare, sia per l’articolazione interna dello spazio, tale da permettere di delimitare precise aree nelle quali collocare le diverse operazioni. Lo zecchiere procedeva quindi all’ingaggio delle maestranze: per le prime operazioni, piú elementari, la scelta era fra artigiani iscritti all’arte dei fabbri, mentre per la coniazione vera e propria egli si rivolgeva a maestri orafi. Il processo produttivo iniziava con la fusione della lega di argento e rame di cui erano costituite le monete novembre

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Un monetiere al lavoro nella zecca ricostruita a Bevagna dalla Gaita San Giorgio all’interno di un edificio di origine romana.

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bevagna i mestieri del medioevo Sulle due pagine vari momenti della catena di operazioni necessarie per giungere alla realizzazione delle monete.

ordinarie, quelle che si spendevano nei mercati, ma anche di quelle di maggior valore, sempre nel circuito dell’argento, denominate grosse (il circuito dell’oro presentava naturalmente altri scenari). Il rapporto fra argento e rame variava a seconda della divisa che si voleva realizzare ed era il punto centrale del capitolato stabilito fra lo zecchiere e le autorità comunali. Nei

secoli finali del Medioevo il tenore dell’argento nelle monete ordinarie era talmente diminuito che si fissava anche su un rapporto di 1 a 10 o 12. Nel crogiolo di una forgia alimentata da un grosso mantice, il fonditore fondeva dapprima argento e rame nella proporzione stabilita, quindi versava la lega ancora incandescente in apposite forme, dalle quali, una volta raffreddato il composto, si ottenevano barrette pronte per le successive lavorazioni. La seconda operazione consisteva nella riduzione delle barrette allo spessore che avrebbe avuto la moneta finita, operazione effettuata a martellate da alcuni fabbri intorno a un bancone da lavoro; per facilitare il loro compito e rendere malleabili le barrette, queste potevano essere ricotte un poco alla forgia. Successivamente le barrette passavano a un altro bancone, dove operavano i cosiddetti tagliatori, altri fabbri che, con grosse cesoie, le tagliavano in rozzi quadratini, all’incirca delle dimensioni che poi avrebbero avuto le monete finite.

Il controllo degli scarti

I quadratini erano quindi presi in consegna dagli affilatori, che li ritagliavano piú accuratamente rendendoli circolari (i tondelli), levigati e dello stesso peso del denaro da coniare; per ottenere il risultato i tondelli erano corretti usando piccoli martelli su piccole incudini. Lo zecchiere teneva particolarmente d’occhio questa fase, affinché i preziosi frammenti scartati dall’operazione di ritaglio e levigatura non fossero intascati di

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soppiatto dai lavoranti, ma andassero rifusi al crogiolo. Eseguendo la loro delicata operazione, gli affilatori pesavano di continuo i tondelli fino al raggiungimento del peso desiderato; in caso di errore, i tondelli di peso scarso erano rifusi, mentre quelli corretti passavano alle ulteriori fasi lavorative. A questo punto, prima di passare alla coniazione vera e propria, bisognava rendere aggraziati i tondelli che si presentavano di un brutto colore bruno: si trattava di far risalire in superficie lo strato d’argento in modo che la moneta assumesse una colorazione chiara. Tale operazione era realizzata dagli imbiancatori che immergevano i tondelli, chiusi dentro sacchetti di garza, in una soluzione diluita di acido nitrico. Naturalmente nel Medioevo tale termine era sconosciuto, ma, procedendo empiricamente, gli uomini del tempo avevano capito che, usando sostanze come il salnitro o l’aceto e il sale, i tondelli perdevano il loro coloraccio e si sbiancavano. Dopo essere stati lavati uno a uno e controllati per vedere che la patina d’argento fosse uniforme, i tondelli venivano consegnati al monetiere, che provvedeva alla coniazione battendoli con un colpo deciso di martello fra due punzoni sulle cui teste erano incise le facce della moneta. I punzoni erano stati preparati da un incisore, un gioielliere altamente specializzato che provvedeva periodicamente a riparare quelli usurati e a realizzarne di nuovi in sostituzione di quelli irrimediabilmente rovinati.

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L’ultima operazione era il saggio della moneta coniata, effettuato a campione con il metodo detto della coppellazione. Si trattava di fondere una moneta presa a caso che, pesata e poi sistemata dentro un recipiente a coppa (coppella) di sostanza refrattaria, veniva inserita in un forno particolare nel quale si potevano raggiungere i mille gradi: a questa temperatura il rame, grazie anche all’aggiunta di un po’ di piombo, si ossidava e veniva assorbito dalla coppella, lasciando sul fondo una goccia d’argento fuso (metallo nobile che non ossida). Il peso dell’argento doveva corrispondere a quello fissato. Bisogna dire che le istruzioni dei trattati medievali su questa operazione non sono affatto dettagliate, si dà per scontato che il lettore sappia già realizzare le coppelle impastando fra loro ceneri di ossa di animali opportunamente trattate. Ma non è cosí semplice: è necessario conoscere le proporzioni delle diverse sostanze e le modalità di lavorazione. Nel forno costruito dalla Gaita San Giorgio le coppelle invariabilmente si spaccavano per il gran calore, finché, procedendo empiricamente come un uomo del Medioevo, un geniale ricostruttore, di professione meccanico, trovò il giusto equilibrio, ma, soprattutto, intuí che ci volevano sostanze leganti, non indicate dai trattati in quanto nozione ritenuta ovvia: cosí, dopo molti tentativi, si riuscí a stabilire l’esatta proporzione fra ceneri, argilla rossa e albume d’uovo e realizzare coppelle funzionanti.

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bevagna i mestieri del medioevo IL DIPINTORE

MAGIE D’ORO E DI MILLE COLORI

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uella del dipintore non è una semplice bottega d’arte, ma un vero e proprio viaggio nel tempo tra i colori, gli odori, le tecnologie del Basso Medioevo. Perché il Medioevo, a Bevagna, è una cosa seria: una ricostruzione minuziosa e attenta a ogni dettaglio, realizzata in sinergia da appassionati divenuti specialisti e da specialisti prestati alla rievocazione storica. Nato dalla collaborazione tra i volontari della Gaita San Giorgio e il professor Andrea Barlucchi dell’Università di Siena, il dipintore è uno dei mestieri che da piú tempo viene proposto al Mercato delle Gaite. Nei locali che lo accolgono è stato ricostruito ogni aspetto tecnico e sociale di quest’attività, con speciale attenzione alle fasi meno conosciute del processo di pittura, come la preparazione delle tavole e dei colori. E proprio dai colori comincia il nostro percorso all’interno della bottega. I pigmenti di derivazione minerale vengono macinati in mortai di pietra, cosí come facevano verso il 1300 i giovani apprendisti: per ottene-

Due immagini degli ambienti in cui la Gaita San Giorgio ha riportato in vita l’antico mestiere del dipintore.

re il famoso blu oltremare, per esempio, si deve dapprima sbriciolare il lapislazzulo in una polvere finissima e solo dopo lo si può «temperare» con rosso d’uovo. La stessa sorte tocca alla malachite, dalla quale si ricava il verde piú pregiato. Origine diversa hanno invece i colori ottenuti per «alchimia», come il bianco San Giovanni, derivato dalla calce brunita al sole o il verdigris (verderame), prodotto con l’ossidazione del rame.

La preparazione delle tavole

Lasciato il tavolo delle alchimie, si prosegue verso la zona deputata alla creazione dei supporti lignei. Fin dall’inizio, la Gaita San Giorgio ha attribuito grande importanza a questa fase. Le tavole di legno di pioppo (il «povolare» come lo chiama Cennino Cennini, pittore fiorentino del XIV secolo autore del Libro dell’arte) sono assemblate con colla di bue disciolta in acqua e scaldata al fuoco; una volta diventate solide vengono ricoperte con pezze di lino incollate, stavolta con una colla piú gentile come quella di coniglio; una miscela

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di colla e gesso viene infine stesa ripetutamente su tutta la loro superficie con il pennello. Durante operazioni come queste si percepisce la differenza tra la concezione del tempo degli uomini del Medioevo e quella propria di noi moderni. Servono infatti parecchi giorni per portare a termine la gessatura: si passa una mano di gesso e si attende un giorno intero affinché si asciughi e cosí ancora e ancora per 6-7 giorni. Una volta che questo compito è stato svolto in modo soddisfacente (cosa che solo un occhio esperto è capace di comprendere), si può procedere alla raschiatura della superficie gessata, cosí da avere tavole perfettamente lisce e pronte per essere dipinte. A conti fatti, lavorando ogni giorno, occorrono circa due settimane per completare la preparazione. Si tratta di tempistiche che la Gaita San Giorgio conosce bene ed è per questo che la realizzazione dei manufatti necessari per «andare in gara» comincia molti mesi prima della manifestazione. «È un lavoro minuzioso che necessita di tempo e pazienza, senza i quali non si può pensare di varcare

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la soglia di questa bottega» ripetono i «veterani» della Gaita ai Sangiorgini che smaniano di entrarci. Di certo il fascino di poter partecipare alla creazione di una pala d’altare o di un Crocifisso ligneo dipinto attira molti giovani, ma la strada per «prendere sulle mani un pennello» è molto lunga. Dopo un faticoso peregrinare è ora il momento della creazione del disegno, realizzato con un pezzo di tralcio di vite carbonizzato o con uno stiletto d’argento. Ma quando già pregustiamo il piacere di vedere un vero dipintore all’opera con la sua tecnica scopriamo che esiste una ulteriore fase da affrontare: la doratura. Questa operazione è considerata dai volontari della Gaita San Giorgio come la parte piú piacevole e allo stesso tempo piú irritante della produzione. Il piacere sta nel passare il bolo armeno (una terra rossa temperata con rosso d’uovo) con il pennello sulle zone che verranno ricoperte dalla foglia d’oro. L’irritazione è legata al fatto che il procedimento prevede numerosi passaggi, proprio come la gessatura: dapprima mani

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bevagna i mestieri del medioevo Un momento della realizzazione di una tavola dipinta: la pittura vera e propria è solo la fase finale di un ben piú lungo processo.

molto diluite di bolo, poi sempre piú dense; senza contare che la sua riuscita dipende in buona misura dal momento finale, la brunitura, che consiste nel passare una pietra opportunamente levigata (nel caso specifico un cilindretto di agata) sulla superficie asciutta del bolo per renderla perfettamente liscia, quasi come uno specchio. Una ragazza che lavora da anni in bottega racconta di come, durante i primi tentativi, i volontari si fossero accorti di quanto fosse deleterio non brunire adeguatamente il bolo, perché la foglia d’oro che vi si appoggia delicatamente è talmente sottile che ogni sua imperfezione si trasferisce poi sull’oro stesso, compromettendo il risultato finale. Parlando di oro, è facile riconoscere chi, all’interno della Gaita, ha lavorato con questo metallo e chi non l’ha mai fatto. Una sorta di complicità traspare nelle occhiate che si scambiano i nostri artisti quando gli si domanda di come trattano la foglia.

Guai agli spifferi d’aria!

«Porte e finestre vengono chiuse – dicono – e nessuno deve entrare o uscire senza il consenso di chi sta lavorando. Alzi la carta bambagina che ricopre l’oro e trattieni il respiro; continui in apnea anche quando appoggi la foglia sul cuscino. Poi prendi un coltellino di metallo sottile e, con una delicatezza che non avresti mai pensato di possedere, tagli un piccolo quadrello, non troppo grande né troppo piccolo. Con lo stesso coltellino entri sotto il pezzo che hai appena tagliato e lo sollevi. E qui avviene la magia… La foglia d’oro comincia a fluttuare sopra il coltello: non sei tu che la sposti, è lei che ti conduce verso il luogo della tavola che hai appena bagnato con il bianco d’uovo. Questo è quel che succede quando hai passato mesi o anni qui dentro. Per i neofiti o per i piú maldestri invece, o semplicemente in una giornata storta, accade che un respiro troppo pesante faccia volare la foglia lontano dal suo obiettivo, a terra quando sei fortunato, sopra una zona dove hai già posizionato un altro quadrello nella peggiore delle ipotesi». Ma eccoci arrivati finalmente al momento decisivo del nostro viaggio: la pittura vera e propria. L’abilità nel tratteggio è la cartina al tornasole di una buona «anchone». Piú padroneggi questa tecnica e piú il risultato si avvicina a una riproduzione riuscita. I grandi maestri del passato trascorrevano anni della loro infanzia e della loro adolescenza a sviluppare la giusta consapevolezza dell’equilibrio necessario fra i tratti di un colore e quelli di un altro. Linee parallele, quasi indistinguibili da lontano, che si sovrappongono e creano gentili passaggi cromatici tra un giallo chiaro e un giallo scuro, tra un «incarnato» in ombra e uno in luce.

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Mentre ci muoviamo nella bottega notiamo una tavola in fase di realizzazione in cui si vede, appena dipinto, lo strato di «verdaccio» che – ci spiegano – soggiace all’incarnato del viso, delle mani e del corpo nudo. È proprio quel verde che spicca sulla pelle nuda in molte tavole trecentesche rovinate dal tempo. Oltre che alla lavorazione su tavola, la bottega del dipintore dà spazio a un’altra tecnica pittorica fra le piú importanti del Medioevo: l’affresco. In una sala adiacente alla bottega, infatti, è stata allestita una picnovembre

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cola cappella completamente affrescata in cui viene mostrato l’intero ciclo produttivo. Prima di illustrare le fasi pittoriche vere e proprie, come la posa del grassello, la creazione della sinopia e la chiara distinzione delle «giornate», gli amici della Gaita San Giorgio tengono a mostrarci tutti gli oggetti necessari allo svolgimento della parte logistica del lavoro. Ecco quindi il palco in legno indispensabile per raggiungere il soffitto e le parti piú alte del muro da dipingere, i secchi di legno in cui viene «spenta» la calce viva, il tavolo su cui

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si creano, in situ, la maggior parte dei colori utilizzati, insomma tutto ciò che serve a rendere piú agevole il lavoro dell’artista. «Siamo fedeli perfino nel degrado» scherzano. Una parte del cielo stellato che copre le volte della cappella, infatti, è divenuta opaca fino quasi a scomparire: «È il classico effetto che si produceva nei muri esposti a nord a causa dell’umidità. E il nostro affresco è rovinato proprio lí, in modo quindi filologicamente corretto!». Arnaldo Casali (ha collaborato Danilo Tamburo)

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bevagna i mestieri del medioevo L’ARS CANEVARIORUM

QUEL RUVIDO TESORO BEVANATE...

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uello della canapa è il mestiere piú giovane e al tempo stesso piú antico del Mercato delle Gaite. La lavorazione di questa fibra, infatti, è stata introdotta dalla Gaita San Giorgio nel 2016, ma è una delle pochissime attività che esistevano sicuramente nella Bevagna del Trecento. Anche per questo, nell’autunno 2015, quando si cominciò a pensare a un nuovo mestiere da ricostruire, la scelta cadde subito sulla canapa, la cui importanza nella tradizione produttiva e commerciale bevanate era nota, ma della quale probabilmente si ignorava il reale impatto e quale tesoro storico nascondesse. Centinaia erano i telai e migliaia le tele di canapa prodotte ogni mese, cosí famose e di qualità tale da essere chiamate «Bevagne» ed essere spedite, fino a tutto il XIX secolo, in Francia e in tutto il territorio dello Stato pontificio. Quando cominciarono le ricerche per la ricostruzione delle fasi di lavorazione, i volontari della Gaita San Giorgio avevano a disposizione solo lo statuto comunale di Bevagna del XVI secolo e alcuni trattati del XVIII, oltre alla preziosa memoria storica degli anziani del paese; ma si trattava di fondamenta poco salde, che probabilmente non sarebbero bastate per ricostruire un mestiere della prima metà del Trecento. Tuttavia, San Giorgio – si sa – è ostinato e abituato a lottare con i draghi e nessuno si tirò indietro: cominciò allora il viaggio della sua Gaita per riportare alla luce un mestiere che di Bevagna ha tessuto la storia. Dalla lettura dello statuto e dei trattati si era già intuito che la realtà del borgo era molto peculiare, perché qui funzionava un vero e proprio distretto manifatturiero, con figure professionali definite e maestranze specializzate. Si era compreso, inoltre, che la lavorazione della canapa non rispondeva solo al fabbisogno familiare, ma che assumeva una fisionomia piú complessa e strutturata.

«Dopo due anni di indagini – spiegano i volontari della Gaita – ci rendemmo conto di avere un testo prezioso a portata di mano: la lettura dello statuto dell’Arte dei Funari di Foligno, del 1385, confermò le prime congetture». Nella vicina città umbra, nel XIV secolo, vi era infatti una potente Corporazione di artigiani della canapa («Canevari»), che regolava con precise norme la lavorazione e il commercio della fibra e nella quale vigeva il divieto assoluto di acquistare e vendere materia prima e tessuti provenienti da Bevagna. Lo stesso divieto compariva in una disposizione dello statuto comunale bevanate, facendo pensare che tra i due centri vi fosse un’accesa concorrenza e che anche Bevagna avesse creato un mercato della canapa in grado di assicurare a tutta la popolazione un utile considerevole.

La tessitura di un telo di canapa, realizzata secondo le tecniche in uso a Bevagna in età medievale, quando la cittadina umbra si era affermata come una vera e propria «capitale» della lavorazione di questa fibra.

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All’interno dell’Ars Canevariorum, con l’aiuto di fonti iconografiche trecentesche, e grazie alla dedizione dei volontari, sono stati ricostruiti manualmente e fedelmente tutti gli strumenti in legno necessari per le varie fasi di lavorazione della pianta: le gramole, le maciulle, i pettini, l’orditoio, gli aspi, la manovella, le rocche, i fusi e i telai. Gli steli di canapa, una volta raccolti ed essiccati, venivano battuti in modo da far cadere le foglie; successivamente, raccolti in fasci detti «mannelli», venivano portati al maceratoio – una grande e profonda vasca artificiale – e immersi nell’acqua stagnante per 8-15 giorni. In questo modo l’azione del bacillo Sfelsinium permetteva la separazione della parte legnosa dalla fibra, preparando cosí la canapa per la fase successiva.

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bevagna i mestieri del medioevo Lo statuto del Comune di Bevagna prevedeva norme specifiche, che vietavano la macerazione della canapa entro le mura cittadine a causa dello sgradevole odore che ne risultava. Da altre testimonianze, inoltre, emerge che, per la grande presenza di terreni coltivati a canapa e quindi di maceratoi, in tutto il territorio circostante il fetore era talmente forte e nauseabondo da spingere i viaggiatori a percorrere strade alternative a quelle battute normalmente.

Un prodotto sempre piú raffinato

Una volta macerati, i fasci venivano estratti dall’acqua e asciugati al sole, pronti per le successive fasi di lavorazione dei fusti, come la maciullatura (la maciulla è il pesante mezzo tronco a denti di coccodrillo che frantuma la parte legnosa) e la gramolatura, che permettevano la triturazione della parte coriacea dello stelo. Per raffinare in modo ancora piú uniforme le fibre e ripulirle dalle impurità, si utilizzava il pettine, costituito da una tavoletta di legno con aculei di ferro infissi in una estremità. La pettinatura è la fase di snodo da cui si dipartono due filoni di produzione diversi, a seconda della qualità di fibra pettinata. La fibra piú grezza veniva usata per la produzione di corde, funi, reti da pesca, come si evince dallo Statuto dell’Arte de li Funari, in cui sono presenti diverse norme che regolavano la creazione delle corde: lo «spago», per esempio, doveva essere composto da non piú di 13 fili. La fibra piú raffinata, invece, veniva usata per la produzione di tessuti, ma prima doveva essere affidata alla maestria delle donne che la filavano.

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Un momento della selezione dei fili di canapa, il cui numero variava in funzione del prodotto che si intendeva ottenere.

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bevagna i mestieri del medioevo Un momento della fusione delle formelle.

Il processo di filatura, infatti, permette di assemblare piú filamenti in un filo piú resistente attraverso una torsione meccanica, impressa alle fibre con l’ausilio della rocca e del fuso. La rocca – il supporto su cui veniva avvolta la fibra da filare – poteva essere una semplice canna di fiume o un bastone legato alla cintura perché fosse sempre a disposizione; nelle miniature dell’epoca, infatti, si possono osservare donne che filano mentre svolgono altre attività domestiche, accudiscono animali da cortile, badano ai bambini. La fase piú delicata e complessa di tutto il processo produttivo era l’allicciatura del telaio, per la quale poteva essere necessaria anche una settimana di lavoro paziente e meticoloso, visto che si dovevano far passare tutti i fili all’interno dei due licci ed entro il pettine battente.

In alto il popolo della Gaita San Giorgio. A destra l’ambiente scelto per ricreare l’Ars canevariorum.

L’esperienza insegna...

Da quando è stata allestita, la «bottega» della lavorazione della canapa è cresciuta ogni anno grazie anche all’interazione fra la ricerca storica e le nozioni apprese con l’esperienza diretta: per esempio, la grande difficoltà che le ragazze della Gaita incontravano durante le prime prove di tessitura suggeriva che ci dovesse essere un’altra fase, di cui ignoravano l’esistenza, perché le impurità di un filo coriaceo e «peloso» come quello di canapa impedivano lo scorrere dei fili su se stessi e di fatto bloccavano la tessitura. È cosí che hanno scoperto che i fili dovevano essere imbozzimati, ossia ingrassati con un appretto fatto di amido e strutto, per agevolare lo scorrimento della fibra. Una volta ultimate e smontate dal telaio, le tele dovevano anche essere sbozzimate, ovvero liberate

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dai residui di grasso attraverso un risciacquo in acqua bollente. Dopodiché si procedeva a sbiancarle con la lisciva, un composto di cenere di buona qualità, gusci d’uovo, alloro e acqua bollente. I panni venivano collocati in un mastello con un tappo sul fondo e coperti con un vecchio lenzuolo, che serviva da filtro per evitare il contatto diretto con la cenere. Sopra il panno veniva rovesciata, a poco a poco, la lisciva. I panni venivano bagnati dal liquido, filtrato dal tessuto, e poi lasciati in ammollo per uno o piú novembre

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giorni in base alla gradazione di bianco desiderata, infine strizzati e asciugati al sole. Finalmente pronte, le tele venivano vendute al mercato o tagliate e cucite a seconda che dovessero essere trasformate in sacchi, tele, guarnelle o abiti. Cosí, durante il Mercato delle Gaite, entrando nella via e nei locali in cui i volontari allestiscono il mestiere della canapa, si viene catapultati immediatamente indietro nel tempo, in un mondo parallelo che appaga gli occhi, la mente e il cuore. L’odore pungente ed erboso

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della canapa misto al dolce della cera d’api che cola dai moccoli, il fumo delle fiaccole, il suono degli zoccoli dei muli che scaricano il raccolto, il vociare delle contrattazioni, le risate dei bambini che pettinano la fibra, il rumore dei bastoni e delle gramole che rompono i fusti, mani laboriose e instancabili che intrecciano, filano, cuciono… Questa è l’Ars Canevariorum della Gaita San Giorgio: un operoso e perfetto alveare umano del XIV secolo. Arnaldo Casali (ha collaborato Veronica Taccucci)

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di Paolo Garbini

UN UNIVERSO DI ENIGMI Edipo e la Sfinge, olio su tela di Jean-AugusteDominique Ingres. 1808. Parigi, Museo del Louvre.

Riprendendo una tradizione antichissima, inaugurata dalla Sfinge e dagli oracoli, anche il Medioevo fu un instancabile produttore di indovinelli, metafore, allusioni... E si trattò spesso di «giochi» raffinatissimi, in un intrigante incrocio di versi, prosa, citazioni e immagini, ideati dai migliori ingegni dell’età di Mezzo


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e si pensa all’enigma possono venire in mente da un lato Edipo e la Sfinge, dall’altro i quadrettati settimanali di enigmistica in vendita nelle edicole, e cosí potrebbe sembrare che quella dell’enigma sia una vicenda che da una questione di vita o di morte si sia banalizzata nel passare dei secoli fino a diventare un cruciverbato passatempo domenicale. Per certi aspetti è andata proprio in questo modo, ma in realtà, al di fuori – o al di sotto – del

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gioco dell’indovinello, tutti sappiamo benissimo che quello che ci tormenta è proprio la misteriosa questione della vita e della morte: la nostra esistenza è tutta un enigma, ed enigmatiche sono le risposte fornite dalle religioni alle nostre domande piú elementari. Per i cristiani tutto il mondo è enigma, a partire da san Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 13, 12: «Noi ora vediamo attraverso uno specchio e in modo enigmatico, allora vedremo faccia a faccia». Qualsiasi enigma insomma

non smette mai di evocare l’Enigma. E cosí nel Medioevo – epoca cristiana per statuto e ancora cosí poco scientifica – l’enigma diventa un bel banco di prova non solo per i teologi, tenuti per mestiere a spiegare l’inspiegabile, ma anche per molti scrittori che, grazie a ingegnosi indovinelli, faranno notevoli scoperte. Alla ricerca di queste scoperte, tuttora efficaci nella nostra cultura, ci addentreremo adesso nei tempi e nei luoghi del Medioevo dove l’enigma, che è una doman-

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da, ha saputo essere anche una risposta. L’avventura dell’enigma nel Medioevo ha un inizio curiosamente affollato di autori che, considerati nel loro insieme, ne hanno prodotto una sorta di enciclopedia. Come in ogni avventura che si rispetti, prima di iniziare il racconto c’è però da fare ricorso a un antefatto: il prologo in Africa. Nel IV secolo, commentando un passo della Bibbia (Numeri, 21, 27), sant’Agostino incontra la parola «aenigmatistae», di cui non compren-

de bene il significato: «Il motivo per cui non è immediatamente chiaro che cosa siano gli aenigmatistae è che non c’è una simile consuetudine nella nostra letteratura, né tale nome si riscontra altrove nella Sacra Scrittura. Ma poiché sembra che cantino... non pare lontano dal vero che i cosiddetti aenigmatistae siano quelli che noi chiamiamo poeti, perché è abitudine dei poeti inserire nei loro carmi gli enigmi dei racconti fantastici per significare qualcosa». Dunque, nella letteratura latina, al tempo del santo, non esiste-

vano autori specializzati in enigmi, però Agostino coglie bene il nesso vitale che lega enigma e poesia. Ma solo pochi decenni dopo sant’Agostino, nel V secolo, e proprio nella sua Africa, un tal Simposio, poeta dall’identità ancora oggi oscura, scrisse una raccolta di cento indovinelli, ciascuno composto di tre versi esametri. Questi indovinelli erano destinati a essere letti o pronunciati a memoria dopo cena, durante le feste dei Saturnali. Erano dunque un gioco di socie-

L’Enigma, olio su tela di Gustave Doré. 1871. Parigi, Musée d’Orsay. L’opera risente dello stato d’animo indotto nell’artista dalla sconfitta subita dalla Francia nella guerra contro la Prussia e la figura femminile alata (da alcuni identificata con una personificazione del Paese transalpino) che si avvicina alla sfinge – simbolo per antonomasia degli enigmi – sembra implorare la leggendaria creatura affinché sappia spiegarle le ragioni della tragedia. Il tutto sullo sfondo di una Parigi avvolta da colonne di fumo.

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Vino e poesia

Non c’è enigma senza ebbrezza Nella prefazione alla sua raccolta di cento enigmi in versi, destinata a rallegrare i dopocena durante le feste dei Saturnali, Simposio scrive: «Non bisogna essere perfettamente in sé quando si sta fra chi è fuori di senno: / perdonami, o lettore, se non è saggia la mia Musa ubriaca». Simposio associa dunque l’ubriachezza alla poesia dei suoi enigmi e, di conseguenza alla tecnica principale degli enigmi, cioè quella della metafora, che è l’immagine su

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cui si costruisce l’indovinello. Può sembrare una strana associazione, a meno di non fermarsi al luogo comune che il vino faciliti l’ispirazione poetica. Un bel chiarimento ce lo fornisce invece Gianni Rodari nella sua Grammatica della fantasia (1973). Per spiegare in che modo si costruisce una metafora (cioè un’immagine che ne evochi un’altra) egli indica la strada: «straniamento-associazione / comparazione-metafora». Suggerisce cioè di definire novembre

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Nella pagina accanto, in alto mappa del mondo, da un’edizione delle Grandes chroniques de France. XIII sec. Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève. Nella pagina accanto, in basso e a destra Kells (Irlanda), complesso monastico di S. Colomba. La chiesa e una croce astile (non finita) con la raffigurazione a rilievo della Crocifissione.

tà, un po’ come quello odierno dei mimi. Leggiamone uno: «Sull’acqua c’è un bosco, c’è una foresta / il legno sta fisso in mezzo alle onde / la terra manda ciò che a terra arriva» (la soluzione è «il ponte»). I cento indovinelli di Simposio non sono però solo un passatempo da cenone natalizio. Essi toccano i temi piú svariati, come oggetti di uso comune, fenomeni atmosferici, animali, piante, personaggi umani, e gli ultimi quattro addirittura conducono il lettore dalle cose visibili di questo mondo a quelle impalpabili, fino a quelle misteriose dell’altro mondo: l’ombra, l’eco, il sonno, il sepolcro; l’intera raccolta viene cosí nobilitata da questi ultimi indovinelli, densi di poesia e di riflessione. Si tratta insomma di una saggezza tascabile offerta e raggiungibile per mezzo dell’arguzia, di poetiche istruzioni per l’uso del mondo, Questa raccolta, la prima del mondo latino, sarà presa come modello da diversi autori di enigmi poetici in quel Medioevo che sta per iniziare.

In quelle Isole Britanniche dove i Romani erano stati poco e male o dove non erano nemmeno arrivati, tra VI e VII secolo si verifica una seconda «romanizzazione», e questa volta ha successo, dal punto di vista religioso e culturale, grazie specialmente all’iniziativa di due papi: prima Gregorio Magno e poi Vitaliano, inviano a Canterbury monaci ed ecclesiastici muniti di dottrina e libri, con cui riescono a esportare la cultura latina e cristiana in quelle terre nebbiose di Angli, Sassoni e Celti.

Un mistero nel mistero

Il Medioevo è cominciato, ed è proprio in Irlanda e in Inghilterra che la letteratura degli enigmi conosce una diffusione che a sua volta sembra un enigma. Quella che oggi pare essere la raccolta piú antica è avvolta dal mistero: prende il nome di Aenigmata Bemensia, dal codice che la conserva (ms. 611 di Berna), è datata dagli studiosi alla metà del VII secolo ed è opera probabilmente di un monaco irlandese attivo nel monastero di Bobbio, fondato dall’irlandese Colombano su autorizzazione della regina longobarda Teodolinda. Si tratta di 62 indovinelli di sei esametri, tutti del medesimo autore, piú uno sul vino dovuto a un altro autore che si chiamava Paulus, come si ricava dall’acrostico, cioè dalla lettura «verticale» delle lettere iniziali di ciascun verso.

gli oggetti come se li vedessimo per la prima volta («straniamento»: la penna è un cilindro che lascia un segno nero sulla carta, che è una superficie bianca); e quindi di associare questi oggetti «rinnovati» ad altri simili («associazione/comparazione»: la carta può essere associata a un campo, il segno nero a un sentiero). Risultato: la «metafora» a forma di indovinello: «Su un campo bianco bianco / traccia un sentiero nero». Questo è un caso semplice perché vuole essere istruttivo. Ma il filosofo Aristotele sostiene che l’enigma dice cose reali unendo cose impossibili. E, per farlo, si deve essere aperti

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Il monaco irlandese si rifà agli enigmi di Simposio, da cui trae spunto per trattare argomenti della vita quotidiana (oggetti, fiori, astri, ecc.), però risulta molto piú oscuro del suo modello. Leggiamo questo enigma : «L’ombra mia piú di tutt’e s’apre alla luce: la mia vile natura supera i pregiati diamanti. / Affronto il fuoco nascendo: nato sono sfinito dal fuoco. / Nessuna peste mi tocca e neppure la morte. Consunto risorgo novello nell’a ntico splendore / e offro a tutti gioioso baci d’amore» (traduzione di Gianfranco Agosti): la soluzione è «il calice di vetro». Piú semplice e chiaro è invece l’inglese Aldelmo (640-709 circa), di stirpe regale, uno dei massimi scrittori della sua epoca, formatosi alla scuola di Canterbury, che Beda – a sua volta una delle figure intellettuali di maggiore spicco dell’Alto Medioevo – riteneva addirittura il primo classico della letteratura latina prodotta in Inghilterra. Il capolavoro di Aldelmo è il trattato in prosa e in versi intitolato De virginitate. Tra le altre sue opere spicca un manuale di metrica dedicato al re di Northumbria Aelfrid, nel quale Aldelmo inserisce cento indovinelli in esametri, di numero variabile. Oltre che a Simposio, ricordato nella prefazione, Aldelmo si ispira anche a temi cristiani. A differenza del primo, Aldelmo non allude occultamente all’ogget-

alle associazioni mentali piú ardite, come riescono a esserlo, senza alcuno sforzo, gli ubriachi: per raggiungere un’immagine «estranea», cioè in grado di alludere alla soluzione, ma anche di nasconderla, è necessario guardare un oggetto con gli occhi di chi ha bevuto troppo, che vede una forma e la connette a tutt’altra realtà che a quella «vera» (come in mille barzellette i lampioni scambiati per passanti). Non è un caso che Friedrich Nietzsche, in Cosí parlò Zarathustra, al capitolo La visione e l’enigma, si rivolga ad alcuni marinai, che erano curiosi di ascoltare un fatto misterioso, dicendo: «A voi ebbri di enigmi...».

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Dossier to, ma lo descrive chiaramente. Con Aldelmo l’enigma si trasforma e, da sfida alla soluzione della metafora (cioè dell’immagine che definisce nascostamente l’oggetto), diventa una specie di catalogo enciclopedico di nozioni utili. Questo è un esempio: «Nessuno può vedermi e afferrarmi / diffondo il crepitare delle voci. / Spezzo le querce con forze che urlano; / scuoto l’alto dei cieli e aro i campi» (la soluzione è «il vento»). Dopo Aldelmo un altro grande personaggio inglese è attratto dagli

indovinelli: si tratta di san Bonifacio (al secolo Winifrido, nato nel 675, morirà martirizzato in Frisia nel 754), instancabile evangelizzatore della Germania. Nonostante la fervida attività di missionario, Bonifacio non trascura gli studi e scrive un trattato di metrica e una grammatica; a lui si deve tra l’altro l’invenzione delle tavole dei verbi, che ancora oggi ci aiutano a studiare nelle nostre grammatiche. Nel 722 dedica alla sorella Lioba la raccolta De virtutibus et vitiis, venti

Nella pagina accanto lettere dell’alfabeto formate dall’intreccio di figure votive, animali e fantasie decorative, da un facsimile del taccuino di disegni di Giovannino de’ Grassi e bottega (noto anche come Taccuino di Bergamo). Ultimo quarto del XIV sec. Bergamo, Biblioteca Civica «Angelo Mai».

A destra miniatura raffigurante il soffiare impetuoso del venti, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

A sinistra miniature raffiguranti vari mostri marini, da un’edizione del De natura rerum di Alberto Magno. XIII sec. Valenciennes, Bibliothèque Municipale. A destra bozzetto per una vetrata policroma raffigurante san Bonifacio.

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enigmi, in esametri, di estensione variabile, sulle virtú e sui vizi: tutti gli enigmi di Bonifacio sono acrostici, e l’acrostico svela la soluzione dell’indovinello, come oggi in quei giornali in cui le soluzioni dei giochi si possono leggere capovolgendo la pagina: l’enigma dedicato all’amore cristiano dà per esempio l’acrostico CARITAS SATIRAC AIT («parla la carità»), reso piú complesso dalla forma «palindromica» (cioè letta alla rovescia) della parola «caritas». Altre raccolte di enigmi provenienti dall’Inghilterra – tutte in esametri – le troviamo alla metà dell’VIII secolo. Una, di quaranta indovinelli di lunghezza variabile, si deve a Tatuino (al secolo Tatwine, nativo della Mercia, arcivescovo di

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Canterbury nel 731-734; fu anche grammatico). Con lui torna la varietà degli argomenti. Si incontrano temi simili a quelli che aveva trattato Simposio (con l’esclusione di animali e vegetali), come i fenomeni atmosferici, gli strumenti (per esempio la tenaglia, l’incudine, la spada e anche quelli del grammatico, come la penna, le lettere dell’alfabeto, la pergamena, la grammatica).

Soluzioni faticose

A questi Tatuino aggiunge temi morali e oggetti della vita ecclesiastica. La soluzione dei suoi enigmi, che non presentano acrostici, risulta faticosa. Per esempio: «Tra le tante cose meravigliose / vi dico questa: siamo due gemelli, / ma quello che guardo io lui disprezza / e quel che guarda lui

a me non garba. / In noi sguardi diversi e un solo amore» (soluzione: «gli occhi strabici»). Per portare al numero canonico di cento indovinelli la raccolta di Tatuino, intervenne il monaco Eusebio (Hwaetberth), che ne scrisse sessanta, alternando argomenti morali (Dio, l’angelo, il demone, l’uomo, il cielo, la terra), astronomici, e ancora soprattutto zoologici (non solo per quanto riguarda gli animali domestici, come la vacca, ma anche rivelando quel gusto tipicamente inglese per gli animali esotici e mostruosi che porterà al Liber monstrorum); anche in Eusebio compaiono oggetti e riferimenti al mondo della scuola, come il materiale per scrivere e le lettere dell’alfabeto. Leggiamo l’indovinello dedicato alla penna: novembre

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Nella pagina accanto mostri marini e terrestri, da un’edizione francese della Cosmographia Universalis di Sebastian Münster. 1552. Milano, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». A destra ritratto di Beda il Venerabile, da un’edizione manoscritta del De temporibus dello stesso Beda. VII-VIII sec. Cava dei Tirreni, Archivio della Badia della Santissima Trinità.

«Semplice per natura, non so nulla; / ma ogni sapiente mi viene dietro. / Ora sto in terra ma prima ero in cielo; / sono bianca ma lascio tracce nere». L’ultima raccolta di ambiente inglese, e anche la piú breve, è quella dei dodici Aenigmata Anglica o Laureshamensia (cosí chiamati perché conservati in un codice proveniente da Lorsch, il Vaticano Palatino latino 1753): anche questi enigmi trattano di botanica, di zoologia, di fenomeni atmosferici, di temi morali, di oggetti, tra i quali ancora quelli per lo studio e la scrittura. Leggiamo anche in questa raccolta quello dedicato alla penna: «Se fanciulla candida semina / lacrime nere, i bianchi prati / ricopre di scure tracce, che portano alle corti lucenti / del cielo fiorito di stelle» (traduzione di Gianfranco Agosti).

La battaglia dei grammatici

Misterioso, falsario, provocatore, genio dell’assurdo e dell’umorismo, maestro dei giochi di parola, nato tredici secoli prima di Woody Allen, ma suo contemporaneo a tutti gli effetti. Questo può essere il biglietto da visita di Virgilio Marone Grammatico, attivo nella Gallia merovingia alla metà del VII secolo, che qualcuno reputa un povero pazzo e altri un raffinatissimo cultore dell’ironia. Virgilio ha scritto due opere, le Epitomi e le Epistole:

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anagrammi per solutori esperti

Il sapiente sanguisuga Sssssssssss pp nnnnnnnn gggg rr mm ttt d cc aaaaaaa iiiii uuuuuuuu o ae eeeeeeee. Che cos’è questo frastuono? È una specie di puzzle con le lettere, un megaanagramma che quel bel tipo di Virgilio Marone Grammatico ha inserito nelle sue Epitomi (X, 1-2), nel capitolo De scinderatione fonorum (La scomposizione delle parole). Ricomponendo l’ordine originario delle lettere si trova la soluzione, che per fortuna ci fornisce lo stesso Virgilio: «Sapiens sapientiae sanguinem sugens sanguissuga aenarum recte vocandus est» («Il sapiente che sugge il sangue della sapienza deve giustamente essere chiamato sanguisuga delle vene», traduzione di Giovanni Polara). la prima è «una storia romanzata della sua professione» (Giovanni Polara), un manuale da ridere, dove, tra gli altri argomenti, troviamo la risibile vicenda del dibattito tra due grammatici sul vocativo del pronome «io» o il tragicomico scontro tra 3000 grammatici di una scuola e 3000 di un’altra sul valore dell’incoativo... Ebbene, sia le Epitomi che le Epistole terminano con enigmi, quasi a porre un ridanciano punto interrogativo sul loro bizzarro autore per i secoli a venire. Qualche rapida considerazione sulle raccolte di età merovingia. Questi autori altomedievali traggono da Simposio due elementi, che però arricchiscono in virtú della loro cultura cristiana. Per prima cosa essi mostrano – come Simposio – una vera e propria ambizione all’enciclopedia poetica, ormai però del tutto cristianizzata. Gli enigmi diventano cosí una «metafisica tascabile»: riducono la vertigine dello spazio e del tempo, l’orizzonte della natura e della so-

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Dossier Piccola antologia letteraria

L’onnipresenza delle «cose» A fare una rassegna delle «cose» entrate nella letteratura poetica dopo il Medioevo non basterebbe un’enciclopedia. Nel Novecento Italo Calvino, presentando la Piccola cosmogonia portatile di Queneau, scrive: «Dimostrata la pari dignità poetica d’ogni tema e d’ogni parola...»: sembra che parli dei nostri poeti altomedievali! Specialmente in epoca barocca la poetica della meraviglia è zeppa di oggetti e molte poesie sembrano enigmi, basta togliere il titolo! Leggiamo il sonetto L’occhialino di Giovanni Lubrano (1619-1692), sfavillante di immagini ardite e insieme di pensosità, come un enigma: «Con qual magia di cristallina lente, picciolo ordigno, iperbole degli occhi, fa che in punti d’arene un Perú fiocchi, e pompeggi da grande un schizzo d’ente? Tanto piacevol piú, quanto piú mente; minaccia in poche gocce un mar che sbocchi; da un fil, striscia di fulmine che scocchi; e giuri mezzo tutto un mezzo un niente.

Cosí se stesso adula il fasto umano, e per diletto amplifica gl’inganni, stimando un mondo ogni atomo. Oh ottica fatale a’ nostri danni! Un istante è la vita; e ‘I senso insano sogna e travede eternità negli anni». Tra Otto e Novecento la letteratura trabocca di cose. Per ricordare davvero alla rinfusa qualche movimento e qualche nome: in Russia il realismo, l’acmeismo, il visibilio descrittivo di Vladimir Nabokov; in Francia il simbolismo (Mallarmé, Baudelaire che proclama: il mondo come foresta di simboli), Apollinaire, il surrealismo, Francis Ponge, Il partito preso delle cose (1942), «la scuola dello sguardo» di Alain Robbe-Grillet, i romanzi di Georges Perec (Le cose, 1965 e La vita. Istruzioni per l’uso, 1978); in Italia la poesia crepuscolare («le piccole cose di pessimo gusto» di Guido Gozzano, la prodigiosa facoltà visiva di Corrado Govoni, messa a frutto anche da Montale e oggi da Valerio Magrelli); il critico Francesco Orlando ha potuto addirittura scrivere un ponderoso saggio intitolato Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti (Einaudi, Torino 1993); per non parlare, fuori d’Europa, degli oggetti che vivono nelle pagine di Jorge Borges...

Agli enigmisti medievali va il merito di avere rivitalizzato l’uso delle metafore Ritratto di Rhazes (forma latinizzata di ar-Razi), medico e filosofo del Medioevo musulmano che tiene in mano un paio d’occhiali.

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cietà entro il limite di piccoli ordigni poetici e congegni cartacei. Ciò che si coglie con tutta chiarezza è la pedagogia, la sapienzialità dell’enigma. E questa ambizione a mettere in versi lo scibile umano tornerà ben oltre il Medioevo, per esempio nella barocca Enciclopedia poetica del siciliano Giuseppe Artale (1658-1679), o nella Piccola cosmogonia portatile di Raymond Queneau (1950). Il secondo elemento, derivante dal primo e degno della massima attenzione, è che tutti questi autori fanno entrare nella poesia le novembre

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La pagina di un’edizione manoscritta dell’opera In honorem sanctae Crucis (De laudibus sanctae Crucis) di Rabano Mauro in cui l’immagine del Cristo crocifisso è definita dalle lettere colorate in rosso. IX sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

cose di tutti i giorni, che vengono cosí trasformate in oggetti poetici.

Il mondo come un rebus

Come abbiamo visto dal passo della Prima lettera ai Corinzi di san Paolo, per i cristiani tutto il mondo è enigma. Influenzato da questo passo, Prudenzio, uno scrittore cristiano vissuto tra IV e V secolo, utilizza addirittura la parola aenigma con il significato di «immagine»: ogni «cosa» ha un significato nascosto e tutto il mondo visibile diventa cosí un rebus. Ciò comporta l’az-

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zeramento, in poesia, della gerarchia dei valori, cosicché negli enigmi convivono sulla stessa pagina, senza nessuna irriverenza, Dio e la vacca – come in Eusebio –, cioè il Creatore e il suo creato. Tutto si pareggia in poesia , ma in realtà – anche se implicitamente – si dichiara un valore supremo: quello cognitivo proprio della poesia, quella meravigliosa capacità di guardare la realtà che si nasconde dietro o sotto un’immagine. Non a caso gli enigmisti altomedievali rivitalizzano la metafora, e

cioè l’immagine che significa qualche altra cosa oltre che se stessa, come momento centrale della poesia. Il ricorso alla metafora, in qualsiasi epoca, indica sempre la rivolta della letteratura contro il logorio del linguaggio: piú linguaggio abbiamo piú mondo c’è, perché il linguaggio plasma il mondo, fa apparire le cose, le «traduce», le porta dentro. Si apre cosí, nell’Alto Medioevo, la strada, anzi l’autostrada che porta a quell’esperienza dell’osservazione poetica delle «cose» che troverà i suoi momenti piú alti prima nel

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Dossier alcuino

L’uomo? Somiglia a un frutto... Fu una specie di «ministro della cultura» di Carlo Magno e fu la mente propulsiva della sua corte: Alcuino (732-804 circa), che manifestò anche una spiccata attitudine all’enigmistica. Diede agli amici soprannomi che erano veri e propri rebus (come Arnone, detto «l’Aquila», che in antico altotedesco si diceva arn); compose enigmi con giochi di parole come i logogrifi (per

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esempio, un enigma di sette esametri ha come soluzioni magnus, agnus, manus, magus, mus, anus) e inventò problemi di aritmetica e di logica (gli si attribuisce perfino il famoso problema di come trasportare su una barca un lupo, una pecora e un cavolo, e ancora il curioso problema dei tre mariti gelosi che, con le loro mogli, devono oltrepassare un fiume su una barchetta che porta solo due persone, senza

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mai lasciare le consorti in balia degli altri). «Enigmistico» è anche un suo scritto a carattere pedagogico, strutturato a domanda e risposta, la Disputatio Pippini cum Albino scholastico (Il dialogo di Pipino con il maestro Albino: Pipino era un figlio di Carlo Magno e Albino una forma del nome di Alcuino), che riprende la forma dialogata e il contenuto moraleggiante che si incontra in brevi testi detti «iocha monacorum» («scherzi di monaci»), un genere diffuso tra il VI e il VII secolo. Questo dialogo è enigmistico per due motivi: 1) come avviene negli enigmi, le risposte date dal maestro all’allievo sono vere e proprie metafore che producono effetto di sorpresa nel lettore, perché ri-definiscono in modo originale ciò che è noto; 2) alla fine del dialogo si invertono le parti ed è Alcuino che pone autentici enigmi allo scolaro (alcuni sono di Simposio). Leggiamo un passo: «P. Cos’è la lettera? A. La custode della storia. P. Cos’è la parola? A. L’inganno dell’animo. P. Cosa genera la parola? A. La lingua. P. Cos’è la lingua? A. Il flagello dell’aria. P. Cos’è l’aria? A. La custode della vita. P. Cos’è la vita? A. Letizia dei beati, mestizia dei miseri, attesa della morte. P. Cos’è la morte? A. Inevitabile evento, incerta peregrinazione, pianto dei vivi, certezza di testamento, furto d’uomini. P. Cos’è l’uomo? A. Schiavo della morte, viaggiatore che passa, ospite d’un luogo. P. A cosa somiglia l’uomo? A. A un frutto. P. Com’è posto l’uomo? A. Come lucerna al vento… P. Che cos’è una meraviglia? A. Ho visto poco fa un uomo in piedi, morto ambulante, che non fu giammai. P. Come può essere, dimmi! A. Era un’immagine riflessa nell’acqua». Barocco e poi nel Novecento. Subito dopo la grande e pionieristica stagione del VII-VIII secolo, la letteratura enigmistica trova un altro notevole centro di produzione nella corte carolingia. Ma c’è una differenza. Ora gli autori di indovinelli perdono l’ambizione all’enciclopedia, cessano di voler spiegare il mondo: si vogliono divertire, e gli enigmi tornano a essere quel che erano già stati in età ellenistica

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Carlo Magno, circondato dai suoi dignitari, riceve Alcuino, che gli dona manoscritti compilati dai suoi monaci, dipinto di Victor Schnetz. 1830-1833. Parigi, Museo del Louvre.

e ancora all’epoca di Simposio: un gioco di società. Cosí, tra gli intellettuali convocati da Carlo Magno da tutta Europa a formare i quadri dirigenti del suo impero, si dilettano a sfidarsi a colpi di enigmi due longobardi, Paolo Diacono (720 circa-800 circa), storico eccelso a cui dobbiamo l’Historia Langobardorum, e Pietro da Pisa, che era già stato grammatico alla corte del re longobardo Deside-

rio. Un altro appassionato cultore di enigmi, sia linguistici che matematici, è l’inglese Alcuino (732-804 circa), altissima figura di intellettuale che ha coagulato ogni iniziativa culturale intorno all’imperatore. Alla corte dei successori di Carlo Magno altri rinomati scrittori trovano tempo e concentrazione per scrivere enigmi: Valafrido Strabone, Sedulio Scoto, Paolo Alvaro… In seguito, in pieno Medioevo centrale, si possono ricordare alcuni indovinelli di ambiente monastico, come una raccoltina dell’XI secolo, conservata nel ms. Clm 19486 (codice di Tegernsee, contenente il poemetto latino Ruodlieb): undici epigrammi di cui cinque enigmi sugli oggetti (II, III, IV, V, X). Sono simili e coevi a un paio di indovinelli contenuti nella raccolta di lettere del monastero di Tegernsee. Ma gli enigmi non conoscono recinti culturali: ne scrive alcuni il raffinatissimo poeta francese Baldrico di Bourgueil (1046-1130), uno dei precoci esponenti della rinascita letteraria del XII secolo.

Una vera ossessione

Fino a questo momento abbiamo considerato gli autori di enigmi veri e propri, cioè di indovinelli in forma di poesia e abbiamo anche osservato che in epoca carolingia l’enigma si trasforma in gioco di società. Questo fenomeno non deve far pensare che negli ambienti della corte l’enigmistica si sia banalizzata, tutt’altro. Intanto perché gli autori di enigmi erano, come si è visto, personaggi di spicco del mondo culturale e politico carolino; e poi perché, nello stesso periodo, e spesso negli stessi autori, si registra un fenomeno fondamentale. Quell’attitudine «enigmatica» a guardare un oggetto nei suoi lati nascosti, inediti, viene infatti applicata ossessivamente proprio al testo, che diviene esso stesso «oggetto»: se ne cercano e se ne trovano le potenzialità di senso nascoste, sia nella dimensione verticale (acro-

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Dossier stici) che in quella bidimensionale (carmi figurati, ossia poesie che formano figure). Anche in questo caso c’è un modello, un capostipite tardo-antico, ed è Optaziano Porfirio, uno scrittore del IV secolo che ha ispirato una folta schiera di poeti di levatura diversa ma tutti assolutamente catturati dalle mirabili potenzialità espressive di un testo che possa essere letto come tale, ma anche come insieme di punti da collegare per ricavarne misteriosamente immagini anche sacre, come la croce. Il catalogo di questi autori è fitto, e alcuni già li abbiamo incontrati: Venanzio Fortunato (VI secolo), Anseberto di Rouen (VII secolo), Aldelmo, Beda (VII-VIII secolo), san Bonifacio e ancora, in età carolingia, Alcuino, Bernowino, Teodulfo, Paolo Diacono, Angilberto, Gosberto, Milone di Sant’Amand e sopra tutti, maniacalmente giganteggiante, Rabano Mauro (780-856). In tutti questi autori le parole formano la croce. Si può dire: la croce delle parole; o ancora le parole della croce: verba crucis-cruciverba. Il gioco è sempre piaciuto nei secoli: Pier Paolo Pasolini ha scritto una raccolta poetica intitolata Il libro delle croci (in Poesie in forma di rosa, 19611964). Ma torniamo a Rabano Mauro. Come gli altri, è autore di carmi figurati ma li supera tutti grazie al suo capolavoro, il De laudibus sanctae crucis (Le lodi della santa croce), un ciclo di 28 poesie, ultimato nell’810. Verrebbe da dire un ciclo di affreschi, perché ogni poesia fa affiorare caleidoscopiche immagini della croce, tutte colorate, tutte diverse. Alle immagini della croce si aggiungono anche figure umane o comunque antropomorfe: l’imperatore, Cristo, l’Angelo e infine, quasi come un autoritratto di pittore, Rabano stesso. Oltre a questa lode della croce, altre due opere legano Rabano ai modi enigmistici cosí diffusi nella cultura del suo tempo. La prima è il rifacimento di un

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Frasi a doppio senso

Quel vescovo salvo per... un punto! Nella sua Rhetorica novissima, VII, 3, Boncompagno da Signa, espertissimo di quell’ambiguità del linguaggio su cui si basa ogni enigma, scrive un capitoletto proprio sulle frasi a doppio senso, e riporta questo esempio. A papa Innocenzo III viene recapitato il seguente messaggio di un vescovo che tramava per uccidere la regina d’Ungheria: «Reginam occidere bonum est timere nolite et si omnes consenserint ego non contradico» («È bene uccidere la regina, non vogliate temere, e se tutti sono d’accordo, io non mi oppongo»). Ma il papa vuole proteggere il vescovo e allora apporta una punteggiatura con cui stravolge, anzi capovolge il significato del telegrafico messaggio: «Reginam occidere bonum est timere, nolite. Et si omnes consenserint, ego non. Contradico» («È bene temere di uccidere la regina, non vogliate [farlo]. E se tutti sono d’accordo, io no. Mi oppongo»). curioso testo tardo-antico, la Cena Cypriani, che è anche una specie di catalogo mnemonico-enigmistico relativo a personaggi biblici, ognuno caratterizzato da oggetti o azioni che alludono piú o meno nascostamente al racconto della Bibbia. La seconda opera è il De universo, un’enciclopedia vera e propria che si può definire allegorica, perché le «cose» che costituiscono le varie voci sono descritte nella loro realtà fisica e poi interpretate in senso morale, esattamente come avveniva negli enigmi dell’epoca merovingia. Allo stesso modo anche nell’enciclopedia di Rabano il mondo sensibile è una maschera che dissimula una realtà profonda, nascosta, da interpretare.

Lo scrittore come creatore

Ora qualche considerazione sull’età carolingia. Dopo i particolarismi e la decadenza culturale dei secoli delle nationes barbariche, durante i secoli VIII-X la civiltà dell’Occidente ricrea se stessa, in senso politico, religioso e culturale, e il luogo di questa riappropriazione è il Libro, espressione quasi mitica della cultura scritta. Si verificano cosí delle equazioni. Il libro come universo, lo scrittore come creatore. Cosí, nell’ambito di un sentire religioso per cui la Rivela-

zione divina della verità sembrerebbe togliere valore alle possibilità di conoscenza del linguaggio, succede invece qualcosa. L’ossessione per la metafora e le ardite costruzioni di testo e immagine non si spiegano solo con il «gioco» e nemmeno solo come «omaggio» alla divinità. Nonostante il condizionamento ideologico e religioso, l’autore medievale inizia a prendere coscienza delle sue potenzialità come «creatore». Se l’Universo è un Libro (Dante, Paradiso, XXXIII, 85-87: «Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna»), vale anche che ogni libro è un universo: le ventisei lettere dell’alfabeto bastano a nominare il mondo e a ricomporlo. Sta per nascere anche un Nuovo Mondo, quello del Volgare, che vorrà i suoi Libri. Non sembra solo una coincidenza che il famoso «indovinello veronese», metafora della scrittura che deriva dritta dagli enigmi merovingi, inauguri la letteratura italiana. In epoca carolingia molti autori di enigmi si dedicano anche ai carmi figurati, a riprova della connessione fra poesia, enigma, immagine. Il testo diventa dunque un congegno, un dispositivo enigmistico, non solo per il lettore, ma, novembre

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Orvieto, Duomo, Cappella Nova (o di S. Brizio). Il ritratto di Dante realizzato ad affresco da Luca Signorelli. 1499-1502.

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soprattutto nei carmi fugurati, per l’autore. Abbiamo visto che l’enigmistica diventa gioco di società e che non c’è piú l’enciclopedia poetica (con l’eccezione di Rabano Mauro), però rimangono gli oggetti, entrati ormai per sempre nel gusto della poesia occidentale. Il testo poetico si fa enigma assoluto, luogo di una creazione complessa, sintesi di verità molteplici. L’enigmistica prende a questo punto due direzioni: la via del raffinato, intenso gioco letterario, per esempio nel trobar clus (la poesia oscura) dei trovatori, nelle rime «petrose» di Dante e poi in tante avanguardie letterarie; e la via del gioco popolare, che avrà grandissima diffusione in età moderna fino ai nostri giorni grazie alla stampa.

La versione vichinga

Usciamo dalla letteratura latina per due brevissime soste nelle letterature volgari. La prima è nella poesia cortese d’epoca vichinga del IX secolo, dapprima norvegese poi islandese. Una caratteristica davvero singolare di questa poesia sono

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In alto miniatura raffigurante l’incontro tra Dante e Beatrice, da un’edizione della Divina Commedia. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. A sinistra una raffigurazione del Paradiso, con il Creatore che presenta Eva ad Adamo, scomparto del trittico del Giardino delle Delizie, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1490-1500. Madrid, Museo del Prado.

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le Kenningar, arditissime immagini, metafore acrobatiche, veri e propri enigmi giocati dai poeti triangolando fra la metafora (che è una figura di sostituzione: «sei un leone» al posto di «sei coraggioso»), la metonimia (figura di contatto, come il contenente per il contenuto, per esempio un «bicchiere d’acqua»: il bicchiere in realtà è di vetro e contiene acqua) e l’ossimoro (unione di due termini antitetici: dolce veleno). Cosí il sangue è detto «mare dei cadaveri», l’oro «il fuoco dell’onda», il mare «la strada della balena». Come gli enigmi, le Kennin-

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gar vivono del contrasto tra contrari, esprimono la tensione tra essere e non essere: ricche di Kenningar sono le parole dell’Amleto di Sassone Grammatico (che scrive in latino le sue Gesta dei re e degli eroi danesi tra XII e XIII secolo), antenato del fool di Shakespeare, personaggio esemplarmente caratterizzato dal parlare enigmatico. Guardiamo come il parTavola di Gustave Doré raffigurante un carro (che rappresenta la Chiesa) trainato da sette fiere (Purgatorio, canto XXXII), dall’edizione della Divina Commedia illustrata dal grande artista francese. 1869.

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Dossier lare oscuro di Amleto sia diventato oggetto di gioco «enigmistico» in un poeta dalla vena musicale e assurda quale è Toti Scialoja, in La mela di Amleto del 1984 (vedi box a p. 98). Effettuiamo ora una seconda sosta nella letteratura francese tra la metà del Duecento e la metà del Trecento, quando si sviluppano tre simili generi poetici comici, chiamati fatrasie, fatras e resverie, tutti e tre definibili come poesia dell’assurdo o del nonsenso. Sembrano enigmi, ma non hanno risposta. Sono l’esasperazione infinita di quel che animava gli enigmisti latini altomedievali, per i quali ogni cosa del mondo è la soluzione di un possibile enigma. Qui ogni cosa è la soluzione

nei meandri dell’inconscio

L’ambiguità del segno Per Freud l’inconscio non è come un rebus, ma «è» un rebus o enigma figurato, e cioè mostra qualcosa ma vuol dire qualcos’altro. A partire da questa intuizione, dopo Freud, altri studiosi della mente come Jacques Lacan e, piú recentemente, Ignacio Matte Blanco hanno indagato l’inconscio come linguaggio con regole sue particolari, e hanno individuato gli stretti rapporti che intercorrono tra l’inconscio e fenomeni come i lapsus, i giochi di parole (sciarade, rebus, crittografie mnemoniche, anagrammi, ecc.), certe modalità espressive tipiche dei sogni, alcune patologie isteriche o psicotiche. Insieme a questi fenomeni, particolarmente adatta a rivelare tutta la ricchezza delle funzioni della mente risulta anche la poesia, perché, come mostrano limpidamente i nostri enigmi poetici medievali, al pari dell’inconscio essa si basa proprio sull’instabilità – o ambiguità – del segno, cioè sulla capacità di significare piú cose a partire da un solo segno, sia esso parola o immagine. di qualsiasi enigma e cosí non si capisce niente, come nei sogni da cui queste poesie – filastroccate e spesso licenziose – sembrano ricavare l’oscuro linguaggio dell’inconscio, e ben prima che nel dada e nel surrealismo del Novecento! Leggiamone una: «Un vecchio nato morto / che aveva il naso corto / portava un mulino; / un gatto sconvolto / si è bene ravvolto / in due pezze di lino; / un vasetto pieno di grasso / li avrebbe tutti tramortiti / all’entrata di un giardino / dacché un ratto vi condusse / i peti di un vecchio di Tartaria» (traduzione di Daniela Musso). Il registro di allegra follia di questi testi ricorda anche certe vertigini logiche che si spalancano nell’Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, come: «Che cosa, esattamente, non ricordi?», oppure l’indovinello posto ad Alice dal Cappellaio Matto: «Perché un corvo è simile a una scrivania?… hai A sinistra La chiave dei sogni, olio su tela di René Magritte. 1930. Collezione privata. Nella pagina accanto il Purgatorio immaginato come un tunnel di luce entro il quale le anime beate sono guidate dagli angeli, particolare di una delle tavole che compongono il polittico delle Visioni dell’Aldilà di Hieronymus Bosch. 15001503. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

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Dossier Gli artifici di Rabano Mauro Pagine da un’edizione a stampa del De laudibus sanctae crucis di Rabano Mauro. 1551. Jena, Biblioteca Universitaria. Da bravo maestro qual era, a queste poesie Rabano ha aggiunto un commento e poi, per ulteriore chiarezza, gli stessi testi poetici, però disposti sulla pagina normalmente, e infine una versione in prosa. Certo dell’impressionante impatto che avrebbe avuto la sua opera, ne promosse egli stesso la diffusione con diversi esemplari, da cui furono a loro volta tratte numerose copie: ne conosciamo oltre 100, prodotte fino al XVI sec. e l’opera fu imitata fino al XIV sec.

risolto l’indovinello? No, replicò Alice, ci rinuncio. Qual è la risposta? Non ne ho la minima idea, disse il Cappellaio».

Molteplici significati

Prima di terminare questo viaggio nell’enigma medievale, ricapitoliamo le principali acquisizioni che la cultura letteraria occidentale ha

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guadagnato grazie agli enigmi: la visione del mondo come insieme di «cose» che sono se stesse, ma insieme parlano d’altro; l’inclusione delle «cose», anche quelle piú umili, nella poesia; l’esperienza del testo poetico come enigma esso stesso, in grado di avere piú significati simultaneamente; la percezione

dell’autore come creatore. Bene, con questo vademecum enigmistico possiamo affrontare l’ultima tappa del nostro viaggio, che si conclude in Italia e che ci permetterà di aggiungere un’ultima «scoperta» dovuta all’enigma. Università di Bologna, prima metà del Duecento. Tre professonovembre

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ri di retorica insegnano l’arte del comporre – allora chiamata ars dictandi – con modalità nuove rispetto alla tradizione: sono Boncompagno da Signa, Guido Faba, Bene da Firenze. Si direbbero degli esaltati, perché agli studenti presentano la loro materia facendola apparire come densa di risonanze mistiche, allegoriche, misteriche, fitta di echi cosmici, esoterici, biblici. Ai loro manuali danno titoli dal sapore rivelatorio, come se fossero capaci di illuminare il destino dell’uomo: Candelabrum, Gemma purpurea, Lucerna, oppure titoli di derivazione biblica, per conferire ai loro testi il massimo grado di sapienzialità, come Palma, Oliva, Cedrus, Myrrha. Testi sacri, insomma.

Mutamenti epocali

Come si spiega questo strano fenomeno? Con un mutamento sociale e culturale di enorme importanza per la cultura dell’Occidente. Per sommi capi, si può dire che nel XII secolo l’economia, la politica e la cultura, in piena ripresa, si trasferiscono dai monasteri e dalle abbazie nelle città. Di conseguenza, la letteratura esce dai chiostri e si diffonde nelle Università. La capacità di scrivere e di comporre testi si estende a un nuovo pubblico, potenzialmente sconfinato, che comprende anche le donne. La letteratura si va facendo laica – o almeno secolare – e per acquistare prestigio si presenta come sapienziale: chi insegna a comporre si presenta perciò come un novello Salomone. L’enigma, inteso come indovinello, entra nei manuali di composizione come figura retorica per rendere piú vivace un testo o un discorso. Ma quello che piú conta è che nell’ambiente di quei retori

L’indovinello veronese

Un’«aratura» indecifrabile «Se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba». Questa riga e mezza di scrittura, vergata in Italia alla fine dell’VIII secolo sulla prima pagina di un codice di orazioni proveniente dalla Spagna e conservato a Verona, battezza non senza enigmi la lingua e la letteratura italiana. Mari di inchiostro versati dagli studiosi su questa goccia di testo non ne hanno infatti del tutto risolto i problemi di interpretazione. La traduzione che gode di maggiori consensi è questa: «Spingeva buoi davanti a sé, arava campi bianchi e teneva un aratro bianco e seminava seme nero». Quel che è certo è che si tratta di un enigma relativo alla scrittura, dello stesso genere di quelli – numerosi, come si è visto – che gli enigmisti altomedievali amavano dedicare agli strumenti del loro lavoro come la penna, la pergamena, l’inchiostro. Oltre a quelli già citati nel testo (di Eusebio e degli Aenigmata Anglica), leggiamone un altro tratto dagli Aenigmata Anglica, dedicato all’inchiostro: «Poco fa la selva ero che cresce / nell’intrico dei rovi selvaggi, / ma anche l’acqua che chiara / decorre nel fiume / (la terza parte disvelo / solo a chi l’arte ha imparato). / Ora le mie nere figure / annunciano regni di luce, / purché tu ampie le sparga / per innumeri candidi campi; / ma anche l’orrifico inferno / ti narro, un tremendo racconto, / che scampi chi ne tenga conto» (traduzione di Gianfranco Agosti). Proprio all’epoca dell’indovinello veronese anche Paolo Diacono propone lo stesso enigma a Pietro da Pisa: «Un campo bianco, solcato da un aratro a due punte...». Lente e inesorabili come buoi, le immagini «enigmatiche» della scrittura hanno attraversato i secoli. Vi ricordate l’Aratura di Pascoli nelle Myricae? «Scrive... (la nonna ammira): ara bel bello, / guida l’aratro con mano lenta; semina col suo piccolo marrello: il campo è bianco, nera la sementa. / D’inverno egli ara: la sementa nera / d’inverno spunta, sfronza a primavera; / fiorisce, ed ecco il primo tuon di Marzo / rotola in aria, e il serpe esce dal balzo». E non finiscono di suggestionare scrittori come Leonardo Sciascia (Il giorno della civetta): «Bianca campagna nera semenza / L’uno che la fa sempre la pensa», o poeti come Valerio Magrelli (Ora serrata retinae): «Ogni sera chino sul chiaro / orto delle pagine, / colgo i frutti del giorno / e li raduno...»; oppure: «Se il cielo è la mano, / il mare la pagina, / la penna fiamma e battesimo, / percorso della folgore, sentiero / che si perde nell’acqua. / Luce verticale, ascissa e fuoco, / fiaccola dell’orizzonte». E si guardi anche l’esempio scelto da Gianni Rodari (vedi box alle pp. 76-77).

Miniatura raffigurante l’aratura da un’edizione manoscritta del De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

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Dossier si diffondono certe intuizioni sulle potenzialità del linguaggio enigmatico, non utilizzato solo come abbellimento, ma per rinnovare, creare un senso nuovo. In questo si distinguono in particolare due autori. Il primo è un francese, Goffredo di Vinsauf (XII-XIII secolo, forse un inglese, fu a Roma e probabilmente anche all’Università di Bologna), che nel suo manuale di poesia dedicato a Innocenzo III, la Poetria nova, ai vv. 252-255, a proposito del «paragone nascosto» (collatio occulta), parla delle immagini poetiche, capaci di mostrare e nascondere allo stesso tempo: «Ma la cosa metaforizzata è altrove, però sembra che sia là; la cosa è fuori e là non compare; e appare dentro, ma dentro non c’è; cosí fluttua dentro e fuori, qua e là, lontano e vicino; distante e presente». Il secondo autore è Boncompagno da Signa (1170 circa-dopo il 1240). Per Boncompagno, la transumptio, che potremmo tradurre con «metafora», e cioè quel sistema espressivo che dice dissimulando, è addirittura al centro della Creazione: Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Spesso Boncompagno nella sua opera mostra di essere consapevole che ogni parola o espressione o immagine ha un significato evidente ma anche un altro, piú nascosto, e che proprio nel rapporto tra i due significati si crea un nuovo mondo, quello poetico.

I rebus del sommo poeta

L’opera sapienziale per antonomasia nella letteratura dell’Occidente è la Commedia di Dante. Le tre Cantiche sono cosparse di allusioni oscure. Vediamo qualche esempio. Negli ultimi due canti del Purgatorio, il XXXII e il XXXIII, Dante giunge nel Paradiso Terrestre e si ricongiunge finalmente con Beatrice: a questo punto gli vengono mostrate visioni apocalittiche che racchiudono alcuni dei momenti piú enigmatici di tutta la Commedia, ancora non chiariti definitiva-

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mente dai commentatori. Si tratta di veri e propri rebus: l’albero che si rinnova, il carro trainato dal grifone da cui scende Beatrice, l’aquila (che piomba dall’alto distruggendo sia l’albero che il carro), il drago, il gigante, la prostituta. In Purgatorio XXXIII, 46-51, Beatrice espone a Dante il significato delle visioni, ma anche la sua spiegazione è formulata in modo da risultare oracolare, sibillina, buia. Secondo un fine lettore quale è Peter Dronke, l’interpretazione piú comune, che vede in quelle figure un’allegoria delle condizioni della Chiesa, non rende giustizia della complessità di questi rebus, che per Dronke non racchiudono in sé solamente significati allegorici e dunque «esterni», ma hanno a che fare anche con il mondo interiore di Dante, sono immagini di «cose» fatte a sua immagine e somiglianza. Come aveva scritto Goffredo di Vinsauf, queste strane figure in processione rappresentano insieme «l’interno e l’esterno, il qua e il là». Questi rebus del Paradiso Terrestre celano insomma due universi enigmatici: il macrocosmo (la Chiesa) e il microcosmo (Dante), ovvero il mondo terreno e l’inconscio. I rebus dunque diventano anche insegna privata, misteriosa cifra autobiografica. Non diversamente, nel tardo Medioevo i cavalieri montavano sull’elmo cimieri enigmatici e fantasiosi, segni personali affidati a libere associazioni di immagini, spesso in forma di animali mostruosi, rebus esoterici che parlavano allusivamente, al mondo, del loro proprietario. Lo stesso avverrà, secoli dopo, nei quadri di De Chirico, rebus artistici silenziosamente sospesi nell’enigma, cosí compiuti nelle loro forme interrogative da essere presi a modello dagli illustratori dei giochi di rebus nelle riviste di enigmistica. Chiudiamo infine con un personaggio sconosciuto ma di gran (segue a p. 98)

Miniatura raffigurante Alcuino di York che presenta a Ogtario, vescovo di Magonza, il suo scolaro Rabano Mauro, che gli dedica i carmi sulla croce, dal manoscritto Fuldense. IX sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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Sulle due pagine esempi di figure tracciate con le parole: 1. carme figurato di Giuseppe Scoto (Berna, Burgerbibliothek); 2. carme figurato in forma di croce; 3. carme figurato in forma di croce, di Optatius Porfyrius (WolfenbĂźttel, Herzog August Bibliothek); 4. calligramma di Eugenio Vulgario (Bamberga, Staatsbibliothek). In basso natura morta con libro aperto, dipinto di scuola tedesca. XVII sec. Firenze, Galleria degli Uffizi.


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Grande fascino suscitavano testi leggibili anche come insiemi di punti da cui ricavare immagini

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Dossier fascino, Opicino de Canistris (12961350 circa), un chierico di Pavia che viveva come precettore, copista e miniatore, ossessionato dal peccato e dal timore di perdere la salvezza. A quarant’anni ha una crisi e vive dieci giorni di incoscienza; poi ha una visione della Vergine col Bambino, gli resta paralizzata la mano destra eppure riesce a eseguire un gran numero di disegni simbolici tra i quali la Chiesa, Cristo, gli Evangelisti, lo Zodiaco, animali vari, ma, soprattutto, quattro autoritratti che lo raffigurano a diverse età: a dieci, venti, trenta, quaranta anni. I disegni sono accompagnati da osservazioni e spiegazioni enigmatiche, associazioni vaghe e affastellate:

si è persa la chiave della soluzione, si scontrano invece logica e follia, fede e disperazione. Opicino spiega ogni avvenimento della propria vita in senso spirituale, ogni fatto è un’allegoria. Su ognuno degli autoritratti, sul petto, un medaglione raffigura una carta geografica dove l’Europa è rappresentata come la figura piegata di un uomo, chino su una donna,

Nella pagina accanto, a destra Il ritorno, olio su tela di René Magritte. 1940. Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts. In basso Amleto e Orazio al cimitero, olio su tela di Eugène Delacroix. 1839. Parigi, Museo del Louvre.

La mela di Amleto Che fai malato Amleto con una mela in mano Che fai mela di Amleto nella mano malata Che fai molesto Amleto matto della tua mela Che fai mela di Amleto destinata a letame Che fai letale Amleto masticando male Che fai mela di Amleto per metà malandata Che fai melato Amleto con una mela in meno? (Toti Scialoja, 1984)

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enigmistica e mistica

Affini ma diverse Il contrasto tra contrari, una figura retorica detta anche «ossimoro», è tipico degli enigmi, a partire da quello piú antico, un indovinello babilonese del II millennio a.C.: «È gravida senza concepire, ingrassa senza mangiare: la nuvola». Similmente, è un procedimento tipico delle «acutezze» barocche: «La nave, che guizza come pesce e non è pesce, vola come uccello e non è uccello, nata in terra, cammina in mare, porta gli uomini sicuri, benché sol quattro dita lontani dalla morte» (Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, del 1654, il quale afferma anche che l’enigma è «chiarezza nell’oscurità»). Ma è una tecnica utilizzata spesso anche nella mistica (e nello zen): la «tenebra luminosissima» dello Pseudo-Dionigi l’Aeropagita (Dionigi fu il primo vescovo di Atene e discepolo di san Paolo; gli si attribuivano testi mistici composti a partire dal VI secolo). Tuttavia, tra enigmistica e mistica c’è una differenza: la prima prevede lo scioglimento del contrasto, la seconda l’assenza di scioglimento, che provoca l’effetto di assurdo, di qualcosa di per sé incredibile, ma credibile solo per fede. Qui sopra la raffigurazione dell’Inferno, scomparto laterale destro del trittico del Giardino delle Delizie, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1490-1500. Madrid, Museo del Prado.

l’Africa; il Mediterraneo sembra un terribile e grottesco diavolo; poi ci sono Adamo ed Eva, il peccato. L’autore al centro del mondo e il mondo al centro dell’autore, l’uomo a forma di mondo e il mondo a forma di uomo... Cosí, attraverso l’osservazione delle cose, del mondo, a partire proprio dall’enigma, la cultura medievale ha imparato e insegnato a guardare dentro l’uomo: ricordate quelle righe di Borges nell’Epilogo di L’Artefice? «Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popo-

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la uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli, di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».

Un lungo percorso

Il nostro viaggetto attraverso la storia e la geografia dell’enigma medievale si arresta a questo punto: agli scrittori (a certi scrittori) medievali risulta chiara l’identificazione tra l’enigma e le «cose», e tra l’enigma e il testo; e risulta chiaro anche che le «cose» e il testo si identificano con quell’enigma irrisolto che siamo noi stessi. La vicenda dell’enigma nel Medioevo, cosí ricca di esperimenti mentali, è a sua volta

la prima tappa di un lungo percorso che ha portato innumerevoli scrittori, fino ai giorni nostri, a cercare di capire il mistero – e il fascino – per cui dentro le cose ci siamo noi. Forse estenuato da questa secolare ricerca, nell’ultima pagina delle sue Lezioni americane, Italo Calvino ha voluto rilanciare sommessamente una scrittura che torni alle cose, senza l’uomo: «Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un Io individuale, non solo per entrare in altri Io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica...».

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di Francesco Miraglia

Germania con rigore Incastonato in una posizione paesaggistica incantevole, il complesso monastico di S. Anna de aquis vivis, nel Casertano, fu teatro di vicende storiche importanti. Tra queste spicca, alla metà del Quattrocento, la decisione dell’abate di allontanare dal cenobio alcuni monaci, macchiatisi di comportamenti indegni. E cosí, nell’antica Terra Laboris, giunse un gruppo di irreprensibili confratelli tedeschi... Sulle due pagine Mondragone (Caserta), complesso monastico di S. Anna de aquis vivis. Scorcio esterno del sistema absidale della chiesa, oggetto di restauro negli anni 2002-2003 (in basso), e l’ingresso superstite.

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el territorio di Mondragone (Caserta), in Campania settentrionale, a pochi chilometri dai confini con il Lazio, a circa 280 m slm, si staglia imponente il monastero di S. Anna de aquis vivis, immerso in uno scenario bucolico di notevole fascino e in una posizione dalla quale si può abbracciare con lo sguardo buona parte di quella che fu un tempo la Campania Felix. Realizzato in ossequio alla Regola benedettina della Congregazione sublacense, il complesso religioso, è oggi purtroppo ridotto allo stato di semi-rudere: abbandonato per decenni, solo da pochi anni ha beneficiato di un primo, ma non risolutivo, intervento di restauro, limitato alle strutture della sola chiesa. Un tempo insediamento benedettino incardinato nella diocesi di Carinola, esso si adagia su un ampio terrazzamento, che domina il versante occidentale del monte Crestagalle, in un sito probabilmente già abitato in tempi remoti dalle popolazioni italiche e che, in seguito, fu un insediamento romano. La sua denominazione è riferibile alla presenza di una sorgente di acque perenni posta nelle immediate vicinanze, a cui la credenza popolare ha attribuito proprietà terapeutiche e curative per la sterilità femminile.

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La struttura era in origine scandita da vari corpi di fabbrica, con funzioni diverse, che offrivano un contesto funzionale organico, attraverso ambienti interconnessi e organizzati secondo le priorità della vita monastica. E di alcuni, nonostante i ripetuti crolli, è ancora possibile analizzare le caratteristiche architettoniche.

L’indulgenza per i costruttori

L’edificazione del monastero può essere collocata nella prima metà del XIV secolo e poté essere avviata grazie alla disponibilità di dodici moggi di terra incolta che Sancia di Maiorca, moglie di Roberto I d’Angiò, donò a frate Benvenuto da Sarzana, in una politica di concessioni che favoriva la crescita degli Ordini monastici nel territorio dell’antica Terra Laboris. Cosí, alle piccole celle per l’eremitaggio presenti nell’area, cominciarono ad aggiungersi altri ambienti: infatti, il vescovo di Carinola, Bonagiunta di Perugia, autorizzò i monaci a erigervi un vero e proprio monastero. Le fonti attestano che il cenobio fu tenuto in gran conto dai governanti del periodo angioino-durazzesco, tanto che, dalla seconda metà del Trecento, papa Urbano V arrivò a concedere indulgenza plenaria a chi avesse aiutato i monaci a co-

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MOLISE LAZIO

PUGLIA

Roccamonfina Carinola

Mondragone Caserta

Benevento CAMPANIA

Napoli

Avellino

Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri

Amalfi

Salerno

BASILICATA Eboli

Mar Tirreno Palinuro

struirlo e ne regolò anche i rapporti con il monastero sublacense. Giovanna II e poi Alfonso il Magnanimo elargirono donazioni alla struttura religiosa, dimostrando grande attenzione per le sue sorti. Nel 1467 il monastero fu ceduto dal cardinale Giovanni de Torquemada, commendatario del convento sublacense, alla comunità benedettina di Montecassino, piú vicina al territorio che lo ospitava. Abbandonato poco piú di un secolo piú tardi, a causa della presenza di ladri (come informa la relazione dell’allora vescovo di Carinola Vitelli), imboccò la via di una lenta ma inesorabile decadenza e i suoi possedimenti furono infine ceduti ai privati. Nel corso del Seicento venne

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sfruttato soprattutto per il ricovero degli armenti e anche vari malfattori se ne servirono per rifugiarsi, come si evince dalla relazione del vescovo dell’epoca. Solo a partire dal primo ventennio del XVIII secolo il cenobio fu oggetto di lavori di ristrutturazione, sotto la cura degli abati Gregorio II Galisio da Napoli prima e Nicola III Ruggi da Salerno poi. Oggi, grazie alla donazione da parte degli ultimi proprietari, avvenuta pochi anni fa, il sito – che si giova di un vincolo di protezione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo – è di proprietà ecclesiastica. L’evento storico piú importante, a ogni modo, è la presenza nel complesso religioso, sempre attestata dalle fonti, di monaci germanici. Nel 1363, infatti, fu nominato abate di Subiaco Bartolomeo III di Siena, il quale non esitò ad attuare un sostanziale ricambio tra i monaci, espellendo quelli non allineati alla Regola e chiamandone da altre nazioni, tra cui appunto la Germania. Cosí, sin dall’anno dopo, arrivarono in queste terre monaci tedeschi, che contribuirono a creare – sino agli albori del XVI secolo – una comunità culturalmente piú articolata. Anche la struttura di Mondragone fu raggiunta da monaci tedeschi, ai quali fu affidato il gravoso compito di sostituire alcuni confratelli, allontanati per comportamenti indegni. Ciò potrebbe spiegare le forme peculiari della chiesa annessa al monastero, che non trovano precedenti nella cultura costruttiva autoctona. Non è da escludersi, infatti, che i nuovi arrivati, coadiuvando i confratelli nella realizzazione della struttura sacra, avessero perpetuato soluzioni tipiche delle strutture monastiche europee del novembre

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Nella pagina accanto Mondragone e il territorio circostante visti dal monastero di S. Anna de aquis vivis, situato in posizione dominante sulla fascia pedemontana e litoranea verso ovest, potendo estendere la vista a nord e a sud. Sullo sfondo, l’isola d’Ischia. In questa pagina ricostruzione planimetrica del complesso monastico di S. Anna de aquis vivis: 1. cortile; 2. chiesa; 3. probabile sagrestia; 4. scala; 5. chiostro; 6. cisterna; 7. officine-depositi; 8. cortile minore; 9. terrazzo pergolato; 10. colombaia; 11. vasca grande; 12. antica strada di accesso.

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medioevo nascosto campania XII secolo. Composizioni architettoniche, dunque, sostanzialmente datate per il tempo in cui essi operarono, ma delle quali governavano con sapienza i caratteri costruttivi e stilistici, tuttora leggibili. Al cenobio si arriva grazie a un percorso oggi in gran parte percorribile in auto. Superata la ripida strada di accesso, dopo aver attraversato un varco arcato, ci si ritrova in un ampio cortile quadrangolare, a cui si affianca una corte piú piccola. Qui si staglia la chiesa, orientata in direzione est-ovest, a navata unica e culminante con tre absidi pentagonali. Alla struttura di culto era un tempo annesso un chiostro, intuibile dalle tracce murarie superstiti sui lati ovest, nord e sud. Arricchito dalla presenza di una cisterna, questo spazio aveva dimensioni contenute, ma evidentemente adeguate per la conduzione della vita monastica.

A destra veduta interna della chiesa. La teoria di volte a crociera ogivali crea un gradevole senso di profondità, nonostante le dimensioni contenute dell’edificio. Nella pagina accanto, dall’alto l’abside destra e l’abside sinistra della chiesa.

La scala scomparsa

Tornando alla chiesa, appare utile osservare che tra la navata e le absidi, con la centrale piú estesa delle laterali (in un rapporto di 1:1,5), è incardinato un piccolo transetto. I predetti ambienti sono tutti coperti con volte a crociera a sesto acuto. Sotto la prima campata si trova un ipogeo, in origine utilizzato per la tumulazione delle salme. Le pareti interne, prive di intonaco, non presentano decorazioni, eccezion fatta per piccole semicolonne agli angoli delle absidi, sovrastate da semplici capitelli in stucco. A nord della navata destra si apre un ambiente probabilmente destinato a sacrestia, al culmine del quale vi era una scala per accedere al livello superiore. Questa particolare articolazione planimetrica è confermata da un accurato rilievo seicentesco rinvenuto nell’abbazia di Montecassino, che presenta, tra altri ambienti, anche la suddetta scala, non piú esistente. Nel biennio 2002-2003, gli interventi di messa in sicurezza e consolidamento, riguardanti in particolare i contrafforti absidali e la muratura a essi collegata, hanno salvato l’edificio sacro da possibili e fatali crolli, pur non estendendosi alla salvaguardia del monastero nella sua totalità, come sarebbe stato auspicabile. Il complesso religioso è stato realizzato facendo ricorso a elementi spaccati di calcare; una caratteristica che ne conferma, in linea con le fonti documentarie, l’origine in un momento precedente al XV secolo, periodo in cui a Mondragone si cominciò a edificare utilizzando soprattutto l’ignimbrite campana, litotipo dominante nell’area, grazie alla coltivazione di un’estesa cava a cielo aperto alle falde del monte Petrino, nella località denominata «cementara», nei pressi del primo insediamento urbano della città. Rispetto al corpus funzionale del monastero, l’analisi delle murature ha consentito di ipotizzare una datazione piú tarda delle porzioni murarie poste a nord, che ospitavano officine e depositi, riferibili a intraprese costruttive del XVII

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In alto il fronte occidentale del complesso, con un palinsesto architettonico che attraversa almeno tre secoli. A sinistra la colombaia. Nella pagina accanto, in basso la vasca di raccolta delle acque vive.

secolo. Ne sono prova alcuni indicatori cronotipologici ben collaudati, come gli allineamenti orizzontali piú precisi e le sezioni murarie piú esili. A pochi metri dal complesso monastico si trova un’insolita e alta struttura (7,50 m circa), in gran parte destinata a colombaia e con questa denominazione nota alla cultura del luogo. È stata allestita, dal secondo livello in poi, facendo ricorso a mattoni in laterizio lasciati facciavista sul paramento esterno e intonacati su quello interno. Questa colombaia, sotto la quale è individuabile la sorgente delle acque «vive» da cui il complesso prende nome, impegna da diversi anni gli studiosi riguardo la sua datazione. Discretamente con-

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servata, è posta nei pressi di una vasca, terminale della fonte d’acqua. Presenta, su quattro livelli rastremanti verso l’alto, altrettante aperture archiacute, orientate secondo i punti cardinali e, sulla sommità, mostra piccole aperture a timpano per il ricovero dei colombi. Nonostante suggestive ipotesi che la vedrebbero originata da un cimento costruttivo di matrice medievale, con tutta evidenza è stata realizzata nel XIX secolo, ispirandosi allo stile gotico a seguito di una tipica operazione di revival. Non sono noti, infatti, riscontri documentari e tecnico-scientifici utili a suggerirne una datazione anteriore all’Ottocento. Diverso è il caso della base in pietrame calcareo su novembre

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cui la colombaia è stata eretta: delineata già nel citato rilievo seicentesco, essa è certamente anteriore ai livelli superiori e forse riferibile al XIV secolo, periodo che ha segnato l’avvio dell’edificazione del complesso monastico. A ulteriore conferma del rapporto stratigrafico, basti notare le differenziazioni che si registrano anche nelle caratteristiche geometriche dell’ogiva in calcare rispetto a quelle soprastanti in mattoni, che presentano un sesto maggiormente pronunciato. Del resto, la tecnica costruttiva della colombaia, struttura pensata a scopo ornamentale piú che funzionale, non presenta affinità con le fabbriche tardo-medievali del luogo, che, come detto in precedenza, sono caratterizzate dall’utilizzo del

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materiale calcareo, soppiantato in un secondo momento da quello tufaceo. Nell’area, infatti, non si rilevano, per la fase storica considerata, strutture in mattoni. Per strappare all’abbandono il complesso monastico di S. Anna e riconsegnarlo a una funzione dignitosa e rispettosa del suo valore culturale, è auspicabile venga avviato un intervento di restauro che non guardi esclusivamente alla salvaguardia del patrimonio costruito, ma che miri alla tutela dell’intero contesto architettonico e ambientale dell’area. Solo in questo modo si potrà conservare, insieme al cenobio, lo spettacolare scenario che da secoli lo accoglie, rappresentando un unicum irripetibile.

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Monaci e buongustai di Sergio G. Grasso

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ll’indomani della caduta di Roma, pestilenze, terremoti e inondazioni gettarono la Penisola in uno stato di costernazione mai sperimentato prima. Nel pieno di una opprimente crisi militare, sociale e politica e all’alba della lunga guerra che opponeva l’impero bizantino agli Ostrogoti (535-553), nell’abbazia di Montecassino Benedetto da Norcia redigeva la sua Regula monachorum, ispirandosi alla Regula Magistri, scritta almeno vent’anni prima da un anonimo che potrebbe essere anche lo stesso Benedetto. In un prologo e settantatré capitoli, la Regola benedettina dettava i valori e i principi del cenobitismo, una nuova forma di fuga mundi, ma in una vita monastica comunitaria molto diversa dall’eremitismo misantropo praticato fin dal III secolo da monaci asceti, anacoreti e stiliti in Egitto e Palestina. Da quasi quindici secoli, la Regola scandisce la vita del monaco in armonie quotidiane di lavoro, preghiera personale e liturgia collettiva, da conseguire con obbedienza, silenzio e umiltà. Gli aspetti relativi all’alimentazione nel cenobio – oggetto dei capitoli 39 e 40 – esortano gli abati e i confratelli a realizzare tre finalità: dominare le tentazioni della gola, essere coerenti con il voto di povertà e animare l’attività spirituale e lavorativa. Pare quasi che Benedetto provi un senso di disagio nel precisare la

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misura del cibo quando antepone la locuzione «sufficere credimus» («riteniamo sufficiente») alla descrizione del vitto quotidiano cosí inteso: due piatti caldi con eventuale supplemento di legumi ed erbe, una libbra (800 gr circa) di pane e un’hemina (circa 1 quarto di litro) di vino; i monaci malati, anziani e giovani possono essere dispensati dal seguire questo regime a discrezione dell’abate. La cadenza dei pasti veniva cosí stabilita: − due refetiones (ora sesta e prima del tramonto) nei giorni senza digiuno, ovvero in tutte le domeniche e le feste, nel tempo pasquale e da Pentecoste al 13 o 14 settembre, eccetto il mercoledí e il venerdí; − solo coena a ora nona nei giorni di digiuno moderato, ovvero i mercoledí e i venerdí da Pentecoste al 14 settembre e in tutti i giorni feriali dal 13 o 14 settembre fino a Quaresima; a discrezione dell’abate poteva essere somministrato un secondo pasto in caso di gran caldo e lavoro eccezionale nei campi; − un solo pasto a vespro nei giorni di digiuno stretto (mercoledí e venerdí) e durante la Quaresima.

Una privazione significativa Esclusi i giorni di digiuno, Benedetto non impone la privazione generica dalle carni, ma esorta ad astenersi dal consumare quelle dei quadrupedi: «Carnium vero quadrupedum omnimodo ab omnibus abstineatur comestio»

(«Tutti si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi»). La privazione della carne «da pascolo» simboleggiava la rinuncia alla società dei ricchi e dei nobili per la quale quella era alimento principale, ma significava anche l’abbandono della sessualità che la medicina ippocratica riteneva stimolata da quel cibo rosso di natura «calda e umida». Inibire il consumo di quelle carni sanciva novembre

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l’utilità di buoi, asini e cavalli per il lavoro, di vacche e giumente per la produzione di latte, di pecore e capre per la loro lana e ancora per il latte. Quanto al maiale, il giudizio morale dell’epoca lo identificava con la sporcizia, il vizio, l’indecenza, l’ingordigia e gli sfrenati appetiti sessuali: attributi capaci di minare la serenità interiore dei monaci e alcuni dei quali, un secolo piú tardi,

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entrarono negli istituti fondativi dell’Islam. Con l’esclusione delle sole carni di quadrupedi, Benedetto autorizzava implicitamente il consumo degli animali «che camminano su due gambe», dunque gli uccelli, che secondo la Scrittura, furono creati insieme ai pesci, entrambi di natura «fredda e secca», quasi delle «non-carni», alleate della castità. La Regola prevedeva che i pasti

Asciano (Siena), Chiostro Grande dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore. San Benedetto ottiene farina in abbondanza e ne ristora i monaci, affresco facente parte del ciclo che illustra la vita del santo, iniziato da Luca Signorelli e portato a termine nel 1505 dal Sodoma.

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giornalieri fossero serviti e consumati da tutti i confratelli nel refettorio dell’abbazia. Tuttavia, in barba al principio di uguaglianza ed equità tra monaci, accadeva talvolta che si prendesse del cibo «clandestino» fuori dalla mensa comunitaria, in privato, nelle celle o negli orti. All’epoca di Enrico IV, alcuni monasteri destinatari di importanti lasciti testamentari, avevano accumulato grandi ricchezze. La gestione di sterminati latifondi parve far dimenticare agli Ordini l’austerità delle origini, spingendoli a esercitare all’ombra dei chiostri negotia illicita, vilia officia, gula et luxuria e addirittura pratiche alchemiche. Abati provenienti da famiglie aristocratiche in cui dovizia, varietà e lussuosità della tavola

erano di prammatica, interpretavano la Regola di Benedetto in modo tutto personale, tollerando e addirittura autorizzando il consumo di timballi, polpette, pasticci di carne e frattaglie. Si conoscono anche casi in cui gli abati furono costretti a elargire grandi quantità di cibo a comunità di 80 o 100 frati, al solo scopo di evitare violente rivolte interne. Tra le molte testimonianze giunte fino a noi, va annoverata quella del benedettino Jocelin de Brakelonde, cronista, tra il 1180 e il 1211, della piú importante e ricca abbazia benedettina d’Inghilterra, quella di Bury St Edmunds, nel Suffolk. Il suo abate, Adam Samson, è passato alla storia come un monaco colto, ma irascibile e determinato, piú attento alle ricchezze materiali che

A sinistra capolettera raffigurante un monaco che assaggia il vino contenuto in una botte, dalla quale lo sta spillando per riempire una caraffa, da un’edizione de Li Livres dou Santé. XIII sec. Londra, The British Library. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un mastro birraio, dall’Hausbuch der Mendelschen Zwölfbrüderstiftung (Registro della Fondazione Mendel dei dodici fratelli). 1425 circa. Norimberga, Stadtbibliothek.

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alle necessità spirituali. Per Samson, la definizione benedettina di «carne» andava limitata ai soli tessuti muscolari dei quadrupedi, e non era in contrasto alla Regola il cibarsi di interiora e parti grasse, salumi e salsicce, carni essiccate, zampetti, lingue, stomaci ripieni di frattaglie (haggis) o budella di pecora farcite di pane e birra (humbles). L’arcidiacono cambro-normanno di Brecon, Gerardo di Wales, contemporaneo di Jocelyn, deplorava amaramente che nei refettori di molte abbazie comparisse regolarmente la pancetta affumicata (bacoun), interpretata non come carne di maiale, ma come «qualcosa che gli sta d’intorno». La lista delle presunte «non-carni» suine si arricchiva in inverno dopo la macellazione dei maiali e nelle settimane a cavallo del Natale comparivano nei refettori salsicce di visceri, pasticci di fegato, interiora porcine, sanguinacci e blood puddings, confezionati con parti di rapida deperibilità.

L’esortazione del papa Nel 1215, colpito dal rilassamento dei costumi di molti cenobi, papa Innocenzo III esortò i vescovi a vigilare su di loro e a riunire annualmente tutti gli abati della diocesi in «Capitolo» per accertarsi che la Regola fosse correttamente rispettata. Non senza manifestare qualche dissenso per questa palese perdita di autonomia, gli abati si adeguarono al nuovo sistema di controlli e rientrarono almeno temporaneamente nei ranghi. Ciononostante, negli anni immediatamente successivi alla Peste Nera – che uccise un terzo della popolazione europea tra il 1347 e il 1352 –, prese piede, non a caso, lo stereotipo popolare del monaco ghiottone, grasso e indulgente. Se ne approprierà per secoli anche la letteratura: da Frate Tuck – il paffuto compagno di Robin Hood impegnato a difendere gli oppressi dalle angherie dello Sceriffo di

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Notthingam – all’immaginario dei «fratacchioni» obesi descritti da Umberto Eco ne Il nome della rosa. Il sostantivo «obeso» compare in italiano per la prima volta nel XVI secolo e deriva dal latino obesum composto da esum, participio passato di edere (mangiare) con il prefisso ob (a causa di). I fattori che determinano l’obesità sono solitamente correlati al rapporto tra la quantità di cibo ingerito, il

metabolismo e l’attività fisica di qualsiasi animale. Nel caso dei monaci del tardo Medioevo la pinguedine e l’adiposità erano l’esito ineluttabile di una dieta stimata in 6000 kCal giornaliere – quasi il triplo dell’apporto calorico richiesto dal nostro corpo – ridotte a 4500 kCal nei periodi di «digiuno». Questo eccesso alimentare trova conferma in una ricerca medico-forense condotta tra il 2000 e il 2003 da Philippa

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CALEIDO SCOPIO Patrick dell’Istituto di Archeologia dell’University College di Londra su centinaia di scheletri di monaci.

Appetiti... esagerati Datate al XIII-XV secolo e inumate nei cimiteri londinesi delle abbazie benedettine di St Mary Graces, e Bermondsey e del priorato agostiniano di Merton, le ossa hanno evidenziato una diffusa percentuale di scheletri (oltre 55%) riconducibili a situazioni di obesità imputabili a un’alimentazione eccedente anche cinque volte il fabbisogno massimo di grassi animali saturi (strutto, sugna, lardo, burro e formaggi), a cui si aggiungeva un grande quantità di carboidrati (pane, legumi, miele), dosi non modeste di alcool (vino, birra, sidro) e una scarsa attività fisica. Il medesimo studio, sulla base di documenti dell’epoca, ha permesso di ricostruire i septimanariis coquinae di un’abbazia cistercense del XIV secolo: − tra le 11 e le 13: mezzo chilo di pane, tre pinte di birra e tre uova lesse o fritte in lardo per ogni confratello, quindi: minestrone vegetale, costolette di maiale con pancetta e montone, capponi e oche allo spiedo, anatre con arance amare, frutta di stagione e crema dolce all’uovo; − tra le 16 e le 18: mezzo chilo di pane, quattro pinte di birra, due

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A destra l’abbazia benedettina di Bermondsey in una stampa ottocentesca. In basso stoviglie e utensili da cucina. Epoca tardo-medievale. Londra, Museum of London.


Lo scaffale Ivana Ait e Anna Esposito (a cura di) Vivere la città. Roma nel Rinascimento Viella, Roma, 292 pp.

30,00 euro ISBN 9788833132914 www.viella.it

pinte di vino e una ciotola di orzo al lardo per ogni confratello, quindi: arrosto di montone con aglio e cipolle, anguille in umido, aringhe, luccio, delfino, lamprede, salmone, trote e merluzzo, selvaggina con frutta di bosco e crema fredda di latte e fichi. Dei 300 scheletri esaminati, quelli dei monaci piú giovani non presentavano segni allarmanti di sindromi metaboliche da sovralimentazione, al contrario di quelli degli individui piú anziani, che venivano quasi sempre dispensati dai lavori nei campi e negli orti a favore di occupazioni sedentarie: amanuensi, miniaturisti, apicoltori, erboristi, farmacisti, infermieri o educatori. La mancanza di attività fisica, sommata a un’alimentazione ipercalorica e squilibrata, era causa non soltanto dell’obesità, ma anche di una serie di patologie

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correlate al peso, come l’artrite articolare diffusa (ginocchio, gomiti e dita), la spondilite anchilosante, e importanti deformazioni spinali (discopatie, fratture vertebrali e iperostosi). È implicito che in questi soggetti i problemi cardiovascolari e il diabete non lasciavano scampo. Tra i metodi per convincere i monaci a evitare l’ingordigia e l’obesità è degno di nota quello adottato dai cistercensi portoghesi dell’abbazia di Alcobaca, la cui enorme cucina fu descritta da William Beckford come «il piú raffinato tempio della gola di tutta Europa»: i monaci accedevano al refettorio attraverso una porta molto stretta e chi non riusciva a passare perché troppo grasso era costretto a digiunare: una meritata penitenza per espiare il meno malvagio dei vizi capitali.

Nonostante il fervore di studi che ha avuto per tema negli ultimi decenni la Roma tardo-medievale, fulcro di un flusso immigratorio proveniente da ogni parte d’Europa, è rimasta nell’ombra la vita quotidiana nella metropoli, approfondita da questo libro attraverso i temi piú diversi: dalla struttura delle abitazioni (palazzi nobiliari, case di S. Pietro in Vaticano), alla tipologia dei consumi (taverne, alberghi, derrate alimentari); dal lavoro (tecnici, manovali, operatori nella pubblica mministrazione), agli orti cittadini; dall’insegnamento, alla preghiera e all’assistenza; dalle feste pagane, alle cerimonie religiose cristiane. Gli atti notarili, i registri doganali, i libri di conti di piccoli artigiani, le controversie giudiziarie, le vite dei santi e gli affreschi che le illustrano, le suppliche alla Camera Apostolica, costituiscono le fonti (in passato poco sfruttate), su cui si basa il volume. Fonti che rendono

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale visibile ciò che non lo era: il commercio a breve raggio di piccoli artigiani e contadini che portavano in città i loro modesti prodotti da vendere nei mercati; quello di santini e immagini sacre; le difficoltà di pellegrini giunti a Roma e rimasti senza mezzi di sussistenza; le strategie imprenditoriali degli osti e degli operatori nel settore alberghiero che riuscirono ad accumulare ingenti fortune; l’importanza delle attività agricole e pastorali urbane e suburbane per l’economia della città; particolari e dettagli del lavoro nell’edilizia e nella pubblica amministrazione. Ne emerge il quadro di una città verdissima, punteggiata di orti e vigne protetti dall’estesissima cinta muraria romana, e favoriti dall’abbondanza di acque. Un peculiare ambiente rurale intraurbano di cui si giovava sia l’economia familiare, sia quella di chiese e conventi, dando vita a un brulicare di attività agricole complementari al loro lavoro, da parte di piccoli artigiani e affittuari dei monasteri. Un quadro che non venne mutato neppure

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dal fervore edilizio seguito al ritorno dei papi da Avignone. Per altro verso, la grandiosità e la molteplicità dei cantieri papali del secondo Quattrocento, che si giovavano di tecnici specializzati provenienti da tutta la Penisola, favorí il costituirsi di un’organizzazione amministrativa centralizzata, imperniata anch’essa su personale di alta specializzazione. Nei cantieri romani architetti, ingegneri, maestri muratori e scalpellini, minimamente controllati dalle corporazioni, poterono esprimere al meglio la propria creatività. Intorno a queste fabbriche andò coagulandosi una filiera sociale e professionale composita, che andava ben oltre i confini della tradizionale bottega artigiana, per articolarsi in una miriade di subappalti diversi, suddivisi tra architetti, capomastri, mercanti. Un universo in cui la continua domanda di edifici faceva della flessibilità nell’ambito lavorativo del cantiere uno dei suoi punti di forza. Una città dove, nel corso del

Quattrocento, si andò consolidando la già fortissima burocrazia amministrativa; dove esistevano, accanto a quelli privati, maestri di grammatica retribuiti a spese pubbliche; dove, tra Quattro e Cinquecento, per far fronte al dilagante pauperismo, si andarono riorganizzando le pratiche di soccorso, mediante una razionalizzazione degli interventi caritativi, per cui l’elemosina assunse un’inedita dimensione pubblica, trasformando la misericordia in tecnica di governo; dove nel corso del Quattrocento si moltiplicarono cerimonie religiose e festeggiamenti profani sempre piú sontuosi, organizzati sia dalle autorità ecclesiastiche, sia da quelle laiche, con lo scopo precipuo di ottenere il favore della popolazione. Maria Paola Zanoboni Lucia Arcifa, Mariarita Sgarlata (a cura di) From polis to madina La trasformazione delle città siciliane tra Tardoantico e Alto Medioevo Edipuglia, Bari 380 pp., ill. b/n e col.

50,00 euro ISBN 978-88-7228-912-9 https://edipuglia.it/

Il volume inaugura la collana «Themata», che pubblicherà monografie e atti di convegni internazionali, dedicati agli studi bizantini. I contributi ribaltano il pregiudizio della Sicilia come terra feudale e, attraverso l’analisi di numerosi contesti urbani, riportano l’attenzione sul vivace universo delle città. Da Siracusa a Palermo, da Messina ad Agrigento, da Catania a Taormina, in un ideale viaggio da ovest verso est, i saggi hanno un duplice obiettivo: da un lato, offrire rinnovate riflessioni sulla rilevanza demografica, economica e sociale delle comunità locali della Sicilia medievale; dall’altro, delineare un programma di intervento, esplicitando i vuoti della ricerca e suggerendo spunti per la programmazione futura. Se, infatti, l’archeologia urbana siciliana è stata a lungo disattenta alle fasi post-classiche, in particolar modo per la peculiare e diffusa continuità di vita degli spazi urbani dalla colonizzazione greca in poi, gli autori si concentrano ora sulle fasi di vita tardo-antica e proto-bizantina,

mediobizantina e islamica. Gli studi sono arricchiti dai risultati delle recenti indagini archeologiche e documentarie su impianti produttivi, cultura materiale, nuove forme dell’edilizia, strutture difensive, ma anche gestione dell’acqua e delle risorse ed evidenziano le discontinuità e le persistenze, i riusi e gli stravolgimenti, la dialettica tra spazi pubblici e spazi privati, l’emergere dei nuovi poteri urbani. In un continuo e proficuo confronto con la storia mediterranea, si riflette, inoltre, sulla sopravvivenza delle antiche fondazioni, l’impianto di nuovi kastra, le cosiddette «città di insuccesso» e – in particolar modo per Palermo, ma non solo – sul processo di islamizzazione di centri urbani, fino all’emergere delle élite normanne. Giampiero Galasso novembre

MEDIOEVO




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