Medioevo n. 284, Settembre 2020

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IL G F U M EST BB ED IV I IO AL O EV DE O L

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

DEL

UNA BEVANDA AL CENTRO DELLA VITA

BEVAGNA IL RITORNO DELLE GAITE

www.medioevo.it

DIVINA COMMEDIA IL MISTERO CASELLA VITERBO ALLA RICERCA DEL SEPOLCRO SCOMPARSO RAIMONDO LULLO UN MISSIONARIO IN TERRA DI SPAGNA www.medioevo.it

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Mens. Anno 24 numero 284 Settembre 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 284 SETTEMBRE 2020

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 3 SETTEMBRE 2020



SOMMARIO

Settembre 2020 ANTEPRIMA MEDIOEVO INVENTORE La seconda rivoluzione agricola

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MOSTRE L’assistenza come un’impresa

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APPUNTAMENTI Medioevo Oggi L’Agenda del Mese

14 28

MUSEI Benozzo superstar

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SCOPERTE Un capolavoro del Made in Italy

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58 RELIGIONE

RESTAURI Francesco e la Clarissa che non c’era

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PALEOPATOLOGIA Trapassati illustrissimi

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Raimondo Lullo

Due menti «pericolose» di Alessandro Bedini

58

COSTUME E SOCIETÀ

STORIE

TRADIZIONI Bevagna Nell’Olimpo della rievocazione

DIVINA COMMEDIA

Frammenti di un discorso amoroso

Casella

Il cantore misterioso di Franco Suitner

di Franco Franceschi

66

di Antonio Carlo Ponti

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36

PROTAGONISTI

Ruggieri degli Ubaldini

Non c’è pace per il vescovo di Gianpaolo Serone e Luca Salvatelli

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66 CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Tonnare indietro non si può 108

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LIBRI Lo scaffale

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Dossier

IL VINO NEL MEDIOEVO

Leviamo in alto i calici... di civiltà! 83 di Yann Grappe


IL G F U M EST BB ED IV I IO AL O EV DE O L

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DEL

UNA BEVANDA AL CENTRO DELLA VITA

BEVAGNA

DIVINA COMMEDIA IL MISTERO CASELLA VITERBO ALLA RICERCA DEL SEPOLCRO SCOMPARSO RAIMONDO LULLO UN MISSIONARIO IN TERRA DI SPAGNA

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MEDIOEVO n. 284 SETTEMBRE 2020

MEDIOEVO

IN EDICOLA IL 3 SETTEMBRE 2020

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Hanno collaborato a questo numero: Silvia Battistini è conservatrice delle Collezioni Comunali d’Arte, Bologna. Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Franco Franceschi è professore associato di storia medievale presso l’Università di Siena. Yann Grappe è storico e gastronomo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Antonio Carlo Ponti è scrittore e giornalista. Stefania Romani è giornalista. Luca Salvatelli è docente di storia dell’arte. Gianpaolo Serone è responsabile del settore editoriale di Archeoares e del Museo dei Facchini di Santa Rosa, Viterbo. Franco Suitner è professore ordinario di letteratura italiana all’Università degli Studi Roma Tre.

29/07/20 11:16

MEDIOEVO Anno XXIV, n. 284 - settembre 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e pp. 84/85) e pp. 5, 14 (alto), 19 (sinistra), 25, 55, 58, 60-63, 83, 86-106, 109 (basso), 110 (alto) – Cortesia Parma Infrastrutture SpA: pp. 6, 7 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 7 (basso, a sinistra), 8 (basso), 10, 50 – Cortesia Roberto Spocci: pp. 7 (basso, a destra), 8 (alto), 9 – Cortesia Festival del Medioevo: Paolo Panfili: pp. 1517 – BeGo, Museo Benozzo Gozzoli, Castelfiorentino: pp. 18, 19 (destra), 20 – Philadelphia Museum of Art: Bequest of Carl Otto Kretzschmar von Kienbusch, 1977: p. 22 – Cortesia Ufficio Stampa: p. 23 – Archivio della Divisione di Paleopatologia, Università di Pisa: p. 24 (basso) – The Walters Art Museum, Baltimora: p. 24 (alto) – Bridgeman Images: pp. 36/37 – Mondadori Portfolio: Album: p. 38; AKG Images: pp. 39, 45; Album/Prisma: pp. 40/41, 44/45; Electa/Marta Carenzi: p. 41; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 42-43; Album/Fine Art Images: p. 46; The Print Collector/ Heritage Images: pp. 48/49; Album/Tolo Balaguer: pp. 59, 64/65 – da: Il Villani illustrato, Firenze 2005: p. 51 – Cortesia Daniele Stampatori: p. 52 – Cortesia Luca Della Rocca: pp. 52/53 – Biblioteca degli Ardenti, Viterbo: p. 54 – Cortesia Ente Gaite, Bevagna: pp. 66/67, 73, 75 (alto e centro); Giovanni Galardini: p. 72 – Shutterstock: pp. 68-69, 70/71, 72/73, 74/75, 75 (basso), 76-81, 108/109, 110 (basso) – Stefano Mammini: pp. 109 (alto), 110/111, 112 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 70.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Il pranzo degli agricoltori, olio su tela di Diego Velázquez. 1618. Budapest, Museo di Belle Arti.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente costume e società

La paura del Medioevo

mediterraneo

Genova e Venezia in lotta

dossier

FERRARA Magnifica capitale degli Estensi


MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini

La seconda rivoluzione agricola

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iosuè Carducci contribuí in modo significativo al mito della psicosi apocalittica dell’Anno Mille, una visione da tempo corretta dagli storici, primo fra tutti Georges Duby, con il suo celebre L’anno Mille (1976) prima e poi con il libro-intervista Mille e non piú Mille (1994). Cosí aveva scritto il poeta nel primo dei Discorsi sullo svolgimento della letteratura nazionale (1868-1871): «V’immaginate il levar del sole nel primo giorno dell’anno Mille? Questo fatto di tutte le mattine ricordate che fu quasi un miracolo, fu promessa di vita nuova, per le generazioni uscenti dal secolo decimo? E che stupore di gioia e che grido salí al cielo dalle turbe raccolte in gruppi silenziosi intorno a’ manieri feudali, accasciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e nei chiostri, sparse con pallidi volti e sommessi mormorii per le piazze e alla campagna, quando il sole, eterno fonte di luce e di vita, si levò trionfale la mattina dell’anno Mille!». In realtà, proprio allora iniziava, in silenzio e lentamente, una delle piú grandi rivoluzioni economiche dell’Occidente: gli uomini cominciavano a preparare i campi durante l’inverno e, dopo aver concimato il terreno talvolta ancora parzialmente coperto dalla neve, seguiva l’aratura. Il modello di aratro ereditato dall’antichità (aratro leggero) smuoveva la terra, tracciando un solco e dividendo il terreno in due parti simmetriche, grazie a una punta di legno rinforzata da una terminazione in ferro (coltro). La grande innovazione giunse con il cosiddetto aratro «pesante», in grado di penetrare in profondità, rovesciando la zolla (gleba) e ossigenando cosí l’humus: al vomere verticale che

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Miniatura raffigurante l’aratura di un campo, dal Salterio Luttrell. 1325-1335 circa. Londra, The British Library. tagliava il terreno in profondità, si andava ad aggiungere un pesante versoio asimmetrico, una lama ricurva in grado di rovesciare, vertere (da cui versoio), parte del terreno su un lato del solco appena scavato. Come dice il nome, si trattava di uno strumento molto pesante – e molto costoso, data la quantità di ferro utilizzata – che necessitava di buoi, cavalli o muli. Per poterlo trascinare, però, furono necessari vari accorgimenti, tali da non strozzare l’animale: innanzitutto il collare a spalla rigido, utilizzato in Nord Europa per aggiogare i cavalli. In questo modo, rispetto al sistema ereditato dall’antichità, al momento del massimo sforzo, la potenza di traino dell’animale aumentava di ben otto volte, passando da circa 500 a 4000 chilogrammi. Oltre a ciò, si iniziarono a ferrare gli zoccoli dei buoi e dei cavalli, rendendo la loro andatura piú stabile e sicura e rallentando l’usura degli zoccoli stessi. I costi elevati dell’aratro pesante crearono poi una frattura all’interno del mondo contadino tra coloro, piú agiati, che potevano permettersi l’ultima novità (e che si sarebbero anche arricchiti di piú), rispetto ai meno abbienti, trasformando definitivamente il mondo agricolo bassomedievale. Si apriva un inedito mercato di contrattazioni tra i proprietari dei campi e i contadini che lavoravano la loro terra: con il sorgere dell’anno Mille, tramontava l’antico latifondo.

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ANTE PRIMA

L’assistenza come un’impresa MOSTRE • Agli inizi del Duecento, nacque a Parma

un hospitale d’impronta «moderna», che però, come tale, ebbe vita breve. La storia del complesso, fatta di ripetute modifiche e ristrutturazioni, viene ora ripercorsa da un progetto espositivo curato da Studio Azzurro

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ra le iniziative organizzate nell’ambito di Parma Capitale italiana della cultura 2020+21, la rassegna multimediale Hospitale. Il futuro della memoria, allestita da Studio Azzurro all’Ospedale Vecchio, offre l’occasione per approfondire il ruolo di primo piano rivestito nei secoli dall’istituzione, che curava pellegrini, infermi, feriti, orfani, trovatelli. Dal 2015 l’edificio è

oggetto di un programma che gli ha regalato una nuova centralità: dopo il restauro, ospita l’Archivio Bertolucci, la rinnovata sede della Biblioteca Civica e dell’Archivio di Stato, mentre a breve accoglierà altre associazioni e un museo multimediale. Fra i piú antichi del Paese, l’hospitale sorse nel quartiere dell’Oltretorrente all’inizio del Duecento e, nel corso del XV secolo,

In questa pagina l’Ospedale Vecchio di Parma durante i recenti interventi di ristrutturazione e consolidamento. fu sostituito da un’architettura, destinata a fungere da casa di cura cittadina fino al 1926. Fra il 1201 e il 1202 Rainerius Frontis investí Rodolfo Tanzi, a nome dei poveri, di una sua proprietà in Borgo Tascherio, un’area a forte crescita demografica, che sarebbe rientrata nella cerchia muraria solo qualche anno piú tardi. Il fermento dell’età comunale portava a costruire opere civili con finalità sociali in una zona, danneggiata dell’alluvione del 1177, nella quale operavano già altri quattro enti assistenziali.

Una fitta rete di strutture «Del resto – spiega Maria Ortensia Banzola, alla quale si devono una monografia e numerosi interventi sul tema – nel Parmense, lungo le vie di pellegrinaggio piú battute, esistevano xenodochi per pellegrini, infermerie e foresterie di monasteri, a cui si erano sovrapposte le fondazioni di ospedali da parte di Ordini militari e cavallereschi. L’ospedale di Rodolfo Tanzi è da considerarsi però innovativo, precursore dei nuovi istituti ospedalieri, perché a Parma è il

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In questa pagina un’altra immagine dell’Ospedale Vecchio cosí come si presentava al momento dei lavori di consolidamento della struttura e, in basso, una foto degli inizi del Novecento (a sinistra) quando era ancora in funzione come nosocomio, e in uno scatto piú recente, che ne mostra la facciata.

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ANTE PRIMA

Otto secoli in otto schermi Da sabato 5 settembre e fino al prossimo 8 dicembre è aperta al pubblico l’installazione Hospitale. Il futuro della memoria, pensata da Studio Azzurro per la crociera dell’Ospedale Vecchio di Parma, edificio che riassume la storia sanitaria della città. La narrazione multimediale ripercorre le vicende della struttura dall’inizio del Duecento al secolo scorso, attraverso immagini sincronizzate, video, riproduzioni, racconti che si avvicendano su otto grandi superfici tessili trasformate in altrettanti schermi. Orario tutti i giorni, 10,00-19,00; sabato, 10,00-22,00; chiuso il lunedí Info www.parma2020.it; www.visitemilia.com

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primo fondato e amministrato da un laico, dotato di spiccate capacità imprenditoriali». Già nel 1208 il complesso godeva di autonomia idrica, grazie alle acquisizioni di Rodolfo: le acque hanno un ruolo centrale nella storia del nosocomio, che nel 1320 venne esentato dalle tasse sui mulini, mentre da Paolo III Farnese ricevette addirittura un terzo dei dazi versati dalle navi merci per il passaggio lungo il Po.

Una chiesa per i ricoverati La struttura doveva avere al suo interno un luogo di culto, tale da non entrare in conflitto con le parrocchie vicine: alla chiesa accedevano, oltre ai ricoverati, solo conversi e converse, laici che avevano scelto la vita collettiva, seguendo la Regola di sant’Agostino. La comunità era sottoposta al vescovo di Parma, ma aveva la facoltà di nominare il religioso che la guidava. Nell’hospitale soggiornavano Nella pagina accanto due immagini che documentano l’utilizzo di parte dell’Ospedale Vecchio come sede dell’Archivio di Stato di Parma. In questa pagina la facciata e il portico dell’edificio, che si affaccia su strada Massimo d’Azeglio, l’arteria che corrisponde al tratto urbano della via Emilia.

poveri, malati e numerosi fanciulli abbandonati dalle famiglie, gli «esposti», che, dopo il periodo di balia, rimanevano al Tanzi fino al matrimonio o alla collocazione nel mondo del lavoro. Attorno alla figura di Rodolfo aleggia ben presto il mito del cavaliere di un Ordine teutonico. Le testimonianze scritte del Duecento lo definiscono un laico che opera in nome dei poveri, secondo un impulso condiviso all’epoca da chi non intendeva affiliarsi a istituzioni religiose o secolari. I confratelli parmensi facevano voto di povertà, castità e obbedienza: agli inizi del XIV secolo nella struttura d’Oltretorrente c’erano 20 uomini e 6 donne, ma nell’ente autogestito contava il voto dei soli maschi. L’ospedale si ampliò, grazie a una buona gestione, come si evince dall’inventario dei beni redatto nel 1330 dal rettore Giovanni da Solignano, che fornisce informazioni preziose anche sull’organizzazione

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ANTE PRIMA A sinistra Prospetto dell’Ospitale della Misericordia (particolare), acquerello di Alessandro Sanseverini. Inizi del XIX sec. Parma, Archivio di Stato.

A destra particolare del cancello d’ingresso dallo scalone all’Ospedale Vecchio sul quale si legge la data 1784.

interna del complesso. A settentrione dell’odierna strada Massimo d’Azeglio, tratto urbano della via Emilia, erano collocati l’ospedale, la chiesa di S. Antonio, il cimitero; nella parte maschile, con 72 letti, erano ricoverati pellegrini, viaggiatori, poveri e malati, mentre alle donne era dedicata una sezione separata, su un altro lato, con l’apertura su una piccola corte; il reparto, in cui lavoravano undici consorelle, era dotato di 91 materassi. La casa di cura funzionava come una curtis, che produceva per la collettività interna e per l’esterno. Attorno al chiostro degli uomini, a nord si snodavano edifici di servizio, come forno, cucine, refettori per i confratelli e i lavoratori, poi le cantine e il ricovero per i maiali; a est le stalle dei buoi, un orto di tre biolche e i ripari per legna e fieno. «Considerate le

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modalità di vita della confraternita – osserva Branzola –, si può supporre un impianto distributivo assimilabile alla tipologia delle prime strutture ospedaliere di origine conventuale, con corpi di fabbrica articolati attorno a cortili interni, probabilmente porticati».

I primi segnali di crisi Dall’elenco delle proprietà si delinea il profilo di un ente ricco, che si estende in una vasta zona cittadina. Dalla fine del Trecento, però, il modello assistenziale entra in crisi, anche per le difficoltà legate a interferenze di gruppi diversi; nel 1414 un’alluvione che travolge l’Oltretorrente rende inutilizzabili tutti gli edifici, tranne la chiesa di S. Antonio. Nell’ottica di una riforma, che aveva già coinvolto Cremona e Milano,

il pontefice Sisto IV, con la Bolla del 1471, decise, per ottimizzare le attività di assistenza, di accorpare i tanti ospizi parmigiani nel nuovo Ospedale Grande, che si sostituí quindi a quello del Tanzi. Vide cosí la luce una nuova istituzione, incarnata da un’architettura rinascimentale avviata nel 1476, con il portico di facciata e una pianta a croce latina con cupola che facilitava la sorveglianza delle corsie da parte del personale. Oggetto di ristrutturazione nel Settecento, sotto il dominio francese venne adibito alla cura di malati, e in parte trasferito, per rimanere nosocomio cittadino fino al 1926. Da allora viene chiamato Ospedale Vecchio e usato per depositi, magazzini, abitazioni, laboratori. Stefania Romani settembre

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ANTE PRIMA

Presidenti a confronto N

el ricco programma della XXIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum sono comprese le Assemblee Annuali 2020 dei Soci di ICOMOS (International Council on Monuments and Sites) Italia (21 novembre) e di ICOM (International Council of Museums) Italia (22 novembre). Per l’occasione, ne abbiamo incontrato i Presidenti, Maurizio Di Stefano (ICOMOS) e Adele Maresca Compagna (ICOM).

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Presidente Di Stefano, quali sono le attività salienti svolte da ICOMOS? «ICOMOS (International Council on Monuments and Sites), organo consultivo dell’UNESCO, si dedica alla conservazione e alla tutela dei monumenti, degli edifici e dei siti del patrimonio culturale, operando attraverso i Comitati Nazionali, che, nel caso dell’Italia, è uno dei Comitati fondatori dell’ente, sin dal 1965. Negli ultimi anni, ICOMOS Italia ha sviluppato la ricerca scientifica dei testi dottrinali, fondando i primi Comitati Scientifici Internazionali, a cui l’Italia, continua a offrire contributi innovativi. ICOMOS è l’unica ONG internazionale nel suo genere per la promozione di teoria, metodologia e tecnologia applicata alla conservazione, tutela e valorizzazione dei monumenti, dei siti e dei paesaggi. A Paestum, oltre all’Assemblea, si svolgerà la 1a Conferenza Nazionale dei Comitati Scientifici Italiani». Qual è il ruolo di ICOMOS nel campo specifico dell’archeologia? «Nell’ambito dei testi dottrinali, ICOMOS ha promulgato le linee guida per la protezione e la gestione del patrimonio archeologico nel 1990, oltre alle Linee guida Salalah per la Gestione dei siti archeologici pubblici nel 2017, in occasione della 19ª Assemblea Generale. I Comitati Scientifici Internazionali di ICOMOS sono tra loro fortemente connessi nei programmi di ricerca teorica e applicata in ambito archeologico, oltre al costante riferimento al Comitato Theophilos (Theory and Philosophy of Conservation and Restoration), che approfondisce i principi guida di tutte le discipline della Conservazione del patrimonio culturale; l’ICAHM

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(International Scientific Committee on Archaeological Heritage Management) promuove l’istituzione di percorsi formativi per figure professionali esperte in tali settori, attività di ricerca nei due ambiti, pubblicazioni e dibattiti, utilizzando nel migliore dei modi i social network. Quest’anno alla XXIII BMTA per l’ICAHM saranno presenti il Presidente Internazionale, John A. Peterson, la Vicepresidente, Nelly Robles Garcia, il Segretario Generale, Adrian Olivier, e il Segretario Amministrativo, Matthew Whincop». La Borsa dedicherà una sessione a Sebastiano Tusa, alla quale ICOMOS è stata chiamata a partecipare... «Tusa è stato un uomo di straordinario valore culturale, scientifico e soprattutto umano. La sua attività nel campo dell’archeologia subacquea ha rappresentato un contributo scientifico e di conoscenza di assoluto valore. Nel 1996, nell’11ª Assemblea Generale, l’ICOMOS ha ratificato la Carta sulla Tutela e Gestione di Patrimonio Culturale Subacqueo e, attraverso il Comitato ICUCH (Underwater Cultural Heritage), è stato promotore della Convenzione dell’UNESCO sulla protezione del Patrimonio Culturale subacqueo del 2001, che definisce l’ambito di applicazione riferito a qualsiasi traccia di vita umana avente carattere culturale, storico o archeologico che sia stata sott’acqua parzialmente o completamente, periodicamente o continuativamente, per almeno 100 anni. Tusa è stato tra i principali artefici, ma anche di settembre

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azioni internazionali soprattutto nel Mediterraneo, tra cui, nel 2018, di una ricerca dedicata all’Hidden Cultural Heritage: protection, valorization and management, proposta insieme a CICOP (Centro Internazionale per la Conservazione del Patrimonio Architettonico). ICOMOS Italia ha elaborato il progetto I-ATOM, Innovation’s Antiquity TOday in Mediterranean, finalizzato proprio alla realizzazione di un itinerario dei siti archeologici del Mediterraneo, in linea con la strategia Europa 2020 per la crescita e l’occupazione, sia un modo consapevole di viaggiare, vivere e conoscere i luoghi, evitando un turismo consumistico inconsapevole. Il Comitato ICUCH, che ho il piacere di coordinare per l’Italia, è tra i promotori della 1ª Conferenza Mediterranea sul Turismo Archeologico Subacqueo in memoria di Sebastiano Tusa, promossa dalla BMTA». Presidente Maresca Compagna, quali sono il senso e il segnale della presenza di ICOM Italia a Paestum? «Abbiamo accettato con entusiasmo l’invito, perché riteniamo che la Borsa costituisca un’occasione importante di informazione e di scambio sulle potenzialità di sviluppo dei musei e siti archeologici dell’area mediterranea, nonché una sede di dibattito su nuovi strumenti utili per migliorare l’attrattività dei siti e la partecipazione dei cittadini italiani e del mondo alla loro conoscenza e interpretazione».

Comitati internazionali, tra i quali quello dei Musei di archeologia e di Storia (ICMAH), favoriscono il confronto museologico fra specialisti delle rispettive materie».

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Sebbene la platea dei musei e dei professionisti museali di ICOM sia molto ampia, ci sembra che negli ultimi anni il Comitato italiano di ICOM abbia dedicato maggiore attenzione ai musei archeologici. «Questo è vero, nel maggio 2017 abbiamo organizzato a Napoli, in collaborazione con il Museo Archeologico e altri musei statali, il Convegno “Musei archeologici e paesaggi culturali”, che riprendeva la riflessione sui rapporti tra musei-territorio-patrimonio diffuso Qual è l’impegno internazionale di ICOM per l’archeologia? portata avanti dall’Italia nella Conferenza generale di «L’ICOM (International Council of Museums) è la piú grande ICOM a Milano nel 2016 e declinava in piú sessioni organizzazione mondiale dei musei, creata nel secondo le problematiche legate alla ricerca, documentazione dopoguerra per ricostruire non solo le ferite materiali, e gestione dei depositi, alla comunicazione, alle ma anche le lacerazioni politiche e le disuguaglianze forme di gestione di musei e parchi archeologici, alle riferimento al Dossier culturali e umane, che purtroppo persistonoErrata ancoracorrige con professionalità. Nel 2018, a Matera, in una giornata di oggi. Lo testimoniano il suo impegno, al fianco e in che andò studi L’umanista alleinternazionale crociate (vedi si è ripreso il tema dei depositi, che collaborazione con l’UNESCO e altre organizzazioni riguarda solo i beni archeologici, ma che assume per «Medioevo» n. 220,non aprile 2015) desideriamo internazionali, per combattere il traffico illecito di che la medaglia essi particolare precisare in bronzoimportanza riprodotta a ed è scaturita una proposta beni culturali e la tutela del patrimonio identitario di Risoluzione p. 93 (in basso) ritrae Malatestainternazionale Novello (al che, con il concorso di altri dei popoli, molti dei quali ancora dilaniati da guerre, Comitati nazionali e internazionali, è stata poi approvata secolo Domenico Malatesta, 1418-1465) signore rivoluzioni interne e distruzioni naturali. Gran parte e non Sigismondo da ICOM nell’Assemblea di Cesena, Malatesta, comegenerale di Kyoto 2019». di questo patrimonio, come ben sappiamo, èindicato di natura in didascalia. Dell’errore ci scusiamo con etnografica e archeologica. La nostra organizzazione, cosai avete in occasione della BMTA? l’autore dell’articoloChe e con nostriprogrammato lettori. autonoma rispetto ai governi, rappresenta istituzioni «Oltre all’Assemblea annuale dei soci, terremo e professionisti museali che lavorano in istituzioni il convegno “Musei e parchi archeologici, nuove di differente proprietà, organizzazione e tipologia, prospettive di partenariato pubblico-privato: dall’etnografia alle scienze naturali, dalla storia dell’arte responsabilità, professionalità, competenze”. Alla luce all’archeologia, alla storia. L’attenzione è focalizzata della crisi nei musei per la pandemia, è opportuno soprattutto su ciò che li accomuna sul piano istituzionale, ripensare le collaborazioni tra gli enti pubblici e i privati, organizzativo, programmatico, e quindi le visioni che interagiscono a diverso titolo con le istituzioni generali, le politiche di documentazione, comunicazione, museali. ICOM Italia discuterà delle numerose mediazione ed educazione, le relazioni con le autorità di esperienze degli ultimi decenni e delle prospettive governo, con le istituzioni culturali e gli altri soggetti del future (anche in considerazione delle riforme del Terzo territorio, con i pubblici e le comunità. Tuttavia, alcuni settore e del Codice degli appalti)».


ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

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al 23 al 27 settembre si svolge, nella splendida cornice della città di Gubbio, il Festival del Medioevo, giunto alla sua sesta edizione. Sin dal 2015, «Medioevo» ha aderito in qualità di media partner all’ambiziosissimo progetto di Federico Fioravanti, che del Festival è stato l’ideatore e, negli anni, l’instancabile e creativo promotore. Oltre a un numero sempre crescente di eventi – tra cui la fiera del libro medievale, numerose mostre a tema, spettacoli e rievocazioni storiche – ogni anno il Festival sceglie un particolare tema, intorno a quale si concentrano

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gli interventi degli studiosi riuniti a Gubbio: nel 2015 si è parlato della Nascita dell’Europa, nel 2016 era la volta del rapporto tra Europa e Islam, nel 2017 l’argomento era La città, seguito, nel 2018, dalla Scoperta degli altri, ovvero dei Barbari e, nel 2019, dalle Donne. L’altro volto della storia. Quest’anno, le «lezioni» si svolgeranno intorno a un tema – se è possibile dirlo – ancora piú affascinante e coinvolgente di quelli precedenti: il Mediterraneo. E, sebbene i preparativi del Festival siano in pieno svolgimento (tra le consuete difficoltà che accompagnano una macchina organizzativa del genere) abbiamo approfittato di una breve pausa di lavoro per parlarne proprio con il «padre» del Festival, Federico Fioravanti. Al Mediterraneo, in effetti, hanno dedicato pagine indimenticabili autori come Fernand Braudel e, di recente, Cyprian Broodbank e David Abulafia... «È un argomento vastissimo – ci conferma Fioravanti – di fascino straordinario che, per il nostro Festival, era ormai settembre

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Per sostenere il Festival del Medioevo Quasi 60 000 follower. Il sito del Festival del Medioevo e la relativa pagina Facebook @FestivalDelMedioevo sono gli indirizzi on line dedicati alla divulgazione storica del Medioevo piú visitati in Italia. A questo pubblico crescente di lettori e sostenitori si affida l’associazione culturale senza scopo di lucro che ogni anno organizza la manifestazione. Su www.festivaldelmedioevo.it è stato lanciato un crowdfunding, riservato ai lettori e sostenitori di un evento costruito su un cartellone di eventi culturali tutti gratuiti e a ingresso libero. Su Facebook è nato anche il gruppo «Sostenitori del Festival del Medioevo» (http://www.festivaldelmedioevo.it/portal/club-deisostenitori/), riservato a chi ha deciso di sostenere economicamente un modello di divulgazione culturale che ormai non è limitato ai cinque giorni della manifestazione (Gubbio, 23-27 settembre 2020), ma dura tutto l’anno, con un vero e proprio quotidiano on line di storia medievale che ospita articoli originali firmati da storici, saggisti, scrittori e giornalisti e lezioni di storia su un apposito canale Youtube insieme alle novità editoriali e a notizie e filmati dedicati agli eventi, ai luoghi, ai personaggi e agli avvenimenti piú importanti. L’obiettivo del gruppo Facebook «Sostenitori del Festival del Medioevo» è aprire in modo sistematico la redazione «virtuale» ai suggerimenti e alle proposte della community di lettori. Le donazioni sono libere. Si parte da 1 euro: l’offerta di un caffè l’anno per diventare editori del Festival del Medioevo.

Gli Sbandieratori di Gubbio salutano l’inagurazione della V edizione del Festival del Medioevo (2019), sul piazzale da cui si accede alla sede principale della rassegna.

A destra La Mansio Templi Parmensis, gruppo rievocativo dei Cavalieri del Tempio, allestisce laboratori didattici e spettacoli rievocativi in ogni edizione del Festival del Medioevo. Nella pagina accanto, in alto una veduta di Gubbio.

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ANTE PRIMA

In alto fra le proposte dal Festival, non mancano laboratori per insegnare l’arte della miniatura e della calligrafia. A sinistra il duello fra un Templare e un infedele, messo in scena dal gruppo Mansio Templi Parmensis. Nella pagina accanto, a sinistra il Palazzo dei Consoli. Nella pagina accanto, a destra arti, mestieri e cortei storici delle corporazioni eugubine.

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Studio, passione e divertimento In ogni edizione del Festival del Medioevo un’intera giornata è costruita intorno alla Scuola dei rievocatori, un evento pensato per valorizzare, attraverso l’analisi e la ricostruzione delle fonti storiche, l’appassionato lavoro di centinaia di associazioni e di migliaia di rievocatori impegnati in ogni regione d’Italia nel far rivivere la storia e le tradizioni del loro territorio. Le esibizioni in abiti storici fanno da contorno all’evento. Il Medioevo dei bambini, ripetuto in diverse giornate, prevede giochi, letture, animazioni, laboratori d’arte e corsi di disegno riservati ai piú piccoli. Il Festival offre anche mostre, eventi teatrali, recital, concerti di musica medievale, lezioni spettacolo, laboratori di danza e visite guidate alla scoperta dell’Umbria medievale insieme a spazi particolari dedicati all’artigianato come La piazza dei mercanti e gli Antichi mestieri.

francese il Mediterraneo era un “continente liquido”, era “mille cose insieme”. Del mondo mediterraneo afferma che non è “un paesaggio ma innumerevoli paesaggi. Non un mare ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre”». E a Gubbio, a raccontare questo mare fatto di porti e di santuari, di commerci e battaglie, di continue migrazioni di persone e idee saranno piú di cento, tra storici, saggisti, scrittori, architetti e giornalisti... «La sfida che ci siamo posti anche quest’anno – prosegue Fioravanti – è quella di mettere a punto la piú corretta e completa possibile forma di divulgazione. Dobbiamo documentare, illustrare, narrare quelle vicende mediterranee intrecciate in dieci e piú secoli, e che vanno dalla caduta dell’impero romano d’Occidente alla scoperta e all’esplorazione del Nuovo Mondo. È una storia di invasioni, fusioni e convivenze. Pensiamo solo al sogno svanito di Giustiniano di ricostituire nella sua totalità un impero mediterraneo e alla stupefacente

obbligatorio affrontare. Il Mediterraneo è molto piú di un mare, è il teatro della storia millenaria di ben tre continenti – l’Europa, l’Africa e l’Asia – e, da non dimenticare, delle tre grandi religioni monoteiste. A Fernand Braudel dobbiamo una definizione del Mediterraneo davvero significativa: per il grande storico

espansione mediterranea dell’Islam. Pensiamo all’avvento di popolazioni straniere nella nostra Penisola che da genti delle terre del nord diventano meridionali e “isolani”, i Normanni, gli Svevi, la grande epopea del regno di Sicilia. E poi la febbre delle crociate, i Templari e gli altri Ordini religioso-militari dei “regni d’outremer”, le cui alterne vicende segnarono e segnano ancora l’immaginario collettivo dell’Occidente. Pensiamo alle rotte marine, solcate da navi navi latine, islamiche e bizantine che, trasportavano beni di ogni genere, tra cui il grano, l’olio, il vino, le spezie e l’oro. Navi cariche di pellegrini e pirati, mercanti e navigatori, missionari e avventurieri, persone che hanno segnato in modo indelebile la storia del Mediterraneo, “forse – secondo il grande storico britannico David Abulafia – il piú dinamico luogo di interazione tra società diverse sulla faccia del pianeta”».

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ANTE PRIMA

Benozzo superstar MUSEI • Castelfiorentino

rende omaggio all’autore della celebre Cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi, riunendo i pregevoli affreschi dei tabernacoli realizzati a San Gimignano e a Certaldo

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n epoca medievale, grazie alla realizzazione della via Francigena, che collegava l’Europa settentrionale a Roma, la Valdelsa diventò il fulcro economico e sociale di una vasta area della Toscana centrale, favorendo la nascita di pievi, chiese e luoghi fortificati. Tra questi vi fu Castelfiorentino, borgo presto conquistato dalla Repubblica di Firenze che cosí andò a sostituirsi alle famiglie comitali nel controllo dell’importante arteria viaria, frequentata da pellegrini e commercianti. Con questo territorio «rustico», nel quale giunse, ormai ultrasessantenne e famoso, Benozzo Gozzoli instaurò un profondo rapporto affettivo, realizzandovi, in un arco di tempo relativamente breve, opere di grande prestigio, sparse tra San Gimignano e Certaldo, tra cui l’affresco di due maestosi tabernacoli viari: nel 1484 esegue quello intitolato alla Madonna della Tosse, e sette anni piú tardi, il secondo, detto della Visitazione, con la collaborazione dei figli Francesco e Alesso. Nel 1435, quindicenne, Benozzo era stato mandato a «bottega» come apprendista, presso Bicci di Lorenzo, maestro pittore a capo di uno dei laboratori allora piú attivi a Firenze; la sua familiarità con la scrittura,

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Particolare del tabernacolo della Visitazione, realizzato ad affresco da Benozzo Gozzoli con la collaborazione dei figli Alesso e Francesco. 1491. attestata da documenti autografi e da iscrizioni rintracciabili nei suoi dipinti, evidenzia, però, una formazione scolastica eclettica e ampia, che non si era fermata al solo campo artistico. Presunto discepolo del Beato Angelico, aggraziato illustratore, «molto copioso negli animali, nelle

prospettive, ne’ paesi e negli ornamenti» come scrive Giorgio Vasari, lavorò per il papa e per i Medici, distinguendosi per una pittura colta e popolare insieme, che si tradusse in semplicità compositiva; le sue ottime doti di osservatore gli permisero di soffermarsi sulla cura di dettagli decorativi e narrativi, sebbene non settembre

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In alto particolare del Corteo dei Magi, in cui Benozzo Gozzoli ha ritratto se stesso, inserendo sul copricapo, a mo’ di firma, la scritta «Opus Benotii». 1459. Firenze, Palazzo Medici Riccardi. A destra particolare del tabernacolo della Madonna della Tosse. 1474. possedesse una personalità stilistica particolarmente forte. L’abilità nel riprodurre minuziosamente i tessuti preziosi, rendendoli estremamente realistici, gli derivava probabilmente dall’attività del padre, il quale, come farsettaio, gli aveva offerto l’opportunità di ammirare da vicino i manufatti tessili. Firenze, Orvieto, Roma, Viterbo: una girandola di committenti fino al 1459, quando Piero il Gottoso incaricò Benozzo Gozzoli di dipingere la cappella privata di Palazzo Medici. Nacque cosí l’opera piú celebre dell’artista, nota come Corteo dei Magi (vedi «Medioevo» n. 227, dicembre 2015; anche on line su issuu.com), un capolavoro che si trasformò in un biglietto da visita di

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tutto rispetto per la sua professione. Paesaggi, ritratti e lussuosi abiti sono illustrati con estrema vivacità e verosimiglianza, per una celebrazione dell’evento dalla duplice connotazione sia religiosa, sia laica, come affermazione del potere economico dell’autorevole dinastia che lo aveva sponsorizzato.

Su richiesta del priore Seguirono altre committenze, fino al trasferimento a San Gimignano e l’esecuzione di tabernacoli collocati nelle vicinanze di importanti vie di comunicazione e di pellegrinaggio, tra cui i due richiesti dal priore di Castelnuovo, entrambi staccati dalle loro sedi originarie, restaurati e, attualmente, conservati al

BeGo (Museo Benozzo Gozzoli), allestito su due livelli, proprio a Castelfiorentino, località della loro primaria destinazione. Entrando, si viene accolti dal tabernacolo della Visitazione, alto circa sei metri e risalente al 1491, dove sono rappresentati alcuni episodi della vita della Vergine tratti dal Vangelo apocrifo di Matteo e da quello di Luca, disposti su due registri, superiore e inferiore, intervallati da elementi architettonici dipinti. L’ordine di lettura delle storie comincia dalla parete interna, nella lunetta in cui è rappresentata la Cacciata di Gioacchino dal Tempio. Proseguendo in senso orario, si passa alla scena del Sogno di Gioacchino

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ANTE PRIMA DOVE E QUANDO

BeGo, Museo Benozzo Gozzoli Castelfiorentino (Firenze), via Testaferrata, 31 Orario lu e ve, 9,00-13,00; ma e gio, 16,00-19,00; sa, do e festivi, 10,00-12,00 e 16,00-19,00 Info tel. 0571 64448; e-mail: info@museobenozzogozzoli.it; www.museobenozzogozzoli.it La finta pala d’altare del tabernacolo della Madonna della Tosse, raffigurante la Vergine in trono col Bambino, circondata dai santi Pietro, Caterina d’Alessandria, Margherita e Paolo. 1474. e, poi, nella facciata posteriore del tabernacolo, sulla fascia superiore, la raffigurazione di Anna, accompagnata dalle amiche alla Porta Aurea, dove abbraccia il marito tornato con il suo gregge, dopo una lunga assenza. È stato ipotizzato che la città fortificata alle spalle della coppia sia la stessa Castelfiorentino, addirittura con la veduta del luogo che in origine ospitava l’affresco. Lasciata la sezione con la Natività della Vergine sul lato destro del tempietto, la lettura riprende quindi da destra verso sinistra, lungo il registro inferiore, dove purtroppo i danni provocati dalle frequenti piene del fiume Elsa, che scorreva poco distante, hanno compromesso le pitture che raccontavano la Presentazione al Tempio e lo Sposalizio di Maria. Nell’estradosso, inserita in un ambiente esterno contraddistinto da architetture quattrocentesche, è l’Annunciazione, mentre nell’intradosso sono raffigurati gli Evangelisti e i Dottori della Chiesa, che predicarono la dottrina della Redenzione. Il programma iconografico, del quale restano frammenti di altri episodi, come la Natività di Cristo, si concludeva con una «finta» pala d’altare, dove era glorificata la Madonna in trono col Bambino tra Santi.

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Durante la rimozione «a strappo» degli affreschi, sono state ritrovate alcune sinopie, cioè disegni preparatori che Gozzoli aveva utilizzato per l’impostazione strutturale dell’ambientazione, ora esposte insieme al lavoro terminato. Una scelta fuori da coro, quella del pittore, visto che già dalla metà del Quattrocento, la sinopia era caduta in disuso, sostituita dai cartoni e dal piú diffuso sistema di riportare la figurazione grafica con il metodo dello «spolvero».

Le preghiere delle madri L’affresco ha subito varie traversie e spostamenti, talvolta infelici, prima di giungere alla sua sistemazione definitiva, nei nuovi spazi del Museo BeGo, cosí come l’edicola con la Dormizione della Vergine, poi detta della Madonna della Tosse, che presenta una volta a crociera con Gesú benedicente e i quattro Apostoli nelle vele, ubicata superiormente. Pertosse, tosse convulsa, canina, asinina o addirittura «cattiva», come veniva chiamata in Toscana: erano queste le differenti denominazioni della medesima malattia, molto diffusa fino al secolo scorso, che colpiva soprattutto i bambini, provocando violenti attacchi e talvolta la morte. Era quindi

consuetudine far erigere siti consacrati alla Vergine, dove le madri accompagnavano i figli colpiti dall’infezione, per chiederne la guarigione. Il raffinato effetto trompe-l’oeil è dato da una finta pala d’altare, con angeli che spostano il drappo per mostrare Maria in trono col Bambino, circondata da santi e da una piccola icona con l’effigie del Volto Santo, che pare casualmente appoggiata sopra la finta predella, a simulare, nella collocazione primitiva dell’altare in pietra addossato alla parete, i veri arredi di una mensa sacra allestita per la Messa. Ai lati della scena principale, a destra, sono raffigurate le Esequie della Vergine, con il richiedente inginocchiato e, a sinistra, l’Assunzione al cielo, interpretata secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine con l’episodio della Madonna che getta la cintola a san Tommaso. Durante le operazioni di ripulitura, gli esperti si accorsero che i colori stesi «a secco» dall’artista erano andati completamente perduti; si decise cosí di intervenire con un restauro di «intonazione neutra» sulle zone lacunose della pittura. Benozzo Gozzoli morí nel 1497 a Pistoia, lasciando in eredità una consistente produzione artistica. Mila Lavorini settembre

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ANTE PRIMA

Un capolavoro del Made in Italy SCOPERTE • Portata con orgoglio da un ignoto cavaliere, questa magnifica spada

è oggi un vanto del Philadelphia Museum of Art. Dove è approdata dopo una lunga storia, cominciata agli inizi del XV secolo, nell’officina di un armaiolo bellunese...

L

a spada detta «di Filadelfia», perché attualmente custodita al Philadelphia Museum of Art, è nota da tempo, ma solo di recente ne è stata accertata l’origine, scoprendo che si tratta di uno dei piú antichi esemplari di spada bellunese. L’importante acquisizione è frutto della ricerca sull’antica tradizione delle spade condotta da ricercatori dell’Università di Innsbruck nell’ambito del progetto Interreg «KLANG-Spade di leoni e aquile». «La spada è sempre stata classificata, generalmente, come made in Italy – spiega Florian Messner, uno dei componenti dell’équipe coinvolta nel progetto – e anche nel sito del museo di Filadelphia, dov’è conservata, si legge questa dicitura. Insomma, si sapeva che era parte dell’armeria dei Mamelucchi ed era stata realizzata in Italia, ma niente di piú. Con i nostri studi abbiamo dimostrato come il marchio presente nell’arma, il cosiddetto “nodo bellunese”, sia una chiara prova dell’origine bellunese della creazione».

Fili dritti e senza curvatura L’arma risale all’inizio del XV secolo, presumibilmente tra il 1400 e il 1415, ed è una tipica spada da cavaliere. Molto diversa, dunque, dalle eleganti realizzazioni dei fratelli Andrea e Giandonato Ferrara – due fra i maestri armaioli piú celebri d’ogni tempo –, di duecento anni piú tarde, ma che dimostra quanto sia antica l’arte della forgiatura delle lame nel Bellunese. Tipici della produzione di questo distretto sono i cosiddetti «nodi bellunesi», poc’anzi ricordati, presenti sulla superficie della lama come punzoni di forgiatura; una caratteristica delle armi prodotte in questa provincia, utilizzata dagli spadai per diversi secoli. La spada è lunga 103 cm, pesa 1,36 kg ed è caratterizzata da fili che corrono molto dritti verso la punta, senza curvatura. Si può con ogni probabilità

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La spada «di Filadelfia», di cui è stata scoperta l’origine bellunese. Si tratta di una tipica spada da cavaliere e fu realizzata, verosimilmente, fra il 1400 e il 1415. Filadelfia, Philadelphia Museum of Art. pensare che il modello (Oakeshot XV) sia stato usato da un cavaliere e tenuto con una mano sola. Gli studi sull’arma sono tuttora in corso e al momento non è possibile stabilire chi l’abbia realizzata, né a chi fosse destinata. Si può però ricostruirne, almeno in parte, la storia, cominciando col dire che la spada di Filadelfia compí un lungo viaggio. All’inizio del XV secolo nulla restava degli Stati crociati cristiani sul Levante. L’isola di Cipro era il primo bastione contro l’avanzare dell’Islam ed era stata invasa piú e piú volte, soprattutto dai Mamelucchi d’Egitto. L’ultima e definitiva sconfitta dei Ciprioti risale al 1426, nella battaglia di Chirokitia, all’indomani della quale l’isola passò appunto sotto il controllo mamelucco. Nell’occasione, i vincitori si impossessarono anche di grandi quantità di armi, tra cui la spada di Filadelfia, che era probabilmente giunta a Cipro passando per Venezia. I beni vennero poi conservati nell’Arsenale di Alessandria e, da lí, numerose spade approdarono, tra il 1517 e il 1936, al Museo Askeri di Instanbul. La storia di molti di questi manufatti proseguí poi nelle dimore di ricchi mecenati, ai quali furono venduti o regalati. La spada bellunese, per esempio, entrò a far parte della collezione di Carl Otto Kretzschmar von Kienbusch, un appassionato conoscitore d’armi, che la lasciò al Philadelphia Museum of Art dopo la sua morte, nel 1976. E qui si trova tuttora, con il numero di inventario 1977-167-538, e costituisce uno dei pezzi piú importanti della collezione d’armi. (red.) settembre

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Francesco e la Clarissa che non c’era RESTAURI • L’intervento su un importante

dipinto delle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna svela una presenza che il tempo aveva cancellato

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an Francesco riceve le stimmate, un pregevole olio su tavola di Filippo da Verona è tornato a fare bella mostra di sé nelle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna. Con una significativa novità, scaturita dall’intervento di restauro al quale il dipinto è stato sottoposto. La pulitura della superficie pittorica e le indagini diagnostiche hanno permesso di approfondire la lettura del quadro, sia dal punto di vista stilistico che iconografico. Come sempre accade nelle opere di Filippo, numerose figure popolano il paesaggio in cui si svolge l’evento principale, rappresentando altri momenti della storia o fornendo informazioni aggiuntive per comprenderne il contesto. Assieme a san Francesco rapito dalla visione del Cristo (qui rappresentato non crocifisso, ma Bambino), si possono riconoscere alla sua destra frate Leone e, nella parte alta del dipinto in mezzo al bosco, santa Lucia, rivolta verso un santo vescovo, verosimilmente san Bassiano (o Bassano), anch’egli di Siracusa come la martire. Un’altra figura, appena intuibile prima del restauro, si trova nell’angolo inferiore sinistro della tavola. Poco piú di una sagoma, la cui

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San Francesco riceve le stimmate, olio su tavola di Filippo da Verona. Post 1515. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte. parte bassa della veste chiara era stata ritoccata per confondersi con le rocce attigue, già dopo i primi saggi di pulitura è emersa una testa femminile, a cui è stata ampliata la veste in un momento successivo alla redazione originale.

La committente dell’opera? Con l’avanzamento del restauro, sono stati recuperati il volto velato e il soggolo di una Clarissa, probabilmente la committente dell’opera che, come svelato dalle indagini diagnostiche, era stata ritratta dietro a una quinta arborea, dalla quale sporgeva discretamente a mezzo busto, mentre assisteva orante alla scena miracolosa. Del resto le dimensioni limitate della tavola sono coerenti con un’opera di devozione destinata alla cappella di un monastero. Sicuramente un cambio di destinazione indusse la nuova proprietà a modificare l’immagine della donatrice, per sostituirla con un nuovo devoto, non necessariamente una devota.

La veste bianca, in parte sovrapposta alla figura originale – di cui altera la proporzione rendendola di dimensione maggiore a quella del protagonista del dipinto –, indica un momento successivo di circa un secolo alla pittura di Filippo e anche l’appartenenza di chi la indossava a una diversa Regola, riconducibile all’Ordine benedettino. La scoperta ha aperto nuove possibilità di lettura dell’opera e fa prospettare la necessità di effettuare in futuro ulteriori indagini diagnostiche, con la finalità di arrivare a un recupero completo della figura originale. Il restauro è stato effettuato dalla ditta di Luca Vincenzo Pantone di Roma. Silvia Battistini DOVE E QUANDO

Collezioni Comunali d’Arte Bologna, Piazza Maggiore Orario ma-do, 10,00-18,30; chiuso lunedí feriali Info tel. 051 2193998; e-mail museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/arteantica

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ANTE PRIMA

Trapassati illustrissimi PALEOPATOLOGIA • Il «mal francese» fu

uno degli spauracchi piú temuti nell’Europa del Cinquecento e ne fu vittima, fra gli altri, Maria Salviati. Non gli si può addebitare, invece, la morte prematura d’uno dei massimi geni del tempo, Raffaello Sanzio

L Qui sopra il cranio di Maria Salviati, con le lesioni sifilitiche sull’osso frontale. A destra, in alto Ritratto di Maria Salviati e Giulia de’ Medici, olio su tavola del Pontormo (al secolo, Jacopo Carucci). 1539 circa. Baltimora, The Walters Art Museum.

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a storia della famiglia Medici si arricchisce di un nuovo, importante tassello. Nel 2012, un’équipe della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa aveva riesumato i resti di Giovanni dalle Bande Nere (14981526) e di sua moglie Maria Salviati (1499-1543), sepolti nelle Cappelle Medicee di S. Lorenzo, a Firenze. E il successivo studio dello scheletro di Maria Salviati ha rivelato i segni inequivocabili della sifilide venerea

nella sua fase terziaria: appaiono evidenti, per esempio, le lesioni sifilitiche sull’osso frontale del cranio. Tale diagnosi costituisce una novità assoluta nella storia delle malattie dell’illustre casato: dai documenti del tempo, infatti, non risulta che Maria soffrisse di sifilide, una malattia ben conosciuta dai medici del Rinascimento, ma che non le fu mai esplicitamente diagnosticata. Sappiamo invece che la stessa nobildonna rifuggiva settembre

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le visite approfondite dei dottori, quasi a tenere nascoste per pudicizia le manifestazioni piú eclatanti del male che la tormentava. Maria fu probabilmente infettata dal marito, il celebre Giovanni dalle Bande Nere, il quale conduceva una vita sessuale sregolata, ricca di frequentazioni con prostitute, in un’epoca in cui il male venereo serpeggiava tra le cortigiane e tra chi conduceva il mestiere delle armi. Dopo la scoperta delle Americhe, infatti, la sifilide fece la propria comparsa in Europa con una violenza di manifestazioni cliniche e una virulenza destinate ad attenuarsi solo dopo la metà del Cinquecento. Di sifilide si ammalarono persone di tutti i ceti sociali, e moltissimi aristocratici furono colpiti dal «mal francese», come era anche chiamata in Italia la terribile malattia.

Autoritratto, olio su tavola di pioppo di Raffaello Sanzio. 1506-1508. Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture.

Gli ultimi giorni del maestro Sembra invece si possa definitivamente escludere che l’esuberanza sessuale abbia causato la morte di Raffaello Sanzio, sopraggiunta, dopo giorni di malattia, il 6 aprile 1520, quando l’artista aveva solo 37 anni. Tuttavia, a differenza di quanto piú volte ipotizzato, l’Urbinate non contrasse la sifilide: una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca è infatti giunta alla conclusione che a causare il decesso fu con ogni probabilità la polmonite. «Ci siamo basati – spiega Michele Augusto Riva, ricercatore di Storia della medicina dell’Università di Milano-Bicocca, e coautore dello studio con Michael Belingheri, Maria Emilia Paladino e Marco Motta – su fonti dirette e indirette dell’epoca. Oltre alle Vite di Giorgio Vasari, opera irrinunciabile, ma pubblicata a trent’anni di distanza dall’evento, sono state vagliate le testimonianze di personaggi coevi del pittore e presenti a Roma in quel periodo, come Alfonso Paolucci, ambasciatore del duca di Ferrara Alfonso I d’Este, o documenti riscoperti

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nell’Ottocento dallo storico dell’arte Giuseppe Campori». «C’è chi ha voluto ricollegare la scomparsa di Raffaello – continua Riva – a una condotta di vita molto libertina, ma la sifilide è una malattia dal decorso molto lungo, mentre i testimoni ci raccontano di una malattia sviluppatasi all’improvviso, che porta alla febbre e alla morte sopraggiunta dopo 8-10 giorni. Per quanto la sifilide fosse molto diffusa nel Cinquecento, i sintomi descritti non vanno in quella direzione». Nè sembra possa essersi trattato di malaria o tifo: «La malaria – continua Riva – ha come sintomi febbri intermittenti, mentre quella di Raffaello fu continua. Inoltre, in quegli anni non vengono segnalate epidemie di tifo, che, soprattutto per le condizioni igienico-sanitarie dell’epoca, aveva un alto tasso di contagiosità. La malattia, inoltre, è stata di natura infettiva e ha causato la comparsa di una febbre, ma non è stata invalidante: Raffaello riesce a fare testamento, a individuare gli

eredi, dare gli ultimi ordini, è vigile e cosciente. Il decorso della malattia, unito ad altri sintomi, indurrebbe a pensare a una forma di polmonite. Se cosí fosse, stando sempre alle carte, a peggiorare il quadro clinico ci sarebbe stato anche un errore medico: «Raffaello – ricorda Riva – viene trattato con i salassi, una pratica assolutamente sconsigliata in caso di febbre polmonare». L’errore fu però inconsapevole: «Vasari scrive che il pittore nascose ai medici i comportamenti tenuti fino al momento della malattia: era uscito spesso nelle notti precedenti per scorribande amorose. “Non confessando egli il disordine che aveva fatto, per poca prudenza” i medici “gli cavarono il sangue”. Non conoscendo la condotta del paziente e non potendo inquadrare meglio l’origine di quella febbre, i medici avrebbero sbagliato a insistere con il salasso. Cosa che probabilmente non avrebbero fatto, se Raffaello avesse confessato la sua condotta». (red.)

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IN EDICOLA

VIVERE DA SIGNORI NELL’ETÀ DI MEZZO

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n matrimonio ben combinato poteva risultare determinante per l’affermazione sociale di un individuo ed era addirittura un obbligo fra le classi aristocratiche: comincia cosí il viaggio proposto dal nuovo Dossier di «Medioevo», alla scoperta delle consuetudini, degli interessi culturali e degli svaghi che caratterizzavano le fasce piú elevate della popolazione. Ad accomunare molte delle attività piú apprezzate era il costante richiamo agli ideali della cavalleria, come prova, per esempio, la disputa di giostre e tornei, o la pratica della caccia e della falconeria, delle quali non è difficile cogliere le numerose e significative implicazioni simboliche. In particolare, a dare la misura della considerazione di cui godeva l’allevamento dei rapaci a scopo venatorio, basterà ricordare che esso ebbe il suo piú celebre interprete nell’imperatore Federico II di Svevia, autore di un monumentale trattato sull’argomento, il De arte venandi cum avibus.

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LO/MI. L. 46/2004, art. 1, c.1, . - D.L. 353/2003 conv.

Non meno rilevante fu il mecenatismo di numerosi principi e duchi, che si fecero committenti di grandi opere d’arte, nonché di componimenti letterari e musicali. La vita dei signori, insomma, non si tradusse soltanto nello sfoggio di abiti ricercati o costosi gioielli, ma contribuí in maniera decisiva alla produzione culturale dell’epoca, della quale possiamo ancora oggi ammirare magnifiche testimonianze in tutte le principali città italiane.

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

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Crocefisso Cini – in una fase temporale compresa tra il 1270 e il 1280. info tel. 051 2193916 oppure 2193930: e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo

BOLOGNA IMAGO SPLENDIDA. CAPOLAVORI DI SCULTURA LIGNEA A BOLOGNA DAL ROMANICO AL DUECENTO Museo Civico Medievale fino al 6 settembre

Può dirsi un fenomeno di recente affermazione il rinnovato interesse verso la scultura lignea italiana, ai cui aspetti materiali e tecnici è a lungo mancato, nella storiografia artistica, un pieno riconoscimento di dignità critica. In un quadro di riferimento segnato, in particolare per il patrimonio artistico prodotto nel XII e XIII secolo, da una rarefazione delle opere causata dalla deperibilità del materiale e dalla progressiva trasformazione delle immagini al variare dei canoni estetici, «Imago splendida» segna un importante momento di ricognizione. La mostra approfondisce l’affascinante e ancora poco studiata produzione scultorea lignea a Bologna tra XII e XIII secolo, restituendone una rilettura aggiornata a quasi vent’anni dall’esposizione «Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna», una cui sezione rappresentava lo spazio del sacro con opere inerenti l’iconografia sacra bolognese. Grazie alla collaborazione della Curia Arcivescovile di Bologna e della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, e con il patrocinio di Alma Mater StudiorumDipartimento delle Arti, il progetto è l’esito espositivo di una sedimentata ricerca filologica e documentaria, che fissa una nuova tappa verso la comprensione dei modelli di riferimento nel contesto figurativo della Bologna altomedievale.

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ROMA IL TEMPO DI CARAVAGGIO. CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE DI ROBERTO LONGHI Musei Capitolini, Sale espositive di Palazzo Caffarelli fino al 13 settembre

Lo storico dell’arte Roberto Longhi si dedicò allo studio del Caravaggio, all’epoca uno dei pittori «meno conosciuti dell’arte italiana», già a partire dalla tesi di laurea, discussa con Pietro Toesca, all’Università di Torino nel 1911. Una scelta pionieristica, che tuttavia dimostra come il giovane Longhi seppe da subito riconoscere la portata rivoluzionaria della pittura del Merisi, cosí da intenderlo come il primo pittore dell’età Il nucleo principale della mostra, allestita nella Sala del Lapidario, si compone delle testimonianze piú rappresentative della produzione plastica superstite nella città: tre croci intagliate di proporzioni monumentali appartenenti alla variante iconografica del Christus Triumphans che vince la morte, per la prima volta eccezionalmente riunite insieme. La comparazione ravvicinata dei manufatti offre in visione tangenze e analogie, sul piano della sintassi formale e tecnica, che rendono plausibile l’ipotesi di un’inedita attribuzione a un’unica bottega, credibilmente di area alpina sudtirolese – il cosiddetto Maestro del settembre

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ristabilito la verità storica: il 28 ottobre 1965, lo stesso giorno in cui venne pubblicato il documento conciliare Nostra Aetate, la Chiesa abolí il culto del falso «beato». L’intera vicenda viene ora ripercorsa dalla mostra allestita nel Museo Diocesano Tridentino, ideata come omaggio a monsignor Iginio Rogger (1919-2014), già direttore del Museo stesso e coraggioso protagonista della storica revisione del culto di Simonino. A distanza di piú di mezzo secolo dalla sua abolizione, l’esposizione intende fare il punto sul «caso» di Simone da Trento e diffondere una piú ampia conoscenza di questa delicata e attualissima pagina della storia tardo-medievale. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it

moderna. In mostra è esposto uno dei capolavori di Caravaggio, acquistato da Roberto Longhi alla fine degli anni Venti: il Ragazzo morso da un ramarro. Quattro tavolette di Lorenzo Lotto e due dipinti di Battista del Moro e Bartolomeo Passarotti aprono il percorso espositivo, con l’intento di rappresentare il clima artistico del manierismo lombardo e veneto in cui si è formato Caravaggio. Oltre al Ragazzo morso da un ramarro è in mostra il Ragazzo che monda un frutto, una copia antica da Caravaggio, che Longhi riteneva una «reliquia», tanto da esporla all’epocale rassegna di Palazzo Reale a Milano nel 1951. Seguono oltre quaranta dipinti degli artisti che per tutto il secolo XVII sono stati influenzati dalla sua rivoluzione figurativa. info e prenotazioni tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it

ROMA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro del Pio Sodalizio dei Piceni fino al 20 settembre

TRENTO L’INVENZIONE DEL COLPEVOLE. IL «CASO» DI SIMONINO DA TRENTO, DALLA PROPAGANDA ALLA STORIA Museo Diocesano Tridentino fino al 15 settembre

Simone da Trento (detto il «Simonino»), un bambino di circa due anni, scomparve misteriosamente la sera del 23 marzo 1475 e fu ritrovato cadavere la mattina di tre giorni dopo, nei pressi dell’abitazione di una famiglia ebrea. In base a radicati pregiudizi, la responsabilità del rapimento e del delitto venne subito attribuita ai membri della locale comunità ebraica. L’accusa si fondava sulla convinzione che gli Ebrei compissero sacrifici rituali di fanciulli cristiani con lo scopo

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di reiterare la crocifissione di Gesú, servendosi del sangue della vittima per scopi magici e religiosi. Incarcerati per ordine del principe vescovo di Trento Johannes Hinderbach, gli Ebrei vennero processati, costretti a confessare sotto tortura e infine giustiziati. Proprio in virtú del presunto martirio, Simone divenne presto oggetto di un intenso culto locale, che papa Sisto IV vietò sotto pena di scomunica. La prudenza e i dubbi della Chiesa non riuscirono a opporsi a una venerazione tributata per via di fatto e

costruita utilizzando due potenti mezzi di comunicazione: le immagini e il nuovissimo strumento della stampa tipografica. Grazie alla macchina della propaganda, abilmente orchestrata dal vescovo Hinderbach, il culto di Simonino si estese presto ad altre zone dell’Italia centrosettentrionale e della Germania, riuscendo a imporsi come prototipo di tutti i presunti omicidi rituali dei secoli a seguire. Solo nel Novecento, negli anni del Concilio Vaticano II, la rilettura critica delle fonti ha

Il Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro, sede della Fondazione Pio Sodalizio dei Piceni, attiva nell’Urbe fin dal 1600, accoglie 36 opere d’arte – databili fra il XV e il XVIII secolo – scelte tra quelle restaurate a seguito del sisma del 2016. Si tratta della seconda tappa di un’esposizione itinerante che ha preso il via proprio nella zona del cratere, ad Ascoli Piceno presso il Forte Malatesta, che ora continua a Roma e che si concluderà a Senigallia, sulla riviera adriatica. Della selezione fanno parte manufatti dall’alto valore devozionale e/o storico-

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AGENDA DEL MESE hanno soggiornato e che hanno contribuito a modificare la geografia della storia dell’arte. Gli interventi di restauro sono stati eseguiti con innovative analisi diagnostiche, che non soltanto hanno consentito di porre rimedio ai danni subiti dalle opere, ma hanno permesso di effettuare nuove attribuzioni e di acquisire nuove conoscenze relative alla tecnica pittorica e ai materiali usati dai pittori, accrescendo le conoscenze che si avevano su questo patrimonio e aprendo la strada a molti studi scientifici. info tel. 06 99572979; e-mail: info@artifexarte.it; www.artifexarte.it CLASSE (RAVENNA) TESORI RITROVATI. IL BANCHETTO DA BISANZIO A RAVENNA Museo Classis Ravenna fino al 20 settembre

artistico, fra i quali figurano crocifissi lignei e vesperbild di ambito tedesco, che ancora oggi si trovavano all’interno delle chiese come oggetti di culto da parte dei fedeli. Vi sono quindi nomi importanti, come Jacobello del Fiore, con la serie delle Scene della vita

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di Santa Lucia provenienti dal Palazzo dei Priori di Fermo, Vittore Crivelli con la Madonna orante, il Bambino e angeli musicanti di Sarnano, Cola dell’Amatrice, di cui spicca la Natività con i santi Gerolamo, Francesco, Antonio da Padova e Giacomo della Marca dalla

sacrestia della chiesa di S. Francesco ad Ascoli Piceno. E ancora, da Roma, Giovanni Baglione e Giovanni Serodine, che dalla Svizzera seguí nella capitale l’esempio di Caravaggio. Tutti autori di indubbia fama che nelle Marche sono nati o che vi

I ceti dirigenti della tarda antichità hanno molti modi per autorappresentarsi. Uno dei principali è commissionare oggetti preziosi ad artigiani specializzati. Un settore di grande prestigio è quello dell’argenteria: coppe, boccali, posate e grandi piatti sono tra gli oggetti piú richiesti dalle aristocrazie. Spesso questi oggetti recano delle raffigurazioni di miti antichi o scene agresti e di banchetto. Il senso di queste rappresentazioni si giustifica nei modelli della loro committenza. Importanti personaggi vogliono comunicare il loro status symbol, le loro radici culturali. In molti casi si tratta di prodotti di alta qualità realizzati nei piú importanti centri culturali dell’impero. Il percorso espositivo inizia da due grandi piatti realizzati in argento dorato di epoca tardosettembre

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campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi «Mi sta a cuore» – sono riusciti a riunire nelle Gallerie del Palazzo vescovile di Padova, una ventina di terrecotte rinascimentali del territorio, orgogliosa testimonianza delle migliaia che popolavano chiese, sacelli, capitelli, conventi e grandi abbazie di una Diocesi che spazia tra le province di Padova, Vicenza, Treviso, Belluno e Venezia. La diffusione tanto capillare della scultura in terracotta proprio in questo territorio va individuata nella presenza prolungata e molto attiva, a Padova, a ridosso della basilica di S. antica provenienti dal Museo Archeologico di Cesena. La sequenza narrativa della mostra prende avvio dalla documentazione del loro ritrovamento e stabilisce connessioni con analoghi grandi missoria in argento che, per qualità e modalità di realizzazione, appaiono in relazione con quelli di Cesena. Inoltre partendo dalla rappresentazione del banchetto, incorniciata al centro di uno dei grandi piatti di Cesena, si sviluppa un racconto sulla produzione di suppellettili da mensa tardo antiche e sulle rappresentazioni figurative di banchetto circolanti tra le aristocrazie del tempo, derivate da modelli prestigiosi, funzionali anche a precise esigenze di affermazione e esaltazione sociale. Queste suppellettili, infatti, erano commissionate per essere donate durante alcune cerimonie o per celebrare incarichi e nomine. Ai tempi dell’impero romano, inoltre, era molto importante anche il «peso» del vasellame da cui si desumeva la ricchezza del

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proprietario. La mostra, che si inserisce perfettamente nel percorso espositivo del Classis Ravenna, punto culturale di riferimento per chiunque voglia conoscere la storia della città, tre volte capitale, dalle origini all’anno Mille, approfondisce un aspetto della vita e della cerimonialità tardo antica alle quali il Museo dedica molta attenzione. Unitamente alla basilica di S. Apollinare in Classe, definita una dei piú grandi esempi di basilica paleocristiana e dotata di meravigliosi mosaici e all’Antico Porto di Classe, considerato uno dei principali scali portuali del mondo romano e bizantino, unico per suggestione, Classis Ravenna costituisce il Parco Archeologico di Classe. info tel. 0544 473717; www.classisravenna.it; www.ravennantica.it PADOVA «A NOSTRA IMMAGINE». SCULTURA IN TERRACOTTA A PADOVA NEL RINASCIMENTO DA DONATELLO A RICCIO Museo Diocesano fino al 27 settembre

Secoli, dispersioni, furti, indifferenza, vandalismi hanno quasi completamente distrutto o disperso un patrimonio d’arte unico al mondo: le sculture in terracotta rinascimentali del territorio padovano. Ma qualcosa di prezioso e significativo è rimasto e il Museo Diocesano di Padova, insieme all’Ufficio beni culturali, al termine di una intensa, partecipata attività di recupero, studi, ricerche e restauri – sostenuti anche dalla

Antonio, della bottega di Donatello e, dopo di lui, di Bartolomeo Bellano, Giovanni De Fondulis e Andrea Riccio. Questi artisti creavano capolavori in pietra, marmo, bronzo, ma anche nella piú umile (e meno costosa) terracotta. Opere preziose ed espressive, e per questo molto ambite e richieste. In queste fucine venivano alla luce grandi scene di gruppo, come i Compianti, ma anche piccole ma raffinate Madonne con il

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AGENDA DEL MESE Bambino o immagini di Santi per devozione familiare, di dimensioni ridotte ma spesso di grande qualità. E la mostra, quasi per campione, accoglie esempi emozionanti di queste variegate produzioni artistiche distribuite nel territorio, non meno pregiate di altre sculture in terracotta che saranno prestate per l’occasione da alcuni Musei nazionali e internazionali. info tel. 049 652855 o 049 8761924; www.museodiocesanopadova.it URBINO RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 27 settembre

La grande stagione rinascimentale italiana trova piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in

poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore urbinate: in inglese Raphael Ware. E la Galleria Nazionale delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it PARIGI SGUARDI SULLA VITA QUOTIDIANA Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 27 settembre

Gli uomini e le donne del Medioevo non avevano bisogni granché diversi dai nostri:

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nutrirsi, avere un tetto sotto il quale vivere, prendersi cura della propria salute… Preoccupazioni alle quali si affiancava il desiderio di nutrire la mente, oltre che lo stomaco, di misurare il tempo, le distanze o le quantità. Un quadro, insomma, sovrapponibile all’attuale, che la mostra allestita dal museo parigino documenta grazie a una ricca selezione di oggetti, con l’intento di ribadire, ancora una volta, quanto poco «bui» siano stati i secoli dell’età di Mezzo, nel corso dei quali non mancava l’attenzione per la pulizia personale, né l’aspirazione a formarsi una cultura. Di certo, alcune settembre

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assenze possono sorprendere, come per esempio nel caso della forchetta – la cui introduzione si ebbe solo nel XVI secolo – o degli armadi guardaroba, ma, nel complesso, emerge l’immagine di una società dinamica, protagonista di mutamenti significativi e capace di dotarsi di strumenti sempre piú evoluti e, in una parola, «moderni». info www.musee-moyenage.fr

di intellettuale finissimo, vicino a grandi artisti, Raffaello in primis, ma anche a scrittori, intellettuali, regnanti e papi, attento politico, incaricato di ambascerie tra e piú delicate del suo tempo. Uomo che sfuggí a intrighi, che seppe muoversi in modo accorto in un periodo storico complessissimo. Attingendo alla fonte imprescindibile delle sue Lettere, il progetto espositivo ha il merito di ricostruire l’intera vicenda del Castiglione ponendola nel contesto del suo tempo, accanto a figure altrettanto complesse e affascinanti come quelle di Guidobaldo da Montefeltro, Duca di Urbino, di Leone X, dei Medici, degli Sforza, dei Gonzaga e di Isabella d’Este «prima donna del mondo», dell’Imperatore Carlo V e di artisti – Raffaello innanzitutto, ma anche Leonardo, Tiziano, Giulio Romano…–, di fini intellettuali come Pietro Bembo

FIRENZE STORIE DI PAGINE DIPINTE. MINIATURE RECUPERATE DAI CARABINIERI Palazzo Pitti, Sala delle Nicchie fino al 4 ottobre

Antichi manoscritti miniati, pagine e miniature ritagliate, provenienti dalle numerose istituzioni religiose italiane, trafugati e in seguito recuperati dal Nucleo Tutela del Patrimonio, celebrano il lavoro svolto negli anni dai Carabinieri dell’Arte, richiamando l’attenzione sulla fragilità estrema del nostro patrimonio storico artistico e sulla necessità della tutela e della corretta conservazione. Il percorso espositivo presenta una serie di «casi di studio» esemplari, che documentano i diversi metodi per ricostruire la storia di questi oggetti, spesso manomessi per favorirne il commercio illegale: grazie a indizi anche minimi, avvalendosi di competenze interdisciplinari, è possibile ricollegare questi oggetti dispersi al loro contesto fisico e geografico di appartenenza. Oltre a spiegare le caratteristiche peculiari di questi gruppi di codici rispetto al percorso della storia della miniatura, di ognuno si evidenzieranno le pagine recuperate e, se ve ne sono, quelle ancora da ricercare. info www.uffizi.it

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URBINO BALDASSARRE CASTIGLIONE E RAFFAELLO. VOLTI E MOMENTI DELLA VITA DI CORTE Palazzo Ducale, Sale del Castellare fino al 1° novembre

Nelle Sale del Castellare del Palazzo Ducale di Urbino viene raccontata, in modo del tutto originale, la vicenda di un uomo che fu figura centrale del Rinascimento europeo. Baldassarre Castiglione, mantovano d’origine ma urbinate d’adozione, è noto per il suo Cortegiano, opera che, tradotta nelle principali lingue dell’epoca, forní «il» modello di comportamento per l’alta società dell’intero continente. Ma circoscrivere la figura del Castiglione a questa pur celeberrima opera sarebbe limitante. Come la mostra evidenzia, la sua fu una figura

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AGENDA DEL MESE e di studiosi come Luca Pacioli. Il percorso si articola in sette sezioni fitte di opere importanti, utili a dare la dimensione dell’epoca raccontata. Integrate attraverso soluzioni multimediali che ampliano il racconto, offrendo ulteriori chiavi di lettura, agendo su immagini e stimoli visivi ed emotivi. La mostra si propone come un vero e proprio scrigno d’arte ma anche di arti applicate, presentando abiti per feste, tornei e parate, armi, antiche edizioni e manoscritti, e poi la musica, per citare solo alcuni dei temi approfonditi. Naturale complemento dell’esposizione sono il Palazzo Ducale dei Montefeltro e l’intera città di Urbino, contenitori e al contempo contenuto di un evento che fa della corte urbinate uno dei suoi fondamentali punti di interesse. info www.vieniaurbino.it BOLOGNA LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni fino al 10 gennaio 2021

Un viaggio di ritorno travagliato, che ai tre secoli di attesa ha sommato altro tempo, se possibile ancor piú interminabile nella sua incertezza: ma finalmente il capolavoro ritrovato è pronto a rivelarsi: Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni di Bologna ospita la grande mostra che riporta in città, a 500 anni dalla sua realizzazione e a 300 dalla sua dispersione, le tavole del Polittico Griffoni dei ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che proprio nella città felsinea, con la maestosa pala d’altare realizzata tra il 1470 e il 1472 per l’omonima cappella nella basilica di S. Petronio, diedero

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avvio al loro straordinario sodalizio artistico. Un lavoro di oltre due anni e il coinvolgimento di 9 Musei internazionali proprietari delle singole tavole, la metà dei quali ubicati fuori dai confini nazionali, hanno dato vita a un evento eccezionale per la storia dell’arte, che ha il merito, tra le altre cose, di ridefinire la centralità della città di Bologna nel panorama rinascimentale italiano. La mostra si compone di due sezioni: il piano nobile di Palazzo Fava ospita «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna»: le 16 tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei prestatori sono visibili assieme alla ricostruzione del Polittico, una vera e propria rimaterializzazione della pala d’altare cosí come dovette apparire ai Bolognesi di fine Quattrocento. La superba pala d’altare dedicata a san Vincenzo Ferrer fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni all’interno della basilica di S. Petronio a Bologna. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese Francesco del Cossa, allora all’apice della sua straordinaria carriera artistica, iniziata intorno al 1456 e stroncata dalla peste nel 1478. I contatti tra l’artista e il capoluogo emiliano, attivi per quasi un ventennio, si tradussero nella realizzazione di alcuni capolavori come l’Annunciazione di Dresda, la Madonna del Baraccano e la Pala dei Mercanti. Il Polittico Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Del Cossa e De’ Roberti lavorò alla cornice il maestro d’ascia Agostino de Marchi da settembre

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Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, Pompeo Aldrovandi, monsignore e poi cardinale, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso dell’Ottocento i dipinti entrarono nel giro del mercato antiquario e del collezionismo, giungendo, infine, ai nove musei che oggi custodiscono le opere, la metà dei quali hanno sede fuori dai confini nazionali. Il secondo piano ospita «La Materialità dell’Aura: Nuove Tecnologie per la Tutela», sezione che illustra, attraverso video, immagini e dimostrazioni con strumenti di scansione 3D, l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del Polittico. info tel. 0544 473717; https://genusbononiae.it

sabato 12, i cavalieri incontrano i bambini; domenica 13, Giostra all’Incontro (su prenotazione e a numero chiuso). Il programma potrà subire variazioni. info IAT, tel. 0547 356327; www.giostradicesena.it MODENA

Approfondire il genere narrativo della fiaba attraverso un’indagine intellettuale, antropologica e culturale: questo è l’obiettivo del festival in programma a Modena, che propone narrazioni in voce semplice, performance, spettacoli, poesie, concerti e tante iniziative dedicate quest’anno alla Baba Jaga, ovvero la «Grande Madre». Il tema sarà declinato da

discutendone le prospettive e le implicazioni sociali ed etiche. L’edizione 2020 conferma il legame con i maggiori protagonisti del dibattito filosofico, ma presenta anche diciassette voci nuove. Tra i protagonisti ricorrenti si ricordano, tra gli altri, Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Barbara Carnevali, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, Michela Marzano, Stefano Massini, Salvatore Natoli, Telmo Pievani, Massimo Recalcati, Carlo Sini, Silvia Vegetti Finzi e Stefano Zamagni. Tra i «debuttanti», Alessandro Aresu, Michele Di Francesco, Barbara Henry, Mark O’Connell, Jeffrey Schnapp. Il programma propone anche la sezione «la lezione dei classici»: studiosi e studiose eminenti, tra cui Simona Forti ed Emanuela Scribano, commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali rilevanti per il tema delle macchine. info tel. 059 2033382; www.festivalfilosofia.it

MACCHINE FESTIVALFILOSOFIA 2020 18-20 settembre

GIOSTRA ALL’INCONTRO Rocca Malatestiana, Ippodromo del Savio, Sferisterio 11-13 settembre

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al culto della Dea Madre e alla vibrazione del divino femminile che scaturisce dalla Terra. info tel. 340 3191825; www.festivaldellafiaba.com MODENA, CARPI E SASSUOLO

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magistrali, in cui grandi personalità del pensiero filosofico affronteranno le varie declinazioni del tema, per far emergere le sfide poste da innovazione tecnologica e intelligenza artificiale a varie sfere del pensiero e dell’azione, dal lavoro alla salute, dalla politica alla vita di relazione,

FESTIVAL DELLA FIABA Circolo culturale Filatoio 11-13 settembre

Appuntamenti

Il Comune di Cesena, in collaborazione con l’Associazione Giostra di Cesena, recupera, seppure con un programma ridotto e nel rispetto delle normative Covid, la Giostra all’Incontro 2020. La manifestazione prevede: venerdí 11, alle ore 18,00: presentazione del libro di Duccio Balestracci Il Palio di Siena, una festa italiana;

non perdere quello sensoriale itinerante, per uno spettatore alla volta, dedicato alla fiaba di Prezzemolina, con disegni di Gea Zoda e ideato dal Gruppo di ricerca La Fenice. E poi performance, come AMAM, ovvero madre al contrario. Un percorso di ricerca archeologico-musicale legato

scrittori, professori e pensatori, in particolare nell’ambito di un ciclo di conferenze che si svolgeranno presso lo spazio ProgettoLavoratorio. Ancora una volta, le fiabe d’una volta saranno protagoniste assolute e quest’anno l’obiettivo è puntato su quelle della tradizione tedesca, norvegese e russa. Vassilissa la Bella, per esempio verrà narrata tre volte, ogni sera. Tra gli spettacoli, da

Prima edizione dopo la scomparsa di Remo Bodei, l’intero programma del Festivalfilosofia 2020 vuole essere un omaggio al suo pensiero e alle sue opere sul tema delle macchine. Sarà un festival dal vivo, pur adottando i protocolli e i dispositivi previsti dall’emergenza Covid19. La partecipazione alle lezioni avverrà esclusivamente tramite prenotazione on line dal sito della rassegna. Giunto alla ventesima edizione, il format del festival prevede come sempre lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, attività per ragazzi e cene filosofiche. Gli appuntamenti saranno quasi 150 e tutti gratuiti. Piazze e cortili ospiteranno oltre 40 lezioni

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divina commedia casella

Il cantore misterioso

di Franco Suitner

Sebbene fosse legato a lui da una sincera amicizia, ne apprezzasse il talento e ne abbia fatto uno dei protagonisti del II canto del Purgatorio, Dante non rivela l’identità completa del musico Casella. E, da allora, si è aperta una gara nobile e dotta per scoprire le generalità e la terra d’origine di questo sfuggente personaggio della Divina Commedia...

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el II canto del Purgatorio Dante incontra un personaggio a lui legato e che la tradizione interpretativa chiama «il musico Casella». Come vedremo, questa definizione non è precisa, anzi è per certi aspetti fuorviante. Della sua personalità storica non si conosce in pratica nulla. Eppure, malgrado le centinaia di interpretazioni che hanno coinvolto questo episodio dantesco, e il cui elenco si accresce in pratica anno per anno, è ancora interessante riconsiderare la sua figura e aggiungere qualcosa al quadro offerto dalla tradizione critica. Casella si chiama semplicemente Casella, senza altre aggiunte, non si chiama per esempio Pietro o Piero, come incredibilmente si trova scritto in alcune trattazioni anche di musicologi o studiosi di letteratura recenti. Le tre attestazioni del suo nome che abbiamo, quella della Commedia, quella del codice Vat. Lat. 3214 e quella contenuta in un sonetto del poeta trevigiano del primo Trecento Niccolò de’ Rossi Io vidi ombre e vivi al paragone, sono tutte concordi su questo. La tentazione di completare il nome di Casella rientra in una piú generale tendenza a nobilitare il personaggio. Se Dante lo aveva introdotto nel suo poema, dandogli cosí grande rilievo all’apertura del Purgatorio, parlandone con grande coinvolgimento, doveva per forza trattarsi, agli occhi dei lettori successivi, di un personaggio di grande levatura, a cui la modestia del semplice nome o nomignolo Casella poco si adattava. Una certa tendenza alla nobilitazione è già riscon-

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Casella, dipinto di Amos Cassioli (1832-1891). Siena, Società di Esecutori di Pie Disposizioni.

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divina commedia casella trabile nelle attestazioni dei commentatori antichi, che mostrano in sostanza di non sapere nulla di preciso su di lui. Nel commento latino di Pietro, figlio di Dante, si parla soltanto di un’umbra Caselle, e il nome è trattato con estrema semplicità. Anche in altri commentatori fanno capolino qualifiche e complimenti del tipo, per esemplificare, di «bonus cantor», «buono cantore», «finissimo cantatore», «famosus cantor», complimenti che spesso si irrobustiscono molto, procedendo verso i commenti di epoca rinascimentale, con l’attribuzione piú esplicita dell’eccellenza e della qualifica di «musico», sentita come nobilitante rispetto a quella semplice di cantore o intonatore usate inizialmente. Neanche gli studiosi moderni si sono sottratti a questa tentazione, e alcuni parlano di un «magister Casella»: ma di questo titolo di magister non esiste traccia in alcun documento e la possibilità di attribuirlo a Casella, in analogia all’uso riservato ad altri musici soprattutto piú tardi, appare ipotetica.

Nomi semplici o soprannomi

Il nome suggerisce, se mai, possibilità diverse. La sua semplicità fa pensare piuttosto a un esecutore dalla fisionomia piuttosto duecentesca che trecentesca, un esecutore che, nella varia scala che porta dalla figura del giullare esecutore di testi poetici composti da altri, alla maniera trobadorica, fino all’incommensurabile figura del musico teorico del Trecento maturo, si situa piú vicino al primo polo che al secondo. Si sa che il giullare che eseguiva i componimenti dei trovatori aveva in genere un nome molto semplice o un soprannome, che denotava umiltà di origine e condizione sociale. Il nomignolo – ne sono attestati tanti, sia in Italia che nelle altre aree europee – era scelto per caratterizzarsi e, probabilmente, anche per alludere ad alcune qualità specifiche, spesso in relazione al carattere comico o divertente della propria arte o della persona. Sappiamo che nella scala gerarchica della società medievale il giullare occupava una bassa posizione. Nei vari ambiti linguistico-culturali europei il trovatore, l’inventore dei testi poetici e qualche volta delle melodie, si trovava spesso in tensione con lui per rivendicare una posizione piú elevata. In qualche caso il trovatore poteva anche essere giullare, cioè diffusore delle proprie creazioni, e il giullare professionista talora farsi trovatore, ma la distinzione delle parti sussisteva, anche se in certi casi piú ruoli potevano unirsi nella stessa persona. In Italia la situazione non doveva essere diversa. È in

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qualche caso sicuro, o probabile, che alcuni poeti fossero professionalmente giullari. Casella sembra essere un nome proprio o un nomignolo molto semplice di questo tipo. Solo piú tardi diventerà un cognome italiano di una buona diffusione. Alla fine del Duecento sembra essere un nome non certo unico, ma neppure comunissimo. Ogni tanto, nei documenti comunali, ne viene segnalato qualcuno. Sembra piú difficile precisare che cosa significasse di preciso. I dizionari specializzati lo connettono col tardo latino casula, «piccola casa, casetta», quindi, per estensione, qualunque area ben definita che contenga qualche cosa. Il dizionario Battaglia segnala anche un significato musicale, ma non vi sono attestazioni medievali di quest’uso. Vicino a casella è ovviamente anche il termine cella o çella, ben attestato all’epoca di Dante, soprattutto nel significato di «locale, taverna, celletta», ma anche nel senso di «comparto», «cellula», a indicare una zona in qualche modo delimitata. Connesso è evidentemente l’altro fondamentasettembre

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In questa pagina miniature raffiguranti l’arrivo delle anime nel Purgatorio e Dante che incontra Casella, da un’edizione della Divina Commedia con commenti in latino. Prima metà del XIV sec. Londra, The British Library. Nella pagina accanto miniatura dedicata alle poesie note sotto il nome di Wartburgkrieg (Guerra del Wartburg), dal Codice Manesse. 1300-1340. Heidelberg, Biblioteca dell’Università. Secondo la leggenda, la Wartburgkrieg sarebbe stata una gara fra cantori, promossa e arbitrata da Ermanno I di Turingia, ricordato come cultore della poesia tedesca.

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divina commedia casella le significato di casella, che rimanda all’idea di borsa, contenitore, scarsella, e vi è da ricordare che c’è stato chi, come il filologo Alessandro D’Ancona, nel 1897, ha cercato di connettere il nostro Casella a uno Scarsella de Florentia, condannato a Siena nel 1282 per essere stato trovato a girare di notte per la città. Si tratta di una delle proposte di identificazione del personaggio piú interessanti. Indubbiamente il nome, che potrebbe rimandare al contenitore del compenso del musico, si adatterebbe bene a un personaggio di questo tipo, senza che peraltro sia possibile spingersi oltre nelle ipotesi di identificazione, dato che, come si diceva, il nome non sembra aver costituito un unicum. Appare in ogni caso evidente il carattere estremamente semplice, umile del nome di un musico che non sembra avere tanto a che fare con il magister Casella di cui si diceva prima, quanto con un personaggio piú vicino alla figura del giullare-esecutore che a quella del musico vero e proprio. Del resto, nel maturo Trecento, ci si burlerà di questa qualifica di maestro, troppo facile a ottenersi. Iacopo da Bologna, nel madrigale Oselletto salvazo, lamentando la decadenza della musica del suo tempo, dice della maistria che «pochi l’hano e tuti se fa magistri».

L’eccellenza di Ceccolino

Analoghi sembrano la maggior parte dei nomi di musici ricordati insieme a Casella nel già citato sonetto di Niccolò de’ Rossi, soprattutto quelli che appaiono piú vicini a lui. Nel componimento, scritto forse negli anni Venti del Trecento da Niccolò per lodare un certo Ceccolino da Manzolino – musico che oggi difficilmente riusciamo a far aderire a un personaggio reale –, viene ricordato un Casella che è sicuramente l’amico di Dante. È molto probabile che il suo nome sia stato inserito soltanto, o quasi soltanto, grazie alla citazione della Commedia, che lo aveva reso popolare. Il sonetto elenca musici o cantori del passato e del presente, fra cui Casella, ai fini di dichiarare l’eccellenza su tutti loro di Ceccolino. In genere vengono indicati attraverso nomignoli e soprannomi, che perlopiú rimandano a una condizione modesta, almeno quanto all’attività esercitata. Si tratta in gran parte di giullari, o di rimatori-giullari. La qualifica di «uomo di corte», talora associata a Casella, è equivoca e poco sicura, ma può servire a indicare la scena d’azione della maggior parte di questi personaggi, e forse lo stile di vita. Il Casella-Scarsella multato a Siena è definito nei documenti proprio homo curiae, e anche il termine di curialis è stato talora usato in riferimento a Casella, sottolineando come Dante si sarebbe fortemente identificato col personaggio, riconoscendosi autobiograficamente in lui, poiché era anch’egli assimilabile alla errabonda categoria degli uomini di corte. Resta però il sospetto che il termine sia ricalcato piú sulla situazione tipica del musico trecentesco che

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Miniatura raffigurante un cantore accompagnato da musicanti che suonano una viella e un organo positivo, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

non su quella dell’amico di Dante. In realtà, non possiamo sapere se Casella fosse un musico errante, anche se non sembra neanche probabile che possa essere vissuto stabilmente a una corte. Le patrie che gli sono state attribuite dai commentatori danteschi sono soprattutto settembre

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In alto, a destra tavola realizzata da Alberto Martini per illustrare il II canto del Purgatorio, dall’Album Dantesco. 1920-1930. Oderzo, Fondazione Oderzo Cultura.

Firenze, e secondariamente Pistoia. Solo un’isolata testimonianza lo lega ad Arezzo, ma non viene solitamente presa in considerazione. La pluralità delle patrie attribuite potrebbe significare pluralità di presenze, e quindi deporre a favore di un mestiere errabondo, anche se ciò sembra accordarsi

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meno col tratto di pigrizia che Dante sembra associare al personaggio, come ad altri di quelli che incontra nel Purgatorio, e che sembra piuttosto rimandare al ricordo di una conoscenza giovanile, probabilmente fiorentina, come quella di Belacqua, altro nome che si associa a una figura legata al mondo della musica e quindi della poesia. In relazione alla figura di Casella mi sembrano di notevole interesse tre versi del cosiddetto Bisbidis di Immanuel Romano, la straordinaria e poco conosciuta poesia trecentesca in cui l’ebreo romano Emanuele, approdato

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divina commedia casella A destra miniatura con musici e danzatori, dalle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de El Escorial.

a Verona, descrive una festa che si svolge alla corte di Cangrande della Scala, o per strade e piazze della città. È un testo in cui la musica riveste un’importanza fondamentale, visti i suoni onomatopeici, riferiti a voci, strumenti e rumori vari, che lo trapuntano tutto. Ci porta a un ambiente ben conosciuto da Dante, anche se c’è qualche difficoltà di precisazione cronologica. Ci troviamo fra il 1312 e il 1328, nella città in cui regnava il signore della Scala, di cui anche Dante fu ospite, e la descrizione rimanda a una festa grandiosa. A un certo punto del testo si accenna a una precisa distinzione fra tre figure: «Qui boni cantori / con intonatori / e qui trovatori / udrai concordare». La distinzione è puntuale: cantori, intonatori, trovatori. Si tratta di tre funzioni, che a volte possono trovarsi distinte in tre persone diverse, per cui abbiamo l’indicazione del giullare o cantore esecutore, poi di colui che ha creato o adattato al testo la melodia, quindi del trovatore, che è autore del testo. Queste funzioni potevano, caso per caso, variamente combinarsi e spesso convivere, magari parzialmente, nella stessa persona, come accadeva dai provenzali in poi. Il trovatore poteva in alcuni casi anche creare la melodia, come ci dicono spesso le loro antiche biografie, soprattutto in riferimento al primo periodo della tradizione trobadorica. Il giullare poteva anche farsi trova-

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A sinistra un’altra miniatura dalle Cantigas de Santa Maria, raffigurante due menestrelli. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de El Escorial.

tore, cioè autore dei testi. Il trovatore poteva eseguire le sue creazioni senza affidarle ad altri. La situazione qui descritta da Immanuel sembra essere la prosecuzione della situazione già trobadorica. Queste funzioni sembrano vicine a quelle che un importante poeta duecentesco, Guittone d’Arezzo, accredita a un collega, Iacopo da Leona, piangendone la morte e la perdita di un «bon trovatore (...) sonatore e cantator gradivo».

Artisti guidati dall’istinto

Si deve però osservare che nessuna di queste tre funzioni corrisponde a quella del musico, del teorico della musica, l’unico al quale, in senso stretto, dovrebbe essere possibile accreditare un’attività veramente artistica e accademicamente riconosciuta. I medievali distinguono nettamente l’attività teorica dalle funzioni pratiche. Distinguevano sempre fra cantores, poetae e musici. Solo il musico era ritenuto avere una conoscenza profonda delle cose musicali. Gli altri, i cantori, erano guidati dall’istinto, essendo dotati di capacità essenzialmente pratiche. settembre

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Quasi certamente, Casella non è un musico e infatti diventa tale solo a posteriori. Solo per approssimazione, o per omaggio a una tradizione, possiamo usare questo termine per lui oggi, anche se è quello che impiega di solito ogni commento dantesco. Per i commentatori piú antichi è «cantore», come abbiamo visto. Per alcuni è «cantore et intonatore di canti». Non è un teorico, è guidato nelle sue esecuzioni, come precisamente afferma Dante, da memoria e uso, come lo erano gli esecutori della musica medievale, e parzialmente anche gli stessi poeti. Importante è anche quel verbo concordare, che troviamo nel passo di Immanuel: «udrai concordare». Il senso generale è chiaro, soprattutto con riferimento al suo impiego in campo musicale. Cantori, intonatori e trovatori collaborano fra loro, in alcuni casi vengono anche a coincidere nelle stesse persone. Nell’Intelligenza, un poemetto che potrebbe essere del periodo della giovinezza di Dante, troviamo sia le voci che «concordano» («e audivi dolzi boci e concordanti»), sia gli strumenti («tromb’e cen-

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namelle in concordanze»). Brunetto Latini osserva come la musica «tratta di concordare voci e suoni». Casella è dunque cantore, come ci attesta Dante, ed è intonatore, come ci dicono sia Dante, sia la dicitura del cod. Vat. Lat. 3214 che gli accredita di avere creato o attribuito una melodia al componimento di Lemmo da Pistoia Lontana dimoranza. Tutta la descrizione della sua performance, nel II canto del Purgatorio, ci riporta a una situazione esecutiva ancora tipicamente duecentesca, erede sostanzialmente della situazione esecutiva-base attestata per la tradizione provenzale. Del resto, rispetto al momento in cui Dante mette su carta l’episodio (forse siamo già nella seconda decade del Trecento), la scena riporta quel che era accaduto, o si riteneva plausibile potesse essere accaduto, un quarto di secolo prima o giú di lí, al tempo della giovinezza di Dante, dopo che egli aveva creato la canzone Amor che ne la mente mi ragiona. Dopo il primo riconoscimento e le prime parole scambiate con il musico, Dante formula in questi termini la sua richiesta di ascoltare qualcosa da lui:

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divina commedia casella Coro di angeli, particolare di un’Annunciazione del pittore catalano Jaume Ferrer II. 1457. Tarragona, Museo Diocesano.

«E io: “Se nuova legge non ti toglie memoria o uso all’amoroso canto che mi solea quetar tutte mie doglie, di ciò ti piaccia consolare alquanto l’anima mia, che, con la mia persona venendo qui, è affannata tanto!” “Amor che ne la mente mi ragiona” cominciò elli allor sí dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi sona». C’è un termine, in questo passo, che non ha mai richiamato l’attenzione, probabilmente perché ritenuto banale, ed è quel verbo solea nell’espressione «che mi solea quetar tutte mie doglie». È un’espressione che, nella poesia italiana, è destinata a divenire un luogo comune, che è proprio Dante a fondare.

Adeguare la forma al contenuto

Come già i trovatori, il poeta fa riferimento talora alla circostanza che il suo canto verrà a cessare o cambierà il suo tono, per esempio divenendo aspro e roco da dolce e soave che era un tempo. Il suono legato alla poesia d’amore è di sua natura dolce, ma può mutare all’improvviso a causa di un evento o di una diversa situazione. La donna può non esserci piú, o addirittura essere morta, il suo atteggiamento può essere cambiato, divenuto duro e scostante, il poeta può essere ormai vecchio e disadatto al canto cortese. In base al principio retorico che suggeriva di adeguare la forma al contenuto, muta anche il tono della poesia. È proprio Dante che inizia significativamente a utilizzare il verbo solere quando tocca questo tema. Avviene in questo passo della Commedia, ma già era accaduto nell’incipit della canzone «Le dolci rime d’amor ch’i’ solia / cercar ne’ miei pensieri, / convien ch’io lasci». Dopo Dante, l’uso del verbo solere, a indicare una situazione di felicità in cui la poesia dolce era usuale, o viceversa una dolorosa in cui si è fatta impossibile, diviene formulare, come si potrebbe facilmente vedere attraverso tanti esempi tratti, fra l’altro, da rime del Petrarca e del Boccaccio. Si chiariscono per questa via alcuni aspetti fondamentali delle espressioni che Dante rivolge a Casella. Attraverso l’esecuzione di Amor che ne la mente, Dante riporta indietro la macchina del tempo all’epoca in cui questo, e altri simili componimenti, erano stati creati, e probabilmente in alcuni casi cantati. Il quadro viene retrocesso ai primi anni Novanta del Duecento, o addirittura a qualche tempo prima. Siamo in ogni caso lontani dal momento in cui l’autore sta scrivendo il canto purgatoriale. Ciò è importante anche per capire quali caratteristiche possa avere avuto il tipo di esecuzione

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rievocata, che va riportata appunto alle modalità esecutive trobadoriche e a quelle da esse discese, piuttosto che ai nuovi esperimenti. Dante, come prima di lui avevano fatto i trovatori, fa coincidere la possibilità della poesia d’amore con la giovinezza, il suono dolce con quello che esprime una condizione di felicità. Come questa viene a mancare quando l’amore non c’è piú, cosí il canto d’amore non è piú adatto a una diversa stagione della vita, come già si diceva in poesia. Cosí accade, ancor piú chiaramente, quando si trovano insieme un gruppo di anime purganti. Infatti, l’esecuzione della canzone, nel passo della Commedia, viene bruscamente interrotta da Catone, il quale rimprovera aspramente Dante, Virgilio e le altre anime per essersi attardate, trascurando i doveri della penitenza: «Che è ciò, spiriti lenti? / qual negligenza, quale stare è questo? / Correte al monte...». Tuttavia, in questo rimprovero, e nell’abbandono settembre

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A destra suonatore di liuto, particolare di un affresco di Andrea da Bologna nella cappella di S. Caterina d’Alessandria, nella Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1368 circa.

dell’esecuzione di Amor che ne la mente, non c’è il ripudio di un’esperienza estetica e spirituale ancora in grado di ammaliare coloro che le si accostino, ma solo la constatazione del suo essere fuori luogo in questa determinata situazione. Dante non ripudia la sua esperienza poetica – in questo caso quella della stagione stilnovistica –, che del resto celebrerà poco oltre nell’episodio dell’incontro con Bonagiunta da Lucca e dell’omaggio reso all’altra sua canzone, Donne ch’avete intelletto d’amore, ma la inquadra in un periodo preciso della sua vita, quello giovanile, ritenendo che altre, e piú profonde, siano le cose che adesso debbano impegnarlo.

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L’associazione del canto e della musica alla stagione della giovinezza, in un’atmosfera dominata dalla nostalgia, è la stessa ottica che troveremo in Petrarca, quando, nella lettera familiare XIII 8, si domanda – ormai maturo – dove sia finita la dolcezza del canto e della musica che un tempo lo estasiavano («extra me ipsum rapi soleo»), e si noti come utilizzi anche in latino il verbo solere, tipico in questo contesto. Anche nell’uso in Purgatorio II la dolcezza della poesia deve contrastare una situazione di dolore e disagio, quella particolare creatasi in Dante dal triste attraversamento dell’Inferno: «di ciò ti piaccia consolare alquanto

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divina commedia casella Angeli musicanti, particolare della Vergine degli Angeli, tempera e foglia d’oro su tavola. 1385 circa. Barcellona, Museo Nazionale d’Arte della Catalogna.

/ l’anima mia, che, con la mia persona / venendo qui, è affannata tanto!». L’espressione usata in rapporto al canto, «che mi solea quetar tutte mie doglie», appunto i dolori dell’esistenza, ricorda quella che poi userà Petrarca: «perché cantando il duol si disacerba» (Rime 23).

Il liutaio Belacqua

La musica non viene rinnegata, ma nella situazione descritta è considerata sostanzialmente distraente. L’episodio si inserisce nei numerosi passi in cui vengono descritte e criticate la pigrizia, la resistenza verso l’espiazione, proprie di molte anime del Purgatorio. C’è un evidente collegamento con l’incontro con un altro personaggio legato al mondo musicale della giovinezza di Dante, il Belacqua liutaio del IV canto, e un collegamento esiste col piú esteso episodio di Forese Donati, nei canti successivi. Anche Belacqua viene indicato con un semplice nome, anzi un soprannome, che lo segnala come appartenente a una condizione simile a quella di Casella. È chiaro che Dante sta pensando a un gruppo di conoscenti della giovinezza: persone alle quali ha voluto bene e di cui ha apprezzato alcuni talenti specifici, pur nell’assoluta consapevolezza dei difetti che avevano, che qui nel Purgatorio devono scontare. Quale tipo di strumenti a corda esattamente Belacqua realizzasse non pare al momento precisabile, e potrebbe anche facilmente non trattarsi di liuti. Le indicazioni dei commenti antichi si prestano a diverse interpretazioni. L’utilizzo del liuto è peraltro attestato nella musica profana, e in quella sacra di tipo popolare, come provano le celebri miniature che accompagnano i manoscritti delle Cantigas de Santa Maria della penisola iberica. Nel tardo Medioevo, il liuto apparirà spesso legato a immagini in cui a suonarlo sono gli angeli. Si adattava molto bene ad accompagnare un canto terreno, ma qualificato di caratteristiche angeliche di soavità e dolcezza. In generale, per i medievali, la musica piú bella e legata a grandi temi ha caratteristiche in qualche modo sovra-terrestri, perfino quando è profana. Si sottolinea sempre, come anche in questo episodio, l’effetto drastico di distacco che essa provoca dalla realtà e dagli affetti terrestri. Sono gli effetti prodotti dalla melodia e dall’andamento litanico, ideali per separarsi con l’anima dalle cose del mondo, e in parte comuni sia alla musica sacra, sia a quella profana. Casella non si accompagna con uno strumento, la cui comparsa nei regni dei salvati sarebbe forse apparsa non giusta, ma il poeta sottolinea le caratteristiche stranianti del suo canto («cominciò elli allor sí dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi sona»). Che questa musica non

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Da leggere Le pagine qui pubblicate sono ricavate, con qualche adattamento, dal volume Nel Duecento di Dante: i personaggi, a cura di Franco Suitner, Firenze, Le Lettere, 2020 (Società Dantesca Italiana, Centro di Studi e Documentazione Dantesca e Medievale, Quaderno 12). Il volume presenta un affresco del mondo storico e umano della Divina Commedia, attraverso la trattazione di una serie di personaggi riferibili principalmente al Duecento. Studiosi di letteratura e storici si confrontano, ora offrendo rinnovati profili dei personaggi, ora analizzandone aspetti e caratteristiche ancora inedite. L’indice è il seguente: Franco Suitner, Premessa Grado G. Merlo, Il santo: Domenico Anna Pegoretti, La suora mancata: Piccarda

sia appropriata all’aldilà di per sé stessa non si ricava dal testo di Dante, e, del resto, non sarebbe in linea con la sensibilità del tempo. Nella festa in Paradiso descritta da Bonvesin da la Riva nel suo Libro delle tre scritture, agiscono cantori e giullari («donzei adorni e presti e zoie e zuiaria»), producendo anche lí «li plu dolcismi versi k’in questo mondo sia». Quello della dolcezza era un luogo comune, in riferimento all’esperienza musicale.

Un canto dolce e armonioso

Sebbene non canti, un angelo è presente anche nell’episodio di Casella, è il «celestial nocchiero» che conduce il musico e le altre anime alla spiaggia purgatoriale. Le anime cantano un salmo di ringraziamento e di penitenza, piú adatto alla situazione. Casella intona una melodia terrestre, per quanto di angelica dolcezza. Il canto è dedicato a una donna, e non è adatto alle contingenze, ma Dante ne sottolinea le caratteristiche di melodiosità e armonia. In linea con la celebrazione di altri suoi componimenti in altri punti del poema, questo ricordo costituisce il maggiore omaggio che egli potesse rendere, senza troppo urtare le concezioni degli uomini del suo tempo, alle grandi poesie della sua giovinezza. Poco dopo l’incontro con Casella, nel IV canto del Purgatorio, fra gli spiriti negligenti, pigri in vita nel pentimento e un po’ tali anche nell’aldilà, Dante incontra appunto Belacqua, un altro suo conoscente legato alla musica. Secondo l’identificazione piú probabile il suo vero nome sarebbe Duccio di Bonavia. Anche di lui alcuni antichi commentatori fanno un

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Francesco Zambon, Il poeta-vescovo: Folchetto di Marsiglia Franziska Meier, L’imperatrice: Costanza Franco Suitner, Il cantore: Casella Pasquale Porro, Il filosofo: Sigieri di Brabante Marcello Ciccuto, Gli artisti: Cimabue e Giotto Giuseppe Crimi, Gli indovini Marina Benedetti, L’eretico: Dolcino Silvia Diacciati, Il ‘barone’: Corso Donati Luca Fiorentini, I traditori toscani della Caina Gabriella Albanese, Il guelfo sanguinario: Fulcieri da Calboli Francesco Pirani, Il tiranno: Guido di Montefeltro Giacomo Todeschini, L’usuraio: Rinaldo Scrovegni Delphine Carron, Il principe ‘senzaterra’: Carlo di Valois Sandro Carocci, Il papa nepotista: Niccolò III Nicolino Applauso, Il capo della cancelleria imperiale: Pier della Vigna Andreas Büttner, Due imperatori: Rodolfo e Alberto d’Asburgo Gian Luca Potestà, Il personaggio-enigma: «un cinquecento diece e cinque»

«uomo di corte» e un suonatore. Il suo era un nomignolo, sebbene destinato a divenire un diffuso nome di famiglia. Pietro Alighieri nel suo commento latino lo chiama Bivilaqua. Andrea Lancia ne spiega cosí l’origine: «non bevé mai vino». Secondo i commentatori, Belacqua era liutaio, fabbricava strumenti a corda. Andrea Lancia, uno di essi, afferma che lui e Dante sono stati testimoni diretti delle sue esecuzioni: «Et l’autore e io che chioso il vedemmo». La specificazione di alcuni secondo la quale avrebbe costruito chitarre, o citharae, non è del tutto chiara, particolarmente in rapporto al tipo specifico di strumenti a cui si allude. Alcuni commentatori qualificano Belacqua piú come suonatore, altri come liutaio. È ragionevole che fosse entrambe le cose, mentre è piú dubbio, dato il lavoro di artigiano che pare essergli stato proprio, che potesse essere «uomo di corte». L’uso del liuto, strumento di provenienza araba diffusosi in Europa attraverso la Spagna, era ancora lontano in Italia dallo sviluppo trecentesco e poi soprattutto rinascimentale. Dante comunque lo conosceva, perché proprio a un leuto, nel XXX canto dell’Inferno, paragona il corpo deforme del falsario Maestro Adamo, dal ventre gonfiato dall’idropisia. Alcuni interpreti hanno proposto complicate spiegazioni allegoriche per giustificare il ricorso a quest’immagine. In realtà Dante la utilizza perché colpito dall’aspetto panciuto dello strumento, che magnificamente si prestava a descrivere la deformità di Maestro Adamo. Le rosette, che ne caratterizzano la cassa armonica, potevano rimandare alle aperture del volto dell’idropico, per esempio alla bocca e al naso.

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protagonisti ruggieri degli ubaldini

Non c’è pace per il vescovo

di Gianpaolo Serone e Luca Salvatelli

Molti luoghi e monumenti di Viterbo conservano la memoria di personaggi ed episodi legati alla Divina Commedia. La chiesa di S. Maria in Gradi, oggi dismessa, custodiva il sepolcro di una delle figure dantesche piú affascinanti e controverse: Ruggieri degli Ubaldini, l’arcivescovo di Pisa responsabile dell’incarcerazione del conte Ugolino e dei suoi familiari, meritando la dannazione eterna da parte di Dante. Il suo sepolcro fu distrutto nei restauri del 1734 e, da allora, se ne perse la memoria. Fino a quando uno storico viterbese, nel 1926...

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Dante e Virgilio osservano il conte Ugolino che rosicchia la testa del vescovo Ruggieri degli Ubaldini, tavola di Gustave Doré che correda il canto XXXIII dell’Inferno nell’edizione della Divina Commedia illustrata dall’artista francese. 1861.

N N

ato intorno all’ultimo quarto del XIII secolo, Ruggieri era esponente della potente casata pisana di fazione ghibellina degli Ubaldini del Mugello, conosciuti anche con il titolo di signori del castello della Pila. Secondo il cronista trecentesco Tolomeo da Lucca, doveva appartenere al medesimo ramo del cardinale diacono della chiesa romana di S. Maria in via Lata Ottaviano Ubaldini, che ebbe un ruolo essenziale nella carriera ecclesiastica del nipote. E proprio tramite l’appoggio dello zio cardinale, il giovane Ruggieri poté cominciare il cursus honorum all’interno della curia bolognese, raggiungendo la carica di arcidiacono. Successivamente fu destinato alla cattedra arciepiscopale ravennate e poi a quella pisana (1277) succedendo all’arcivescovo Federigo Visconti. Dopo i primi anni di apparente tranquillità, spesi a intessere rapporti tra i feudatari della città di Pisa e, in particolare, con le famiglie Gherardesca e Visconti, si dovettero registrare i primi dissidi tra autorità comunali ed ecclesiastiche, soprattutto di natura finanziaria e inerenti la riscossione della gabella del sale. La carriera ecclesiastica di Ruggieri si lega inesorabilmente al contrasto tra il comune di Pisa e le forze di Firenze e di Genova, conflitto che, a seguito della disastrosa battaglia navale della Meloria (6 agosto 1284) segnò il tracollo della potenza marinara pisana (vedi box a p. 51).

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino E questi è l’arcivescovo Ruggieri; or ti dirò perché i son tal vicini (Inferno, XXXIII) MEDIOEVO

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protagonisti ruggieri degli ubaldini

In tale contingenza, il conte Ugolino della Gherardesca, il 18 ottobre 1284, prese a esercitare l’ufficio di podestà; nelle sue nuove vesti, dovette fronteggiare la minaccia che veniva dai guelfi interni e piú ancora dai fuorusciti e dalle forze della lega guelfa di Toscana capeggiata da Firenze e da Lucca. Avverso al partito guelfo e al potere podestarile, l’arcivescovo Ruggieri diede inizio alle trattative per la liberazione dei prigionieri della fazione opposta, al fine di abbattere in città il predominio guelfo del conte Ugolino e di suo nipote Nino e ristabilendo, con l’appoggio delle famiglie dei Gualandi, Sismondi e Lanfranchi la fede ghibellina. Secondo il già citato annalista lucchese, nel 1288, il conte Ugolino, accusato in modo pretestuoso di tradimento, fu fatto prigioniero dai Pisani con l’aiuto del vescovo e di buona parte del clero e condannato a morte per inedia nella Torre dei Gualandi (o della Muda). Ruggieri assunse il ruolo di potestas, rector et gubernator comunis et populi pisani ed esercitò le cariche per il bimestre luglio-agosto 1288, pur coadiuvato da un vice della consorteria dei no-

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bili di Ripafratta, al quale assegnò il titolo di vicario e che fece affiancare da persone di sua stretta fiducia. Nel novembre dello stesso anno fu nominato Capitano del popolo Aldobrandino da Romena, ecclesiastico con la dignità di primicerio della Chiesa aretina e, nel mese di dicembre, al conte Gualtieri di Brunforte fu affidata la carica di Podestà. Intanto, nel 1289, cominciava la nemesi di Ruggeri degli Ubaldini, a cui i guelfi facevano risalire la colpa dell’atroce eccidio del conte Ugolino, dei figli e dei nipoti, come dimostrerebbero la denuncia di Nino Visconti e la successiva bolla di Nicola IV del 7 aprile del 1289 di convocazione dell’arcivescovo a Roma, al fine di discolparsi delle empie accuse di lesa maestà. Ruggieri morí a Viterbo, il 15 settembre del 1295.

L’arcivescovo alla sbarra

Con la bolla appena ricordata, papa Nicolò IV citò presso il suo Tribunale Supremo l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, affinché potesse difendersi dalle accuse mosse a suo carico per la detenzione del conte Ugolino e dei suoi familiari. Nel documento si legge che il pontefice,

In alto la settecentesca torre della Meloria, al largo delle acque di Livorno. Nella pagina accanto Come i Genovesi sconfissono i Pisani alla Meloria, miniatura dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

dopo aver appreso la notizia che alcuni Pisani avevano osato, forti del sostegno dell’autorità ecclesiastica, incarcerare e far morire di fame alcuni loro illustri cittadini – per di piú distruggendone le case e dissipandone i beni –, ordinava all’arcivescovo di Pisa di presentarsi personalmente al cospetto del pontefice non oltre la festa della natività di san Giovanni (24 giugno) sotto pena di deposizione e scomunica. Si ritiene che Ruggieri si sia recato dal papa, ma che non sia stato condannato, poiché mantenne il titolo di arcivescovo; inoltre, in caso di condanna, ai religiosi veniva interdetta la sepoltura ecclesiastica, cosa che evidentemente non avvenne. La presenza a Viterbo del prelato pisano potrebbe non essere stata casuale: da alcuni documenti apprendiamo infatti che egli fece settembre

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amministrare, durante i suoi ultimi anni di vescovado, i beni della sua diocesi a un procuratore. Ciò conferma che non si trovava personalmente a Pisa e il fatto che sia morto a S. Maria in Gradi suggerisce che Ruggieri si fosse ritirato nel convento viterbese dei Domenicani.

Il sepolcro ritrovato

Nel 1926, lo storico viterbese Domenico Sansone diede alle stampe l’opuscolo Il sepolcro dell’arcivescovo Ruggieri nella chiesa di S. Maria in Gradi a Viterbo, nel quale dimostrava che il prelato, reso immortale dai versi di Dante, era lí sepolto. Nell’introduzione, lo studioso ammette che l’idea era nata già nel 1921, in occasione delle celebrazioni per il VI centenario della morte del sommo poeta, ma la ricerca era stata abbandonata per essere ripresa successivamente.

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La battaglia della Meloria

In lotta per il controllo del Tirreno Il 6 agosto del 1284, presso il Porto Pisano, al largo di Livorno, non lontano dalle secche della Meloria, Genovesi e Pisani combatterono una delle piú grandi battaglie navali del Medioevo. Il casus belli era la contesa per il controllo della Corsica, ma il vero obiettivo dello scontro era la supremazia su tutto il Tirreno, al fine di salvaguardare le rotte per la Sicilia, l’Africa settentrionale e il Levante mediterraneo. Le due città giunsero a quel fatidico giorno d’agosto al culmine di una serie di rivolgimenti – dalla caduta dell’impero latino di Costantinopoli, all’ascesa della

potenza angioina, allo scoppio della guerra del Vespro – che mettevano in discussione gli equilibri dello scacchiere italiano. Comandata da Oberto Doria e Benedetto Zaccaria, la flotta genovese sconfisse lo schieramento guidato dal podestà Alberto Morosini e dal conte Ugolino della Gherardesca, determinando l’inizio del declino di Pisa come potenza marinara. Proprio per aver effettuato una manovra diversiva sospetta che avrebbe favorito il fronte avverso, il conte Ugolino fu accusato di tradimento e rinchiuso insieme agli altri uomini della sua famiglia nella Torre dei Gualandi.

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protagonisti ruggieri degli ubaldini

s. maria in gradi

Luogo di fede, di pena e ora di studio Il complesso di S. Maria in Gradi fu eretto nel 1244 dal cardinale Raniero Capocci, che lo donò poi ai Domenicani. Per tutto il Medioevo fu uno dei centri propulsori della spiritualità cittadina e al suo interno trovarono degna sepoltura personaggi di spicco, fra cui papa Clemente IV. Alla fine del Quattrocento subí alcuni rimaneggiamenti, per essere radicalmente ricostruito nel Settecento, su progetto dell’architetto romano Nicola Salvi. Nel 1873 fu convertito in casa circondariale, ruolo che svolse fino al 1993. Dal 1996 è stato oggetto di restauro da parte dell’Università degli Studi della Tuscia e oggi ne ospita gli uffici amministrativi, il rettorato e varie aule.

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Il complesso domenicano sorse lungo un asse viario che collegava la città con la strada romana e nella zona fu costruito, nel 1292, per volontà di Visconte Gatti un ospitale per i pellegrini, conosciuto come Domus Dei. La struttura conserva opere di particolare pregio, come un chiostro risalente alla metà del XIII secolo, al centro del quale insiste un pozzo datato al 1557, che poggia su un basamento realizzato con lastre tombali riutilizzare (vedi foto a p. 53). Si conserva anche un altro chiostro, la cui costruzione si fa risalire al 1306, ma la cui forma attuale è ascrivibile a interventi del XVII secolo. Al centro si trova una fontana, realizzata nel 1480. settembre

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Nella pagina accanto la facciata della chiesa di S. Maria in Gradi come si presenta oggi. A sinistra il chiostro medievale della stessa chiesa viterbese, al centro del quale è un pozzo di epoca piú tarda, risalente al 1557.

Sansone non poté analizzare autopticamente il monumento, andato perduto insieme a molti altri durante i restauri del 1737 diretti dall’architetto Nicola Salvi (1697-1751), e prese dunque le mosse da due glosse nelle quali si specificava che l’arcivescovo era sepolto nella chiesa viterbese di S. Maria in Gradi (vedi box a p. 52): la prima presente sul codice cassinese della Divina Commedia (Montecassino, Archivio Abbaziale, ms. Cass. 512, olim 589), databile alla seconda metà del XIV secolo, e la seconda vergata sul commento del canto XXXIII dell’Inferno curato da Giacomo Leopardi per l’Accademia degli Ardenti di Viterbo. In partico-

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lare, sulla postilla del manoscritto cassinese, che rappresenta un documento di grande valore anche per la sua datazione molto vicina agli avvenimenti narrati nella Commedia, si leggeva: «Rugieri - De Ubaldinis, cuius corpus requiescit in civitate Viterbii, in ecclesia S. Mariae in Grado».

Disegni schematici

In una silloge epigrafica di autore ignoto conservata negli archivi cittadini (Viterbo, Biblioteca degli Ardenti, ms. II C 4 43, f. 57r), ma attribuita con buona approssimazione a Feliciano Bussi (1679-1741) – al quale si deve, tra l’altro, una Istoria della città di Viterbo –, lo stu-

dioso individuò due disegni piuttosto schematici e compendiari di altrettanti sepolcri siti nella chiesa di S. Maria in Gradi. Il primo era facilmente attribuibile a Paolo Ungaro, vescovo di Pafo († 1268), mentre per il secondo l’attribuzione era incerta (vedi box a p. 54). Nel manoscritto era riportata anche l’iscrizione funebre di quest’ultimo incisa in caratteri gotici: «HIC REQT. V. PR. ROGERS DUBALDUS AR. PIS», Interpretata come: «HIC REQU[IESCI]T V[ENERABILIS] P[ATE]R ROGER[IU]S DUBALDUS AR[CHIEPISCOPUS] PIS[ANUS]». Un’altra citazione della tomba fu riscontrata nell’opera dell’aba-

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protagonisti ruggieri degli ubaldini Un dubbio infondato

te Ferdinando Ughelli, Italia sacra (1642-1662), dove il prelato, descrivendo il monumento, riporta: «Quem alii de gente Ubaldina Duraldus contendunt esse. Decessit Viterbii 1296, sepultusque est in Ecclesia S. Mariae ad Gradus in lapideo sepulcro, prope templi principem portam, ubi haec simplicia verba incisa sunt: HIC REQUIESCIT VENERABILIS PATER DOMINUS ROGERIUS DURALDUS ARCHIEPISCOPUS PISANUS». Il religioso cadde tuttavia in errore nella lettura del cognome, convincendosi che dovesse leggersi Duraldus ed escludendo pertanto che la tomba fosse quella dell’arcivescovo pisano Ruggieri.

La giusta intuizione

Lo storico pisano Nicola Zucchelli dubita che Ruggieri fosse morto a Viterbo, giustificando questa sua ipotesi con il fatto che al 15 settembre 1295 (data del decesso) risale un documento vergato da Benvenuto, camerario e procuratore dell’arcivescovo, nel quale affittava al nipote di Ruggieri, Ubaldino, alcuni terreni. In realtà, lo studioso commette un errore, poiché la data doveva essere letta secondo il calendario pisano, che, seguendo lo stile ab incarnatione, dal 25 marzo al 31 dicembre, contava un’unità in piú rispetto a quello romano. Pertanto l’esatta datazione del documento è da riferirsi al 15 settembre 1294.

Disegno del sepolcro di Paolo Ungaro e Ruggieri degli Ubaldini presente nella silloge attribuita a Feliciano Bussi (1679-1741). Viterbo, Biblioteca degli Ardenti.

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Sansone, partendo dal presupposto che l’epigrafe, come riportato da chi aveva avuto la possibilità di vederla, fosse scritta in caratteri gotici e che la B e la R in questo tipo di grafia risultano piuttosto simili – considerando inoltre che l’iscrizione non doveva risultare perfettamente leggibile, viste le diverse interpretazioni che erano state date del cognome (Dusaldus, Duraldus, Durandus) – propose di scindere il lemma in due parti: dove D stava per DE e UBALDUS o URALDUS per UBALDIIS; se si tiene conto del segno di legatura, di crasi, riportato nella citata silloge viterbese, dove la L è sovrapposta alla N, lo storico viterbese propose di interpretare il nome come DE UBALDINIS. L’ipotesi fu inoltre suffragata dall’analisi dello stemma araldico presente alla base del monumento e riportato dall’abate Ughelli: il blasone presentava nel campo una testa di cervo priva della parte inferiore e ai lati una palla e una croce che risultavano però corrosi; ciononostante, corrispondeva a quello della famiglia degli Ubaldini. Come già detto, il sepolcro fu dismesso nel XVIII secolo e le uniche testimonianze che possano fornircene una seppur vaga descrizione consistono nel disegno della silloge settembre

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Particolare del monumento funebre di papa Adriano V (al secolo, Ottobono dei Fieschi), che riposa nella chiesa di S. Francesco alla Rocca. Eletto al soglio di Pietro l’11 luglio 1276, morí poche settimane piú tardi, il 18 agosto, dopo avere sospeso le norme emanate da Gregorio X sul conclave.

Sepolcri illustri

Viterbo val bene una tomba! Nella chiesa viterbese di S. Francesco alla Rocca si possono tuttora ammirare i monumenti funebri di Clemente IV († 1268), Adriano V († 1276) e Pietro di Vico († 1268). Altri due pontefici trovarono sepoltura nel duomo di S. Lorenzo: Alessandro IV († 1261), del quale è però andata perduta la tomba, e Giovanni XXI († 1277), la cui memoria oggi è ricordata da un coperchio di sarcofago in peperino con triregno viterbese e in quello conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. N. A. 1216, f. 14r), recentemente pubblicato da Silvia Pacella (in Rivista storica del Lazio). Sulla base degli schizzi possiamo affermare che il monumento fosse della tipologia «a ponte» con struttura gotica, baldacchino e sarcofago a gisant, del tutto in linea con quanto osservabile per altri monumenti funebri presenti,

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sicuramente posteriore al 1342, anno in cui Benedetto XII ne istituí l’uso. Nel duomo cittadino trovò sepoltura provvisoria anche Enrico di Cornovaglia († 1271), figlio di Riccardo di Cornovaglia, re dei Romani, e nipote del re Enrico III d’Inghilterra ucciso nella chiesa di S. Silvestro a Viterbo da Guido e Simone di Montfort il Giovane. Molti di questi personaggi, cosí come alcuni luoghi della città di Viterbo, furono citati da Dante nella Divina Commedia. in stato frammentario o integri, a Viterbo. Non possiamo essere certi delle sue forme puntuali, in quanto i due disegni sembrano discostarsi per alcune specificità: l’indicazione di colonnine tortili, fastigio cuspidato con gallerie composto da sei monofore e rosone polilobato centrale sormontato da gattoni nel manoscritto fiorentino, non viene ribadita nel disegno degli Ardenti, ove sono indicate colonnine lisce, timpano cuspidato sormontato da cro-

ce, galleria di sette monofore. Tuttavia, dal punto di vista materico, stilistico e compositivo non doveva essere troppo differente, stando al disegno sempre del Bussi, dal monumento funebre di Paolo Ungaro, posto ex cornu epistulae, dirimpetto a quello dell’arcivescovo Ruggieri. Nel tempo, molti hanno tentato di ritrovare i resti del sepolcro, dando vita a numerose congetture e ipotesi, la piú accreditata delle quali lo identifica in un anonimo gisant, ora conservato nella sezione archeologica medievale del Museo Civico di Viterbo Luigi Rossi Danielli, che rappresenta un ecclesiastico di rango, come riconoscibile dai differenti attributi vestimentari. Un’ipotesi comunque da scartare, perché il monumento in questione è realizzato in peperino, mentre Bussi, che aveva avuto la possibilità di vedere il sepolcro prima che fosse smantellato, afferma che era scolpito nel marmo, il cui uso è inoltre congruo con quanto osservabile in alcuni monumenti sepolcrali del XIII secolo ancora presenti in città (vedi box in questa pagina), come quelli di Adriano V, Clemente IV e Pietro di Vico attualmente conservati in S. Francesco alla Rocca.

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religione raimondo lullo

Due menti «pericolose»

di Alessandro Bedini

Come conquistare il cuore di chi non crede? L’opera di Raimondo Lullo – teologo, filosofo, alchimista e, soprattutto, missionario catalano tra i piú celebri del suo tempo – mostra alcuni tratti in comune con la predicazione di Francesco d’Assisi, in particolar modo per quanto riguarda il rapporto con il mondo degli «infedeli». Cosí, benché separati da un secolo, un confronto tra i due personaggi appare lecito...

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patto di non indulgere a forzature inopportune e ad ancor piú indebite sovrapposizioni, nulla vieta, crediamo, di proporre comparazioni tra personaggi storici vissuti in epoche, sebbene contigue, per molti aspetti comunque differenti, allo scopo di coglierne analogie e/o difformità. Raimondo Lullo e Francesco d’Assisi si prestano perfettamente a una simile operazione, essendo stati entrambi protagonisti di quella parte centrale del Medioevo che va dal XII-XIII al XIV secolo: età in cui sono germogliate le università e si è affermata la filosofia scolastica, sono nati gli Ordini mendicanti, si sono create nuove forme di produzione nei comuni prima e nei principati poi; un’epoca di forti contrapposizioni teologiche e politiche, di crociate, che i nostri due protagonisti hanno vissuto con uno spirito che, con le necessarie cautele, potremmo definire comune. Lullo e l’Assisiate hanno insomma influenzato profondamente il loro tempo e all’interno di esso il modo di pensare e anche di agire concretamente nell’ecumene cristiana e non solo.

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In alto particolare della tavola di Francesco d’Assisi con il verosimile ritratto del volto del santo. Ultimo quarto del XIII sec. Orte, Museo Diocesano di Arte Sacra. Nella pagina accanto Raimondo Lullo in un olio su tela di Miquel Bestard. XVII sec. Palma di Maiorca, Museo Diocesano. settembre

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religione raimondo lullo il libro del gentile e dei tre savi

Dialogo interreligioso Ne Il libro del gentile e dei tre savi, scritto tra il 1274 e il 1276 da Raimondo Lullo, inizialmente in arabo e poi tradotto in catalano, tre saggi, che rappresentano le religioni monoteiste – Ebraismo, Cristianesimo e Islam – si incontrano per dialogare tra loro e con un pagano, al quale intendono dimostrare la verità delle rispettive fedi. Il colloquio avviene nel massimo rispetto e senza alcun intento di sopraffazione. Ciascuno gode di pari dignità. Dopo aver esposto le rispettive esperienze secondo il proprio credo, il pagano, commosso da tanta saggezza e da tanta cortesia, si converte a una delle tre fedi. Ma i saggi non vogliono sapere quale egli abbia scelto, per non compromettere la continuazione del dialogo. In questo modo viene lasciata a ognuno piena libertà di restare sulle proprie posizioni, ma con un’apertura incondizionata verso l’altro da sé, che per Raimondo Lullo equivale all’apertura al Dio unico delle tre religioni abramitiche.

Il primo nacque sull’isola di Maiorca nel 1232 o 1233, sei anni dopo la scomparsa di Francesco (11811226) e visse eccezionalmente a lungo per l’epoca, morendo infatti a oltre ottant’anni, nel 1316. Mistico, poeta, filosofo e anche alchimista, è senz’altro una delle figure piú affascinanti del Medioevo europeo. Miguel Batllori (1909-2003), raffinato studioso del pensiero lulliano, definí Raimondo «un francescano indipendente, spirituale indipendente, missionario indipendente». Si tratta di una personalità poliedrica, avventurosa, ricca di interessi intellettuali che si indirizzò verso un obiettivo preciso: quello missionario e, in particolare, verso la missione che consiste nel convertire musulmani ed Ebrei alla vera fede.

Originalità di un metodo

Un ideale di conversione del tutto inusuale per l’epoca: Lullo fonda infatti il suo apostolato sul dialogo, senza forzare nessuno ad abbracciare la fede in Cristo, ma dimostrando l’assoluta veridicità del messaggio evangelico attraverso un metodo del tutto originale. Per questo studia e impara la lingua araba, essendo convinto che esprimersi nella lingua degli «infedeli» favorisca il dialogo che si basa sulla testimonianza, altra parola chiave nella speculazione lulliana. Si noti che il termine «infedeli» non viene utilizzato in senso negativo, ma per indicare coloro i quali ancora non posseggono la pienezza della fede. La sua testimonianza consiste nell’esporre la dottrina cristiana senza confutare o peggio condannare quella islamica o ebraica. Quanto alla crociata, Raimondo si dice convinto che la conquista della Terra Santa manu militari sia una vera assurdità e in Blaquerna, romanzo scritto intorno al 1284 – dunque alla vigilia di un ennesimo progetto di spedizione –, ribadisce la necessità di seguire l’esempio degli Apostoli, che convertirono il mondo intero con la sola forza della predicazione e della preghiera. La sua posizione sulla guerra santa può tuttavia apparire contraddittoria. La caduta di San Giovanni d’Acri, nel 1291, provocherà nel mondo cristiano un vero e proprio shock ed è forse per questo che, scrivendo a papa Niccolò V, anch’egli francescano, il Tractatus de modo convertendi infideles, Lullo afferma che qualora il dialogo risulti impossibile e gli «infedeli» rifiutino qualsivoglia confronto, allora, come extrema ratio, si può ricorrere alle armi e dunque alla crociata per difendere la cristianità minacciata. A sinistra illustrazione realizzata per un’edizione manoscritta della grande opera enciclopedica di Raimondo Lullo Arbre de ciència (1296). Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la rinuncia agli averi da parte di Francesco d’Assisi, da un’edizione della Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio. Seconda metà del XIV sec. Roma, Biblioteca Nazionale Centrale.

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Nel 1294, il pensatore e mistico catalano riaffermava comunque con forza la necessità del dialogo fra le tre religioni monoteiste, di discendenza abramitica, e riteneva inoltre che quanti praticavano religioni diverse da quella cristiana, erano in ogni caso uomini con i quali era indispensabile dialogare. Un concetto simile, espresso in pieno XIII secolo, appare quanto mai inusuale, ai limiti dell’eresia, ma sorprendentemente attuale. Anche Francesco concentra il proprio ideale missionario sulla testimonianza e sul rapporto diretto con gli «infedeli». L’incontro con il sultano ayyubide d’Egitto al-Malik al-Kamil, nipote del Saladino (vedi «Medioevo» n. 213, ottobre 2014; anche on line su issuu.com), ne rappresenta una dimostrazione, sebbene quell’episodio – che Dante ricorda nell’XI canto del Paradiso: «nella presenza del soldan superba» – sia ancora oggi oggetto di dibattito tra gli storici. Francesco si trovava in Egitto con l’esercito crociato che assediava la città di Damietta (o Damiata), sul Delta del Nilo. Per partecipare all’impresa, aveva dovuto pronunciare il votum crucis e, a tutti gli effetti,

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era quindi un crociato. Lí intendeva predicare e il voto pronunciato aveva a che fare con il pellegrinaggio piú che con il combattimento. Come ricorda Tommaso da Celano, aveva in animo di recarsi in Siria «per predicare la penitenza ai saraceni e agli altri infedeli». Il che, è necessario chiarirlo, non significava affatto che Francesco volesse porsi in contrasto con la Chiesa e con il papa, che quella crociata aveva bandito. Il futuro santo restava infatti obbediente alla Chiesa e al pontefice e nella crociata vedeva semmai l’occasione del martirio come forma piú elevata della testimonianza cristiana. L’essere accolti dagli infedeli e il pensare alla salvezza della loro anima può anche apparire in conflitto con la crociata, ma le due dimensioni sono del tutto diverse.

I due cavalieri

Raimondo e Francesco hanno in comune l’educazione cavalleresca. Il primo proviene da una nobile famiglia catalana: il padre aveva ottenuto da re Giacomo I onorificenze e terre nell’isola di Maiorca, per i servigi resi alla

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religione raimondo lullo l’incontro di damietta

Il «famoso monaco» alla corte del sultano Che cosa si saranno detti Francesco e il sultano al-Malik al-Kamil, durante l’assedio crociato di Damietta del 1219? Secondo alcune fonti, prima tra tutte la Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio, Francesco avrebbe proposto l’ordalia del fuoco ai dottori musulmani per stabilire quale fede fosse la migliore. I sapienti rifiutarono la proposta, ma

al-Kamil ammirò il coraggio di quel piccolo frate, vestito con un abito rozzo e provvisto di suf, ovvero di cappuccio. I due parlarono verosimilmente di ciò che unisce fra loro i credenti, del Dio unico di Abramo e di Maria, teneramente venerata dall’Islam, come attestano altre fonti. L’episodio è rimasto anche nella memoria dei musulmani: nei suoi

corona durante la Reconquista dell’isola. Conduce una brillante vita mondana presso la corte di Catalogna e in questo periodo compone canzoni d’amore in stile provenzale. Secondo l’islamista francese Dominique Urvoy, proprio durante il periodo trobadorico, Lullo avrebbe maturato il suo interesse per il mondo islamico: «la sua evoluzione poetica, verso una trasfigurazione religiosa dell’amor cortese, aveva subíto l’influenza del mondo musulmano sul terreno della musica, fondamentale nella cultura di al-Andalus». Nel 1247 sposa Bianca Picany, dalla quale ebbe due figli, ma non rinuncia alla vita dissoluta e gaudente che si conduceva a corte. Risale probabilmente al 1275 la stesura del Libro dell’ordine della cavalleria, un trattato nel quale, da buon francescano, sottolinea come il servizio reso a Dio si configuri come un’esperienza cavalleresca: il cavaliere non rifiuta la guerra, ma combatte per il ristabilimento della giustizia e quindi della pace. La sua è dunque una forma di ascesi, che non esclude il combattimento, volto però a riportare la pace e il giusto equilibrio non soltanto nel mondo cristiano.

Al servizio del Re dei Re

Fin da questi primi cenni si possono cogliere significative analogie con Francesco d’Assisi. Figlio del ricco mercante di stoffe Pietro Bernardone, anch’egli educato secondo i canoni della cavalleria, attratto da una vita mondana fatta di feste, bagordi e allegre brigate, era venuto a contatto con la cultura provenzale e trobadorica attraverso la madre, madonna Pica, di origine francese. È probabile che il suo amore per la cavalleria sia stato alimentato dalla lettura di alcune chansons de geste che circolavano nell’Italia centrale verso la fine del XII secolo e che il padre aveva probabilmente portato dalla Francia, dove si recava spesso per affari. Francesco resta fedele al suo ideale cavalleresco, ma, anziché servire un signore feudale, decide di porsi al ser-

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scritti, il direttore spirituale del sultano, Fakhr ed-din, ricorda l’incontro con «il famoso monaco». Nella pagina accanto San Francesco davanti al sultano Malik al-Kamil (o La prova del fuoco), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

vizio del Re dei Re, sposando quella che Attilio Mordini (1923-1966) ebbe a definire «povertà regale». Raimondo si converte in seguito a una serie di visioni del Cristo crocifisso – ben cinque secondo i suoi biografi –, dalle quali rimane dapprima spaventato, non riuscendo a comprendere quale ne fosse il significato, ma poi, qualche mese piú tardi, ascoltata una predicazione dedicata alla figura di Francesco d’Assisi, decide di fare penitenza, abbandona tutti i beni mondani e la vita dissoluta che aveva fino ad allora condotto, tranne quelli che spettavano alla moglie e ai figli, e si dedica in primo luogo allo studio della teologia e della filosofia, per poi diventare missionario presso gli «infedeli». Anche la conversione di Francesco è segnata dalle visioni. Il dialogo con il crocifisso di S. Damiano ri-

Un dono prezioso

Francesco come il paladino Narra la leggenda che tra i preziosi doni offerti dal sultano a Francesco in occasione del loro incontro – e che l’Assisiate rifiutò –, vi fosse anche un corno da caccia. Francesco avrebbe invece accettato quel dono e nel sacro convento di Assisi c’è ancora un piccolo corno da caccia in argento e avorio. «È bello – ha osservato Franco Cardini – supporre che Francesco, non volendo accettare dal sultano doni piú costosi e desiderando d’altronde non dispiacergli, abbia scelto fra di essi una cosa che lo aveva istintivamente attratto. Vecchio giullare, quante volte – quando da ragazzo sognavi di diventar cavaliere – hai suonato il corno da caccia? E sonando ti sei ricordato di Rolando paladino e di Roncisvalle dagli alti picchi e dalle profonde ombrose foreste?». settembre

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religione raimondo lullo Miramar

Scuola per aspiranti missionari Lo zelo missionario di Raimondo Lullo si concretizzò con la fondazione del convento di Miramar, sull’isola di Maiorca, nel 1276, dove tredici frati francescani vennero ospitati nell’edificio messo a disposizione dal re Giacomo II per imparare la lingua araba e poter dunque intraprendere la loro missione presso i musulmani. Una vera e propria scuola missionaria, approvata con una bolla di papa Giovanni XXI. Anche i re aragonesi

Alfonso III e Giacomo II, ebbero a cuore Miramar e continuarono a proteggerlo. Nel convento francescano, oltre allo studio delle lingue orientali, si traducevano opere di filosofi arabi ed ebrei. Ma il collegio ebbe vita breve e, dal 1301 non se ne hanno piú notizie. Tuttavia, il concilio di Vienne del 1311 stabilí che nella curia romana e nelle piú importanti università della cristianità venissero istituite cattedre di lingua araba, ebraica e caldea.

propone il tema della visitatio e del sogno premonitore, materia che si ritrova spesso nella letteratura agiografica. Tuttavia, il figlio di Pietro Bernardone è del tutto digiuno di teologia e ancor piú di filosofia, mentre Raimondo fonda la sua riflessione sulla speculazione filosofica. Se Lullo pone al primo posto la missione presso coloro che non conoscono ancora la vera fede, l’Assisiate diviene lo sposo di madonna Povertà: «Siate minori» dice ai suoi primi seguaci, i tre compagni di Greccio. L’esempio e la testimonianza della povertà evangelica predicata dal Cristo sono per lui l’unica via per conquistare il cuore di chi non crede.

Un universo di segni

Come ha sottolineato Sara Muzzi, la speculazione lulliana parte da un concetto fondamentale: «L’universo è un sistema di segni della realtà di Dio, nascosti dietro il mondo delle cose create». Cogliere il significato di tali segni attraverso l’uso della ragione è pienamente lecito, in quanto Dio stesso ha donato all’uomo la ragione e quindi il suo utilizzo per l’opera missionaria è perfettamente corretto in quanto non confligge con la dottrina cristiana. Le basi comuni alle tre religioni monoteiste, secondo Lullo, sono la filosofia e il pensiero greco. Tutte e tre riconoscono l’esistenza di Dio e il fine ultimo del teologo maiorchino sarà quindi quello di «mostrare, attraverso le ragioni necessarie – è ancora Muzzi a sottolinearlo – come i misteri cristiani partecipassero della struttura dell’universo, imperfetto e incompleto senza di essi».

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A tal proposito Lullo elabora quella che viene definita Ars Combinatoria. Si tratta di tavole sulle quali sono scritti i concetti fondamentali dal punto di vista ontologico, rappresentati in forme geometriche e/o algebriche: «in modo che combinando le diverse posizioni possibili – come affermò Étienne Gilson (1884-1978) – da queste tavole le une in rapporto alle altre, si possono ottenere meccanicamente tutte le relazioni di concetti corrispondenti alle verità essenziali della religione». Con questo metodo Lullo riteneva di poter convertire musulmani e averroisti alla vera fede. Per Francesco d’Assisi, lontano dalla speculazione filosofica lulliana, ma parimenti animato dal desiderio di rendere universale la dottrina cristiana, i segni dai quali occorre partire sono inscritti nella creazione stessa e da lí si devono prendere le mosse per dare origine a un moto di relazione tra la creatura e il Creatore. Nel Cantico delle creature tale concetto è assolutamente esplicito e il settembre

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Il convento di Miramar, fondato sull’isola di Maiorca da Raimondo Lullo nel 1276.

Da leggere Sara Muzzi, Raimondo Lullo. Opere e vita straordinaria di un grande pensatore medievale, Edizioni Terra Santa, Milano 2016 Giuseppe Buffon, Francesco l’ospite folle. Il povero d’Assisi e il Sultano. Damietta 2019, Edizioni Terra Santa, Milano 2019 Franco Cardini, Francesco d’Assisi, Mondadori, Milano 2013

segno che marcherà il sigillo definitivo della missione di Francesco sono le stimmate, ricevute sul monte della Verna nel 1224, due anni prima di morire.

L’ultimo viaggio

Raimondo, in realtà non riuscí nel suo intento apostolico e, deluso dai suoi stessi sforzi, finí i suoi giorni durante l’ultimo viaggio in Tunisia ancora animato dallo spirito missionario che lo aveva caratterizzato. Negli ultimi anni s’era avvicinato agli spirituali francescani e al loro protettore: Federico III re di Sicilia, mecenate ed egli stesso interessato alla mistica cristiana. Alla sua corte si svolgevano dibattiti tra filosofi aristotelici, pensatori ebrei, astrologi e alchimisti. Molto stretto fu il suo rapporto con Arnaldo da Villanova, medico e scrittore, anch’egli catalano. La produzione letteraria di Lullo è amplissima: si contano all’incirca 257 scritti e anche per questo subí

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una condanna da parte della Chiesa. Fu il domenicano Niculau Eymeric, inquisitore della corona d’Aragona, a condannarne la dottrina. Nel 1376 venne pubblicata una lista di cento articoli di condanna nei confronti del razionalismo lulliano. Papa Gregorio XI emanò una bolla di censura di venti titoli. Nel 1390 l’Università di Parigi proibí l’insegnamento della dottrina di Raimondo e solo nel XVI secolo papa Leone X ne autorizzò il culto liturgico, limitandolo tuttavia ai soli Francescani di Maiorca. Nella seconda metà dell’Ottocento Pio IX estese il culto all’intero Ordine francescano. E la leggenda nera che ha perseguitato il filosofo e teologo catalano, accusato di essere un alchimista, un cultore delle scienze occulte, addirittura un mago, è andata pian piano dissolvendosi, per lasciare spazio a indagini piú serie e documentate su un personaggio che ha influenzato la storia del pensiero del Medioevo e oltre.

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tradizioni bevagna

Nell’Olimpo della rievocazione

di Franco Franceschi

Un Medioevo comunale e urbano, concreto e sanguigno: ogni anno, Bevagna offre una ricostruzione fedele e appassionante della vita quotidiana tra il 1250 e il 1350. Niente donzelle e cavalieri, né castelli e battaglie, sfilate e amor cortese. Con la Gara dei Mestieri, la Gara Gastronomica, la Gara del Mercato e la Gara di tiro con l’arco, il «popolo delle Gaite» resuscita schegge luminose delle attività che fondano la trama dell’esistenza umana: preparare il cibo, produrre oggetti, scambiarli

Uno dei momenti clou del Mercato delle Gaite di Bevagna (Perugia): il Banchetto in piazza. La rievocazione organizzata dalla cittadina umbra si basa sulle notizie riportate da uno Statuto cinquecentesco.

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uanto importante sia il Mercato delle Gaite per chi vi partecipa da protagonista e per l’insieme della comunità bevanate lo ha dimostrato inequivocabilmente questo 2020 sconvolto dall’epidemia, visto che neppure il terremoto del 1997 aveva fermato la manifestazione. Chi era a Bevagna (Perugia) nell’ultima decade di giugno ha potuto percepire distintamente un senso di vuoto, di vera e propria amputazione, e comprendere, per contrasto, quanto la festa riempia di significati l’esistenza del «popolo delle Gaite», tutto proteso nell’impresa di resuscitare schegge luminose di Medioevo. Un popolo diviso in quattro, come le antiche ripartizioni amministrative della cittadina umbra, ma unito dalle emozioni estreme, che solo una sfida senza respiro può assicurare. Perché il Mercato delle Gaite – come molte feste

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medievali in Italia – è innanzitutto una competizione, e fatte le debite proporzioni, si può affermare che il meccanismo dell’identità e dell’appartenenza funziona qui in modo analogo a quanto avviene in kolossal della rievocazione come il Palio di Siena o il Calcio storico fiorentino. Da trent’anni al centro di un film emozionante, Bevagna non può piú fare a meno della tradizione che ha saputo inventare. Ridurre il Mercato delle Gaite a una contesa, per quanto appassionante, riservata alla gente del posto, sarebbe però un errore grossolano. La manifestazione, infatti, ha rapidamente acquisito una notorietà che i suoi padri fondatori non avrebbero mai osato immaginare. Decine di articoli di quotidiani e riviste ne hanno raccontato la storia e i contenuti, innumerevoli servizi di televisioni italiane e straniere l’hanno presentata al pubblico piú largo, le immagini di registi

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tradizioni bevagna Una veduta di Bevagna, l’antica Mevania, importante centro agricolo e stradale sulla via Flaminia.

e fotografi di talento ne hanno catturato i momenti salienti. I suoi allestimenti hanno destato l’interesse degli studiosi di Medioevo, sono stati oggetto di tesi di laurea e argomento di incontri scientifici, hanno ricevuto premi e riconoscimenti da importanti associazioni culturali. Ma, soprattutto, un passaparola insistente, piú efficace di qualsiasi campagna pubblicitaria studiata a tavolino, ha finito per calamitare ogni anno a Bevagna migliaia di visitatori di ogni età ed estrazione culturale, con risvolti economici cosí significativi da cambiare il destino di un territorio affascinante ma a lungo escluso dai grandi itinerari turistici.

alla festa. Al punteggio complessivo conseguito da ogni Gaita nelle tre gare «di ricostruzione» si va ad aggiungere il risultato di una quarta, questa volta di pura abilità, quella di tiro con l’arco. Niente donzelle e cavalieri dunque, né castelli e battaglie, sfilate e amor cortese, ma le attività che fondano la trama dell’esistenza umana: preparare il cibo, produrre oggetti, scambiarli. Una scelta controcorrente, che riesce ugualmente a rendere straordinario ciò che sembra ordinario, senza perdere la dimensione del sogno, dell’avventura, della «follia» creatrice.

Follia creatrice

C’è ancora qualcosa da aggiungere per provare a comprendere il segreto del Mercato del Gaite ed è la ricerca incessante dell’eccellenza attraverso la sintesi fra rigore filologico e spettacolarità. I rievocatori delle singole Gaite si sono spesso trasformati in topi d’archivio e di biblioteca, tecnici e sperimentatori, ma non hanno mai rinunciato al consiglio di storici, archeologi, registi e sceneggiatori. Gli allestimenti presentati in ognuna delle tre gare di ricostruzione sono poi giudicati da altri esperti, che stilano i loro giudizi e magari vengono interpellati di nuovo, dopo la festa, con la richiesta di chiarimenti e integrazioni. Molti di loro restano in contatto con le Gaite, alcuni ne divengono consulenti, in un dialogo tra saperi pratici e teorici che segna in modo indelebile la manifestazione.

Il merito di questi successi è innanzitutto di chi ha escogitato e perfezionato un meccanismo semplice e geniale al tempo stesso, ai visionari che, traendo spunto dall’antico statuto cittadino strappato alla polvere dei secoli, hanno immaginato un Medioevo comunale e urbano, concreto e sanguigno. La rievocazione si concentra infatti su alcuni aspetti della vita del borgo umbro fra il 1250 e il 1350 e lo fa attraverso tre gare che si svolgono in successione. Nella prima sfida ogni Gaita presenta la ricostruzione sceneggiata di due mestieri, dalla materia prima al prodotto finito; nella seconda ripropone un ambiente conviviale, con il servizio di cibo dell’epoca, sempre in un contesto allestito e sceneggiato; nella terza mette in scena una giornata di mercato, l’evento che dà il nome

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Molto piú che una festa

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Un modello di vita Bevagnizzazione. Il neologismo, coniato dal segretario del CENSIS Giuseppe De Rita, è entrato anche nel vocabolario. Consacra il «vivere tranquillo», la voglia e l’abitudine a passare il week end, senza fretta, alla ricerca della bellezza e della semplicità. La voce della Enciclopedia Treccani recita: «Bevagnizzazione s.f. Il proporre come modello lo stile di vita elegante e al tempo stesso genuino, armonioso e sereno degli abitanti del comune umbro di Bevagna».

Con gesti antichi, un artigiano fabbrica un cestino di vimini.

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tradizioni bevagna

FRAMMENTI DI UN DISCORSO AMOROSO Da Mevania a Beagne: benvenuti al gran gioco del Medioevo di Antonio Carlo Ponti

MARCHE Pietralunga

Tevere

Arezzo

MontoneGubbio

TOSCANA

Perugia

Assisi

Deruta

Bevagna

Acquasparta

Amelia Terni Narni Orte Viterbo

Lago di Vico

Nocera Umbra

riprende anche norme precedenti, trascritto nel 2005 e tradotto nel 2011. Una sorta di biblia pauperum della vita quotidiana in una minuta comunità in Valle Umbra. Di certo le Gaite, la cui esistenza è dovuta allo Statuto che ne ha scovato le tracce originarie, coadiuvato con passione da studiosi autoctoni, hanno trasformato Bevagna da sonnolenta comunità comunque non priva di attrattive paesaggistiche e artistiche, in meta frequentata, apprezzata e conosciuta non solo in Italia. Bevagna è le Gaite, le Gaite è Bevagna. Viva le Gaite! Non si tratta qui di metter le mani avanti, ma

Spello Foligno

Todi Orvieto

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Tolentino

Gualdo Tadino

Lago Trasimeno

Lago di Bolsena

Fabriano

I

dieci secoli del Medioevo sono stati a piú riprese definiti «bui»: ma lo furono davvero? Certamente, dal 4 settembre 476 d.C., data convenzionale della caduta dell’impero romano d’Occidente, quando Odoacre depose Romolo Augustolo. Ma, in seguito, altre civiltà si affacciarono sul gran lago del Mediterraneo, tra miracoli e bufere. E, altrettanto convenzionalmente, l’età di Mezzo si fa terminare il 12 ottobre 1492, quando, dalla coffa della Pinta, il marinaio Rodrigo de Triana gridò: «Terra! Terra!». Da ricostruzione filologicamente e storicamente corretta, il Mercato delle Gaite rientra nel Medioevo piú maturo dell’epoca comunale, all’incirca dal 1250 al 1350, un secolo affascinante, di cui racconta «virtú e vizi» e regole sociali una fonte autorevole, lo Statuto del 1500, che

ra

Ne

Norcia Cascia Spoleto Ferentillo Cascata delle Marmore Rieti

LAZIO

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riassumere in poche pagine un coacervo, un caravanserraglio, un circo variopinto e adrenalinico come il gran gioco bevanate di ogni fine giugno da quasi trent’anni, è impresa ardua. Ma la passione non si pone ostacoli, cosí l’ambizione, cosí l’amor di sfida; allora avanti tutta! Con i frammenti di un discorso amoroso. Foglietti di diario, niente di piú.

Amor Soli

Proprio non me ne vergogno: Bevagna è un amore un poco matto. Se mai un cruccio forte è non esservi nato. Ma qui nacquero i miei genitori e tutti i nonni e bisnonni e oltre, fino a risalire al Seicento o giú di lí. Sono bevanate, di parte paterna e di parte materna. Ma perché un amore folle? Perché sono un esule (nell’adolescenza perfino forzatamente un po’ vagabondo), e gli esuli, si sa,

amano piú fortemente di altri paesani che mai si mossero dalle quattro mura, dalla piccola patria, anche se non perduta, e ritrovata sia pur di passaggio, secondo riti e rituali del ritorno breve. Un mordi e fuggi nonostante una casa. Basterebbe raccontare il De reditu alla maniera di Rutilio Namanziano per riempire pagine e pagine, in un vero diario della memoria. Questo in viaggio nei ricordi, nei momenti di vittorie e sconfitte. Non in questi frammenti. «Cosí va la vita». E poi c’è il mito, ci sono i miti, i luoghi dell’infanzia, quel che cantava Charles Baudelaire: «Il verde paradiso degli amori infantili, le corse, i baci, i fiori raccolti, le canzoni, i violini che vibravo di là dalla collina, l’innocente paradiso pieno di piaceri furtivi...» (da Moesta et errabunda, nella raccolta Fleurs du Mal, 1857).

La piazza principale di Bevagna, sulla quale prospetta la facciata romanica della chiesa di S. Michele Arcangelo, il cui campanile è invece di epoca posteriore.

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Questa è per me la mia Bevagna, dai sei agli undici anni, poi quella dell’età da ginnasio, quello comunale retto dal latinista e grecista Basilio Bartolini, che ce la metteva tutta per insegnarci la consecutio temporum e l’aoristo. Che ricordi profumati d’innocenza e di bagni nel Teverone non ancora fattosi Timia quando mescola nelle sue acque quelle del Clitunno che a Bevagna tira le cuoia, fiume sacro e letteratissimo, che, come racconta Svetonio, fu solcato dalla barca dell’imperatore Caligola.

Bevagnizzazione

Bevagna è strana ma mai straniera, perfino per chi, e sono in tanti, le si affeziona giungendo da lontano a vivere qui, giacché la bevagnizzazione inventata da Giuseppe De Rita non è semplicemente un felice neologismo, entrato nel vocabolario per indicare uno «stile di vita elegante e In alto uno scorcio del Palazzo dei Consoli (1270), ingentilito da bifore gotiche, e provvisto di un’ampia loggia coperta da volte a crociera. A sinistra scene di vita quotidiana al Mercato delle Gaite.

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al tempo stesso genuino, armonioso e sereno», ma è vita e sangue, materia di cui son fatti i sogni. A Bevagna non scoppierà mai una guerra. Tranne quella delle Gaite. Chiaro? Com’è avvenuto in passato, come si conviene all’agone, alla gara, al fervore qui non del campanile ma del rione, del sestiere, del grumo di case in cui è suddivisa in quattro la mappa della città, decumano e cardo, da mura a mura, da porta a porta, da cinta a cinta, da orto a orto, da vicolo a vicolo. Un tempo si diceva un quarto per porta, e era un atroce supplizio. Che Bevagna venga da lontano è cosa nota. Non si ripete fino allo straniamento la citazione del suo nome latino Mevania da Sesto Properzio nella prima Elegia del libro quarto, versi 121-126? «Qua nebulosa cavo rorat Mevania campo» («dove in piano declive è Mevania nebbiosa e umida»). Ma poi la vince Assisi, su

Spello, Montefalco, Collemancio; e nasce la quaestio propertiana che tanto riempí di animosa erudizione filologica e patriottarda cosí preclari studiosi nati nei citati borghi, ad accapigliarsi con opuscoli e sfide verbali. Diatribe erudite di campanile, sul filo del fioretto, commoventi se paragonate a certe disfide volgari e vuote dei tempi moderni. Dunque Bevagna in prima fila, con lo storico Fabio Alberti (Bevagna 1719-ivi 1803), a cui seguono Spello e le Torri di Properzio, Assisi e l’Accademia Properziana, Collemancio come la romana Cannara.

Beagne

Bevagna è donna, ha tenerezze femminee, se ne sta distesa e allungata sulle rive-ripe di tre fiumi, vista dall’alto ha le forme di un gatto sornione, un tempo plaga addormentata lungo la via Flaminia che l’attraversava come suo decumano

La watha longobarda Gaita deriva dal longobardo watha, ovvero «guardia». La denominazione, attestata dagli Statuti comunali giunti fino a oggi grazie a una trascrizione redatta nel XVI secolo, indica i quattro quartieri nei quali Bevagna e il territorio circostante erano suddivisi nel Medioevo.

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tradizioni bevagna (da Carsulae, strada consolare abbandonata per il nuovo tracciato Otricoli/Ocriculum-Terni/Interamna-Spoleto/Spoletium: da qui la sua caduta in rovina e non resta che ammirarne, da archeologi dilettanti, i resti e i reperti di pietra che ne fanno luogo fantasma, quindi l’isolamento di Vicus Martanus/Massa Martana). Da questo tradimento viario la pochezza di immagini e di panorami, ciò almeno fino alla nascita (a Terni, nelle Grafiche Alterocca) della cartolina come viatico per viaggiatori e turisti per caso. E non per caso Ezra Pound, nel suo Homage to Sextus Propertius, scrive (V, 2): «My genius is no more than a girl», sí, il mio genio è tutto in una donna, che «traduce» il latino «ingenium nobis ipsa puella facit». Perché, lo dico per vezzo e gusto patriottici, la questione properziana non è mica finita, si attende, noi Bevanati incalliti e fantasiosi, una sentenza passata in giudicato, una sorta di Cassazione dei filologi. Dov’è nato il poeta male integrato a Roma, provincialotto, e pazzo di Cinzia strepitosa di beltà e donna di facili costumi? Properzio è cosa nostra.

La cena medievale

La cena medievale è spettacolo nello spettacolo. La bellezza della Piazza di notte e festevolmente animata stordisce. Immagino lo stupore da svenimento per un turista che viene dal Texas. Ne conosco uno, ma Perugino DOC, dunque vaccinato alla bellezza, che fa il chirurgo vascolare a Houston, che languisce al solo pensare d’esserci. Immaginatene uno verace dell’Oregon. Potrebbe darsi, non sto dicendo una cosa impossibile. E poi i manicaretti dagli insoliti sapori e odori lasciano esterrefatti, sorpresi, come distaccati in un tempo sospeso, ti senti un cittadino del Trecento sia pure con la moderna forchetta in mano. E il telefonino a portata di mano sinistra. Vivi un tutto ser-

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vito in costumi medievali, al suono di musiche medievali «perfino» con il cantalupese e imponente Mario Lolli che massaggia un tenero mandolino. E le chiese delle archistar Binello e Rodolfo, datate 1200 circa, stanno a guardare, e forse sogghignano: «Ma che gente strana ‘sti beanati». Bevagna fa parte di quelle riscoperta e mitologia postmoderne che esaltano e celebrano in concitata esuberanza la filosofia del buon mangiare e del bel bere, la conclamata tirannia della gastronomia (parola il cui suono mi sa di ospedale), diciamo cibo e vino allora, pane al pane e vino al vino. E olio all’olio. Di oliva. E ora noccioli alla piemontese. E insaccati profumati dalla nostrana norcineria. La sua porchetta saporita di finocchio e pepe nero. Bevagna ha le sue cantine rinomate, di vini in bottiglia con etichetta nobile, ha le sue enoteche e ristoranti e trattorie e pizzerie e agriturismo e alberghi, tutto l’armamentario al servizio di sua maestà il turista, che farebbe bene, glielo dico con tutto il rispetto del caso, a visitare anche la Pinacoteca, dove dormono i nostri compaesani Ascensidonio Spacca, detto il Fantino, e Andrea Camassei, e, chi sa come, il napoletano Corrado Giaquinto.

San Francesco

Non può mancare. È pur sempre stato dietro l’angolo, ma dovrà attendere la formidabile biografia di fine dell’Ottocento scritta dal protestante Paul Sabatier per avere risonanza e visibilità europee. Per diventare il santo dei santi, il santo piú

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Sulle due pagine altre immagini delle attivitĂ artigianali e del mercato medievale che animano il tradizionale appuntamento bevanate.

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tradizioni bevagna

italiano e il piú italiano dei santi. Il piú popolare unto del Signore del mondo cattolico, e non solo. Uno che sbaraglia tutto il Martirologio Romano. Un piccolo uomo fragile nel corpo e immenso nello spirito, che ha reso conosciuta e immortale quella cosa chiamata Umbria, senza mare e al centro dello Stivale, di cui è il cuore verde, o la culla della poesia italiana (Francesco d’Assisi e Iacopone da Todi insegnano). E Bevagna fa parte come un petalo della Rosa dell’Umbria, ossia Foligno, in compagnia di Nocera, Assisi, Spello, Trevi, Montefalco, Cannara. Incantevoli borghi in Valle Umbra, che Francesco chiamò il luogo piú giocondo mai visto: «Nihil vidi iucundius mea Valle Spoletana» («Non vidi mai nulla di più giocondo della mia valle di Spoleto»). Certo, è bieco, cieco amor patrio che Bevagna è luogo magico e frammento di Paradiso caduto in Umbria come una terrestre e celeste meteo-

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ra «da cielo in terra a miracol mostrare». Ma tant’è. L’amore è cieco. Si sa. E Bevagna possiede la piú bella delle piazze minori d’Italia. Grazie messer Binello e messer Rodolfo. E ha il titolo di borgo fra i piú belli d’Italia. Ed è Beagne. Dunque non ci sia ostile o d’impaccio riportare come altra volta una paginetta spassosa e un poco inventata, o almeno iperbolicamente stilata, di Curzio Malaparte nei Maledetti Toscani, quando racconta la sua sorpresa divertita a sentire come si chiama(va)no stranamente i suoi abitanti: «E se non mi credi vai a Bevagna e mettiti in piazza. Udrai da porta a porta, da finestra a finestra, da cantonata a cantonata, e dal forno alla fontana, dal lavatoio alla cucina, dalla stalla al frantoio, Temistocle chiamare Cassandra, ed Elettra Agamennone ed Ecuba Astianatte, e Tiresia Antigone. E un giorno che andai a Bevagna col dottor Mattòli, medico di

Giolitti, e con Ciro Trabalza, che era di Bevagna, e naturalmente si chiamava Ciro, trovammo tutto il paese a rumore perché avevano arrestato Anassagora per un furto di polli. Quando attraversò la piazza ammanettato fra i carabinieri, Anassagora salutava i parenti e gli amici chiamandoli per nome: “O Coriolano! O Aristotele! O Sofocle!”, e una donna che gli si avvicinò, gli infilò sotto il braccio un fiasco di vino. La donna era la moglie di Anassagora, e si chiamava Clitennestra».

L’agonismo rionale

Mi lasciano sempre pieno di stupore la «ferocia» con la quale ci si batte, senza scuse se si perde, e l’intelligenza – dote che non manca di certo nelle teste del popolo – usata nello spiegare per tutto il periodo della festa e anche durante l’anno – su richiesta – come non sia folclore questa rievocazione in costume trecentesco, ma storia animata, sua settembre

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Sulle due pagine una scena di mercato e laboratori nei quali si producono, con tecniche tradizionali, filati e carta.

essenza e sua anima; una sorta di proiezione all’indietro come una macchina del tempo di quel mondo che, si è già detto, taluno erroneamente o ingenuamente definí secoli oscuri, senza spirito, stregonesco, senza bagliori.

La gloriosa età comunale

Ma, restando all’Italia di quei decenni turbolenti dei gloriosi Comuni e di invasioni straniere, sotto l’egida del solito dissidio italico di guelfi e ghibellini, abbiamo avuto la triade miracolosa di Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, e prima le laude di Iacopone da Todi e il Cantico delle Creature, l’alba della nostra letteratura. Bei tempi i nostri, grazie o nonostante cosí invasiva tecnologia informatica, soprattutto in medicina: tutti protagonisti, tutti noi narcisisti, tutti tuttologi, immersi o annegati nel web, tanto da esercitarvi perfino la cosa pubblica, cioè la politica, instaurando una parvenza, una miniatura di democrazia diretta, icona e totem dei piccoli dittatori, bastando la comunicazione e la propaganda in un’agorà dove un deus ex machina decide per tutti: condanna, esilia, deride, espelle, incanaglisce, insulta, predica violenza verbale e sovente fisica… una sorta di regno di delirio dove non è pericolosa l’intelligenza artificiale, ma l’uso insensato e arrogante. Viva allora la Bevagna incendiata di sana lotta di supremazia rionale, che amalgama la Gaita ma divide dalle altre. Vinca allora la miglior compagine, sancita da giudici imparziali e giusti, ferrati in materia. Ma il Trecento è cosí distante dall’oggi? Basta scorrere certe norme precise e acuminate dello Statuto cinquecentesco di Bevagna, dunque vecchio di mezzo millennio e oltre (ma summa dei precedenti norma-

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ri), per capire che i cambiamenti della storia sono lenti e amorali per la nostra moralità odierna, ferita a ogni passo, che ci tutela, anzi tutela la parte meno moralmente nobile della società. Le sanzioni, le ammende immesse nel codice antico, anche per brutalità gravi, sono soprattutto di natura materiale, denaro e sempiternamente denaro, risarcimenti, un po’ com’è oggi, e con migliaia di leggi intricate e contorte e illeggibili che ci vogliono fiscalisti e avvocati civilisti (e penalisti) per non capirci niente e continuare a subire.

Franco Cardini, che di Medioevo s’intende davvero ha definito il Mercato delle Gaite, che si svolge dal 1987 nella nostra splendida città onusta di arte, umanità, affabilità e cronache del trascorso, la piú importante e attendibile rievocazione medievale dell’intera Europa, il che è avallato a conferma dal premio «Italia Medievale» assegnatole nel 2011. Le credenziali ci sono, la passione bevanate per l’invenzione folcloristica e storica è viva, vivace, coinvolgente. La stagione è una via di mezzo tra primavera ed estate, il

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tradizioni bevagna delirio di festa si dipana nella terra delle acque del Clitunno e del Teverone-Timia, dove la pianura umbra si sposa con le colline azzurro-verdi a levante e il maestoso nume Subasio a ponente, in un connubio di magico e di ineffabile. I cento anni dal 1250 al 1350 qui rivivono, sono ricostruiti nel rito delle botteghe artigiane (cartiera, cereria, tintoria, fonderia, liuteria, conceria...) e nel mito della sfida al tiro con l’arco, prova virile (a cui accedano le donne!), quindi del cibo popolano miscelato con i manicaretti e con le leccorníe aristocratiche, nelle quattro taverne delle quattro Gaite o quartieri o rioni in cui è divisa, lo ripeto, la mappa e la città; da nord a sud (il decumano dove passava la via consolare Flaminia) e da sinistra a destra (il cardo). Dunque verso il nord le Gaite di San Pietro e di San Giovanni a sinistra e a destra le Gaite di Santa Maria e di San Giorgio, in gara rovente e all’ultimo sangue nelle altre tre tenzoni: nella cucina rigorosamente coeva, nel mercato e nella sua rappresentazione piú fedelmente ricostruita, nell’antico mestiere piú filologico come ripristino moderno. Insomma, piú o meno dal 14 al 24 giugno, Bevagna e dal «lontano» 1987 – senza timore reverenziale verso sgambetti politicamente scorretti portati da altri contermini eventi di comunità invidiose – la creatura storico-folclorica va per la sua strada, appagata da decine e decine di migliaia di visitatori e turisti innamorati per una volta all’anno dal frastuono della città e non dal silenzio monastico che si effonde negli altri mesi dentro i vicoli e i muri e i monumenti millenari; non a caso, Bevagna è, lo dico per l’ennesima volta, la Mevania romana e ne conserva strepitose stimmate. Ma visitatori e turisti non mancano d’autunno e d’inverno, della consorteria degli amanti delle città d’arte di cui è gremita la nostra Penisola. La città ha adotta-

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to la politica della gratuità di tutti i parcheggi, non piú ticket di pochissimi euro, dunque, ma un omaggio all’austerità e ai tempi grami, e cosí bando agli aumenti.

Palio e dintorni

Vinca la Gaita migliore! Vien da dire, cosí incamera il Palio, dipinto da un artista di fama, che della pittura abbia una concezione figurativa e intelligentemente «citazionista», o, in barba alle fumisterie misteriche e alle furberie mercantili di molta, troppa arte contemporanea, sappia stordire con astrattismo pensato e intellegibile. Due Podestà mi domandarono di segnalare l’artista, «pagato» con leccorníe (vino, olio, prosciutto, salumi) gradite piú del vil denaro, sterco del diavolo. Giovanni Picuti e fu la volta di Bruno Ceccobelli, Gianni Dessí, Stefano di Stasio, Paola Gandolfi; Angelo Santificetur e aderirono Franco Venanti e Giuliano Giuman. Poi il gioco è bello se dura poco. Ricordo che con il Podestà Folco Barattini confezionammo nel 2009 l’album Bevagna in Palio, con le tavole dei palii dal 1987 al 2009. Scendo a Bevagna in compagnia di Bruno Ceccobelli, artista, umbro di nascita e di eccellente valore. Gli ho chiesto, per conto del Mercato delle Gaite, di realizzare il Palio 2009, e ha detto di sí, e lo portiamo nella bella cittadina che, repetita iuvant, sfoggia l’eccellente ricostruzione trecentesca: mestieri, costumi, mercati, cibi, stoviglie, musica e danze, perfino la lingua rivivono per dieci giorni – dal penultimo venerdí all’ultima domenica di giugno, in un festoso, mobile, accogliente scenario che invade vicoli, la piazza grande, giardini e orti, sagrati e chiostri, tutto grazie alla laboriosità volontaria e all’entusiasmo dei Bevanati tutti. Il Mercato delle Gaite – completo notizie sovente lasciate in sospeso – è nato, s’è detto, nel 1987, ed è una sfida all’ultimo piatto o

Un tratto della cinta muraria. Bevagna conserva ancora il circuito medievale, che si snoda per 1700 m circa e si sovrappone in gran parte a quello d’epoca romana.

all’ultima freccia fra i quattro rioni o quartieri in cui è divisa la mappa del paese: storicamente i quattro rioni, gaite dalla lingua longobarda whata = guardia (vedi box a p. 73), sono all’incirca quella di San Giovanni (l’area della chiesa di S. Francesco e di Porta Cannara), di San Giorgio (la chiesa di S. Margherita), di Santa Maria (con la chiesa di S. Agostino) e San Pietro (con la chiesa di S. Filippo). Certo, nel descrivere la realtà ludica e turistica di una rievocazione laica appaiono forse troppi santi, ma se la storia è, come diceva Benedetto Croce, sempre contemporanea, non dimentichiamo che la Chiesa settembre

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di Roma qui regna da duemila anni. Sentirli parlare di parcheggi e di vetrine, di pedaggi e di «ordine pubblico», di fedeltà storica e di promozione, è un piacere, perché sotto la grande fatica e al di là dell’orgoglio di «fazione» alberga un amore sincero e generoso per Bevagna, che tutti vorrebbero sempre piú prospera e conosciuta nel mondo. Si pensi che, negli ultimi anni, i posti-letto sono aumentati da 20 a 970, e non si contano ristoranti, trattorie, enoteche, agriturismo. E cantine con pregiatissimo vino Sagrantino – questa è area DOC – e botteghe dove si fabbricano carta bambagina sublime (mastro carta-

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io è Francesco Proietti, e sta riprendendo vita la originale e prestigiosa mostra In Chartis Mevaniae), e candele di cera d’api, e cuoio e pergamene e corde di canapa ed erboristeria, tutto rigorosamente medievale (1250-1350, un secolo). Il Mercato delle Gaite è sí un’animazione che richiama centomila visitatori in un carosello di fregnacce, ossia grosse frittelle, e di porchetta, di souvenir e di mangiate medievali nelle affascinanti Taverne gestite dalle Gaite e ricavate da cantine o da stalle padronali, e dove si pasteggia bene e a prezzi accettabili. Le Gaite sono anche, forse soprattutto, una gara di gare, la summa di quat-

tro momenti topici della rutilante e allegra dieci giorni, indimenticabile kermesse di popolo e di turisti. Il Palio, dunque, uno stendardo dipinto da artisti famosi, e gli artisti sono davvero felici di essere nel mio paese, viene assegnato alla Gaita che assommerà il maggior punteggio ricavato da quattro gare: il Mestiere piú riuscito, il Menú piú gustoso, la Ricostruzione piú animata e fedele di un angolo di mercato, il Tiro con l’arco. Per le prime tre prove, ci pensa una giuria di esperti e di storici che si godono bellezza, buon mangiare, e chi lo sa, forse perfino qualche gettone. In tarda serata il popolo-pubblico

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tradizioni bevagna

se ne torna a casa, avvolto dai sapori e odori e bicchieri di vino e cibi sinceri delle taverne, e dalle atmosfere di un pezzo di storia che sembra, magari un po’ esagerando, ma l’iperbole è l’arma preferita dagli artisti, un frammento di Truman Show, come piovuto per miracolo da un luogo incantevole dell’Umbria piú autentica, per una notte lontana da clamori e da modernità alienante.

Notti medievali

A Bevagna sotto le stelle del Medioevo? Davvero una notte indimenticabile. Il pieghevole prometteva «Cibo, sesso e bagno caldo», e

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mai i fortunati invitati, racchiusi dentro la barriera di transenne nell’incantevole e superba piazza Filippo Silvestri e in attesa di delibare piatti rigorosamente desunti da ricettari del Trecento, avrebbero potuto immaginare la dovizia di colpi di teatro e di fuochi d’artificio, di splendidi, solari e lunari costumi, e di maschere e spade fiammeggianti, e ruzzole incendiate e rutilanti, e falchi e gufi ammaestrati, e duelli e allegorie e carri variopinti tirati da cavalli umani. Ebbene sí, la Gaita cui era toccato di inscenare e somministrare il Banchetto medievale, non solo

ha superato con brio e bontà la prova del cuoco, ma ha inventato, con la grazia danzante e la fantasia di musici e istrioni e mimi e le musiche d’epoca dirette dal maestro Filippo Salemmi ed eseguite da provetti musicanti in costume. Era la prima volta che la cena della domenica che precede il venerdí inaugurale del Mercato delle Gaite, veniva allestita in piazza, e l’innovazione sarà d’ora in avanti la regola d’oro, la sfida per rendere piú spettacolosa la cerimonia, ossia la cena a base di cibi antichi serviti da volontari in costume, con sincronia, garbo, sorriso, entusiasmo, orgoglio. settembre

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In alto piatti tipici offerti durante il Mercato delle Gaite. A sinistra il ponte in pietra che scavalca il Clitunno.

E tutto il popolo operoso delle quattro Gaite era ammirato e teso verso la bellezza, la grazia, l’intelligenza, nel leggere il senso di questa kermesse con Palio dipinto, somma di colore, linea, forma, atmosfera, oltre il limite della realtà, in trio di fantasmi figurali, di sogni affastellati e freudiani, di affabulazioni e utopie, di magie segniche e metaforiche. Nel clima pagano e sacro delle Gaite, è il segno di culture (etrusca, romana, longobarda) che si sono nel tempo fuse e rispettate in una civiltà di conquista sí, ma pure tollerante e vitale. Non sono mancate, in una delle edizioni recenti, le tinozze do-

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ve, seguendo le abitudini che si trovano nei racconti di messer Giovanni Boccaccio, e in tanta iconografia coeva, giovani dei due sessi mangiavano sapidamente seduti nell’acqua calda, in un piccolo tripudio di sensuale e ingenuo amore carnale. Gli antenati latini e romani ancora insegnavano, e insegnano, tranne il diritto oggi terra di caos. Scandalizzarsi? Non è il caso, oggi che il nudo e il sesso invadono tutto lo spazio diventando perfino uggiosi, ripetitivi, monotoni, come la castità del resto se è bandiera di ipocrisie. Per inciso, Bevagna si è data dal 2014 l’Accademia di Bevagna e sulle pagine della sua rivista, il Grande Dizionario di Bevagna, lodiamo il passato, vestigia e archivi della memoria, le opere e i giorni di una comunità civile e armonica.

Elogio del volontariato

Qui si maneggiano costumi, attrezzi, oggetti, materie legati a quel secolo lontano che la fantasia e la pertinacia dei compaesani fanno rivivere con il medesimo spirito si direbbe, immedesimandosi e recitando, nella pratica, le parti assegnate in copioni non scritti, da regi-

sti invisibili, in un appassionato fai da te che sconfigge una generale penuria di denari, perché sono utopie le grandi cifre destinate a pellicole cinematografiche o agli stipendi di giocatori e allenatori del calcio. Tutto è qui volontariato entusiasta, alimentato da agonismo e competizione, che sono le scintille che accendono il fuoco dei quattro rioni, a inizio estate, e l’epilogo, ossia la vittoria e la conquista del Palio che farà entrare nell’albo d’oro e ornerà la Casa della Gaita, secondo me giustamente, è burrascosa, polemica quanto basta, perché senza anima un teatro cosí non sarebbe sopravvissuto, sarebbe già morto. Il Mercato delle Gaite è una kermesse formidabile, attempata, ma pimpante e vigorosa, che nella (apparente) ripetizione di miti e riti sa innovarsi, rinnovarsi, cambiare pelle, come circondata da una nuvola di accattivante, affascinante novità. Johan Huizinga in Homo Ludens ricordava: «Il gioco è libero, è libertà; ogni gioco ha le sue regole». E non a caso lo storico olandese è l’autore anche del gran libro L’autunno del Medioevo. Se il Medioevo è morto, viva il Medioevo!

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di Yann Grappe

Leviamo in alto i ... di civiltà!

calici

Il pasto dei contadini (particolare), olio su tela di Louis Le Nain. 1642. Parigi, Musée du Louvre.

Il vino era la bevanda per eccellenza dell’Occidente medievale, presente su tutte le mense dell’epoca. Le sue numerose varietà, prodotte grazie a un sapere e a tecniche spesso non in grado di garantire qualità e quantità, forse non incontrerebbero il favore dei consumatori di oggi. Eppure, intorno al frutto della vite, nel Medioevo venne a costruirsi una vera e propria cultura...


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Il pranzo degli agricoltori, olio su tela di Diego Velázquez. 1618. Budapest, Museo di Belle Arti.

L

a cultura del vino s’inserisce oggi in una gastronomia che scruta tale bevanda come l’occhio di uno storico dell’arte legge un’opera pittorica. Questa cultura enologica non è nata con i progressi fatti negli ultimi decenni nel campo vitivinicolo, ma trova le sue radici in un passato attento a descrivere e ad apprezzare il vino. Che nei secoli è cambiato, come è cambiato il degustatore che viaggia attraverso il tempo con valigie culturali diverse. Si delinea però una costanza nell’approccio che l’uomo ha verso il vino, da sempre improntato alla ricerca di strumenti, usi e comportamenti per costruire una «grammatica» che ci permetta di rapportarci con esso. La cultura del vino medievale è ben documentata nelle fonti, ma si presenta in un modo del tutto particolare. Talvolta cosí acetoso da forare gli stomaci, talvolta denso e liquoroso: il vino medievale, nei giudizi contemporanei, non è certo tenuto in grande stima. Se per un viaggio attraverso il tempo ci fosse concessa la possibilità di assaggiare uno di questi vini, forse faremmo effettivamente fatica ad apprezzarlo, confermando cosí gli stereotipi negativi sulla qualità della produzione enologica del passato. Non tanto perché l’uomo sarebbe stato incapace di produrre un vino di qualità prima dei progressi dell’Ottocento in materia di chimica e tecnica vitivinicola, ma proprio perché gli stessi gusti sono cambiati nel tempo. Pensare e studiare il vino nel Medioevo (ma anche l’alimentazione nel suo complesso) potrebbe prendere la forma di un viaggio in un Paese lontano. Perché assaggiare i prodotti della cultura alimentare medievale ci porta davanti a pietanze e bevande sconosciute, i cui sapori evocano un altro modo di concepire il cibo e rimandano a un’altra cultura del

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Miniature tratte dal Breviario di Ercole I d’Este, illustrato da artisti di scuola ferrarese e lombarda. 1502-1504. Modena, Biblioteca estense Universitaria.

In alto, allegoria del mese di Agosto, al quale è associata la fabbricazione delle botti; a destra, la pigiatura dell’uva è invece scelta per il mese di Ottobre.

gusto. Un po’ come accadrebbe a chi fosse al suo primo viaggio in un Paese ignoto. Lo storico, come il viaggiatore – mentre scopre una contrada a lui sconosciuta – deve mettere da parte i suoi criteri di giudizio e inforcare lenti diverse da quelle che ha l’abitudine di indossare per leggere la propria realtà. La questione della qualità del vino delle epoche passate deve quindi essere posta in altri termini, ammettendo che «il» vino medievale non è mai esistito, e che piuttosto il Medioevo vide scorrere quantità di «vini» diversi. Vini prodotti con modalità differenti, a seconda delle regioni e dei

tempi e che la cultura medievale ha provato ad afferrare, fissandole in descrizioni e classificazioni che vediamo emergere tra le fonti, ma certamente prodotti grazie a un sapere e a tecniche che non potevano garantirne qualità e disponibilità. Ma queste difficoltà non hanno impedito agli uomini di dedicare al vino un’attenzione meticolosa e di costruire attorno a esso una tale cultura.

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Vitigni da tutto il mondo

«Tanto è grande lo studio di-vino – ci racconta con un gioco di parole Franco Sacchetti negli anni Novanta del Trecento – che da un gran tempo in qua gran parte degli Italiani

hanno sí usato ogni modo d’avere perfettissimi vini». Per ottenere simili risultati qualitativi, i cultori di questo «studio» si dimostrano curiosi dei vini prodotti al di fuori della propria regione e si fanno mandare vitigni pregiati «d’ogni parte». Un po’ come accade ancora oggi, dove Italiani, Francesi e Australiani si scambiano sapere enologico e importano vitigni non autoctoni. Il protagonista della novella che ci racconta Sacchetti è un cavaliere fiorentino di alto rango, particolarmente attento alla qualità del vino, messer Vieri de’ Bardi, che si fa mandare ceppi di un vitigno di pregio dalla Liguria: la vernaccia di settembre

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secoli del Medioevo, nei contratti agrari per esempio, l’espressione di un interesse particolare per la vite, con indicazioni precise sui lavori da svolgere. L’articolo VIII del Capitolare de Villis promulgato nel regno di Carlo Magno stabilisce precise disposizioni in materia di vitivinicoltura e, in particolare, per quanto riguarda la pulizia dei contenitori, un elemento fondamentale per la sua buona conservazione («et ipsum vinum in bona mittant vascula»). Quest’attenzione da parte dei proprietari non si manifesta con la stessa intensità negli altri settori produttivi. Dal produttore al consumatore, la preoccupazione della qualità è un elemento che emerge in modo ricorrente dalla documentazione. La letteratura, per esempio, è costellata di «bevitori curiosi» e «investigatori del buon vino», per riprendere espressioni del Boccaccio.

«Agile come uno scoiattolo...»

Corniglia. Lo vediamo poi scendere di persona nel campo, al fine di sovrintendere al buon andamento dei lavori viticoli, assaggiando per esempio le uve dei suoi vigneti per determinarne la qualità. Questa figura del proprietario depositario di una cultura vitivinicola rimanda alla realtà descritta dall’agronomo Olivier de Serre nel 1600, che vede «in tempo di vendemmia, Presidenti, Consiglieri, Borghesi e altre persone di alto rango partire dalle grandi città per recarsi nelle loro tenute agricole e provvedere per il vino». Senza spingerci troppo al di là dei limiti cronologici che ci interessano, troviamo già nei primi

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Per far venire l’acquolina in bocca ai bevitori, lo «strillone» di una taverna di Arras, nel Nord della Francia, in un fabliau composto tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, non lesina attributi su aspetto e sapori del nettare offerto ai suoi avventori: «Il vino spillato fresco fresco (...) saporoso, morbido, solido e polposo, agile come uno scoiattolo nel bosco, senza alcuna traccia di muffa o di acido, insaporito sui lieviti, saldo e nervoso, limpido come una lacrima di peccatore, che resta a lungo sulla lingua dei buongustai: non lasciate niente agli altri!». Potremmo continuare a citare le esclamazioni eloquenti di questa letteratura per convincerci meglio ancora che il piacere legato al vino non è nato di recente. Cosí i giudizi a priori dei nostri contemporanei tacciono, lasciando esprimere i palati di quelli che hanno effettivamente assaggiato quei vini che un tempo si degustavano. In effetti, l’interesse dello stori-

co non è tanto scoprire quali gusti potevano offrire le produzioni enologiche del tempo, bensí il gusto dei protagonisti: come parlavano del vino, come lo descrivevano e secondo quali criteri? Adottando questo punto di vista, alcune porte si aprono. E il Medioevo lascia intravedere una cultura del vino articolata, ma anche diversa rispetto alla nostra: ieri forse piú di oggi, il consumo della bevanda aveva a che fare con preoccupazioni religiose, dietetiche e sociali, che orchestravano la vita degli uomini e delle donne.

Otto giorni per dissetarsi

Il Piovano Arlotto, curato di campagna, si ritrova invitato a una cena di nobili signori fiorentini dov’è presente addirittura Lorenzo il Magnifico. L’ospite, messer Carlo de’ Medici, in qualità di uomo «da bene e molto magnifico» fece servire «il migliore vino che avessi Firenze». Famoso per i suoi motti di spirito, Arlotto questa volta beve tanto da attirare gli sguardi sconcertati su di sé mentre fischia e parla a squarciagola. Mai a corto di battute argute, il piovano giustifica il suo comportamento affermando che «la vecchiaia concede piú di bere che di mangiare». Inoltre, Arlotto racconta di essere appena tornato da un viaggio tra Pisa e Firenze in un «iscafa su per Arno» che trasportava sale, e – siccome ha dormito su uno di questi sacchi di sale – si è «tanto risecco dentro» che metterà almeno «otto dí per cavare la sete». Eccovi descritti in modo molto concreto i principi fondamentali della dietetica medievale. Cos’è successo al Piovano Arlotto? Si è seccato troppo, come una coscia di maiale diventata «prosciutto» sotto l’azione del sale. Per correggere quest’eccesso di «aridità», Arlotto beve vino. Si riteneva poi comunemente che le persone anziane dovessero compensare la perdita di alcune qualità possedute alla nascita, con un consumo di vino piú abbondante rispetto alle

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In alto miniatura raffigurante la vendemmia e la pigiatura dell’uva, da un’edizione del Theatrum Sanitatis. XIV sec. Roma, Biblioteca Casanatense. A sinistra un’altra scena di vendemmia, scelta come allegoria del mese di Settembre, dal Breviario Grimani. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

altre età. Tale cultura dietetica ambientale (che poco ha a che fare con ciò che intendiamo oggi con questo termine) ritma i gesti del quotidiano e rimanda a un intero modo di sentire e di stare al mondo.

Fonte di salute

Questa stessa cultura riteneva che «non e’e nulla che faccia altrettanto bene al corpo quanto il vino», come leggiamo in un trattato di dietetica diffuso in tutta l’Europa del Basso Medioevo. Una convinzione condivisa da tutti – che troviamo attestata non solo nei trattati scientifici – è proprio quella di ritenere il vino come una fonte di salute primordiale, preziosa sia per mantenersi sani

sia per curare il corpo ammalato. I conti di alcuni ospedali e istituti caritativi fanno emergere una distribuzione di vino ai malati, che la medicina contemporanea non esiterebbe a definire eccessiva. Una condizione deve però garantire questa benedizione: la moderazione. Tanto ricordata nella documentazione, da farci pensare che costituisse un problema mai risolto. In questo contesto numerosi trattati ed enciclopedie, ai quali fa eco la letteratura, si dimostrano attenti a definire la qualità del vino, in modo che il bevitore possa organizzare il suo consumo al meglio: in funzione della stagione, del luogo dove vive, (segue a p. 93)

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Dossier Teorie dietetiche

Puro d’inverno e piú leggero d’estate Le teorie dietetiche elaborate da Ippocrate di Coo (V-IV secolo a.C.) e Galeno (Il secolo d.C.) formano ancora la base del sapere divulgato nei numerosissimi trattati che circolano nell’Occidente medievale, diffusi soprattutto a partire dalla fine del XII secolo. I principi chiave di queste teorie attribuivano una natura a ogni elemento del reale, definita da una combinazione di qualità che vedeva l’alternanza di caldo o freddo con l’umido o il secco. Queste qualità si riferiscono ai quattro elementi fondamentali, Aria, Acqua, Terra, Fuoco, in una sorta di rosa dei venti che regola ogni principio del mondo. Ogni cosa possiede cosí una sua carta d’identità: un uomo, per esempio, nasce «caldo» e gli anni lo renderanno sempre piú «freddo»,

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l’estate è calda e l’inverno è freddo, le regioni settentrionali sono piú fredde delle zone mediterranee e cosí via. Ciò vale anche per ogni alimento classificato secondo questa griglia di lettura. Ognuno deve interagire con i cibi cercando l’equilibrio, base della buona salute, e mangiando e bevendo una derrata piuttosto che un’altra, compie interventi correttivi o conservativi sul proprio temperamento. Cosí si spiega un gesto diffuso nel Medioevo, che consiste nel tagliare alcuni vini con acqua per correggerne qualità troppo calde. Cosí gli uomini spiegavano perché d’inverno preferivano il vino puro mentre d’estate volevano un vino fresco, leggero e piú «freddo». E sono sempre questi principi a far ritenere che un uomo anziano (come

il Piovano Arlotto) potesse concedersi di bere vino in maggiore quantità e poco annacquato per correggere il proprio temperamento. Da questa sensibilità empirica derivano alcune abitudini alimentari, come quella delle pere cotte nel vino o quella del melone accompagnato con il vino (o il prosciutto), che gioca il ruolo di correttore. Platina, nel suo De honesta voluptate et valetudine (XV secolo), trattato a mezza strada tra gastronomia e dietetica, riflette bene la concretezza dell’esperienza sensibile: «Quanto a me, consento con la natura, la quale, dopo che si è mangiato il popone (= melone), è incline a desiderare il vino, e di quello buono, perché è quasi un antidoto contro la frigidità e la crudezza del popone».

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Nella pagina accanto miniature raffiguranti malati curati con il vino, da un’edizione manoscritta in lingua latina di un trattato di Ippocrate di Coo. XIII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. In questa pagina miniatura raffigurante l’assaggio del vino rosso, da un’edizione

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del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione latina del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan (XI sec.). Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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Le nozze di Cana (particolare), olio su tela e tavola, attribuito a Michele Damaskinos. Seconda metà del XVI sec. Venezia, Museo Correr.

del suo temperamento, del sesso e anche della sua classe sociale. «Il ricchissimo fasto della mensa regale è ritenuto ornamento di non poco conto per lo Stato, poiché si stima che il padrone di casa possieda tanto quante sono le vivande insolite con cui si banchetta alla sua tavola». Cosí Cassiodoro, funzionario della corte ravennate di Teodorico re degli Ostrogoti, testimonia negli anni Trenta del VI secolo l’attenzione nel provvedere all’allestimento della tavola del sovrano come espressione della sua grandezza e del suo prestigio. «Perciò – prosegue Cassiodoro – si devono procurare quei vini che la fertile Italia produce isolatamente: affinché non sembri che noi abbiamo trascurato questi prodotti». Viene cosí richiesto ai funzionari di fornire, tra le diverse cose «necessarie ai signori», un vino prezioso del Veronese, sulle cui qualità il testo si dilunga in elogi, e altri vini rari: «In quanto è piú ammirevole ciò che avrete potuto trovare con piú difficoltà».

Nettari degni di un re

Salimbene de Adam da Parma ebbe la fortuna di partecipare al pranzo offerto a Luigi IX nel 1248 da un capitolo di frati francescani, e racconta che i vini serviti erano in abbondanza e speciali «come si conveniva alla maestà del re». Nel 1343 ad Avignone viene offerto un banchetto a papa Clemente VI dal cardinal Ceccano dove vengono serviti vino greco, grenache, vino di Beaune, saint-pourçain e vino del Reno: qualità molto diverse fra loro, e la cui pletora viene enfatizzata dalla fontana da tavola da cui tutti spillano con gran copiosità. Vini stranieri, vini pregiati locali, vini rari – tutti serviti in abbondanza –, sono alcuni degli ingredienti necessari all’ostentazio-

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Dossier dal decamerone

Cisti fornaio, un vero intenditore Cisti è un fornaio, protagonista di una novella del Decamerone, composto da Giovanni Boccaccio tra il 1349 e il 1351. Nonostante la bassa condizione sociale dettata dal suo mestiere, Cisti riuscirà a dimostrarsi «valente uomo, d’altissimo animo» agli occhi di nobili uomini di una delegazione che passava quel giorno davani alla sua bottega. Come? Grazie ai suoi vini: «I migliori bianchi e vermigli che in Firenze o nel contado si trovassero», serviti con garbo e savoir faire. Per realizzare il suo piano di distinzione sociale, Cisti vuole invitare i nobili ad assaggiare il suo vino. Tuttavia, consapevole delle regole sociali, riesce a fare in modo che siano loro stessi a invitarsi: mai un «vile» fornaio si permetterebbe di condividere un bicchiere con i personaggi di un nobile corteo. Cosí Cisti, tutto vestito di un bianco immacolato, pone davanti al suo negozio «una brocca in stagno di acqua freschissima, un piccolo orcio bolognese nuovo del suo vino bianco e due bicchieri che sembravano d’argenti In alto e in basso altre miniature da un’edizione del Theatrum Sanitatis, raffiguranti l’assaggio di varie qualità di vino. XIV sec. Roma, Biblioteca Casanatense. Nella pagina accanto, in alto servitori che portano vivande e mescitori di vino, particolare del Banchetto di nozze alla presenza degli arciduchi, olio su tela di Jan Brueghel il Vecchio. 1612-1613. Madrid, Museo del Prado.

ne della ricchezza e del potere del principe, la cui ricca tavola diventa status symbol di colui che dimostra di essere in grado di allestirla. La capacità nel radunare la diversità, la rarità e la qualità è un elemento chiave e strutturale dei meccanismi della distinzione per le alte classi sociali. Proprio in virtú del fatto che il vino era diffuso in tutta la società e persino, in certe situazioni, tra i piú poveri, alle élite occorreva infatti distinguersi: sia con la ricerca della qualità, della diversità e del pregio, sia con il loro utilizzo all’interno di un sistema fatto di usi, rituali e

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tanto erano chiari» e comincia «a bere sí saporitamente che sarebbe riuscito a fare venire voglia ai morti». Forse il grande caldo, ci racconta Boccaccio, forse la qualità del vino oppure il saporito bere di Cisti aveva fatto nascere sul palato degli ambasciatori una sete insaziabile. Il rituale della degustazione di Cisti ha funzionato ed eccoli tutti a invitarsi al suo tavolo! Cisti comincia allora a preparare con cura bicchieri scintillanti e mesce con arte il suo vino con l’acqua fresca. Tutti gli aggettivi del racconto si rifanno alla chiarezza, alla brillantezza, alla pulizia e alla purezza: una terminologia che rimanda alle qualità ricercate nel vino da persone di rango. In questa occasione il fornaio allontana i servitori dai nobili, riservandosi il privilegio del servizio del vino – un’arte che Cisti pensa di maneggiare molto meglio di loro: «Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d’assaggiarne gocciola!». «Mescere»: il rituale che consiste nel «servire e mescolare» il vino con l’acqua occupa in effetti una parte privilegiata nel servizio del vino di pregio, e viene generalmente affidato a domestici specializzati. Ai signori «il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto»: la missione di Cisti è compiuta. E cosí bene che Cisti strappa l’invito a «un magnifico convito al quale [partecipa] una parte de’ piú orrevoli cittadini». Però, sempre rispettoso dell’ordine sociale, il fornaio si rifiuta di recarvisi e si accontenta di offrire un po’ del suo vino alla pregiata mensa. Il vino emerge in questa novella come un efficace marcatore sociale. Cisti e i nobili parlano un linguaggio sociale codificato attraverso il vino. Proprio attraverso il suo comportamento alimentare, che mostra di dominare una raffinata cultura del vino, Cisti fornaio viene riconosciuto quasi come uno di loro. buone maniere, in modo da esprimere un vero e proprio «comportamento di classe», per usare le parole di Jacques Le Goff.

Il valore sociale del vino

Nel corso del Medioevo la nozione di qualità tenderà a sporgersi oltre l’orizzonte della dietetica, per assorbire anche un significato di tipo sociale: le nozioni di «qualità dietetica» (ovvero il temperamento di una persona) e di «qualità sociale» (ovvero la sua classe sociale di appartenenza) cominciarono a confondersi. La mobilità e i conflitti sociali, cosí

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Chi ambiva a distinguersi sceglieva vini pregiati, da consumare secondo rituali scanditi dalle buone maniere

A destra boccale in ceramica umbro destinato alla mescita del vino, come suggerito dalla decorazione dipinta, costituita da un braccio nell’atto di porgere un bicchiere di vino. XV sec. Torgiano, Museo del Vino.

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come l’affermazione di poteri forti negli ultimi secoli, determinarono maggiormente la necessità delle élite di marcare e affermare il proprio status. Il passaggio – secondo le osservazioni di Marc Bloch – da una nobiltà di fatto a una nobiltà di diritto, porterà significativi cambiamenti nella definizione delle loro ideologie culturali di riferimento. Un mezzo efficace per la distinzione sociale è costituito proprio dai comportamenti alimentari. La

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partizione dei consumi viene cosí definita e legittimata per «legge naturale» o, diciamo meglio, secondo i principi della dietetica: lo stomaco del ricco è fisiologicamente diverso da quello contadino. Mentre le classi abbienti raccolgono persone dalle complessioni piú delicate e vicine alle qualità «aeree», si ritiene che i contadini e i braccianti abbiano una complessione robusta e «terrosa», che permette loro di digerire cibi piú rozzi. settembre

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cibi e colori

I consumi come specchio delle ideologie Leggendo le fonti tra le righe, lo storico può provare a percepire le ideologie che riflettono o in taluni casi rivendicano un certo ordine della società. Simili ideologie trovano un mezzo di comunicazione ideale nell’attribuzione di vari cibi ai vari componenti della società. Nel caso del pane e del vino si delinea una rappresentazione ideologica particolarmente efficace: la differenziazione tra il chiaro e lo scuro, il bianco e il nero, il leggero e il pesante, «l’uomo da bene» e «il rustico». Il pane e il vino sono i due pilastri della cultura alimentare medievale, sia nei loro significati culturali, sia nel loro consumo effettivo. Il pane di lusso è di frumento e per insistere sulla qualità sociale del prodotto le formule letterarie si soffermano sulla sua bianchezza, brillante e immacolata. Il pane nero, invece, fatto con cereali «inferiori», piú robusti, spesso mischiati insieme (mistura), è quello dei contadini e del popolo minuto. Tale distinzione sociale di tipo cromatico si applica anche al vino: il vino bianco, leggero e limpido del signore si oppone al vino nero, grosso, che solo chi lavora duro riesce a digerire. Stiamo parlando di rappresentazioni ideologiche e non di consumi reali: come la forma modella una torta senza conferirle il sapore, le ideologie condizionano i consumi ma non li creano del tutto. Con una parentesi consapevolmente anacronistica, noteremo quanto i gusti sono cambiati oggi o addirittura invertiti: il pane «multi-cereale» va di moda e il vino rosso, sempre piú denso, morbido e corposo, ha la meglio sui vini bianchi leggeri!

Sulle due pagine particolare di una miniatura da un codice, raffigurante una scena di banchetto. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. A destra Mangiafagioli, olio su tela di Annibale Carracci. 1584-1585. Roma, Galleria Colonna. Nella pagina accanto, in basso bicchiere in ceramica, decorato con grappoli d’uva stilizzati. XV sec. Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Nella letteratura si oppongono con toni accesi «i vini da lasciare ai contadini» a quelli «raffinati, solenni e preziosi». Lo schema ideologico che prende forma nei secoli del Basso Medioevo e che impregna anche i trattati redatti da medici e dietologi assegna alla «gente di riposo» vini chiari, limpidi, delicati e leggeri perché sono piú adatti alla loro natura raffinata. Mentre i vini rossi, neri e rozzi, considerati difficili da digerire, sono da lasciare ai lavoratori manuali, proprio perché «il faticare fa digerire le pietre», come ci conferma il contadino Ruzante, protagonista

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di un racconto di Angelo Beolco. I cibi assumono cosí una connotazione dietetica e sociale. Il Piovano Arlotto rimane delusissimo quando il nobile messer Ispinellini, con azione affatto degna del suo rango, fa servire cibi e vini che il Piovano definisce «da operai e muratori». Il nostro Piovano piú avanti manifesta la stessa delusione quando di fronte a un «vino solenne» promesso da un cardinale ai suoi ospiti, decreta invece: «E’ mi pare acqua di fabri»! La pensa ancora esattamente cosí il famoso agronomo Olivier de Serre nel Seicento, quando scrive che i «buoni vini grossi

rossi e neri sono bevande adatte alla gente che lavora e che per la sua continua fatica li digerisce facilmente, ed è per questo che sono ricercati e amati da essa, cosí come i bianchi e i clerets lo sono da parte delle persone che vivono nell’ozio».

Ansie classificatorie

Gli uomini del Medioevo non hanno dimostrato timidezza nell’interesse tributato al vino. A motivare quest’attenzione fu la ricerca di quello che potremmo chiamare un «piacere utile»: piacere gastronomico e necessità dietetica e sociale si fondono in un’unica cultura. In questo contesto, la volontà di descrivere settembre

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e di classificare la diversità dei vini appare come un bisogno evidente. Saper descrivere e scegliere bene un vino fa parte delle prerogative di un principe. Cosí troviamo nel Secretum secretorum – un testo che sotto varie versioni conobbe una grande diffusione in Europa a partire dal XII secolo – gli insegnamenti utili alla buona educazione, tra i quali figura un capitolo interamente dedicato all’analisi del vino. Una versione di questo trattato enciclopedico in lingua d’oï1 datata 1300 dichiara di volere «dimostrare la diversità dei vini» in modo che il bevitore possa meglio «eleggere» il vino adatto alla

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sua natura. L’analisi del vino è scandita secondo una griglia descrittiva organizzata attorno a sette criteri: l’età del vino, il colore, il sapore, il profumo, la sostanza, la forza o la debolezza, il terreno di produzione e la zona di origine. Ognuno di questi criteri va a formare un’anatomia dettagliata del vino, la cui precisione è sostenuta con l’aiuto di un linguaggio specialistico.

Atmosfere scherzose

Quando ci rivolgiamo verso la letteratura della stessa epoca non troviamo certo la medesima impronta sistematica, ma emerge con evidenza

Novalesa (Torino), abbazia dei Ss. Pietro e Andrea. Particolare degli affreschi con storie della vita di sant’Eldrado, in cui il santo è raffigurato mentre coltiva la vite in Provenza. XII sec.

un’attenzione alla rappresentazione della diversità del vino. Le descrizioni si fanno piú scherzose e metaforiche, ma testimoniano una cultura gastronomica abile a utilizzare strumenti descrittivi e tassonomici. Nel terreno letterario delle «tenzoni», per esempio (piú facili da reperire sul panorama francese che su quello italiano), si affrontano sul campo di battaglia svariati vini, che vantano

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

le proprie qualità e denigrano quelle dell’avversario. Tutti i colpi sono ammessi: uno fa l’elogio del suo colore, un altro figura alla tavola dei re e del papa, questo si conserva per anni, quest’altro è una benedizione per la salute del corpo. Alcune rivalità riflettono addirittura realtà commerciali competitive del tempo o, ancora, l’effetto di nuove mode, come quella dei vini «forti» sbarcati in zone dove si era abituati a bere vini piú leggeri. Tutti gli elementi della cultura enologica che abbiamo provato a descrivere si ritrovano esclamati in espressioni colorite, in un lessico gastronomico del tutto singolare. Il concetto tipicamente medievale di «piacere utile» si ritrova perfettamente espresso nel verdetto reso dopo l’immensa degustazione raccontata nella Desputoison du vin et de l’iaue, composta a cavallo tra il XIII e il XIV secolo: «Siete tutti buoni e necessari!». I giudici incaricati di stabilire una graduatoria tra i vari vini ci rinunciano, e preferiscono considerare il valore di ciascuno di essi: «Signori, a voi tutti ripeto Che tutti i pani e tutti i vini sono buoni (...) Ciascuno è buono al tempo suo E ve lo dico in tutta lealtà Ciascuno ha la sua particolarità

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In alto rilievo marmoreo raffigurante la consegna di un carico di anfore di vino a un mercante. II sec. d.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. Ben evidente è il dettaglio dei sigilli che chiudono i contenitori, cosí da assicurare la corretta conservazione della bevanda. A destra, sulle due pagine Ottobre, dipinto facente parte del ciclo dei Mesi dell’anno di Cristofano Rustici. XVI sec. Siena, Museo Civico.

Delle qualità che altri non hanno (...) Dipende dalle complessioni, dalle genti e dalle regioni Siete tutti buoni e necessari».

Il bene piú prezioso

Mentre crollano le strutture dell’impero romano, la coltura della vite sopravvive e nel primo Medioevo prende avvio un nuovo impulso alla viticoltura sulle fondamenta di un edificio che l’antichità aveva formato. «Se mi si chiedesse qual è il bene piú prezioso della terra – scriveva Catone l’Anziano (III-II secolo a.C.) – risponderei: la vite». La civiltà romana aveva fatto della vite e del vino uno dei pilastri – insieme al grano e all’ulivo – della sua identità e del suo modello culturale, produttivo ed economico. Nell’avvio del Medioevo la vite gode ancora del prestigio che

le aveva conferito Catone, ma la nuova società che si va strutturando riserva un significato del tutto nuovo al vino, contribuendo cosí a dare alla diffusione della vite una diversa dinamica. Il cristianesimo, mentre si propaga in Europa, tesse anche una nuova rete organizzativa sul territorio, e infonde alla vite una dimensione mistica, spirituale, liturgica e simbolica. Al centro della liturgia il pane e il vino, «corpo e sangue del Cristo», perpetuano nell’Eucarestia il sacrificio del figlio di Dio per la salvezza degli uomini. «Lavorare la vigna», come leggiamo nel Vangelo di Matteo (20, 1-16), significa «lavorare per il Regno dei Cieli», settembre

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e nel Vangelo di Giovanni (15, l -8): «Io sono la vite, voi i tralci». Queste parabole troveranno riscontro nella realtà concreta quando dapprima i vescovi seguiti dai monaci faranno del lavoro della vigna e della sua diffusione una priorità. Numerose vite di santi mettono in scena questi «padri delle vigne» occupati a piantare il grano e la vite. Dietro di loro, si muovono intere comunità contadine specializzate nel lavoro vitivinicolo. Il vino è ormai diventato indispensabile per la Messa quotidiana, il che richiede una produzione consistente oppure il suo acquisto sul mercato: la Messa non si fa senza vino, e fino al

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XIII secolo ogni fedele – e non solo il prete come oggi – compiva l’atto di Comunione bevendo direttamente dal calice liturgico.

Un prestigio costante

Il ruolo del cristianesimo, del quale numerose campagne rimasero orfane almeno fino all’anno Mille, non è stato però l’unica locomotiva di questo processo: le nuove classi dominanti non hanno mai relegato il prestigio del vino nel dimenticatoio. Il vino è uno strumento di distinzione, come abbiamo visto, ma non solo: importante fonte di ricchezza, inevitabile regalo d’accoglienza, mezzo di pagamento e strumento

di convivialità per eccellenza, il vino non può mancare alla tavola di chi ambisce a occupare un ruolo importante nella società. La vigna conosceva da tempo i terreni mediterranei, tanto da ispirare ai Greci l’antico nome di Enotria per designare la Penisola italiana. Ma già l’antichità aveva portato la vite lontano dal suo ambito tradizionale. Gli esperimenti di coltivazione fatti sui versanti alpini hanno forse facilitato l’impianto della vite nelle nuove conquiste romane fatte a Nord, nelle Gallie piú fredde e piovose (come ipotizza Roger Dion nella sua fondamentale Histoire de la vigne et du vin pubblicata nel 1959).

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La visione di Lorenzetti

Filari a regola d’arte Questo particolare degli Effetti del Buon governo, l’affresco realizzato da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena fra il 1338 e il 1339, offre una visione ideale del contado di Siena, ammantato di vigneti lavorati dai contadini. La brigata principesca passeggia in mezzo a una vigna, ben ordinata in filari che coprono una grande porzione

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dello spazio coltivato. Domina su tutto la viticoltura secondo la tecnica dei coteaux, ovvero la disposizione del vitigno sui versanti collinari, la stessa tuttora praticata per godere di una maggiore esposizione. Una vigna imponente, che goda di tutte le cure, rappresenta una gestione ideale del territorio da parte del signore o, come in questo caso, del Comune. settembre

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L’estensione extramediterranea della viticoltura prende rilievo nell’epoca medievale, fino a toccare latitudini sorprendenti: la cultura cristiana non esita a impiantare gli «strumenti del mestiere» dei sacerdoti, secondo l’espressione di Massimo Montanari, fino alle contrade del Mare del Nord e del Baltico. La formazione del vitigno europeo – i cui terreni di prestigio si sono evoluti nel corso della storia – è il frutto del lavoro accanito dell’uomo, impegnato in una sfida tecnologica senza precedenti, piú che l’effetto di qualche privilegio naturale. La formazione dei vitigni nel Medioevo centrale (XI-XIIIsecolo) comincerà a dipendere strettamente dalle città: accanto ai vitigni delle élite laiche ed ecclesiastiche, inizierà a

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Qui sopra piatto raffigurante una donna ebbra, da Montelupo Fiorentino. XVII sec. Torgiano, Museo del Vino. In alto filari di vite nella regione dell’Aube (Champagne, Francia nord-orientale).

prendere forma una viticoltura orchestrata da una borghesia urbana che recupera la sua potenza commerciale e cerca di manifestare i suoi successi economici con una produzione dinamica e un consumo di distinzione. La tipologia e la geografia del vitigno europeo si disegnano attorno al conflitto permanente tra una viticoltura di qualità e una di quantità. L’azione politica in questo senso è pregnante e vede i proprietari, motivati da preoccupazioni diverse, agire sul versante legislativo e contrattuale. Uno dei piú noti esempi è dato da Filippo II l’Ardito, duca di Borgogna, che nel 1395 prende misure drastiche contro una viticoltura che mira a piantare e propagare delle specie di vitigni

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Dossier Curiosità

Non c’è vino senza territorio «Li vins sent le terroir» dice un proverbio medievale, ovvero i vini «sanno del territorio». Questo è oggi un principio fondamentale dell’enologia, e diversi produttori hanno come priorità quella di fare un vino che sia a pieno titolo l’espressione del territorio. Quest’attenzione non è ancora cosí preponderante nella cultura del vino medievale, ma possiamo osservare una tendenza già avviata in questa direzione. È importante distinguere la nozione di origine geografica del vino da quella di terreno sul quale cresce una vigna. Il criterio di origine geografica è completamente integrato nell’enologia medievale: il vino viene differenziato e chiamato con il nome della sua provenienza, e numerosi vini sono riconosciuti prestigiosi proprio grazie alla loro origine. La nozione di DOC, la Denominazione di Origine Controllata, non ha ancora nessun riconoscimento legale (in Italia arriva solo nel 1716, quando un bando del granduca Cosimo III de’ Medici riconosce al Chianti una determinata zona di produzione). Ma ciò non ha impedito ad alcuni vini di essere riconosciuti e apprezzati per la loro provenienza. Jean-Pierre Devroey, in un importante studio dedicato al vino e alle vigne della Champagne, ha dimostrato che l’espressione geografica vin de rivière, che stava a indicare il vino della Champagne vendemmiato sulle rive della Marna, «ha fatto nascere, alla fine del XlII o all’inizio del XIV secolo, una vera e propria denominazione d’origine», riconosciuta anche fuori dalla sua zona di produzione. In una traduzione del testo enciclopedico Secretum Secretorum del 1300, gli autori dedicano un intero capitolo alla «differenziazione dei vini a seconda dei terreni (terrages) e della regione in cui crescono le vigne». In un trattato diffusissimo del celebre medico Arnaldo di Villanova, la traduzione in lingua d’oïl utilizza di nuovo il termine di terroir, spiegando che la differenziazione dei vini «deve farsi tra quelli di una stessa regione o di uno stesso terreno (terrouer)». La nozione di terroir non implicava né veicolava gli stessi valori, e non aveva certo lo stesso ruolo che le si accorda oggi nella scelta di un vino. Ma l’origine – a pieno titolo – e in qualche occasione il «terreno» hanno avuto modo di trovare un proprio posto nelle valutazioni e nelle scelte dei vini, accanto ad altri criteri di descrizione.

comuni, con l’unico scopo di «avere gran quantità di vino». Ordinando lo strappo di piante del denigrato gamay (che può dare una resa abbondante a scapito della qualità) contro l’impianto del pinot (di piú difficile coltivazione, ma potenziale genitore di vini di grande qualità), il duca di Borgogna getta le basi dell’attuale e rinomato vitigno Borgognone. «Tutti bevono!», proclamano e cantano i Carmina Burana, testi profani del Basso Medioevo spesso cantati da goliardi e studenti. Il principe, il chierico, il soldato, il rustico, l’uomo e la donna, il bambino e il vecchio: tutti si dissetano del succo iridescente che stilla dal grappolo d’uva fermentato. «Bere» nel Medioevo è quasi diventato sinonimo di «bere vino». Ma, come facevamo notare prima, se tutti bevono, non tutti bevono la stessa cosa. In basso particolare di una coppa in ceramica con un frate inginocchiato in preghiera davanti a una botte. XVI sec. Torgiano, Museo del Vino.

In alto Cinque Terre (Liguria). Primo piano di un grappolo di uva a bacca bianca.

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Le scelte sono molteplici e variano a seconda dei molti criteri che condizionano il gusto (scelte di natura dietetica e sociale in particolare). Ma i gusti, forse, prima di tutto furono guidati dalle disponibilità. Le regioni produttrici suscitano un consumo del tutto diverso rispetto alle zone prive della tortuosa pianta, dove il vino importato poteva raggiungere prezzi proibitivi. Le regioni dotate di una viticoltura di confine, e quindi di produzione incostante, rimangono comunque legate al consumo della birra, del sidro e dei loro derivati, uniche bevande in grado di fare concorrenza al vino nel corso del Medioevo. Si tratta di consumi diffusi principalmente al Nord e che ri-

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guardano prima di tutto le classi popolari. Il consumo di vino in quelle regioni guadagnerà in prestigio e accenderà il motore del «piú grande commercio medievale», come è stato definito dallo storico francese Yves Renouard.

Acqua e vinacce

Quando i contadini o i braccianti hanno accesso al vino, anch’esso può diversificarsi nelle sue qualità: dal vino nero e grosso – come lo definiscono alcuni testi – al vino inferiore di seconda o terza spremitura, il boccale del contadino deve accontentarsi in certi casi di aceto annacquato e di acquerello (o acquato), una bevanda fatta con acqua messa a fermentare con le vinacce. È que-

Rilievo nella Città Vecchia di Praga (dichiarata Parimonio dell’Umanità UNESCO) ispirato all’episodio biblico dei due esploratori inviati da Mosè nella terra di Canaan, nei «giorni delle primizie dell’uva», che tornarono portando su una stanga un tralcio con un grappolo (Numeri 13, 17-24).

sto il consumo dei vignaioli descritto dal bevitore di una taverna del Trecentonovelle, composto tra il 1392 e il 1397: «Tutto l’anno faticano per noi quelli che [curano] queste vigne e non ne bevono per loro». Coloro che lavorano queste vigne, prosegue, «bevono aceto annacquato». Se i consumi sono diversificati, una tendenza chiara si delinea: il vino rappresenta una derrata ideale, buona per qualsiasi

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Dossier i vini speziati

Artificiali, ma «buoni» e «dilettevoli» No, le spezie durante il Medioevo non servivano a»coprire» cibi o bevande andate a male. Le spezie, costose e preziose, sono il privilegio dei ricchi, che non sono mai stati costretti a mascherare eventuali cibi scadenti o avariati, potendo disporre di derrate freschissime sulle loro mense. Neppure i vini speziati hanno mai avuto a che fare con questi luoghi comuni: non si tratta di vini guasti camuffati e recuperati grazie all’aromaticità delle spezie. I vini che le fonti chiamano «speziati, speciali, artificiali» costituivano un gruppo a parte rispetto ai vini «naturali» (cioè non aromatizzati) e sono da trattare in quanto tali. Le varie ricette insistono sulla necessità di scegliere come base un «buon vino» e non un vino andato a male, di cui le spezie dovrebbero coprire il sapore. L’aggiunta nel vino di aromi, di spezie e di altri ingredienti è guidata piú da una scelta che da una necessità, scelta dettata da una cultura del gusto. Nel Medioevo, mani agili hanno sposato con passione vini e spezie, erbe e sapori zuccherini, creando cosí uno spazio gustativo ben piú vasto del vino cotto attuale, unico elemento di quella cultura che sia giunto fino ai nostri giorni. Il vino aromatizzato dalla piú semplice e fattibile decozione di erbe (rosmarino, salvia, ecc.) poteva anche divenire un prodotto prestigioso quando, con abilità, vi si mescolavano preziose spezie provenienti perlopiú da un Oriente esotico e incantatore. Accanto ai vini «naturali» si delinea uno spazio gustativo riservato a vini «speciali», cui è riconosciuto un posto di spicco non solo sulla tavola ma anche nell’immaginario del gusto, della salute e della seduzione. In effetti un vino speziato era considerato prezioso al gusto quanto per la salute. Tornano a incontrarsi il mondo della gastronomia e quello della dietetica: Bartolomeo Anglico, autore nella prima metà del XlII secolo di una popolarissima enciclopedia, ci tiene a sottolineare che questi vini «artificiali» – come il salviato, il rosato, il garhiofilatum, il claré o il famoso ipocrasso (ma la tipologia di questi vini è davvero vastissima) – sono «buoni per la salute» quanto «dilettevoli per il gusto». Questo paesaggio gustativo offre un panorama tanto piú vasto se si pensa che tali vini si ritrovano su numerose tavole dell’aristocrazia europea, e saranno apprezzati ancora ben oltre i secoli del Medioevo. Accanto ai vini trattati troviamo ancora un’altra tipologia, molto apprezzata dalle élite: i prestigiosi vini liquorosi, prodotti con uve appassite e quindi dolci e alcolici, importati tra l’altro dall’Italia meridionale, dall’isola di Cipro o da Creta: un altro ampio ventaglio gustativo che attende di essere scoperto.

In basso boccale in maiolica arcaica. 1350-1420. Montelupo Fiorentino, Museo della Ceramica.

circostanza. In certe occasioni, perlopiú festive, non può assolutamente mancare. Non se ne può fare a meno neanche sul campo di lavoro, dov’è considerato come una fonte energetica di prima necessità.

L’avvento dei distillati

L’egemonia del vino in Europa comincia a diluirsi con l’ondata di nuove bevande che si riversa sull’ Occidente a partire dalla fine del Medioevo. Lentamente l’aqua vitae, termine generico che designa vari tipi di distillati, comincia a entrare nei consumi comuni. Come suggerisce il termine, «l’acqua della vita» fu per molto tempo connessa esclusivamente all’ambito farmaceutico. La distillazione, già conosciuta precedentemente, viene migliorata grazie ai contatti con gli Arabi, maestri in questa tecnica. I vari distillati presentano un vantaggio rispetto alle classiche bevande fino a quel momento consumate: grazie al contenuto alcolico piú alto, non sono soggetti a problemi di conservazione; inoltre il fatto di essere molto concentrati e diluibili al momento del consumo fa calare per i distillati i costi di trasporto. A erodere ancora l’egemonia del vino furono le bevande non alcoliche, nella fattispecie caffè, tè e cioccolato. Le nuove élite del XVII secolo sono alla ricerca di bevande che le rappresentino, e individuano nell’efficacia dell’una come nell’esotismo delle altre il giusto aggiornamento dei costumi. Il vino ovviamente non scompare dall’alimentazione europea, e non perde nemmeno la carica culturale e simbolica che si era forgiato da secoli. Ma ormai non ha piú l’esclusiva, e deve fare spazio a nuovi attori sul palcoscenico della tavola di un’epoca moderna che ha appena scoperto nuovi orizzonti, anche alimentari. settembre

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Storie, uomini e sapori

Tonnare indietro non si può... di Sergio G. Grasso

Sulle due pagine un banco di tonni. Nella pagina accanto, in alto Favignana. Gli stabilimenti per la lavorazione del tonno, oggi musealizzati. Nella pagina accanto, in basso cratere a figure rosse detto «del venditore di tonno». IV sec. a.C. Cefalú, Museo Mandralisca.

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ra il Capodanno del 2019, quando all’asta del tonno al mercato di Toyosu, nella Baia di Tokio, fu aggiudicato un Thunnus thynnus (il tonno rosso, noto anche come «pinna blu» o «bluefin»), del peso di 278 kg allo stratosferico prezzo di 2,7 milioni di euro: come dire 10 000 euro al chilo! La notizia del record ha fatto il giro del mondo, trasformandosi in una tanto costosa quanto preziosa pubblicità globale per l’acquirente, il signor Kiyoshi Kimura,

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proprietario del Sushizanmai, la piú famosa catena giapponese di sushi. Non c’è che dire, i Giapponesi amano sconfinatamente il tonno rosso (che definiscono maguro per distinguerlo dal meno pregiato pinne-gialle, che chiamano hamachi, inada o buri, a seconda dell’età) e sono disposti a spendere anche 200 euro a porzione, pur di gustare – crudi o appena scottati – i tagli piú pregiati: hoho-nikku (guancia), kama-toro (retroguancia), otoro (ventresca), akami (filetto).

Vi sono prove che grandi esemplari di tonno rosso venissero pescati con lenze e arpioni nel Pacifico Occidentale già 4000 anni fa, tuttavia il bluefin divenne un alimento molto popolare e a buon mercato in Giappone solo alla fine della seconda guerra mondiale, come risposta alla tragica emergenza alimentare postbellica. Negli anni Settanta, i commercianti nipponici si accorsero che in Paesi come l’Italia, la Spagna, la Tunisia, la Grecia e la Turchia si pescavano settembre

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imponenti esemplari di Thunnus thynnus, le cui carni, grazie alle acque del Mediterraneo – piú calde e salate di quelle del Pacifico –, erano estremamente saporite, grasse e consistenti. A oggi, si stima che oltre l’80% di tonno rosso Mediterraneo pescato in Italia, voli in Giappone, dove riesce a moltiplicare fino a dieci volte il suo prezzo. All’alta remunerazione dei nostri pescatori si contrappone la frustrazione

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dei consumatori italiani, per i quali il tonno di qualità pare sia al massimo quello con le pinne gialle, possibilmente rosa, tenero «da tagliarsi con un grissino», residente sugli scaffali dei supermercati, ridotto in frantumi e chiuso in scatolette dalle quali esce solo per condire frettolosi piatti di spaghetti o insipide insalate in busta... La pesca di questo splendido pesce che può raggiungere i 4 m di lunghezza e i 650 kg di peso, scandisce le vicende delle genti

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mediterranee da millenni. La Grotta del Genovese, sull’isola di Levanzo (arcipelago delle Egadi) ha restituito pitture parietali di tonno risalenti all’Epigravettiano (9000 a.C.), mentre nella Grotta dell’Uzzo, presso San Vito lo Capo (Trapani), sono venuti alla luce cospicui resti neolitici di Thunnus tynnus. È ovvio che il pescatore del Neolitico si servisse solo di arpioni e fiocine in legno e pietra per catturare i tonni che si avvicinavano alla costa per deporre le uova. Scarsa efficacia, infatti, dovevano avere contro la straordinaria forza dei tonni le prime reti in giunco di salice, fibra di agave,

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cocco o erba lisca (Ampelodesmos mauritanicus). Cosí fu per millenni, poi, nel XII secolo a.C. in Nord Africa e nel IX in Sicilia e in Sardegna, si affacciarono i Fenici, i piú grandi navigatori e mercanti dell’antichità che convissero nel bene o nel male con tutti i popoli del Mediterraneo.

Un’invenzione fenicia Alla incessante ricerca di metalli, si orientavano per mare osservando la stella polare (quella che i Greci chiamavano «Stella Fenicia»); perfezionarono l’àncora, mentre studiavano le maree e le correnti,

costruivano strumenti di calcolo pensati per la navigazione e gli scambi, idearono il primo alfabeto, stabilirono colonie e fondarono città, progettarono le saline e… inventarono le tonnare. Per i Fenici il tonno rappresentava non solo una fondamentale risorsa alimentare, ma anche un

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Nella pagina accanto, in alto incisione seicentesca raffigurante un tonno (Thunnus thynnus) e un pescespada. A sinistra barche utilizzate dai tonnaroti durante la mattanza. Favignana, ex Stabilimento Florio. Nella pagina accanto, in basso un momento di una delle vendite all’asta di tonno organizzate nel mercato di Toyosu, in Giappone. considerevole oggetto di scambio commerciale. Furono loro i primi a creare postazioni fisse di canne e giunchi in acque relativamente basse per deviare la corsa dei tonni verso un’insenatura della costa. Una volta avvistati i banchi di pesce dalle torri di osservazione, alcune imbarcazioni chiudevano l’insenatura con lunghe reti, che venivano trascinate dalla riva creando un grande sacco, in cui i tonni, ormai spiaggiati, morivano per asfissia, per colpi di coda reciproci o per ferite d’arpione e di bastone. Questa tecnica fu l’unica alternativa alla pesca «volante» del tonno, con lenza o palamito, sia presso i Greci, sia presso i Romani, per i quali anche le interiora e il sangue del tonno erano preziose per produrre il pregiatissimo garum aimàtion (Geoponiche XX, 46, 1 sgg.). Sappiamo anche dell’esistenza di un’opera teatrale, oggi perduta, intitolata Il pescatore di tonno, composta dal siracusano Sofrone nella seconda metà del V secolo a.C. Un’importante industria tonniera si sviluppò tra il III secolo a.C. e

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il III d.C. sulle coste delle isole greche, della Tunisia, della Sicilia, della Sardegna e di Gibilterra, fino a Cadice. Agli impianti di pesca si affiancavano laboratori di trasformazione, saline, fornaci per anfore, imprese commerciali e di trasporto, attorno ai quali nacquero importanti nuclei abitati. Con la caduta di Roma, le scorribande di Ostrogoti, Longobardi, Vandali, lo scompiglio dei regni romano-barbarici e la piaga della pirateria, per piú di tre secoli di tonni e tonnare, sulle coste italiane, si perse quasi il ricordo.

Condizioni ideali Nell’827 gli Arabi maghrebini guidati da Abad-al-Furat sbarcarono a Mazara e occuparono la Sicilia. Bastò loro un colpo d’occhio per intuire che le ampie insenature e i ridossi delle coste scoscese dell’isola sembravano fatte apposta per intercettare i tonni durante le migrazioni stagionali dall’Atlantico al Mar di Marmara. Si affrettarono a ridare vita alla pesca dei tonni, utilizzando un sistema in uso da secoli tra Tunisi a Gibilterra:

grandi reti fisse che guidavano i tonni a una camera della morte in cui avveniva la mattanza vera e propria. Questo sistema garantiva una maggiore costanza di pesca, un’alta resistenza alle correnti e al mare grosso e una maggiore tenuta alla veemenza del banco di tonni. Si ritiene che la piú importante tonnara «da posta» del IX secolo fosse quella costruita, con tanto di castello d’avvistamento, sull’isola di Favignana. Spetta ancora agli Arabi la messa a punto della tecnologia di conservazione col sale delle carni di tonno e della produzione della bottarga (dall’arabo batarikh per uova di pesce salate). Se, come sembra, la loro geniale applicazione della tonnara fissa fu sfruttata quasi solo come risorsa alimentare locale, i Normanni, al loro arrivo in Sicilia, ne compresero i notevoli risvolti economici. Censirono tutti gli impianti esistenti, attribuirono al sovrano tutti i diritti di pesca esercitati tramite vassalli o rappresentanti della corona e introdussero una decima sul pescato a favore delle diocesi e dei monasteri, dai cui registri riusciamo oggi a ricostruire l’entità del pescato di ogni tonnara. Nel XIII secolo un impianto da 1000 tonni operava a pieno regime per almeno tre mesi l’anno, dando lavoro a 100 marinai/tonnaroti e fino a 200 lavoranti addetti ai materiali (barche, reti, sugheri), alla macellazione, alla salatura e al confezionamento del pesce in barili; gli altri mesi erano dedicati alle lunghe e costose manutenzioni degli impianti e degli strumenti. Nel XIV secolo il commercio del tonno sotto sale attirò in Sicilia imprenditori amalfitani, genovesi, pisani, catalani e anche ebrei, che si proponevano alle tonnare come soci, finanziatori, esportatori o mercanti nelle zone d’origine. I nuovi flussi di denaro spinsero all’ammodernamento degli impianti, alla messa in sicurezza dagli attacchi

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CALEIDO SCOPIO dei pirati barbareschi e anche al miglioramento del prodotto per adattarlo ai gusti dei diversi mercati, come quello di Siviglia, dove si esportava per la prima volta una ventresca conservata in olio, anticipando di quattro secoli l’ottocentesca intuizione dei Florio.

Da attività piú che fiorente... Nel Quattrocento la pesca del tonno era uno dei pilastri portanti dell’economia siciliana e rappresentava la principale voce di export dall’isola. Le tonnare piú redditizie erano quelle del «tonno di corsa» concentrate sulla costa nord-occidentale, mentre le cosiddette «tonnare di ritorno» (in cui si pescavano gli esemplari che tornavano all’Atlantico dopo la deposizione delle uova), situate sulla costa sud-orientale, erano meno remunerative. Si ha notizia di tonnare fisse tardo cinquecentesche in Liguria, nelle Cinque Terre e nel Tigullio, numerose e ancora piú antiche all’Elba, all’Argentario (portus cetarius), oltre cinquanta su tutto il litorale campano, altrettante in Calabria, tra le quali quella araba di Monteleone Calabro, che nel 1081 venne concessa al vescovo di Mileto e quella di Pizzo, concessa nel 1457 al duca di San Severino da Alfonso d’Aragona. Anche sul versante tirrenico e jonico della Puglia fin dall’epoca angioina

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esisteva un buon numero di tonnare fisse «di corsa». Al 1578 risalgono le prime notizie di sfruttamento in Sardegna, dove questa pesca fu introdotta dagli Spagnoli, quando Filippo II favorí la calata delle tonnare lungo le coste di ponente; sfortunatamente questi impianti attirarono piú le incursioni barbaresche che i pesci e furono dismesse. Solo alla fine del Settecento questa pesca prese piede nell’isola e, alla metà del XIX secolo, tutta la costa occidentale sarda era un susseguirsi di tonnare. Nel 2015 lavori di restauro nella chiesa palermitana di S. Maria della Misericordia hanno riportato alla luce una lastra funeraria del XVI secolo (93 x 77 cm.) con incise immagini di pesca e di lavorazione del tonno. L’iscrizione sul bordo inferiore recita: «VITUS SALAMON RAISIS SIBI PHILIPPO ET IULIANO FILIIS EORUM. TANTUM FILIIS HOC SEPULCHRUM STRUI IUSSIT OBIIT SEPTIMO IDUS GUNII MDLXXII» («Vito Salamon rais per se stesso e per i figli Filippo e Giuliano e soltanto per i loro figli ordinò che fosse costruito questo sepolcro; morí il 7 giugno del 1572»). Lapide che ricorda una pesca eccezionalmente fruttuosa effettuata a Favignana nel 1859, quando, guidati dal rais Casubolo, i tonnaroti catturarono oltre 10 000 esemplari del pregiato pesce.

La scena incisa mostra nella parte superiore due grandi sbarramenti di reti parallele, che delimitano le camere della tonnara e terminano con la camera della morte; all’esterno si muovono varie barche con figure umane, tra cui una barca di grandi dimensioni con un personaggio che brandisce un grosso gancio. Nella parte inferiore è ritratto un fabbricato con cupole, guglie, finestre, merli e portale nei pressi del quale avvengono le operazioni di pulitura, la scolatura dei tonni appesi a testa in giú e una figura umana con un fusto in cui riporre le parti di tonno salato. Il rais Vito Salomon (il nome rimanda agli ambienti ebraici ben presenti all’epoca in tutte le attività relative alla pesca e alla lavorazione del tonno) è ritratto sulla torre di un secondo edificio, apparentemente fortificato a protezione dai pirati barbareschi, mentre dirige le varie operazioni.

...a impresa antieconomica Dopo un periodo di fiorente e lucrosa attività tra il XVI e il XVIII secolo, nella prima metà dell’Ottocento almeno 40 tonnare siciliane dovettero arrendersi alla scarsità del pescato e, piú ancora, al conseguente disinteresse dei nobili proprietari, peraltro indispettiti dalle leggi antibaronali e antifeudali di Ferdinando II di Sicilia prima e del Bonaparte dopo. Ai primi del Novecento ne rimanevano attive solo una ventina, quasi tutte capaci di introdurre un’importante innovazione: la conservazione sott’olio del tonno, anziché sotto sale. Oggi si contano solo cinque tonnare attive in tutta Italia, di cui una in Sicilia (Favignana, nuovamente a rischio…) e quattro in Sardegna (due a Carloforte e due a Portoscuso). Il poco, pochissimo tonno rosso pescato vola in Giappone a prezzi da brivido mentre noi ci consoliamo con simulacri australi di qualità. E tornare indietro è solo un’utopia. settembre

MEDIOEVO


Lo scaffale dell’Italia è chiamato a conoscere Ravenna», riprendendo idealmente il Editoriale Jaca Book, testimone lasciato da Milano, 288 pp., ill. col Arnaldo Momigliano, 50,00 euro il quale, oltre mezzo ISBN 978-88-16-60614-2 secolo fa, scrisse www.jacabook.it che quando voleva Gli sfolgoranti comprendere la storia mosaici delle sue italiana «prendeva basiliche sono, da un treno e andava sempre, il «logo» di a Ravenna». La Ravenna – non a vicenda plurisecolare caso, uno dei piú di questo vero e celebri è stato scelto proprio ombelico del per la copertina di mondo viene dunque questo volume –, ma narrata in maniera sistematica, aprendo la trattazione con un lungo capitolo dedicato alla storia degli studi, assai utile per inquadrare gli aspetti piú significativi della questione. David passa quindi a descrivere le molte stagioni vissute dalla città e se le età tardoantica e bizantina la loro realizzazione assorbono, com’è non è che una delle logico, una porzione molte tessere, è il preponderante della caso di dire, che trattazione, vengono compongono la storia comunque illustrati della città romagnola. tutti i momenti salienti, Che Massimiliano a cominciare dalla David ripercorre nascita dell’abitato, puntualmente, i cui contorni sono supportato da un tuttora sfuggenti, corredo iconografico ma che possono di qualità davvero essere collocati nel Ondas. Martín eccellente, nella Codax, quadro dell’Italia Cantigas de convinzione che,Amigo preromana, intorno Vivabiancaluna come scrive in sedeBiffi, di Pierre al I Hamon millennio a.C. Arcana (A390), 1 CD Sicura e importante Premessa, «chi voglia www.outhere-music.com studiare la storia fu peraltro la presenza del Mediterraneo, degli Etruschi, ai quali dell’Europa e si deve il nome stesso Massimiliano David Ravenna eterna Dagli Etruschi ai Veneziani

MEDIOEVO

settembre

di Ravenna. Il filo del tempo scorre quindi fluido e vede sfilare tutti i personaggi che diedero lustro alla città, di molti dei quali, proprio grazie ai mosaici, possiamo tuttora ammirare i vividi ritratti. Meritano d’essere infine segnalati il ricco repertorio degli Apparati e una vasta Bibliografia. Stefano Mammini Gianna Baucero All’ombra del re Amori, dolori e poteri di dieci donne del Medio Evo inlgese Edizioni Effedi, Vercelli, 96 pp., ill. col.

16,00 euro ISBN: 978-88-85950-56-5 www.edizionieffedi.it

Gianna Baucero fa sfilare in questa sua ideale rassegna dieci donne, vissute tra

che cinse la corona fino al 1272. Un orizzonte di poco piú di cento anni, dunque, che furono però cruciali per le sorti dell’Inghilterra, ancora alla ricerca di un equilibrio dopo essere stata conquistata dai Normanni. È una galleria eterogenea, che spazia da Mahelt, figlia di Guglielmo il Maresciallo, ad Alice (o Adèle) di Francia, moglie mancata di Riccardo Cuor di Leone. Ciascun personaggio è descritto con stile brioso, ma anche con l’occhio sempre attento alla descrizione del contesto storico nel quale condusse la sua esistenza. S. M. Francesco Salvestrini (a cura di) I monaci Silvestrini e la Toscana (XIII-XVII secolo) Leo S. Olschki Editore, Firenze, 200 pp., XXXII tavv. col. e b/n

26,00 euro ISBN 978 88 222 6705 4 www.olschki.it

l’avvento al trono di Enrico II, primo dei Plantageneti, nel 1154, e il regno di Enrico III, figlio di Giovanni Senza Terra,

Volume di taglio specialistico, l’opera è la prima indagine complessiva sulla presenza e la diffusione della famiglia monastica silvestrina dell’Ordine di San Benedetto nella Toscana medievale

e moderna. I saggi ricostruiscono le origini di questa congregazione di matrice marchigiana, la sua diffusione oltre gli Appennini, i rapporti con le chiese e le società locali, la committenza artistica (con l’ausilio di una valida sezione iconografica). I testi ripercorrono le vicende delle diverse comunità di monaci, sia in alcuni dei maggiori centri urbani della regione, come Firenze e Siena,

sia in località minori, come Montepulciano, Chiusi e altri nuclei abitati della Tuscia sud-orientale. Il quadro che emerge lascia intuire come i valori e il messaggio di questo movimento contemplativo riescano ancora a rispondere alle esigenze spirituali del tempo, nonostante la grande popolarità degli ordini monastici dei predicatori e dei mendicanti. (red.)

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