Medioevo n. 283, Agosto 2020

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M MED AR IOE EM VO M IN A

MEDIOEVO n. 283 AGOSTO 2020

EDIO VO M E

LUCCA LA VERA STORIA DEL VOLTO SANTO

DOSSIER

IL DUELLO E L’ARTE DELLA

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MAREMMA VIAGGIO NEI SECOLI DI SORANO SPAGNA L’IMPERO DEI DUE MONDI ORVIETO STRANIERI ALL’OMBRA DEL DUOMO www.medioevo.it

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Mens. Anno 24 numero 283 Agosto 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IN EDICOLA IL 4 AGOSTO 2020



SOMMARIO

Agosto 2020 ANTEPRIMA MEDIOEVO INVENTORE È tornata la luce!

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RESTAURI Nel segno del colore e dello sfarzo

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MOSTRE Tesori da sfogliare

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ITINERARI San Martino nel recinto

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE Volto Santo

48

di Annamaria Giusti

SPAGNA/3 Nascita di un impero

LUCCA

Quel legno venerabile e antichissimo

32

di Tommaso Indelli

48

SORANO Lo «zolfanello d’Italia»

di Duccio Balestracci

di Carlo Casi e Luciano Frazzoni 60

di Giuseppe M. Della Fina

72

CALEIDOSCOPIO PERSONAGGI I racconti dell’ammiraglio

102

STORIE, UOMINI E SAPORI Lo zafferano, un giallo senza fine 106

32

Il duello

LA PAROLA ALLE ARMI!

LUOGHI

ORVIETO Quei forestieri diventati cittadini

Dossier

LIBRI Il prezzo del tradimento Lo scaffale

110 111

MUSICA Firenze suona bene

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M MED AR IOE EM VO M IN A

MEDIOEVO n. 283 AGOSTO 2020

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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14/07/20 12:44

MEDIOEVO Anno XXIV, n. 283 - agosto 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Duccio Balestracci è stato professore ordinario di storia medievale all’Università di Siena. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Annamaria Giusti è stata direttrice presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Tommaso Indelli è assegnista di ricerca in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Chiara Parente è giornalista. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 60/61, 64/65, 68, 72/73, 74/75, 77, 80/81, 106, 108/109 – Mondadori Portfolio: Album/Oronoz: p. 5; AKG Images: pp. 38/39, 54-59, 104, 108; Fine Art Images/ Heritage Images: pp. 52/53, 102/103; Album/Prisma: pp. 79, 107; Pere Rotger/Index/Heritage Images: p. 105 – Cortesia Dario Di Flavio: pp. 6-8 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 10-14 – Cortesia degli autori: pp. 16-17, 18 (alto), 19-20, 35, 36-37, 38, 40, 41 (basso), 44, 62 (alto), 62/63, 63, 66-67, 69, 70-71, 75, 76 (alto) – Rigothamus: p. 18 (basso) – Cortesia Lucio Ghilardi: pp. 32/33, 41 (alto) – Cortesia Tecnoservice: Luca Lupi: pp. 34/35 – Doc. red.: pp. 42-43, 48-49, 50 (basso), 51, 83-101 – Marka: Walter Zerla: p. 76 (sinistra) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 50, 62 (basso), 78.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina veduta del borgo di Sorano (Grosseto), situato nella Maremma interna, a ridosso del confine fra Toscana e Lazio.

Prossimamente divina commedia

Casella, musico celebre e misterioso

viterbo

Storia di un sepolcro scomparso

dossier

Ferrara, magnifica capitale degli Estensi


MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini

È tornata la luce!

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i secoli «bui» dell’età di Mezzo dobbiamo una delle invenzioni che hanno portato la luce a un gran numero di donne e di uomini: gli occhiali. Nel mondo antico, infatti, e per tutto l’Alto Medioevo, gli uomini affetti da problemi di vista, o chi, invecchiando, iniziava a soffrire di presbiopia, doveva rassegnarsi a una visione offuscata del mondo. Del resto, il termine «miope», deriva dal greco «myopòs», che significa in pratica «colui che strizza gli occhi»: Babilonesi, Egizi, Greci e Romani erano in grado di eseguire operazioni oftalmiche anche complesse, come per esempio la rimozione della cataratta, ma nulla potevano contro i difetti legati alla vista. Gli archeologi però stanno rivalutando alcuni manufatti vitrei rinvenuti a Creta o a Pompei, in grado di ingrandire fino a 7 volte. Le prime lenti correttive giunsero verso la fine del 1200, forse in Italia, forse a Venezia, dove i vetrai di Murano fabbricavano «roidi da ogli»: cosí infatti vengono definiti i primi rudimentali occhiali in alcuni capitolari delle Arti della Serenissima. Nella Cronaca del convento di S. Caterina di Pisa si narra che sarebbe stato il domenicano Alessandro della Spina (morto nel 1313) a diffondere «l’invenzione degli occhiali, che qualcun altro, prima di lui, aveva realizzato ma non diffuso». Verso la metà del Trecento troviamo una delle prime rappresentazioni pittoriche degli occhiali, dipinti nel ritratto del cardinale Ugo di Provenza, opera di Tommaso da Modena. Solo alla metà del Quattrocento, invece, i miopi poterono finalmente godere delle lenti concave, messe a punto dal cardinale tedesco Niccolò Cusano (morto nel 1464): fra i primi ad apprezzare tale rivoluzionaria invenzione vi fu papa Leone X, membro della casata fiorentina dei Medici, famiglia afflitta generazionalmente da questo difetto. Lo stesso Lorenzo il Magnifico, infatti, oltre ad avere una voce aspra, era affetto da una terribile miopia.

Treviso, Seminario Vescovile (ex convento di S. Nicolò), Sala del Capitolo dei Domenicani. Il cardinale Hughes de Saint-Cher allo scrittoio, con un paio di occhiali, particolare dei Quaranta Domenicani illustri, ciclo affrescato da Tommaso da Modena. 1351-1352.

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ANTE PRIMA

Nel segno del colore e dello sfarzo RESTAURI • Gli

interventi avviati di recente nella cripta della cattedrale di Ascoli Piceno, svelano una ricchissima decorazione ad affresco. Nella cui impaginazione e nel cui stile è evidente l’influsso della lezione giottesca 6

U

n ambiente sacro, intensamente vissuto nel corso dei secoli, è soggetto facilmente a trasformazioni, sia nella struttura che nell’apparato dei suoi arredi e dei suoi ornamenti. È il caso della cripta della cattedrale di Ascoli Piceno, ed è un esempio illuminante, perché il restauro che la sta interessando, riportando in luce un assetto antico di notevole suggestione, ci mette di fronte a una situazione del tutto nuova, solo in parte sospettabile. Sondaggi effettuati nel 1994 avevano appurato che talune vele del soffitto

erano interessate da una decorazione ad affresco con figure di Santi. Ora, grazie all’intervento avviato nel 2019, l’indagine è stata estesa a tutte le 32 volte dell’assetto originale superstite, ed è cosí emerso che l’intero soffitto era decorato in quel modo, per un totale di 67 volte su una superficie originaria di 400 mq circa. Si trattava quindi di uno dei piú vasti esempi accertabili di cripte medievali completamente affrescate, sull’illustre esempio di Anagni. Sotto il rivestimento moderno, la decorazione pregressa era agosto

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ampiamente recuperabile. Un’articolata sequenza di figure a gruppi (4 per ogni volta) ha ripreso cosí il sopravvento in una trama di tralci, croci e stelle di David, conferendo alla cripta medievale quell’effetto di luce e di ricchezza figurativa che aveva del tutto perduto. Il settore centrale era stato rimodernato nel Settecento per dare il massimo lustro alla sepoltura del patrono locale, sant’Emidio, protettore dai terremoti (era ancora ben viva l’eco dei terribili sismi del 1703). Nel contempo, le ali laterali antiche, risparmiate dalla ricostruzione, furono «ingessate» in un assetto freddo e omologante, proprio per far risaltare lo sfavillio della parte piú importante rinnovata.

Sulla scia delle novità di Assisi Il restauro rende quindi giustizia al «buio» Medioevo e mostra come la cripta, già in precedenza, avesse come tratti distintivi il colore e lo sfarzo. L’intera impresa era resa armoniosa dal ricorso insistente al rosso e al blu, che unificavano l’insieme nel segno del sangue dei martiri e del cielo paradisiaco. L’opera fu realizzata da un atelier allineatosi alle novità di Assisi, negli anni intorno alla morte di Giotto (1337). E in molti punti riemerge uno strato piú antico, databile alla seconda metà del XIII secolo, Sulle due pagine Ascoli Piceno, cripta della cattedrale. Immagini degli affreschi venuti alla luce grazie agli interventi di restauro recentemente promossi. Dalla pagina accanto, in senso orario: uno scorcio della struttura; una Santa; un Santo monaco; un Angelo. Le pitture sono state ascritte a un atelier che, fatta propria la lezione dei cicli dipinti da Giotto ad Assisi, le dovette realizzare negli anni intorno alla morte del maestro (1337).

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ANTE PRIMA In questa pagina altri particolari degli affreschi tornati alla luce nella cripta della cattedrale di Ascoli Piceno. A sinistra, ritratti di Dottori della Chiesa; in basso, i simboli degli Evangelisti. 1337 circa.

quando tutte le volte risultarono «tappezzate» da una distesa di stelle rosse a otto raggi («a fiamma di candela») su fondo bianco. Lungo una parete, a corredo di alcune tombe medievali, è emersa una trecentesca Madonna del latte e si è svelato inoltre un San Francesco con le stimmate, in un gruppo di figure del Duecento. L’Assisiate, che predicò con grande successo in Ascoli, è anche annoverato in una volta del soffitto come dottore della Chiesa, con Domenico, Benedetto e Bernardo di Chiaravalle. Il lavoro che si sta compiendo aiuta anche la lettura delle trasformazioni edilizie. La cripta è sorta con ogni probabilità per iniziativa del vescovo Bernardo II (1045-1069), nel contesto di una completa ricostruzione della chiesa, ma ora piú di un indizio suggerisce che le persistenze medievali di questo ambiente non risalgano a quell’epoca, se non in minima parte. L’assetto antico oggi osservabile nella cripta fu forse attuato nel XIII secolo, molto probabilmente a seguito di uno o piú terremoti,

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riutilizzando materiale di vario genere e di diverse epoche. Gli studi già in corso approfondiranno questi problemi. Nel frattempo, la riscoperta procede e regala emozioni e sorprese a ogni passo. Un’opera cosí ampia e impegnativa, posta sotto l’egida della Soprintendenza competente, si deve alla volontà del parroco don Angelo Ciancotti e al

finanziamento della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno. I restauratori impegnati sono Rino Altero Angelini, Dario Di Flavio e Daniela Lenzi. Il cantiere è diretto da Daniele Di Flavio, mentre un costante ruolo di consulenza tecnica e storica è svolto da Michele Picciolo, direttore scientifico del Museo Diocesano di Ascoli Piceno. Furio Cappelli agosto

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Un mondo da scoprire I

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

n occasione dell’edizione 2019, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico assegnò postumo il Premio «Paestum Mario Napoli» a Sebastiano Tusa, per onorare la memoria del grande archeologo, dello studioso, dell’amico della Borsa, ma, soprattutto, dell’uomo del Sud, che ha vissuto la sua vita al servizio delle istituzioni per contribuire allo sviluppo locale e alla tutela del Mare Nostrum. Nacque allora l’idea di creare un’iniziativa a carattere internazionale, volta a ricordare l’impegno e le progettualità di Tusa. Pertanto, la XXIII edizione della Borsa – in programma dal 19 al 22 novembre 2020 – ospiterà la 1a Conferenza Mediterranea sul Turismo Archeologico Subacqueo in memoria di Paestum, 2019. Ugo Picarelli, direttore della BMTA, consegna il «Sebastiano Tusa», con la partecipazione delle piú note Premio «Paestum Mario Napoli», assegnato postumo a Sebastiano destinazioni archeologiche subacquee mediterranee, e Tusa, a Valeria Li Vigni, vedova dell’archeologo siciliano. verrà assegnato il «1° Premio di Archeologia Subacquea Sebastiano Tusa», alla scoperta archeologica dell’anno o quale riconoscimento alla carriera, alla migliore rispondendo alle attività e ai progetti innovativi richiesti mostra in ambito scientifico internazionale, al progetto dal Consiglio d’Europa nel quadro dei cinque settori piú innovativo a cura di Istituzioni, Musei e Parchi d’azione prioritari, strategici per lo sviluppo locale e la Archeologici, al miglior contributo giornalistico in valenza culturale dei territori: cooperazione in materia termini di divulgazione. di ricerca e sviluppo; valorizzazione della memoria, Le iniziative si svolgeranno in collaborazione con della storia e del patrimonio europeo; scambi culturali Soprintendenza del Mare e Fondazione «Sebastiano e educativi per i giovani europei; pratiche artistiche e Tusa» della Regione Siciliana, Centro Universitario culturali contemporanee; turismo culturale e sviluppo Europeo per i Beni Culturali di culturale sostenibile. I siti Ravello, ICOMOS Italia, NIAS Nucleo sommersi sono meta di un numero per gli Interventi di Archeologia crescente di turisti subacquei e il Subacquea dell’ICR Istituto Centrale turismo archeologico, per esplicare Errata per il Restauro del MiBACT, Parco appieno le proprie potenzialità, Archeologico dei Campi Flegrei, richiede la presenza di un sistema corrige Accademia Internazionale di Scienze e locale integrato ed efficiente, con Tecniche Subacquee, Istituto Italiano in cui attori diversi accettino di di Archeologia Subacquea, Gruppi interagire, a parte la necessità di Archeologici d’Italia, Archeoclub aree in cui sia già prevista una d’Italia. La presenza del Centro Universitario Europeo al Dossier tutela giuridica territorio riferimento L’umanista chedel andò alle di tipo ambientale. per i Beni Culturali di Ravello, costituitosi nel 1983 Cruciale è anche la relazione crociate (vedi «Medioevo» n. 220, aprile 2015) con la tecnologia: il proprio sotto gli auspici del Consiglio d’Europa, assume precisare turismo sí una pratica naturalistica, desideriamo che lasubacqueo medaglia inèbronzo particolare valenza per richiedere con i soggetti promotori perché implica un contatto totale con l’ambiente, riprodotta a p. 93 (in basso) ritrae Malatesta la certificazione di una rete dei siti sommersiNovello nel è anche,Malatesta, da subito,1418una pratica tecnologica, perché (al secoloma Domenico «Programma degli Itinerari Culturali». necessita di apparecchiature, conoscenze, e implica un 1465) signore di Cesena, e non Sigismondo Gli «Itinerari Culturali dei siti sommersi del rapporto con l’ambiente mediato dalla tecnica. Malatesta, come indicato in didascalia. Dell’errore Mediterraneo» (una rete che collegherà Campania, La richiesta di certificazione ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostrial Consiglio d’Europa di un Puglia, Sicilia, Egitto, Grecia e Israele attraverso Itinerario Culturale Europeo ha l’obiettivo di mettere in lettori. i siti di Baia Sommersa nel Parco Archeologico dei Campi luce le potenzialità del turismo archeologico subacqueo Flegrei, delle Tremiti, di Ustica-Egadi-Pantelleria, per lo sviluppo locale delle tante destinazioni, anche di Alessandria d’Egitto, di Pavlopetri e di Cesarea lontane dalle località piú note, che richiedono processi di Marittima) rappresentano una risorsa chiave per nuove offerte turistiche, ma nel segno della tutela e della il turismo responsabile e lo sviluppo sostenibile, sostenibilità. Per informazioni: www.bmta.it


ANTE PRIMA

Tesori da sfogliare MOSTRE • La straordinaria selezione

di capolavori miniati esposta in Palazzo Pitti offre una nuova e significativa testimonianza della meritoria attività svolta dal Comando Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri In basso iniziale F (Franciscus vir catholicus). Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, 1280-1290 circa. Pistoia, Archivio diocesano.

In alto foglio con iniziale S (Stephanus) con santo Stefano ed episodi della sua vita. Maestro dell’antifonario G, 1330-1340 circa. Montepulciano, Museo Civico Pinacoteca Crociani.

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l Comando Tutela Patrimonio Culturale è la sezione dell’Arma dei Carabinieri specializzata nella lotta alle attività illecite compiute a danno dei beni artistici italiani, occupandosi non solo del loro ritrovamento, ma talvolta anche della loro difficilissima «ricostruzione», dovuta ai tagli compiuti su di essi, per una piú agile commercializzazione lucrativa, proprio come nel caso delle «carte» miniate. E proprio grazie al capillare operato del Comando TPC si è giunti al recupero di quaranta preziosi pezzi, agosto

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tra codici e pergamene, illustrati da grandi artisti del Medioevo e del Rinascimento, ora raccolti in una mostra dal titolo «Storie di pagine dipinte. Miniature recuperate dai Carabinieri». Allestita fino al prossimo 4 ottobre in Palazzo Pitti, a Firenze, la raffinata esposizione ha visto la collaborazione di varie professionalità, al fine di creare un laboratorio di salvaguardia, sia con la catalogazione, che con la schedatura di tutte le «ferite» che mani criminali avevano procurato agli antichi manoscritti, strappandone le singole pagine o ritagliandone frammenti per essere vendute.

Autori di altissimo livello Questo tesoro di arte e devozione, rinvenuto e curato, «illumina» adesso le scure pareti della Sala delle Nicchie, ubicata poco prima dell’uscita della Galleria Palatina e

In alto foglio con iniziale D (Dum deambularet) con sant’Andrea. 1330-1340 circa. Montepulciano, Museo Civico Pinacoteca Crociani. A sinistra Iniziale D (Dum complerentur) con la Pentecoste. Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, 1280-1290 circa. Pistoia, Archivio diocesano.

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adibita a ospitare eventi temporanei. Copisti, miniatori, coristi, monasteri e collezionisti sono le figure di riferimento che si intrecciano nelle vicende secolari di quei capolavori e rivelano la sensibilità estetica dei committenti e la perizia degli autori, regalandoci contenuti di enorme valore spirituale e culturale, anche in virtú dell’alto livello intellettuale dei destinatari. Al miniatore si chiede di interpretare, spiegare, addirittura integrare i contenuti, dunque non solo una mera illustrazione, come si

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ANTE PRIMA

In alto iniziale A (Ad te levavi) con re David inginocchiato di fronte a Dio benedicente. Primo Maestro dei corali di Montemorcino, 1500-1510 circa. Asciano, Monastero di Monte Oliveto Maggiore. Qui accanto iniziale O (Omnes amici mei) con la Cattura di Cristo. Secondo Maestro dei corali di Montemorcino (Tommaso di Mascio Scarafone?), 1500-1510 circa. Asciano, Monastero di Monte Oliveto Maggiore.

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potrebbe erroneamente pensare. Toscana e Umbria sono i luoghi di provenienza di questi volumi o carte uniche che testimoniano l’eccellenza nella produzione libraria dal XIII al XVI secolo, grazie all’abilità di maestri spesso anonimi, ma capaci di squisite decorazioni, come i miniatori umbri, riconducibili all’ambito artistico del Pinturicchio, che realizzarono i libri di coro dell’abbazia benedettina di Montemorcino, vicino a Perugia, cenobio di cui oggi rimane ben poco. Dopo il trasferimento della agosto

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A sinistra Officium Mortuorum e Septem Psalmi Penitentiales. Maestro dell’Officium mortuorum di Leone X. 1516-1520. Firenze, Collezione privata. A destra iniziale P (Puer natus est) con la Natività di Gesú. Primo Maestro dei corali di Montemorcino, 1500-1510 circa. Asciano, Monastero di Monte Oliveto Maggiore.

serie a Monte Oliveto Maggiore ad Asciano, venti manoscritti furono trafugati da ladri che, per alleggerirsi durante la fuga, gettarono via le pesanti legature antiche con i piatti in legno rivestiti di cuoio, ritrovati in breve tempo dalle Forze dell’Ordine; purtroppo, però, con i tomi sciolti, molti fogli andarono perduti per sempre, mentre altri, dopo una iniziale dispersione sul mercato antiquario internazionale, sono ricomparsi, alcuni anni fa. Grazie a un certosino lavoro di identificazione e individuazione

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dei volumi di appartenenza, oggi possiamo ammirare questo nucleo in mostra, con delicati esempi come Dio che appare a David, raffigurato all’interno dell’iniziale A, in corrispondenza dell’introito per la messa della prima Domenica di Avvento, oppure il minio riferibile al graduale Proprio dei Santi segnato R.

Un centro aperto al dialogo A parte una croce lignea, oggi alla Galleria degli Uffizi, le uniche testimonianze superstititi del corredo liturigico della prima chiesa

dei frati di S. Francesco al Prato, a Pistoia, centro culturalmente aperto al dialogo con le città limitrofe, sono cinque antifonari, un graduale e trentuno fogli. I complessi ornati e il linguaggio moderno riconducibile all’espressività di Cimabue hanno contribuito a delineare uno stile riferibile alla mano del cosiddetto Maestro di Sant’Alessio in Bigiano, a capo di una delle botteghe piú attive in tale settore nella Toscana della fine del XIII secolo. A rappresentare la miniatura fiorentina, con sei volumi, miniati

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ANTE PRIMA Foglio con iniziale I (Immolabit) con l’Elevazione dell’Eucarestia, da un Antifonario notturno del Proprio del Tempo dall’Ascensione al Corpus Domini, tempera e oro su pergamena. Secondo Maestro dei corali di Montemorcino (Tommaso di Mascio Scarafone?), 1500-1510 circa. Asciano, Monastero di Monte Oliveto Maggiore. riguardato il duecentesco convento francescano di S. Lucchese, nei pressi di Poggibonsi, non distante da Siena, che catalizzò i modelli artistici dell’Italia settentrionale, alla fine del XV secolo. Sono brani elegantissimi, eseguiti in un lungo arco di tempo, dal Trecento alla fine del Quattrocento, tra cui spicca il graduale Dum medium silentium, privo di segnatura, dove si nota la volontà del copista di certificare il proprio ruolo come autore, sia nella trascrizione del testo sacro, sia nella realizzazione delle numerose iniziali filigranate. Il percorso espositivo si conclude con una gemma, preziosa e ricercata, commissionata da Giovanni de’ Medici, al tempo del suo papato con il nome di Leone X: l’Officium mortuorum, da collezione privata. Si tratta di un libricino, dal fine ornamento miniato, che il papa «umanista» volle per il suo scriptorium romano, tra le cui pagine dal gusto lussuoso e sobrio insieme ricorrono, in maniera quasi maniacale, emblemi e motti riconducibili alla sua persona. Mila Lavorini da Pacino di Bonaguida e dai suoi collaboratori – attualmente conservati a Montepulciano, vicino a Siena –, è invece la chiesa di S. Stefano al Ponte, che, a partire dal Trecento, si accreditò come importante sito religioso e civico, sponsorizzato da nobili famiglie. Sono illustrazioni per un racconto chiaro della vita del santo titolare, dove i singoli personaggi hanno sagome semplici, dai contorni

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poco modulati, contro il fondo a monocromo, tratti fisiognomici evidenziati, paesaggio essenziale e colori brillanti.

Il marchio del copista E ancora si prosegue con pagine ritagliate dai corali della pieve dei Ss. Ippolito e Biagio a Castelfiorentino, o del monastero di Giaccherino a Pistoia, fino alla lunga storia di incuria e furti reiterati che hanno

DOVE E QUANDO

«Storie di pagine dipinte. Miniature recuperate dai Carabinieri» Firenze, Palazzo Pitti fino al 4 ottobre 2020 Orario ma-do, 8,15-13,30 Info e prenotazioni Firenze Musei tel. 055 294883; e-mail: firenzemusei@operalaboratori.com; www.uffizi.it agosto

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ANTE PRIMA

San Martino nel recinto

ITINERARI • Grazie a un

progetto di cooperazione transfrontaliera, il castello di Graines è stato strappato all’abbandono ed è oggi una delle mete piú suggestive del Medioevo valdostano 16

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egne dell’ambientazione di un romanzo gotico, le romantiche rovine del castello di Graines, in prossimità dell’omonima borgata di Brusson, sovrastano un roccione a 1332 m di quota, nel limite fra la Bassa e l’Alta Val d’Ayas (Aosta), suscitando la curiosità di chi le osserva. Quanto può essere antica quest’architettura difensiva, dalla fisionomia assai diversa rispetto a quella dei ben piú noti castelli

valdostani? Perché costruire un poderoso presidio militare in una zona tanto lontana dalle attuali direttrici viarie? E, ancora, chi e che cosa doveva proteggere? Quella del castrum sancti Martini, com’è indicato il baluardo nei documenti d’archivio, e del mandement de Grana, ossia del feudo di Graines che riprende la denominazione dal maniero, è una vicenda complessa e poco agosto

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Dall’abbandono al restauro Infeudato nella seconda metà del Duecento alla famiglia dei Visconti d’Aosta, divenuti Challant, il castrum sancti Martini passò nel Cinqucento ai Savoia e, infine, ai Passerin d’Entrèves. L’ultima guarnigione a presidio del castello vi fu stanziata nel 1615. In seguito, persa la valenza strategica e militare, il sito venne completamente abbandonato. Divenuto una cava a cielo aperto di materiale da costruzione, fu colpito da crolli di consistenti porzioni dei suoi elevati e sottoposto ad atti vandalici volti alla ricerca di mitici quanto inesistenti tesori nascosti. Dai primi anni del Novecento, grazie all’interessamento della locale associazione «Amici del castello» e dell’architetto Alfredo D’Andrade, il complesso fu salvato dall’incuria. Dal 1984 appartiene alla Regione Autonoma Valle d’Aosta, che, con il progetto di cooperazione transfrontaliera «AVER, Anciens vestiges en ruine» – avente la finalità di recuperare strutture fortificate in degrado –, ne ha avviato la manutenzione straordinaria e reso possibile la salvaguardia dell’aspetto storicizzato di rovina, esaltandone le caratteristiche culturali. conosciuta, ma di assoluta importanza sovraregionale, poiché proprietaria del villaggio fortificato dal XI al XIII secolo fu la ricca e potente abbazia di Saint-Maurice d’Agaune, nel Vallese svizzero. Sebbene le fonti scritte citino il castello di Graines solo dal 1263, anno in cui il visconte di Aosta Gotofredo fece la prima ricognizione al feudo, e i dati archeologici a corredo siano piuttosto esigui,

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la sua erezione, in una località probabilmente già occupata nella tarda età del Bronzo (XI-X secolo a.C.), rimanda al Mille. Tale datazione concorda con le testimonianze, desunte dai siti valdostani di Cly e Quart, inerenti all’iniziale fase di incastellamento avviata nella regione e trova supporto nei rapporti, creatisi nel corso dell’Alto Medioevo, tra l’abbazia vallesana e il potere regio,

Sulle due pagine Graines. Due immagini dei resti del castello, situato a oltre 1300 m di quota. Ricordata nei documenti d’archivio come castrum sancti Martini, la roccaforte fu protagonista di una vicenda lunga e articolata, segnata da ripetuti passaggi di mano: per via della sua posizione strategica, fu infatti al centro di molte contese.

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ANTE PRIMA Montanari e costruttori Giunti sulla soglia del secondo portale, completamente persi in un’atmosfera senza tempo, compare alla vista una cappella. A edificarla, tra il 1025 e il 1050, in uno dei punti piú alti del sito, separata dal mastio tramite un’area aperta e pianeggiante, assimilabile a una sorta di alta corte castrale, sono stati rudi montanari, un po’ pastori, un po’ contadini, un po’ costruttori. Dedicato a san Martino di Tours il tempietto è considerato coevo alle chiese di Saint-Maurice di Cly a Saint-Denis e di Sainte-Colombe (o Saint Jacques) di Châtel-Argent a Villeneuve. La particolare tessitura muraria, ricca di filari disposti a spina di pesce, unitamente alle dimensioni dell’ambiente (12 x 7 cm circa) e, soprattutto, alla tipologia di decorazione esterna dell’abside, scandita da archetti pensili binati, realizzati in pietra e separati da ampie lesene, hanno portato a considerare la cappella di S. Martino l’edificio di maggior qualità formale del recinto castellano e una delle architetture religiose romaniche di maggior pregio e antichità della Valle d’Aosta. È probabile che la facciata e il portale siano stati rifatti negli anni Venti del XV secolo. I numerosi frammenti di intonaco acromo e affrescato, rinvenuti durante gli scavi archeologici, sono certamente il residuo di un’originaria decorazione che doveva coinvolgere l’intero luogo di culto. In questa pagina due immagini della cappella del castello, intitolata a san Martino di Tours ed edificata fra il 1025 e il 1050. Nella pagina accanto uno scorcio del castello, per la cui costruzione fu largamente impiegata l’ofiolite, una pietra locale dal colore verde.

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borgognone prima e sabaudo poi. Molto probabilmente, infatti, la corona borgognone sviluppò la tendenza ad amministrare e gestire come propri i beni immobili dell’abbazia, molti dei quali situati in territorio valdostano.

Una scomparsa improvvisa Tali possedimenti, identificati nelle fonti come «terra sancti Mauricii», scompaiono, piú o meno improvvisamente, alla metà dell’XI secolo, epoca dell’ascesa di Umberto Biancamano. Di conseguenza, si ipotizza che anche la corona sabauda si sia ampiamente servita di questi beni, utilizzandoli per allargare la propria base fondiaria in Valle d’Aosta, mescolando proprietà private dell’alta aristocrazia, beni fiscali e terreni di proprietà monastica, grazie al controllo diretto sull’episcopato aostano e sul centro abbaziale nello Chablais. Successivamente, in un periodo di debolezza della presenza comitale, la famiglia dei visconti di Aosta, futuri Challant, si appropriò a sua volta di questi possedimenti, ormai divenuti fiscali, senza tuttavia perdere del tutto la memoria di un loro possesso a nome dell’ente abbaziale, fino alla richiesta di una ricognizione formale, avvenuta nel caso di Graines verso la metà del Duecento, periodo al quale risalgono le prime attestazioni scritte. Le motivazioni all’origine dell’impianto fortificato di Graines e dell’interesse nutrito nei suoi confronti dal potere regio emergono attraverso l’analisi della cartografia, da cui si evince la centralità della circoscrizione, che aveva in Graines il proprio fulcro amministrativo. Essa comprendeva la parte superiore della Valle d’Ayas con una porzione di quella del Lys, territori oggi facenti parte dei Comuni di Ayas, Brusson, Challand-Saint-Anselme, GressoneyLa-Trinité e Gressoney-Saint-Jean. Un’area estesa dalla confluenza dell’Evançon con la Dora fino alle

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pendici del Monte Rosa, sul confine con la Svizzera vallesana, oggi valicabile tramite sentieri percorribili solo nella stagione estiva.

I percorsi perduti Nel Medioevo una fitta rete di percorsi, adesso di difficile lettura, collegava il mandement a nord con il Vallese, attraverso il Colle del Teodulo, a est con la Valle di Gressoney, la «Lombardia» e il

Milanese tramite il Col Ranzola, a ovest con Saint-Vincent e l’Alta Valle d’Aosta mediante il Col di Joux e a sud, seguendo la via lungo il corso dell’Evançon, al borgo di Verrès e alla Bassa Valle. Pascoli e foreste dalla sicura resa agricolopastorale si estendevano da nord a sud del comprensorio, mentre torri di guardia e strutture difensive controllavano il passaggio di persone e merci nelle alture piú elevate.

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ANTE PRIMA Una suggestiva veduta notturna del castello di Graines. A sinistra, in basso un tratto della muratura nel quale si riconosce la posa in opera con la tecnica a spina di pesce.

Tra gli esempi di architettura romanica castrense di maggior pregio e antichità nella regione, Graines si presenta come un tipico castello-recinto, in cui i fabbricati sono disposti entro una cinta, che protegge un’emergenza naturale di 2000 mq. Isolato su tre lati da un salto di quota, il villaggio fortificato si raggiunge solo a ovest. Lasciata l’auto in uno slargo ai piedi del promontorio, si sale un’erta mulattiera che, faticosamente ricavata da una scoscesa parete rocciosa, regala panorami

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mozzafiato. Una porta ad arco a tutto sesto, alta 2,2 m e larga 1,5, ornata con ghiera e stipiti in conci di pietra verde – una ofiolite locale ricorrente nelle pareti in posizioni di particolare rilevanza formale –, immette in un avancorpo appoggiato alle mura.

La cinta merlata Fra gli elementi piú antichi del castello, insieme alla torre merlata e alla cappella, vi è la cinta, costruita con materiale di medie e piccole dimensioni disposto a tratti a

spinapesce in tre distinte fasi, collocabili a cavallo dei secoli XI-XII e XII-XIII e nel corso del Duecento. È sormontata da una corona di merli pseudotrapezoidali di dimensioni rilevanti (tra i 120 e i 170 cm), separati da intermerli di ampiezza piú limitata (70 cm circa). Qualche passo separa il portone d’accesso principale da un secondo portale. Identico al precedente per dimensioni e fattura, esso è munito di feritoie rivolte verso l’esterno, dotate di una nicchia di tiro strombata ricavata nello spessore del muro e, attraverso la cortina occidentale, introduce nell’area del castrum. All’interno del millenario recinto le infinite sfumature grigioverdi delle rovine paiono confondersi in un tutt’uno con quelle del meraviglioso paesaggio alpino che le incornicia, mentre al di sopra, ovunque, domina l’azzurro del cielo. Un silenzio misterioso, quasi innaturale, ricorda che questi resti, pieni di storia, otto-nove secoli fa, sono stati un mastio, una chiesa, un focolare. Chiara Parente agosto

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

VIVERE DA SIGNORI NELL’ETÀ DI MEZZO

U

n matrimonio ben combinato poteva risultare determinante per l’affermazione sociale di un individuo ed era addirittura un obbligo fra le classi aristocratiche: comincia cosí il viaggio proposto dal nuovo Dossier di «Medioevo», alla scoperta delle consuetudini, degli interessi culturali e degli svaghi che caratterizzavano le fasce piú elevate della popolazione. Ad accomunare molte delle attività piú apprezzate era il costante richiamo agli ideali della cavalleria, come prova, per esempio, la disputa di giostre e tornei, o la pratica della caccia e della falconeria, delle quali non è difficile cogliere le numerose e significative implicazioni simboliche. In particolare, a dare la misura della considerazione di cui godeva l’allevamento dei rapaci a scopo venatorio, basterà ricordare che esso ebbe il suo piú celebre interprete nell’imperatore Federico II di Svevia, autore di un monumentale trattato sull’argomento, il De arte venandi cum avibus.

NE LA B L M ELL ED A V IO ITA EV O

LO/MI. L. 46/2004, art. 1, c.1, . - D.L. 353/2003 conv.

Non meno rilevante fu il mecenatismo di numerosi principi e duchi, che si fecero committenti di grandi opere d’arte, nonché di componimenti letterari e musicali. La vita dei signori, insomma, non si tradusse soltanto nello sfoggio di abiti ricercati o costosi gioielli, ma contribuí in maniera decisiva alla produzione culturale dell’epoca, della quale possiamo ancora oggi ammirare magnifiche testimonianze in tutte le principali città italiane.

GLI ARGOMENTI

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MEDIOEVO DOSSIER

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• IL MATRIMONIO Senza troppo sentimento • LA MUSICA E LA DANZA Il potere suona bene A passo di danza • LE GIOSTRE E I TORNEI Nemici per gioco

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• LA CACCIA I signori della foresta Rivista Bimestrale N°39 Luglio/Agosto 2020

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• LA FALCONERIA Come una metafora della vita

La parte superiore di una tavoletta di biccherna dipinta da Sano di Pietro raffigurante il matrimonio tra il condottiero Roberto Sanseverino e Lucrezia, figlia dell’esecutore di Gabella dell’anno 1473 Agnolo Malavolti. 1473. Siena, Archivio di Stato, Museo delle Biccherne.



AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA RAFFAELLO Scuderie del Quirinale fino al 30 agosto

Oltre cento opere di mano di Raffaello Sanzio sono riunite per la prima volta per la mostra che costituisce l’apice delle celebrazioni mondiali per i 500 anni dalla sua scomparsa. Il progetto espositivo trova ispirazione, in particolare, nel fondamentale periodo romano di Raffaello, che lo consacrò quale artista di grandezza ineguagliabile e leggendaria, e racconta con ricchezza di dettagli tutto il

a cura di Stefano Mammini

complesso e articolato percorso creativo. Ne fanno parte creazioni amatissime e famose in tutto il mondo, quali, solo per fare qualche esempio, la Madonna del Granduca dalle Gallerie degli Uffizi, la Santa Cecilia dalla Pinacoteca di Bologna, la Madonna Alba dalla National Gallery di Washington, il Ritratto di Baldassarre Castiglione e l’Autoritratto con amico dal Louvre, la Madonna della Rosa dal Prado, la celebre Velata, anch’essa dagli Uffizi. info tel. 02 92897722; e-mail: info@scuderiequirinale.it; www.scuderiequirinale.it

PERUGIA TADDEO DI BARTOLO Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 30 agosto

Il senese Taddeo di Bartolo (1362 circa-1422) è per la prima volta protagonista di una rassegna monografica, che, grazie a un centinaio di opere, ne ricostruisce l’intera parabola artistica. Vero e proprio maestro itinerante, trascorse buona parte della carriera spostandosi tra Toscana, Liguria, Umbria, e Lazio al servizio di famiglie politicamente ed economicamente potenti, autorità pubbliche, grandi Ordini religiosi e confraternite, affermandosi come il piú grande maestro del polittico del suo tempo. La rassegna enfatizza perciò questa forma d’arte sacra, grazie alla presenza di pale complete e di tavole disassemblate che, riaffiancate, consentono eccezionali ricomposizioni. Per l’occasione, in un ambiente che ricrea l’interno di una chiesa francescana ad aula, è stato ricostruito l’imponente apparato figurativo della ormai smembrata Pala di San Francesco al Prato di Perugia, di cui la Galleria Nazionale dell’Umbria conserva ben 13 elementi. A questi si

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aggiungono le parti mancanti, finora individuate, come le sette tavole della predella raffiguranti Storie di san Francesco, conservate tra il Landesmuseum di Hannover (Germania) e il Kasteel Huis Berg a s’-Heerenberg (Paesi Bassi), e il piccolo San Sebastiano del Museo di Capodimonte a Napoli, che probabilmente decorava uno dei piloni della carpenteria. Sono comunque documentate anche le altre tipologie di opere, come gli stendardi processionali o le piccole tavole di devozione privata, offrendo quindi una panoramica completa dell’arte di Taddeo. Da segnalare che la sua importante attività come frescante è illustrata da una ricostruzione video in 3D degli affreschi della cappella del Palazzo Pubblico di Siena, parte di un ricco apparato multimediale che documenta i restauri e le indagini diagnostiche eseguiti in occasione della mostra grazie al contributo della Galleria Nazionale dell’Umbria. info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@beniculturali.it; biglietteria/bookshop: tel. 075 5721009; e-mail: gnu@sistemamuseo.it; www.gallerianazionaledellumbria.it agosto

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BOLOGNA IMAGO SPLENDIDA. CAPOLAVORI DI SCULTURA LIGNEA A BOLOGNA DAL ROMANICO AL DUECENTO Museo Civico Medievale fino al 6 settembre

Può dirsi un fenomeno di recente affermazione il rinnovato interesse verso la scultura lignea italiana, ai cui aspetti materiali e tecnici è a lungo mancato, nella storiografia artistica, un pieno riconoscimento di dignità critica. In un quadro di riferimento segnato, in particolare per il patrimonio artistico prodotto nel XII e XIII secolo, da una rarefazione delle opere causata dalla deperibilità del materiale e dalla progressiva trasformazione delle immagini

al variare dei canoni estetici, «Imago splendida» segna un importante momento di ricognizione. La mostra approfondisce l’affascinante e ancora poco studiata produzione scultorea lignea a Bologna tra XII e XIII secolo, restituendone una rilettura aggiornata a quasi vent’anni dall’esposizione «Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna», una cui sezione rappresentava lo spazio del sacro con opere inerenti l’iconografia sacra bolognese. Grazie alla collaborazione della Curia Arcivescovile di Bologna e della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, e con il patrocinio di Alma Mater StudiorumDipartimento delle Arti, il progetto è l’esito espositivo di una sedimentata ricerca

filologica e documentaria, che fissa una nuova tappa verso la comprensione dei modelli di riferimento nel contesto figurativo della Bologna altomedievale. Il nucleo principale della mostra, allestita nella Sala del Lapidario, si compone delle testimonianze piú rappresentative della produzione plastica superstite nella città: tre croci intagliate di proporzioni monumentali appartenenti alla variante iconografica del Christus Triumphans che vince la morte, per la prima volta eccezionalmente riunite insieme. La comparazione ravvicinata dei manufatti offre in visione tangenze e analogie, sul piano della sintassi formale e tecnica, che rendono plausibile l’ipotesi di un’inedita attribuzione a un’unica bottega, credibilmente di area alpina sudtirolese – il

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cosiddetto Maestro del Crocefisso Cini – in una fase temporale compresa tra il 1270 e il 1280. info tel. 051 2193916 oppure 2193930: e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo ROMA IL TEMPO DI CARAVAGGIO. CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE DI ROBERTO LONGHI Musei Capitolini, Sale espositive di Palazzo Caffarelli fino al 13 settembre

Lo storico dell’arte Roberto Longhi si dedicò allo studio del Caravaggio, all’epoca uno dei pittori «meno conosciuti dell’arte italiana», già a partire dalla tesi di laurea, discussa con Pietro Toesca, all’Università di Torino nel 1911. Una scelta pionieristica, che tuttavia dimostra come il giovane

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AGENDA DEL MESE Longhi seppe da subito riconoscere la portata rivoluzionaria della pittura del Merisi, cosí da intenderlo come il primo pittore dell’età moderna. In mostra è esposto uno dei capolavori di Caravaggio, acquistato da Roberto Longhi alla fine degli anni Venti: il Ragazzo morso da un ramarro. Quattro tavolette di Lorenzo Lotto e due dipinti di Battista del Moro e Bartolomeo Passarotti aprono il percorso espositivo, con l’intento di rappresentare il clima artistico del manierismo lombardo e veneto in cui si è formato Caravaggio. Oltre al Ragazzo morso da un ramarro è in mostra il Ragazzo che monda un frutto, una copia antica da Caravaggio, che Longhi riteneva una «reliquia», tanto da esporla all’epocale rassegna di Palazzo Reale a Milano nel 1951. Seguono oltre quaranta dipinti degli artisti che per tutto il secolo XVII sono stati influenzati dalla sua rivoluzione figurativa.

info e prenotazioni tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it

TRENTO L’INVENZIONE DEL COLPEVOLE. IL «CASO» DI SIMONINO DA TRENTO, DALLA PROPAGANDA ALLA STORIA Museo Diocesano Tridentino fino al 15 settembre

Simone da Trento (detto il «Simonino»), un bambino di circa due anni, scomparve misteriosamente la sera del 23 marzo 1475 e fu ritrovato cadavere la mattina di tre giorni dopo, nei pressi dell’abitazione di una famiglia ebrea. In base a radicati pregiudizi, la responsabilità del rapimento e del delitto venne subito attribuita ai membri della locale comunità ebraica. L’accusa si fondava sulla convinzione che gli Ebrei compissero sacrifici rituali di fanciulli cristiani con lo scopo di reiterare la crocifissione di Gesú, servendosi del sangue della vittima per scopi magici

e religiosi. Incarcerati per ordine del principe vescovo di Trento Johannes Hinderbach, gli Ebrei vennero processati, costretti a confessare sotto tortura e infine giustiziati. Proprio in virtú del presunto martirio, Simone divenne presto oggetto di un intenso culto locale, che papa Sisto IV vietò sotto pena di scomunica. La prudenza e i dubbi della Chiesa non riuscirono a opporsi a una venerazione tributata per via di fatto e costruita utilizzando due potenti mezzi di comunicazione: le immagini e il nuovissimo strumento della stampa tipografica. Grazie alla macchina della propaganda, abilmente orchestrata dal vescovo Hinderbach, il culto di Simonino si estese presto ad altre zone dell’Italia centrosettentrionale e della Germania, riuscendo a imporsi come prototipo di tutti i presunti omicidi rituali dei secoli a seguire. Solo nel Novecento, negli anni del Concilio Vaticano II, la

rilettura critica delle fonti ha ristabilito la verità storica: il 28 ottobre 1965, lo stesso giorno in cui venne pubblicato il documento conciliare Nostra Aetate, la Chiesa abolí il culto del falso «beato». L’intera vicenda viene ora ripercorsa dalla mostra allestita nel Museo Diocesano Tridentino, ideata come omaggio a monsignor Iginio Rogger (1919-2014), già direttore del Museo stesso e coraggioso protagonista della storica revisione del culto di Simonino. A distanza di piú di mezzo secolo dalla sua abolizione, l’esposizione intende fare il punto sul «caso» di Simone da Trento e diffondere una piú ampia conoscenza di questa delicata e attualissima pagina della storia tardo-medievale. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it ROMA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro del Pio Sodalizio dei Piceni fino al 20 settembre

Il Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro, sede della Fondazione Pio Sodalizio dei Piceni, attiva nell’Urbe fin dal 1600, accoglie 36 opere d’arte – databili fra il XV e il XVIII secolo – scelte tra quelle restaurate a seguito del sisma del 2016. Si tratta della seconda tappa di un’esposizione itinerante che ha preso il via proprio nella zona del cratere, ad Ascoli Piceno presso il Forte Malatesta, che ora continua a Roma e che si concluderà a Senigallia, sulla riviera adriatica. Della selezione fanno parte manufatti dall’alto

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CLASSE (RAVENNA) TESORI RITROVATI. IL BANCHETTO DA BISANZIO A RAVENNA Museo Classis Ravenna fino al 20 settembre

valore devozionale e/o storicoartistico, fra i quali figurano crocifissi lignei e vesperbild di ambito tedesco, che ancora oggi si trovavano all’interno delle chiese come oggetti di culto da parte dei fedeli. Vi sono quindi nomi importanti, come Jacobello del Fiore, con la serie delle Scene della vita di Santa Lucia provenienti dal Palazzo dei Priori di Fermo, Vittore Crivelli con la Madonna orante, il Bambino e angeli musicanti di Sarnano, Cola dell’Amatrice, di cui spicca la Natività con i santi Gerolamo, Francesco, Antonio da Padova e Giacomo della Marca dalla sacrestia della chiesa di S. Francesco ad Ascoli Piceno. E ancora, da Roma, Giovanni Baglione e Giovanni Serodine, che dalla Svizzera seguí nella capitale l’esempio di

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Caravaggio. Tutti autori di indubbia fama che nelle Marche sono nati o che vi hanno soggiornato e che hanno contribuito a modificare la geografia della storia dell’arte. Gli interventi di restauro sono stati eseguiti con innovative analisi diagnostiche, che non soltanto hanno consentito di porre rimedio ai danni subiti dalle opere, ma hanno permesso di effettuare nuove attribuzioni e di acquisire nuove conoscenze relative alla tecnica pittorica e ai materiali usati dai pittori, accrescendo le conoscenze che si avevano su questo patrimonio e aprendo la strada a molti studi scientifici. info tel. 06 99572979; e-mail: info@artifexarte.it; www.artifexarte.it

I ceti dirigenti della tarda antichità hanno molti modi per autorappresentarsi. Uno dei principali è commissionare oggetti preziosi ad artigiani specializzati. Un settore di grande prestigio è quello dell’argenteria: coppe, boccali, posate e grandi piatti sono tra gli oggetti piú richiesti dalle aristocrazie. Spesso questi oggetti recano delle raffigurazioni di miti antichi o scene agresti e di banchetto. Il senso di queste rappresentazioni si giustifica nei modelli della loro committenza. Importanti personaggi vogliono comunicare il loro status symbol, le loro radici culturali. In molti casi si tratta di prodotti di alta qualità realizzati nei piú importanti centri culturali dell’impero. Il percorso espositivo inizia da due grandi piatti realizzati in argento dorato di epoca tardo-antica provenienti dal Museo Archeologico di Cesena. La sequenza narrativa della mostra prende avvio dalla documentazione del loro ritrovamento e stabilisce connessioni con analoghi grandi missoria in argento che, per qualità e modalità di realizzazione, appaiono in relazione con quelli di Cesena. Inoltre partendo dalla rappresentazione del banchetto, incorniciata al centro di uno dei grandi piatti di Cesena, si sviluppa un racconto sulla produzione di

suppellettili da mensa tardo antiche e sulle rappresentazioni figurative di banchetto circolanti tra le aristocrazie del tempo, derivate da modelli prestigiosi, funzionali anche a precise esigenze di affermazione e esaltazione sociale. Queste suppellettili, infatti, erano commissionate per essere donate durante alcune cerimonie o per celebrare incarichi e nomine. Ai tempi dell’impero romano, inoltre, era molto importante anche il «peso» del vasellame da cui si desumeva la ricchezza del proprietario. La mostra, che si inserisce perfettamente nel percorso espositivo del Classis Ravenna, punto culturale di riferimento per chiunque voglia conoscere la storia della città, tre volte capitale, dalle origini all’anno Mille, approfondisce un aspetto della vita e della cerimonialità tardo antica alle quali il Museo dedica molta attenzione. Unitamente alla

basilica di S. Apollinare in Classe, definita una dei piú grandi esempi di basilica paleocristiana e dotata di meravigliosi mosaici e all’Antico Porto di Classe, considerato uno dei principali scali portuali del mondo

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AGENDA DEL MESE romano e bizantino, unico per suggestione, Classis Ravenna costituisce il Parco Archeologico di Classe. info tel. 0544 473717; www.classisravenna.it; www.ravennantica.it PADOVA «A NOSTRA IMMAGINE». SCULTURA IN TERRACOTTA A PADOVA NEL RINASCIMENTO DA DONATELLO A RICCIO Museo Diocesano fino al 27 settembre

Secoli, dispersioni, furti, indifferenza, vandalismi hanno quasi completamente distrutto o disperso un patrimonio d’arte unico al mondo: le sculture in terracotta rinascimentali del territorio padovano. Ma qualcosa di prezioso e significativo è rimasto e il Museo Diocesano di Padova, insieme all’Ufficio beni culturali, al termine di una intensa, partecipata attività di recupero, studi, ricerche e restauri – sostenuti anche dalla campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi «Mi sta a cuore» – sono riusciti a riunire nelle Gallerie del Palazzo vescovile di Padova, una ventina di terrecotte rinascimentali del territorio, orgogliosa testimonianza delle

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migliaia che popolavano chiese, sacelli, capitelli, conventi e grandi abbazie di una Diocesi che spazia tra le province di Padova, Vicenza, Treviso, Belluno e Venezia. La diffusione tanto capillare della scultura in terracotta proprio in questo territorio va individuata nella presenza prolungata e molto attiva, a Padova, a ridosso della basilica di S. Antonio, della bottega di Donatello e, dopo di lui, di Bartolomeo Bellano, Giovanni De Fondulis e Andrea Riccio. Questi artisti creavano capolavori in pietra, marmo, bronzo, ma anche nella piú umile (e meno costosa) terracotta. Opere preziose ed espressive, e per questo molto ambite e richieste. In queste fucine venivano alla luce grandi scene di gruppo, come i Compianti, ma anche piccole ma raffinate Madonne con il Bambino o immagini di Santi per devozione familiare, di dimensioni ridotte ma spesso di grande qualità. E la mostra, quasi per campione, accoglie esempi emozionanti di queste variegate produzioni artistiche distribuite nel territorio, non meno pregiate di altre sculture in terracotta che saranno prestate per l’occasione da

alcuni Musei nazionali e internazionali. info tel. 049 652855 o 049 8761924; www.museodiocesanopadova.it

La grande stagione rinascimentale italiana trova

delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella luminosa Loggia del Pasquino,

piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore urbinate: in inglese Raphael Ware. E la Galleria Nazionale

con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

URBINO RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 27 settembre

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PARIGI SGUARDI SULLA VITA QUOTIDIANA Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 27 settembre

Gli uomini e le donne del Medioevo non avevano bisogni granché diversi dai nostri: nutrirsi, avere un tetto sotto il quale vivere, prendersi cura della propria salute… Preoccupazioni alle quali si affiancava il desiderio di nutrire la mente, oltre che lo stomaco, di misurare il tempo, le distanze o le quantità. Un quadro, insomma, sovrapponibile all’attuale, che la mostra allestita dal museo parigino documenta grazie a una ricca selezione di oggetti, con l’intento di ribadire, ancora una volta, quanto poco «bui» siano stati i secoli dell’età di Mezzo, nel corso dei quali non mancava l’attenzione per la pulizia personale, né l’aspirazione a formarsi una cultura. Di certo, alcune assenze possono sorprendere, come per esempio nel caso della forchetta – la cui introduzione si ebbe solo nel XVI secolo – o degli armadi guardaroba, ma, nel complesso, emerge l’immagine di una società dinamica, protagonista di mutamenti significativi e capace di dotarsi di strumenti sempre piú evoluti e, in una parola, «moderni». info www.musee-moyenage.fr FIRENZE STORIE DI PAGINE DIPINTE. MINIATURE RECUPERATE DAI CARABINIERI Palazzo Pitti, Sala delle Nicchie fino al 4 ottobre

Antichi manoscritti miniati, pagine e miniature ritagliate, provenienti dalle numerose istituzioni religiose italiane, trafugati e in seguito recuperati dal Nucleo Tutela

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AGENDA DEL MESE modello di comportamento per l’alta società dell’intero continente. Ma limitare la figura del Castiglione a questa pur celeberrima opera sarebbe limitante. Come la mostra evidenzia, la sua fu una figura di intellettuale finissimo, vicino a grandi artisti, Raffaello in primis, ma anche a scrittori, intellettuali, regnanti e papi, attento politico, incaricato di ambascerie tra le piú delicate del suo tempo. Uomo che

del Patrimonio, celebrano il lavoro svolto negli anni dai Carabinieri dell’Arte, richiamando l’attenzione sulla fragilità estrema del nostro patrimonio storico artistico e sulla necessità della tutela e della corretta conservazione. Il percorso espositivo presenta una serie di «casi di studio» esemplari, che documentano i diversi metodi per ricostruire la storia di questi oggetti, spesso manomessi per favorirne il commercio illegale: grazie a indizi anche minimi, avvalendosi di competenze interdisciplinari, è possibile ricollegare questi oggetti dispersi al loro contesto fisico e geografico di appartenenza. Oltre a spiegare le caratteristiche peculiari di questi gruppi di codici rispetto

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sfuggí a intrighi, che seppe muoversi in modo accorto in un periodo storico complessissimo. Attingendo alla fonte imprescindibile delle sue Lettere, il progetto espositivo ha il merito di ricostruire l’intera vicenda del Castiglione ponendola nel contesto del suo tempo, accanto a figure altrettanto complesse e affascinanti come quelle di Guidobaldo da Montefeltro,

al percorso della storia della miniatura, di ognuno si evidenzieranno le pagine recuperate e, se ve ne sono, quelle ancora da ricercare. info www.uffizi.it URBINO BALDASSARRE CASTIGLIONE E RAFFAELLO. VOLTI E MOMENTI DELLA VITA DI CORTE Palazzo Ducale, Sale del Castellare fino al 1° novembre

Nelle Sale del Castellare del Palazzo Ducale di Urbino viene raccontata, in modo del tutto originale, la vicenda di un uomo che fu figura centrale del Rinascimento europeo. Baldassarre Castiglione, mantovano d’origine ma urbinate d’adozione, è noto per il suo Cortegiano, opera che, tradotta nelle principali lingue dell’epoca, forní «il» agosto

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Duca di Urbino, di Leone X, dei Medici, degli Sforza, dei Gonzaga e di Isabella d’Este «prima donna del mondo», dell’Imperatore Carlo V e di artisti – Raffaello innanzitutto, ma anche Leonardo, Tiziano, Giulio Romano…–, di fini intellettuali come Pietro Bembo e di studiosi come Luca Pacioli. Il percorso si articola in sette sezioni fitte di opere importanti, utili a dare la dimensione dell’epoca raccontata. Integrate attraverso soluzioni multimediali che ampliano il racconto, offrendo ulteriori chiavi di lettura, agendo su immagini e stimoli visivi ed emotivi. La mostra si propone come un vero e proprio scrigno d’arte ma anche di arti applicate, presentando abiti per feste, tornei e parate, armi, antiche edizioni e manoscritti, e poi la musica, per citare solo alcuni dei temi approfonditi. Naturale complemento dell’esposizione sono il Palazzo Ducale dei Montefeltro e l’intera città di Urbino, contenitori e al contempo contenuto di un evento che fa della corte urbinate uno dei suoi fondamentali punti di interesse. info www.vieniaurbino.it BOLOGNA LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni fino al 10 gennaio 2021

Un viaggio di ritorno travagliato, che ai tre secoli di attesa ha sommato altro tempo, se possibile ancor piú interminabile nella sua incertezza: ma finalmente il capolavoro ritrovato è pronto a rivelarsi. Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni di Bologna ospita la grande mostra che riporta in città, a 500 anni dalla sua realizzazione e a 300

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dalla sua dispersione, le tavole del Polittico Griffoni dei ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che proprio nella città felsinea, con la maestosa pala d’altare realizzata tra il 1470 e il 1472 per l’omonima cappella nella basilica di S. Petronio, diedero avvio al loro straordinario sodalizio artistico. Un lavoro di oltre due anni e il coinvolgimento di 9 Musei internazionali proprietari delle singole tavole, la metà dei quali ubicati fuori dai confini nazionali, hanno dato vita a un evento eccezionale per la storia dell’arte, che ha il merito, tra le altre cose, di ridefinire la centralità della città di Bologna nel panorama rinascimentale italiano. La mostra si compone di due sezioni: il piano nobile di Palazzo Fava ospita «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna»: le 16 tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei prestatori sono visibili assieme alla ricostruzione del Polittico, una vera e propria rimaterializzazione della pala d’altare cosí come dovette apparire ai Bolognesi di fine Quattrocento. La superba pala d’altare dedicata a san Vincenzo Ferrer fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni all’interno della basilica di S. Petronio a Bologna. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese Francesco del Cossa, allora all’apice della sua straordinaria carriera artistica, iniziata intorno al 1456 e stroncata dalla peste nel 1478. I contatti tra l’artista e il capoluogo emiliano, attivi per quasi un ventennio, si tradussero nella realizzazione di alcuni capolavori come l’Annunciazione di Dresda, la Madonna del Baraccano e la Pala dei Mercanti. Il Polittico

Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Del Cossa e De’ Roberti lavorò alla cornice il maestro d’ascia Agostino de Marchi da Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, Pompeo Aldrovandi, monsignore e poi cardinale, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso dell’Ottocento i dipinti

entrarono nel giro del mercato antiquario e del collezionismo, giungendo, infine, ai nove musei che oggi custodiscono le opere, la metà dei quali hanno sede fuori dai confini nazionali. Il secondo piano ospita «La Materialità dell’Aura: Nuove Tecnologie per la Tutela», sezione che illustra, attraverso video, immagini e dimostrazioni con strumenti di scansione 3D, l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del Polittico. info tel. 0544 473717; https://genusbononiae.it

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Quel legno venerabile e

di Annamaria Giusti

antichissimo Il Volto Santo di Lucca è una delle piú celebri reliquie della cristianità. Giunto in Italia in circostanze ammantate di leggenda, è stato da sempre al centro di un vivace dibattito sulla sua datazione. Che ora ha trovato una soluzione definitiva e per molti inaspettata...

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onservato nella cattedrale di Lucca, il grandioso crocifisso ligneo conosciuto come Volto Santo si colloca tra le opere piú venerate della cristianità, oggetto di un culto che si estese ben oltre la cerchia delle mura cittadine. Leggenda e storia contribuirono a diffondere nell’Europa medievale la fama di questa immagine miracolosa, che si credeva ritraesse le veridiche sembianze di Cristo scolpite da Nicodemo suo discepolo, per tre volte ricordato nel vangelo di Giovanni. Fra l’XI e il XII secolo – quando il suo culto era ormai ben consolidato –, sull’origine prodigiosa e sull’arrivo a Lucca del Volto Santo fu scritto un testo noto come Leggenda di Leobino, dal nome del suo estensore, che probabilmente si

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Particolare del Volto Santo di Lucca. Legno di noce con inserti in pasta vitrea. VIII-IX sec. Lucca, cattedrale di S. Martino.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

ispirò a un testo o a una tradizione orale piú antichi. Vi si narra del vescovo Gualfredo, che, recatosi in pellegrinaggio in Terra Santa, fu visitato durante il sonno da un angelo, che lo esortò a cercare nella vicina casa di Seleuco, uomo di fede, l’immagine del Salvatore conservata in un luogo segreto. L’angelo proseguí col dire che Nicodemo, discepolo di Cristo, dopo la sua morte e resurrezione volle riprodurre le fattezze di Gesú in una scultura lignea, il cui Santissimo Volto fu realizzato grazie al diretto intervento divino. Sentendosi prossimo a morire, Nicodemo affidò il venerabile simulacro a un devoto cristiano, che, per

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preservarlo dai Giudei e dai pagani, lo nascose nella propria casa, dove rimase per secoli, custodito dalle generazioni successive.

L’arrivo a Luni

Il vescovo si pose allora con il suo seguito alla ricerca del crocifisso, e, trovata la casa di Seleuco, riuscí non senza fatica a ottenerlo in consegna. Volendo farlo giungere in Italia, si decise di affidarlo a una nave, guidata da mano divina e non da un equipaggio, pregando che l’immagine del Salvatore giungesse in un luogo dove i popoli della cristianità potessero accorrere per venerarla. La nave approdò nel

porto di Luni, i cui abitanti cercarono piú volte di impadronirsi del misterioso vascello, che sempre si sottraeva ai loro tentativi. Ma un altro presule ricevette nel sonno il messaggio di un angelo: si trattava questa volta del vescovo di Lucca Giovanni, il quale, a seguito di quanto udito dall’angelo, si recò con il clero e i fedeli al porto di Luni, dove la nave, che si era negata ai predoni, si offrí al prelato, rivelando il suo carico prezioso. Ne derivò una contesa fra Lucchesi e Lunensi su chi avesse diritto al dono divino, ma Giovanni la concluse affidando alla custodia di Luni un’ampolla con il sangue di Cristo, giunta insieme agosto

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Sulle due pagine Lucca, Cattedrale di S. Martino. Il sacrario rinascimentale che custodisce il Volto Santo (a sinistra), modellato in forma di tempietto da Matteo Civitali nel 1484 e una veduta della navata sinistra della cattedrale, nel quale è collocato.

alla croce. Il Volto Santo poté cosí arrivare a Lucca fra l’esultanza della città tutta ed essere collocato nella cattedrale di S. Martino. Fino a qui la Leggenda di Leobino, che lascia intendere come nel crocifisso di Lucca si riconoscessero due valori fondamentali per la religiosità medievale, protesa a un contatto tangibile con il divino: nel corpo di Cristo, rivestito dalla tunica del sacerdozio regale, il discepolo aveva ritratto la figura a lui ben nota, il cui volto era frutto di un intervento soprannaturale. Il Salvatore trionfante sulla morte offriva cosí alla contemplazione dei fedeli la sua immagine veridica, confer-

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mandosi perennemente vivo e presente e facendo scendere su di loro lo sguardo dei grandi occhi attenti alle loro suppliche.

La prima menzione

Non meravigliano quindi l’intensità e diffusione del culto del Volto Santo, testimoniate dopo il Mille e irraggiate dalla piccola Lucca all’intera Europa. Il documento piú antico che lo ricorda è stato rintracciato negli archivi inglesi e risale al 1050: in quell’anno l’abate dell’abbazia benedettina di Bury St Edmunds, nel Suffolk, sostando a Lucca sulla via di Roma, commissionò una perduta copia del Volto Santo per

la sua chiesa abbaziale. E sempre in Inghilterra – dal 1066 sotto il dominio normanno –, il re Guglielmo II, nel salire al trono nel 1087, giurava solennemente in nome del Santo Volto «de Luca». In quegli anni anche nei documenti legati alla nuova S. Martino, rifondata nel 1070 da papa Alessandro II, si trova testimonianza della devozione internazionale nei confronti del simulacro lucchese. Un obituario, ovvero libro dei defunti da ricordare nelle messe nell’anniversario della loro morte, cita i nomi di ben diciotto monaci inglesi, di un cavaliere teutonico donatore di un messale al Volto Santo, e del duca di Boemia Svatopluk,

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

morto nel 1109, che aveva donato alla cattedrale monete d’oro «ad honorem Sancte Crucis».

Il pio menestrello

Fu scritto in Islanda, fra il 1151 e il 1159, l’Itinerarium di Niklaus, abate del monastero di Thingeyrar, che passò da Lucca nel suo viaggio in Terra Santa e che nel suo testo riporta per la prima volta la narrazione di un miracolo rimasto celebre, e poi piú volte raffigurato. Un povero menestrello si recò in visita al Volto Santo, offrendo solo il dono della sua musica. Per ricambiarlo, il Crocifisso lasciò cadere dal piede destro il prezioso calzare metallico, che il menestrello portò con sé, trovandosi per questo accusato di furto e incarcerato. Ma ogni tentativo di ricollocare il calzare fu inutile, perché il Volto Santo continuava a rifiutarlo, facendo intendere che si trattava di un suo dono. Il menestrello venne allora rilasciato e compensato generosamente per la restituzione

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del calzare, che da allora, e ancora oggi, è bloccato da un calice posto sotto il piede destro di Cristo. Non solo ai testi scritti è affidata la testimonianza della notorietà del Volto Santo, dato che l’esempio dell’abbazia inglese che volle una copia della santa croce non rimase certo isolato. Dalla Spagna alla Francia, alla Germania, nel rinnovato fervore religioso che segna l’inizio del nuovo millennio, si moltiplicarono allora e nei secoli successivi le derivazioni dal prototipo lucchese, analogamente di grandi dimensioni e scolpite in legno. Spesso note solo dai documenti, data la deperibilità del legno o le traversie della storia, sopravvivono comunque numerose, e sono visibili in ARVO, Archivio del Volto Santo, consultabile on line (www.archiviovoltosanto.org), che raccoglie immagini e notizie sul vasto repertorio di sculture, pitture, miniature, arredi sacri e incisioni che nel corso dei secoli hanno preso a soggetto il Volto Santo.

In alto Trasporto del Volto Santo a Lucca, affresco di Amico Aspertini. 1508-1509. Lucca, basilica di S. Frediano, cappella di S. Agostino. A destra Volto Santo di Lucca tra i Ss. Giovanni Battista, Vincenzo Ferrer, Marco e Antonino, dipinto a tempera su tavola attribuito al Maestro dell’Epifania di Fiesole. 1491-1495. Los Angeles, County Museum of Art.

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reliquie volto santo In quei secoli, insieme a Santiago de Compostela e Roma, Lucca fu tra le maggiori mete di pellegrinaggio in Europa, favorita anche dal trovarsi sulla via Francigena che conduceva all’Urbe. I pellegrini potevano trovare ospitalità negli

ospedali che a Lucca cominciarono a sorgere già prima del Mille, e, al loro arrivo a S. Martino, essere accolti nell’ampio portico della cattedrale, costruito nel XII secolo, insolito nell’architettura chiesastica del romanico in Toscana, ma adatto a filtrare l’afflusso dei devoti. Li accoglieva un labirinto scolpito su uno dei pilastri, simbolo del percorso del credente per la conquista della salvezza, ma anche del viaggio arduo e purificatorio del pellegrino per raggiungere la meta della sua devozione. A necessità piú contingenti provvedevano i cambiavalute e gli speziali, i cui banchi erano ospitati in prossimità della cattedrale, come ricorda un’iscrizione del 1111 tuttora presente nel portico, con il giuramento di corretto comportamento nello svolgimento dei loro commerci. Non si trattò solo di opere destinate alle chiese, perché la devozione per il simulacro lucchese fu vivamente partecipata dai fedeli, che vollero poter disporre di immagini del Volto Santo per il proprio culto privato. A questo furono destinate le derivazioni in scala ridotta, uscite numerose nel corso del Duecento dalle officine di Limoges, specializzate nella produzione di oggetti sacri in bronzo dorato e smalti. Di diverso genere, ma sempre legate alla devozione personale, furono le insegne

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di pellegrinaggio con il Volto Santo, testimoniate già dal XII secolo e diffuse soprattutto tra Due e Trecento. Si configuravano come piccole medaglie metalliche ricavate in serie da matrici: presentavano il Volto Santo a bassorilievo, e i pellegrini che si recavano a Lucca le appuntavano sul cappello o sulla veste. È significativo che anche in questo caso i ritrovamenti piú cospicui, conservati oggi in vari musei, siano avvenuti in luoghi lontani, quali Svezia, Norvegia, Danimarca, Londra e Parigi.

Re della città

Quanto alla devozione di Lucca per il suo Volto Santo, di cui era destinataria e custode, si ampliò dall’ambito squisitamente religioso a quello politico, assumendolo a Rex della città, e, come tale, imprimendo il suo volto sulle monete che la Zecca lucchese cominciò a coniare dagli inizi del Duecento. E come si conviene a un re, il Volto Santo ebbe il capo cinto da una corona, non solo sulle monete, ma di agosto

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Nella pagina accanto Volto Santo, legno intagliato e dipinto. Seconda metà del XIII sec. Santa Croce nel Valdarno (Pisa), Collegiata di Santa Croce e S. Lorenzo. A destra Volto Santo, legno intagliato, dipinto e dorato. IX sec. Sansepolcro (Arezzo), pieve di S. Maria.

fatto, presentandosi sempre coronato nell’iconografia che lo ritrae, e che documenta nel tempo anche il mutare delle corone, fino ad arrivare a quella che ancora gli viene imposta nelle festività della Santa Croce, e che risale al 1655. Le di-

ca nemica Pisa. Può apparire tuttavia singolare che questa diffusione sembri avvenire in ritardo rispetto a quella manifestatasi in Europa, anche se ne fu forse motivo il fatto che l’originale si trovava in collocazione prossima e facilmente raggiungibi-

verse corone per il Volto Santo, e con esse altri apparati preziosi che lo rivestivano, nascevano come testimonianza sempre rinnovata della devozione del governo e della cittadinanza lucchese, dal cui comune contributo venivano offerti. A causa delle perdite subite nel tempo dagli arredi sacri della cattedrale, degli apparati medievali si è preservato solo lo splendido fregio di argento dorato, con figure della Vergine e Santi sotto edicole, che adorna la veste del crocifisso e che è fra i tesori del Museo della Cattedrale. Ne viene prelevato solo due volte all’anno, per figurare sul Volto Santo nelle due festività della Santa Croce, il 3 maggio e il 14 settembre. Sono piú di 630 anni che questo capolavoro del gotico fiorito svolge la sua funzione, dato che fu realizzato tra il 1382 e il 1384 a seguito di una donazione avviata da un esponente dell’élite cittadina, e proseguita dal Comune e da altri fedeli lucchesi. In quel tempo i crocifissi derivati dal modello lucchese comparivano e continuavano ad aumentare anche in aree piú prossime a Lucca, come la Garfagnana, Santa Croce sull’Arno, Pistoia, Pescia e perfino la stori-

le. Nella Firenze medievale, a piú riprese avversaria di Lucca, non sono note forme di devozione al Volto Santo, e anzi era di origine fiorentina il giureconsulto Boncompagno da Signa, che nel 1215 inseriva in un suo testo osservazioni denigratorie della miracolosità del simulacro lucchese. Nell’Inferno, Dante fa citare il Volto Santo da un diavolo, che, tormentando il lucchese Bonturo Dati, immerso nella pece bollente fra i barattieri, lo minaccia sarcastico: «Qui non ha loco il Santo Volto».

Da Lucca all’Europa

Il Trecento fu anche l’epoca di rinnovata internazionalità della devozione per il Volto Santo, grazie all’intraprendenza dei mercanti lucchesi, che attivi in vari centri europei già dal secolo precedente consolidarono la loro presenza in varie città d’Europa e la loro ricchezza, proveniente in buona parte dal commercio dei tessuti prodotti a Lucca. Là dove esisteva una comunità lucchese, veniva eretta una cappella in onore del Volto Santo, simbolo di fede e insieme di identità cittadina. Restano ricordi delle cappelle «della Santa Croce» che sorsero a Genova, Parigi, Londra, Bruges, per citare solo quelle meglio documentate, tutte oggi scomparse, e dove l’immagine del Volto Santo era immancabilmente presente.

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Pagina dal Codice Rapondi con miniatura raffigurante il miracolo del calzare d’argento, attribuito al Volto Santo di Lucca. 1400 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Queste cappelle sorgevano in genere all’interno di chiese presso le quali si concentravano le dimore dei Lucchesi: cosí fu per Bruges, dove operava un’importante Comunità dei Lucchesi, fondata nel 1369, che ebbe anche un proprio statuto e riconoscimento giuridico. Nella cappella della Santa Croce che la Comunità aveva istituito nella chiesa degli Agostiniani, in seguito distrutta, trovarono sepoltura Lucchesi illustri, come Giovanni dell’antico casato degli Antelminelli, morto nel 1382 combattendo per il duca di Borgogna, dei cui territori Bruges faceva all’epoca parte. A Parigi l’enclave lucchese dal 1343 aveva la propria cappella nella chiesa del Santo Sepolcro, anche questa scomparsa, dove nel 1379 è ricordato un «grand crucifix» di pietra coronato: l’immagine, appunto, del Volto Santo. A Parigi la famiglia lucchese piú eminente fu quella dei fratelli Dino e Iacopo Rapondi, fondatore, quest’ultimo, di un raffinato atélier per la stesura e miniatura di manoscritti destinati al re e ai notabili di Francia, e dal quale è uscita la Legende de Saint Voult, la cui miniatura iniziale, del 1400 circa, presenta i due Rapondi inginocchiati ai lati del Volto Santo.

La versione veneziana

In un solo caso è arrivato fino ai giorni nostri un reperto da una Cappella della Santa Croce: si tratta del busto del Volto Santo in legno policromo, che è quanto rimane della figura completa, già nella Cappella dei Lucchesi a Venezia, eretta nel 1360 nella chiesa dei Servi. Vi trovò presto collocazione il crocifisso ligneo ispirato al prototipo lucchese, che vi rimase fino alla soppressione napoleonica del 1806, quando venne fatto a pezzi. Un devoto lucchese all’epoca residente a Venezia riuscí a recuperarne il busto, oggi visibile nella Pinacoteca del Seminario Patriarcale della città. A Lucca il Volto Santo ha man-

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A sinistra particolare del Volto Santo di Lucca in cui si distinguono le pupille realizzate in vetro azzurro. Lucca, cattedrale di S. Martino. In basso busto del Volto Santo, dalla croce già nella Cappella dei Lucchesi a Venezia. XIV sec. Venezia, Pinacoteca Manfrediniana del Seminario Patriarcale.

tenuto nei secoli il suo significato di icona sacra e civica insieme, oggetto di continua venerazione anche quando il suo culto in Europa, dall’epoca della Riforma, è andato riducendosi. Nello spazio interno della cattedrale e nel mutare delle forme architettoniche il Volto Santo ha avuto nel tempo tre diversi sacrari, per accoglierlo e insieme isolarlo come la reliquia piú preziosa da mostrare ai fedeli: il tempietto attuale risale al 1484 ed è opera del maggior scultore lucchese del tempo, Matteo Civitali. E a quel tempietto nel corso dei secoli si sono recati l’imperatore Carlo V, la regina Cristina di Svezia, Violante di Baviera del Granducato di Toscana, la regina Margherita di Savoia, per ricordare solo alcuni dei personaggi illustri in pellegrinaggio a Lucca. Oltre alle molte opere figurative

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reliquie volto santo In questa pagina ornamenti che rivestono la statua del Volto Santo in occasione delle celebrazioni per la festa della Santa Croce. Dall’alto: corona in oro, pietre preziose e smalto, opera di Ambrogio Giannoni (1655); collare in oro e argento, opera di Ambrogio Giannoni (1657); fregio in argento dorato con figure della Vergine e Santi sotto edicole (1382-1384). Lucca, Museo della cattedrale.

a cui ha dato luogo, il Volto Santo è stato oggetto di una nutrita letteratura, che, almeno a Lucca, ha mantenuto, fino a tutto l’Ottocento, un carattere essenzialmente religioso, quasi che gli storici fossero riluttanti ad affrontare con criteri scientifici lo studio di un’opera carica di leggendaria sacralità.

Il dibattito sulle date

È stata la storia dell’arte, a partire da un secolo fa, a porsi il problema della reale datazione del Volto Santo, peraltro non facilmente individuabile, tanto da dar luogo a ipotesi diverse, divise nel collocarlo in un arco cronologico che oscilla dall’XI agli inizi del XIII secolo. Quest’ultima è l’opinione di chi ha voluto vedere nella figura di Cristo assonanze di stile con Benedetto Antelami, lo scultore padano attivo tra la fine del 1100 e gli inizi del secolo seguente, epoca peraltro che contraddice le testimonianze documentarie prima ricordate, che provano come nel 1050 il Volto Santo fosse già presente a Lucca. Alcuni hanno pertanto legato all’XI secolo la realizzazione e la comparsa in S. Martino del Volto Santo, mentre altri, fedeli all’idea che appartenga a un’epoca piú avanzata, hanno proposto che possa trattarsi della copia che avrebbe sostituito un piú antico Volto Santo, andato perduto per qualche ignota ragione. Nonostante dai documenti non emergano elementi che possano accreditarla, questa ipotesi, avanzata per la prima volta

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molti decenni fa, ha riscosso rinnovato favore in epoca piú recente, grazie alla scoperta della inaspettata antichità del Volto Santo del duomo di Sansepolcro. Si tratta di un grande crocifisso ligneo, prossimo nella tipologia al modello lucchese, a lungo ritenuto opera del Duecento, e di cui i documenti ricordano la presenza in territorio aretino solo a partire dal Trecento. Negli anni Novanta del

secolo scorso, la Soprintendenza di Arezzo, promuovendo il restauro del crocifisso, ha fatto analizzare alcuni campioni del legno costitutivo da un laboratorio di Hannover, che ha potuto datarli al IX secolo con il metodo del carbonio 14. L’antichità del Volto Santo aretino ha trovato conferma, nel corso del restauro, nei diversi strati di colore sovrapposti sulla scultura, dovuti alla sua lunga esistenza

e alla necessità di rinnovarne nel corso del tempo la policromia. Ecco quindi un Volto Santo esemplato sul perduto prototipo di Lucca e che ne attesta la supposta esistenza, è stata l’opinione dei piú. Ma ci si è spinti anche oltre, ingannati da un documento che si è rivelato essere un falso creato ad hoc, relativo alla vendita del Volto Santo che la cattedrale di Lucca nel 1179 avrebbe stipulato con i

La statua del Volto Santo rivestita degli ornamenti celebrativi: la reliquia viene «vestita» due volte l’anno: il 3 maggio (festa dell’invenzione della Santa Croce) e il 13 e 14 settembre (solennità dell’esaltazione).

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Nella pagina accanto l’interno della cattedrale lucchese di S. Martino.

frati del borgo di Sansepolcro, che all’epoca ancora non esisteva. Sgombrato il campo da false verità, restava il fatto che la comprovata antichità del Volto Santo di Sansepolcro si rifletteva sul suo omologo lucchese, intensificando gli interrogativi su quest’opera celeberrima eppure enigmatica. Le iniziative per celebrare i 950 anni dalla rifondazione della cattedrale di Lucca, che ricorrono in questo 2020, hanno portato a una rinnovata attenzione al Volto Santo, finalizzata alla migliore conoscenza e agli opportuni provvedimenti conservativi di un’opera, alla quale è finora mancato un vero e proprio intervento di restauro. Una prima campagna diagnostica era stata già avviata dalla locale Soprintendenza nel 2013, con indagini non invasive che hanno rivelato la presenza di policromia e dorature sotto la tardiva tinteggiatura scura che riveste uniformemente la figura, come pure la sostanziale integrità della scultura, dove solo parte del pollice e indice della mano sinistra appaiono sostituiti.

Le analisi scientifiche

Alla fine dello scorso anno, l’Istituto di Fisica Applicata del CNR di Firenze e la sede fiorentina dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare hanno risposto generosamente alla richiesta avanzata dall’Opera del duomo di Lucca attraverso il suo Presidente, il rettore don Mauro Lucchesi, per una serie di analisi promosse da chi scrive. La campagna diagnostica intende accertare qualità e stato delle diverse cromie, tuttora in corso di studio da parte di uno staff guidato da Salvatore Siano, nonché la datazione del Volto Santo. D’intesa con la Soprintendenza di Lucca, che sarà responsabile del futuro intervento conservativo, sono stati prelevati campioni sia delle pellicole pittoriche che del legno di noce costituti-

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vo della scultura e di un frammento della tela sovrapposta fino dall’origine al legno. Spesso, infatti, nella scultura in legno medievale, la stesura pittorica veniva preceduta dalla «incamottatura», un procedimento consistente nell’incollare alla superficie lignea scolpita una tela, sulla quale si applicava poi uno strato di gesso e colla di supporto al colore. I tre campioni del legno di noce e un quarto dalla tela sono stati analizzati da Mariaelena Fedi dall’Istituto di Fisica Nucleare con il metodo del carbonio 14, che per i materiali organici riesce a individuare una datazione che non può essere ad annum, ma che certifica comunque un arco cronologico non troppo ampio. Se per il legno poteva accadere che fra il taglio dell’albero e la sua lavorazione come scultura intercorresse un certo periodo di stagionatura, il taglio di una fibra vegetale destinata alla tessitura di norma non precedeva di molto la sua lavorazione. La tela è stata datata fra il 770 e 880 d.C. e i campioni di legno sono risultati compatibili, potendo essere tutti con buona probabilità datati a un periodo compreso fra gli ultimi decenni dell’VIII secolo e il IX secolo. Della scoperta è stata data notizia in una conferenza stampa presieduta dall’arcivescovo di Lucca monsignor Paolo Giulietti: si tratta di un risultato eclatante, che costringe a rivedere quanto finora ipotizzato. Sappiamo ora di essere di fronte al primo e unico Volto Santo, che da almeno 1200 anni si trova a Lucca, diffondendo dalla piccola città la sua fama e configurandosi come fondamentale trait d’union dell’Europa cristiana. Da questo primo simulacro potrebbero discendere la precoce derivazione di Sansepolcro e poi la serie numerosa dei crocifissi diffusi nella Penisola, e prima ancora in Europa, dopo il Mille. I risultati della diagnostica portano a rileggere con ottica diversa il già ricordato testo di Leobino, che è

certo espressione di una sacra leggenda, ma che pure contiene riferimenti cronologici a questo punto da non trascurare. Quale vescovo di Lucca vi è nominato Giovanni, che fu tale dal 781 all’800, e si puntualizza che l’arrivo a Lucca del Volto Santo avvenne quando regnavano Carlo Magno e il figlio Pipino, nel secondo anno di regno di quest’ultimo, che fu re d’Italia dal 781. Quindi la data desumibile dalla Leggenda sembra essere il 782.

Una devozione speciale

Gli studiosi degli archivi lucchesi avevano inoltre già messo in relazione la possibile presenza del Volto Santo a Lucca con l’esistenza della piccola chiesa «Domini et Salvatoris», nell’immediata prossimità della cattedrale di S. Martino. Ricordata per la prima volta nel 797, ma in quell’anno già ricca proprietaria di terre donate dai fedeli, la chiesa era presieduta da un canonico della cattedrale e fu oggetto di frequenti donazioni, che proseguirono numerose fino all’898, confermando una devozione speciale per la chiesa del Salvatore, che nel 930 era invece in abbandono. Può essere ipotesi attendibile che quella sia stata l’originaria collocazione del Volto Santo in Lucca, prima del suo trasferimento in cattedrale, tra il IX e il X secolo. Le novità ora emerse non chiudono certo una questione a lungo dibattuta, ma aprono anzi inedite e stimolanti prospettive di ricerca che coinvolgono piú quesiti, dall’ambito artistico di provenienza del Volto Santo, alle motivazioni politiche o religiose che ne determinarono la comparsa a Lucca. Al presente ci emoziona la rivelazione che si tratta della scultura lignea piú antica dell’Occidente, arrivata sorprendentemente intatta fino a noi, e davanti alla quale per secoli e secoli generazioni di fedeli hanno pregato, riecheggiando le parole del Salmo: «Il mio volto ti ha cercato: Signore, cercherò il tuo volto».

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storia spagna/3 1492-1516

Nascita di un impero di Tommaso Indelli

D

All’indomani della presa di Granada, Ferdinando e Isabella consolidano il proprio potere ed estendono i domini del loro regno. Sono anni segnati da grandi imprese, come la scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo, ma anche da eventi tragici, come l’espulsione degli Ebrei dalla Spagna. Cosí i Re Cattolici fanno vivere alla Spagna una stagione di luci e ombre, ma, soprattutto, pongono le premesse per la creazione di un impero sterminato, sul quale «non tramontava mai il sole»

Sulle due pagine Ferdinando d’Aragona e Isabella la Cattolica, sculture in legno policromo di Felipe Vigarny. 1521. Granada, Cattedrale, Cappella Reale.

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MEDIOEVO


I I

l 2 gennaio del 1492, caduta Granada, capitale dell’ultimo emirato musulmano in territorio iberico (vedi «Medioevo» n. 282, luglio 2020; anche on line su issuu.com), Ferdinando II, re d’Aragona, e Isabella I, regina di Castiglia e León, poterono dedicarsi alla migliore centralizzazione amministrativa dei propri regni, al fine di unificare, realmente, la Spagna. Come primo atto, la Corona si attribuí il pieno controllo dei potenti e ricchissimi ordini religioso-militari di Calatrava, Alcántara e Santiago – distintisi nella Reconquista – e, mentre Ferdinando assunse il titolo di Gran Maestro, il demanio regio ne incamerò l’ingente patrimonio. Con l’istituzione della Santa Hermandad, una lega politico-militare facente capo ai sovrani, venne rafforzato il controllo su città e villaggi, tenuti a pagare alla Corona un tributo, i cui proventi finanziavano la formazione di reggimenti di fanteria e cavalleria in servizio permanente. Nell’agosto del 1492, ascese al trono di Pietro un nuovo papa, Alessandro VI († 1503) – al secolo Rodrigo Borgia – un cardinale originario di Játiva, vicino Valenza, città di cui fu a lungo arcivescovo, e suddito di Ferdinando e Isabella. Il pontefice attribuí ai reali di Aragona e Castiglia il titolo di Reyes Católicos, come riconoscimento per il contributo dato alla causa della Reconquista, e, in cambio, Ferdinando e Isabella vennero incontro alle richieste di Alessandro, che mirava a stringere legami piú forti tra la famiglia Borgia e la Corona.

Un ducato come dote

Nel 1493, Ferdinando e Isabella diedero in sposa al secondogenito del papa, Giovanni Borgia († 1497) – gonfaloniere e capitano generale pontificio – Maria Enríquez de Luna († 1539) – cugina di Ferdinando –, che portò in dote allo sposo anche il ducato di Gandía. L’accondiscendenza dei reali verso il papa dipendeva anche dalla necessità di ottenere una bolla che attribuisse loro la sovranità esclusiva sulle terre e le popolazioni d’oltre Atlantico, scoperte qualche tempo prima da Cristoforo Colombo (vedi box alle pp. 5255). Su quei territori, infatti, accampava diritti anche il Portogallo, in base al trattato di Alcáçovas – stipulato nel 1479 con la Castiglia – secondo il quale al dominio portoghese spettavano tutte le terre situate lungo la costa africana, a sud di capo Bojador, e le isole Azzorre e Madera, a esclusione delle Canarie, attribuite alla Castiglia. Alla fine, il 4 maggio del 1493, Alessandro VI emanò la bolla Inter Caetera, con cui si attribuiva alla Castiglia la sovranità su tutte le terre scoperte, o da scoprire, collocate a ovest di una linea

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storia spagna/3 FRANCIA

E ALCUNE DELLE VICENDE ALLE QUALI LE DIVERSE COMUNITÀ ANDARONO INCONTRO DALL’EDITTO DI ESPULSIONE IN POI

Santiago ño o Longroño

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1498 149 98

LA PRESENZA EBRAICA IN SPAGNA

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Saragozza

Valladolid

Città nelle quali i marrani dovettero affrontare l'Inquisizione e dovettero scegliere tra la rinuncia alla propria fede e la condanna al rogo

Lisbona Llerena

A N D A L U S I A

Murcia

Cordova Jaen Siviglia

Ecija

Città nelle quali i marrrani, a partire dagli anni Trenta del Novecento, praticarono apertamente la propria fede, all'indomani dell'emancipazione degli Ebrei portoghesi nel 1910 Città con comunità ebraiche intorno al 1490

Granada 14

92

Massacri di comunità ebraiche, 1391-97 Espulsione degli Ebrei, 1492-98

Gibilterra

LE DATE DELLA VERGOGNA 1228, Navarra Gli Ebrei sono costretti a indossare un segno distintivo. 1373, 1449 e 1482, Lisbona Esplodono rivolte anti-ebraiche. 1355, Toledo 12 000 Ebrei vengono massacrati dalla folla. 1391, Maiorca Massacro di 50 000 Ebrei. Nelle isole Baleari i «nuovi cristiani» sono definiti con il nome di «Chuetas». 1420, Valladolid Nasce l’inquisitore Tomás de Torquemada. 1454, Valladolid Il francescano

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Alonso de Espina accusa gli Ebrei della città di avere rapito e ucciso un fanciullo cristiano a fini rituali. 1492-1600 Alcuni marrani trovano rifugio a Bordeaux e Bayonne. 1506, Lisbona Massacro dei «nuovi cristiani». 1704, Gibilterra A partire da questa data gli Inglesi forniscono ai marrani una via di fuga dalla Spagna. Una parte si dirige verso la Gran Bretagna, altri in Olanda e Italia. 1755, Lisbona Ultima sentenza di condanna al rogo di un Ebreo.

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A sinistra Tarragona, cattedrale. Deposizione dalla Croce. XIV sec. L’affresco mostra una coppia di Ebrei che osserva la scena: indossano gli abiti in uso al tempo del dipinto, compresa la «rotella», il cerchio di stoffa gialla introdotto come simbolo distintivo dal IV Concilio Lateranense, nel 1215.

Nella pagina accanto e qui sopra particolari della pala di Santo Stefano, opera del catalano Jaime Serra, raffigurante Ebrei in una sinagoga. XIV sec. Barcellona, Museo Nazionale d’Arte della Catalogna. Nella pittura catalana, proprio presso la bottega dei Serra, cominciano a manifestarsi alcuni artifici convenzionali escogitati per mettere in risalto la perfidia ebraica; tra questi, l’espressione dei volti, che diventa maligna, per indicarne la natura diabolica.

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immaginaria – raya – tracciata a 100 leghe dalle Azzorre. Un simile accordo non poteva certo soddisfare il re del Portogallo, Giovanni II d’Aviz (1481-1495), che minacciò di prendere le armi: Ferdinando e Isabella si risolsero allora a sottoscrivere, il 7 giugno del 1494, il trattato di Tordesillas, che spostò la raya 370 leghe a ovest delle isole di Capo Verde e stabilí che alla Castiglia sarebbero andate tutte le terre ubicate a ovest, e al Portogallo quelle a est, comprese l’Africa e il Brasile. Quest’ultimo fu scoperto solo nel 1500, quando il navigatore portoghese Pedro Álvares Cabral († 1526) – che navigava lungo l’Africa verso le Indie – venne mandato fuori rotta dai venti e approdò sulle coste americane. Con il consenso del papa, Ferdinando e Isabella iniziarono a inserirsi sempre di piú negli affari della Chiesa spagnola, sia attraverso lo strumento dell’Inquisizione – guidata dal domenicano Tomás de Torquemada († 1498) – sia attraverso la nomina dei candidati ai piú importanti benefici ecclesiastici. In quel frangente fu per loro di grande aiuto il francescano Francisco Jiménez de Cisneros († 1517), confessore di Isabella e ardente sostenitore della riforma morale del clero. De Cisneros venne ricompensato dai reali per i suoi servigi e ottenne la nomina di arcivescovo di Toledo, nel 1495, e di cardinale, nel 1507. Nel 1492 e nel 1502, Alessandro VI approvò i decreti con cui i reali spagnoli decisero l’espulsione dai loro regni dei Giudei e dei musulmani che avessero rifiutato il battesimo cristiano. Stabilizzato il «fronte interno», Ferdinando e Isabella si concentrarono sulla politica estera e intrapresero una serie di iniziative che, ben presto, trasformarono la nascente Spagna in una vera potenza imperia-

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storia spagna/3 le. Nel 1493, i reali siglarono il trattato di Barcellona con la Francia, il cui re, Carlo VIII (1483-1498), intendeva scendere in Italia e rivendicare il trono di Napoli, in nome dei suoi ascendenti angioini. Per realizzare l’impresa ed evitare una guerra su due fronti, Carlo cedette a Ferdinando le contee del Rossiglione e della Cerdagna, vecchi possessi dell’Aragona collocati lungo il versante francese dei Pirenei, ceduti alla Francia nel 1258, con il trattato di Corbeil, e Ferdinando si impegnò a non intervenire in sostegno del nipote Alfonso II (1494-1495), re aragonese di Napoli. È opportuno a tal proposito ricordare che Ferdinando il Cattolico era legato da rapporti di parentela con gli Aragonesi di Napoli, perché suo padre, Giovanni II d’Aragona (1458-1479), era il fratello di Alfonso V il Magnanimo (1416-1458), re d’Aragona, principe di Catalogna e primo sovrano napoletano di stirpe aragonese. Inoltre, per consolidare i legami dinastici tra i due rami della medesima famiglia, Ferdinando il Cattolico aveva dato in sposa la sorella, Giovanna di Trastámara († 1517), al figlio del Magnanimo, il re di Napoli Ferdinando I (1458-1494), che era anche suo cugino.

Carlo VIII scende in Italia

Nel 1494, con un esercito di circa 30 000 uomini, Carlo VIII scese in Italia e, nel febbraio del 1495, occupò Napoli, mentre Alfonso II abdicava in favore del figlio, Ferdinando II (1495-1496) e i reali di Aragona e Castiglia si astenevano dall’intervenire. La situazione mutò nella primavera del 1495, quando Ferdinando e Isabella aderirono alla Lega Santa che, con la benedizione del papa, si costituí tra gli Stati italiani contro i Francesi, coinvolgendo anche l’impero germanico. Nel 1495, Carlo VIII abbandonò Napoli e rientrò in Francia, mentre a Napoli si reinsediavano gli Aragonesi, grazie al supporto delle milizie spagnole inviate da Ferdinando e Isabella, al comando del castigliano Gonzalo Fernández de Córdoba († 1515) – El Gran Capitán – già distintosi nella presa di Granada. Compresa la pericolosità della Francia per il mantenimento dell’equilibrio europeo e per gli interessi spagnoli, Ferdinando e Isabella decisero di «accerchiare» il nemico e, tra il 1496 e il 1497, attuarono un’accorta politica matrimoniale che coinvolse tutti i loro figli. In tal modo, i reali di Aragona e Castiglia si imparentarono con tutte le dinastie europee, in un complesso intreccio di rapporti dinastici, finalizzati ad arginare l’aggressività della Francia. L’infante Giovanni († 1497), erede al trono, sposò Margherita d’Asburgo († 1530), figlia dell’imperatore tedesco, Massimiliano I (1493-1519) e di Maria di Borgogna († 1482), mentre la sorella, Giovanna († 1555), andò in sposa al fratello di Margherita, l’arciduca Filippo il Bello d’Asburgo († 1506), governatore delle Fiandre. In quello stesso periodo, Ferdinando e Isabella diedero in sposa la figlia Isabella al re del Por-

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Cristoforo Colombo

Alla ricerca delle Indie Cristoforo Colombo nacque a Genova, nel 1451, da Domenico Colombo e Susanna Fontanarossa, gestori di una bottega tessile. Nel 1475, dopo una breve permanenza a Savona, si trasferí in Portogallo, dove, nel 1479, sposò Felipa Moñiz Perestrello, che gli diede il figlio Diego. Il padre di Felipa era il piacentino Bartolomeo Perestrello († 1457), governatore, per conto della Corona portoghese, dell’isola di Porto Santo, nelle Azzorre. Quando il re del Portogallo rifiutò di finanziare il suo progetto di navigazione verso le Indie, seguendo la rotta atlantica, Colombo decise di trasferirsi in Castiglia. Rimasto nel frattempo vedovo, si stabilí presso il monastero di S. Maria de la Rábida, vicino Huelva, dove si legò alla castigliana Beatriz Enríquez de Arana, da cui ebbe un figlio illegittimo, Fernando. Grazie all’intercessione del duca di Medina-Sidonia, del duca di Medinaceli e di Alessandro Geraldini († 1524), precettore dei reali infanti, Colombo ottenne un colloquio con i reali di Aragona e Castiglia e li convinse a finanziare il suo viaggio attraverso l’Atlantico. Il 17 aprile 1492, a Santa Fe, Ferdinando e Isabella

firmarono con Colombo un accordo – le Capitolazioni di Santa Fe –, con il quale concedevano i fondi necessari per armare tre caravelle con cui «buscar el Levante por el Poniente», cioè raggiungere le Indie attraversando l’Atlantico, senza circumnavigare l’Africa, seguendo la rotta sperimentata dai Portoghesi. agosto

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In base ai suoi studi geografici e astronomici, Colombo era sicuro non solo della sfericità della Terra, ma, secondo calcoli errati, riteneva la circonferenza della stessa molto piú corta di quanto non fosse, e quindi considerava possibile raggiungere il Cipango – attuale Giappone – e, da lí, le Indie, percorrendo solo

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5000 km, anziché 20 000. In base alle Capitolazioni, i reali gli riconobbero anche i titoli di grande ammiraglio dell’Oceano, viceré delle Indie e la decima parte dei proventi derivanti dallo sfruttamento delle terre eventualmente scoperte. Il 2 agosto del 1492, Cristoforo Colombo partí da Palos de la Frontera, al comando di una spedizione

di circa 90 uomini, a bordo delle navi Niña, Pinta e dell’ammiraglia Santa Maria. Dopo una sosta di circa un mese nelle Canarie, a causa dell’avaria della Pinta, riprese il viaggio e, il 12 ottobre, raggiunse le Bahamas, sbarcando sull’isola di Watling, da lui ribattezzata San Salvador. Qui l’equipaggio si imbatté nei Taíno – gli aborigeni

Cristoforo Colombo al cospetto dei Re Cattolici, olio su tela di Juan Cordero. 1851. Città del Messico, Museo Nacional de Arte.

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storia spagna/3 Ritratto di Cristoforo Colombo, olio su tela attribuito a Ridolfo Bigordi, detto del Ghirlandaio. 1520. Genova, Galata Museo del Mare.

– e pensò di essere effettivamente sbarcato nelle Indie o, addirittura, in Giappone, ignorando che le terre scoperte costituivano un continente fino ad allora sconosciuto. Ulteriori esplorazioni condussero il navigatore genovese a Cuba, a Portorico e a Hispaniola – attuale Haiti – dove fondò l’insediamento di Villa de La Navidad. Nel marzo del 1493, dopo essere approdato a Lisbona, Colombo fece ritorno in Castiglia, portando con sé, alcuni indigeni, oro e prodotti esotici, come prova dell’esistenza delle nuove terre. In quello stesso anno organizzò un nuovo viaggio, con un equipaggio di oltre 1000 uomini, imbarcati su 17 navi. Nel corso della seconda permanenza nelle Americhe – che si protrasse fino al 1496 – Colombo fondò ad Haiti l’insediamento di «Isabella» e, poco tempo dopo, Santo Domingo, dove stabilí la sede del viceré e dove si insediarono i fratelli, Bartolomeo († 1514) e Diego († 1515), dopo la

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sua partenza per la Spagna. Solo nel corso del terzo viaggio – svoltosi tra il 1498 e il 1500 – Colombo sbarcò sulla terraferma americana, esplorando le foci del fiume Orinoco, le coste dell’Honduras,

inviare a Santo Domingo, con il compito di arrestarlo, il nuovo governatore Francisco de Bobadilla († 1502). Tuttavia, tornato in patria, il genovese persuase la regina Isabella a liberarlo e ad affidargli la

del Costa Rica e dell’Ecuador. Le ribellioni degli indigeni e la ferocia dei conquistatori – compresi i fratelli dell’esploratore – indussero Ferdinando e Isabella a revocare a Colombo l’incarico di viceré e a

direzione di un nuovo viaggio, che si svolse tra il 1502 e il 1504. Fatto naufragio in Giamaica, Colombo fu rimandato in Castiglia dal viceré Nicolás de Ovando († 1518), ma, morta Isabella e ormai privo di protettori,

decise di rinunciare a ogni incarico e si ritirò a vita privata, dedicandosi alla stesura di un Libro di memorie e alla sistemazione dei suoi Diari di viaggio. Morí a Valladolid, nel 1506. Nel frattempo, le terre d’oltremare erano passate sotto l’amministrazione diretta della Corona spagnola, che si preoccupò di creare una burocrazia adeguata a gestire le nuove scoperte. Nel 1503, a Siviglia, fu istituita la Casa de Contratación, organo che aveva il monopolio del commercio con le Americhe e il compito di rilasciare ai privati le licenze necessarie, dietro corresponsione di un tributo del 20% – quinto real – esercitando la giurisdizione in tali materie. Nel 1512, con le ordinanze di Burgos, Ferdinando II proibí la riduzione in schiavitú degli indigeni e ufficializzò la pratica dell’encomienda, cioè dell’assegnazione di «feudi» ereditari agli encomenderos, militari, coloni o nobili spagnoli che avessero deciso di trasferirsi nel Nuovo Mondo, assumendosi l’onere di colonizzare ed evangelizzare le popolazioni. Nel 1507, era ormai chiaro che le nuove terre scoperte da Colombo non erano le Indie, e il geografo tedesco Martin Waldseemüller († 1521 circa) le battezzò «Americhe», in onore dell’esploratore fiorentino Amerigo Vespucci agosto

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(† 1512). Col tempo, la nuova denominazione sostituí quella di «Indie occidentali» con cui, in origine, il continente americano era stato designato. Dopo la morte di Colombo, i figli, Diego († 1526) e Fernando († 1539), seguirono strade differenti. Fernando coltivò interessi eruditi, collezionò manoscritti e scrisse anche una biografia del genitore, Diego, invece, continuò a navigare verso le Americhe e fece causa alla Corona spagnola per ottenere il rispetto degli obblighi contratti con le Capitolazioni di Santa Fe. Dopo la morte dell’esploratore, Ferdinando II le aveva infatti revocate, considerandole pregiudizievoli per gli interessi finanziari della monarchia. Diego agí in giudizio, sostenendo che, in quanto erede universale di Colombo, i diritti e i privilegi previsti dalle Capitolazioni gli erano dovuti. Nel 1508, dopo aver sposato Maria de Toledo († 1549) – nipote di Ferdinando II – Diego si trasferí a Santo Domingo come nuovo governatore delle Indie, benché investito di un’autorità limitata alle isole e non estesa alla terraferma e ai territori ancora da scoprire. La Corona spagnola continuò a creargli difficoltà, cosí Diego proseguí l’azione

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Il manoscritto delle cosiddette Capitolazioni di Santa Fe, l’accordo firmato nell’aprile del 1492, con cui la Corona di Spagna finanziava la spedizione oceanica di Cristoforo Colombo e conferiva a lui titoli onorifici e diritti sulle eventuali terre scoperte. Barcellona, Archivio Generale della Corona di Aragona.

legale che andò avanti anche dopo la sua morte. Nel 1536, si arrivò finalmente a un compromesso tra la Corona e il primogenito di Diego – Luis Colombo († 1572) – al quale furono riconosciuti i titoli di ammiraglio delle Indie, duca di Veragua, marchese di Giamaica e una rendita annua di 10 000 ducati.

togallo Emanuele I d’Aviz (1495-1521) e, alla sua morte, nel 1498, il suo posto fu preso dalla sorella, Maria († 1517). L’ultima infanta, Caterina († 1536), sposò nel 1501 Arturo Tudor, principe del Galles ed erede al trono inglese e, dopo la morte del principe, nel 1502, il fratello, Enrico VIII (1509-1547). Ben presto, la Francia tornò a essere pericolosa per l’equilibrio europeo. Nel 1498, morto Carlo VIII, salí al trono il cugino, Luigi XII d’Orléans, che, nel 1499-1500, dopo essersi alleato con Venezia, occupò il ducato di Milano – retto dagli Sforza – sul quale accampava pretese in virtú della sua discendenza dai Visconti, un tempo

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storia spagna/3 signori di Milano. Non pago delle nuove conquiste, Luigi pretese anche il regno di Napoli, in virtú della discendenza angioina. A Napoli, dopo la morte del giovane Ferdinando II, sedeva sul trono lo zio paterno, Federico I (1496-1501). Nel novembre del 1500, Luigi XII sottoscrisse con Ferdinando e Isabella il trattato di Granada, in base al quale i sovrani si spartivano il Mezzogiorno continentale. A Ferdinando e Isabella andarono Puglia e Calabria, alla Francia il resto del regno. Nella primavera del 1501,

il regno di Napoli crollò, stretto nella morsa dei due alleati, i quali entrarono, però, subito in conflitto per la spartizione del Paese. Nel 1503, guidato da Gonzalo de Córdoba, l’esercito spagnolo ebbe ragione dei Francesi nelle battaglie di Cerignola e del Garigliano e, nel gennaio del 1504, caduta Gaeta, occupò tutto il Mezzogiorno che, privo ormai di una dinastia autonoma, fu affidato al governo di un viceré (vedi box a p. 58). Nel 1504, l’armistizio di Lione sancí la pace tra Francia e Spagna, alla quale fece seguito l’anno dopo,

Scena di battaglia (noto anche come Carlo VIII che riceve la corona di Napoli), olio su tela di Francesco Bassano (al secolo, Francesco Dal Ponte il Giovane), 1585-1590. Lione, Musée des Beaux-arts.

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a Blois, il matrimonio di Ferdinando II d’Aragona con la nipote di Luigi XII, Germana di Foix († 1538). Il re d’Aragona, infatti, era vedovo di Isabella, morta a Medina del Campo, il 26 novembre del 1504. La morte di Isabella aprí una grave crisi dinastica in Castiglia, perché la sovrana aveva designato come erede la figlia Giovanna, che si affrettò a raggiungere la penisola iberica dalle Fiandre, dove risiedeva col marito Filippo d’Asburgo. Intenzionato ad assicurarsi la Castiglia, Ferdinando agí tempestivamente e, morto improv-

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visamente il genero Filippo, nel 1506 fece dichiarare Giovanna «inferma di mente» dalle cortes castigliane, e cosí la estromise dal trono, assumendo provvisoriamente la reggenza nell’interesse del nipote, Carlo d’Asburgo († 1558). Giovanna – probabilmente affetta da manie depressive – venne confinata da Ferdinando nel castello di Tordesillas, dove morí nel 1555. Nel 1508, desideroso di nuove conquiste, Ferdinando intervenne nuovamente in Italia al fianco del nuovo papa, Giulio II della Rovere (1503-1513),

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storia spagna/3 la disfida di barletta

Nascita di un mito «patriottico» Il noto adagio «Franza o Spagna purché se magna...» nacque nel XVI secolo, durante le guerre tra Francesi e Spagnoli per il dominio della Penisola. Eppure, proprio in quel periodo cosí funesto per la storia d’Italia, si verificò un episodio che negli anni del Risorgimento, sebbene insignificante dal punto di vista militare, assurse a emblema della «riscossa nazionale». Durante la guerra per il dominio sul regno di Napoli, mentre Barletta era assediata dai Francesi, alcuni cavalieri dell’esercito di Luigi XII furono fatti prigionieri e uno di loro, Charles de Torgues, signore de La Motte, accusò di codardia un gruppo di soldati italiani che combatteva al servizio degli Spagnoli. Ne nacque un diverbio che rischiò di degenerare in rissa, finché non si decise di comporlo secondo il costume cavalleresco, ricorrendo a un vero e proprio combattimento tra cavalieri francesi e italiani. La scelta degli Italiani fu affidata dal capitano Gonzalo de Córdoba – comandante in capo spagnolo – ai condottieri Fabrizio († 1520) e Prospero Colonna († 1523) – che militavano al suo servizio – mentre la scelta dei Francesi spettò al signore de La Motte. Il 13 febbraio del 1503, in una località tra Andria e Corato, 13 cavalieri francesi affrontarono altrettanti italiani, guidati dal capitano Ettore Fieramosca. Tutti i Francesi vennero feriti o fatti prigionieri e, dopo le cure dovute, furono rilasciati e poterono ricongiungersi all’esercito di re Luigi. Tra gli Italiani c’erano personaggi che, negli anni a venire, divennero vere e proprie icone nazionali, come Fanfulla da Lodi, Riccio da Parma e Giovanni Brancaleone da Genazzano, ma, per ovvie ragioni, fu il loro capitano, Ettore Fieramosca, a godere di fama imperitura. Fieramosca – o Ferramosca – proveniva da una famiglia della nobiltà di Capua, da sempre dedita al mestiere delle armi. Assieme al padre Rinaldo e ai fratelli Cesare e Guido militò al servizio degli Aragonesi di Napoli e, dopo la loro sconfitta, al servizio di Ferdinando e Isabella. Dopo la disfida di Barletta, Fieramosca ottenne dai reali di Aragona e Castiglia titoli e alcuni feudi come la contea di Miglionico e la baronia di Acquara. Trasferitosi in Castiglia, morí a Valladolid, nel 1515. Durante il Risorgimento e nei primi anni dell’Unità, Fieramosca divenne un autentico «mito» per intere generazioni allevate nel culto della patria, assurgendo a simbolo del valore italiano contro la dominazione straniera. Nel 1833, lo scrittore e politico Massimo d’Azeglio († 1866) pubblicò un romanzo storico a lui dedicato e nel 1896, il condottiero capuano

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Barletta. Particolare del Tempietto della Disfida, realizzato su progetto di Arturo Boccassini. 1930. Sul monumento fu trasferita la targa con i nomi dei cavalieri italiani che parteciparono alla contesa, già collocata sulla chiesa del Santo Sepolcro e realizzata nel 1903, nel quarto centenario dell’evento.

approdò in teatro con il melodramma Ettore Fieramosca, composto da Vincenzo Ferroni († 1934). Nel 1938, il regista Alessandro Blasetti († 1987) diresse un film sulle sue gesta, interpretato da Gino Cervi († 1974). Tuttavia, l’esaltazione nazionalista di Fieramosca cozzava contro la realtà storica del XVI secolo, quando una «nazione» italiana, in forma compiuta, ancora non esisteva e una coscienza patriottica, per quanto diffusa, era patrimonio di élite acculturate. Inoltre, i cantori nazionalisti di Fieramosca non tennero in considerazione il fatto inoppugnabile che, benché italiano, il condottiero combatteva al servizio degli Spagnoli, cioè di conquistatori stranieri! agosto

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Da leggere Ernesto Belenguer, Ferdinando e Isabella. I Re Cattolici nella politica europea del Rinascimento, Salerno Editrice, Roma 1999 Corina Bucher, Cristoforo Colombo, corsaro e crociato, Salerno Editrice, Roma 2007 Felicita De Negri, Ettore Fieramosca, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 47, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1997 John H. Elliott, La Spagna imperiale, 1469-1716, il Mulino, Bologna 2006 La disfida di Barletta, particolare di uno stendardo dipinto, olio su tela di Nicola Sanesi. 1862 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi, Guardaroba di Palazzo Pitti.

che aveva promosso la formazione della Lega di Cambrai, un’alleanza militare che riuniva anche la Francia e l’impero contro Venezia. La Serenissima, infatti, si rifiutava di cedere al papa alcuni territori nella Romagna e fu battuta ad Agnadello, nel 1509, e costretta a rinunciare alle terre contese. La Spagna, tuttavia, non ebbe ulteriori annessioni. Nel 1510-1511, Ferdinando condusse alcune spedizioni nel Maghreb contro i pirati barbareschi, che gli consentirono di occupare Orano, Bugia, Tripoli e di ottenere la sottomissione degli emiri locali. Nel 1511, infine, il Cattolico intervenne nuovamente in Italia, al fianco di Giulio II, dell’impero e anche di Venezia, che avevano costituito la Lega Santa contro i Francesi, con l’obiettivo di cacciarli dalla Lombardia. Vittoriosi a Ravenna, nel 1512, ma battuti a Novara l’anno successivo, i Francesi abbandonarono il ducato di Milano, dove furono insediati di nuovo gli Sforza.

Le ultime campagne

Nel 1512, in Spagna, Ferdinando occupò l’alta Navarra – regno ubicato a ridosso dei Pirenei – e la incorporò nei suoi domini, estromettendo la dinastia dei d’Albret. Il pretesto per l’invasione fu il trattato siglato tra Giovanni II d’Albret (1484-1516) e Luigi XII, in base al

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quale la Navarra, in caso di conflitto della Spagna con la Francia, doveva impedire il passaggio di eserciti sul suo territorio. Benché detronizzato, Giovanni II conservò la corona della bassa Navarra, al di là dei Pirenei, regno a sua volta annesso alla Francia nel 1572. Alla morte di Luigi XII, nel 1515, il nuovo re di Francia, Francesco I di ValoisAngoulême (1515-1547), si affrettò a rioccupare Milano. Nella battaglia di Marignano – attuale Melegnano – combattuta il 13-14 settembre 1515, i Francesi sconfissero le milizie svizzere del duca Massimiliano Ercole Sforza († 1530) e il ducato tornò in possesso della Francia. Impossibilitato a intervenire, Ferdinando riconobbe il fatto compiuto, ma gli restava poco da vivere. Si spense il 23 gennaio del 1516 a Madrigalejo e venne sepolto accanto a Isabella, nella cappella reale adiacente il duomo di Granada. Il 13 agosto del 1516, a Noyon, fu siglata la pace tra Francesco I e Carlo I d’Asburgo, il nuovo re di Castiglia, León, Aragona, Navarra e nipote di Ferdinando e Isabella. Nel 1519, alla morte del nonno paterno, Massimiliano I, Carlo ottenne anche la corona dell’impero germanico e divenne l’imperatore Carlo V, concentrando cosí nelle sue mani un potere enorme, che spaziava dalla Spagna alla Germania, includendo il vicereame di Napoli, la Sicilia, la Sardegna e, oltre l’Atlantico, i nuovi possedimenti americani. Si trattava di un regno sterminato, sul quale – come fu detto dai contemporanei – «non tramontava mai il sole». (3 – fine)

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Una suggestiva veduta di Sorano, cittadina della Maremma interna, oggi in provincia di Grosseto, a ridosso del confine fra Toscana e Lazio.

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Lo «zolfanello d’Italia» di Carlo Casi e Luciano Frazzoni

La definizione, coniata nientemeno che da Cosimo I de’ Medici, ben si addice alla storia di Sorano, borgo arroccato su uno sperone roccioso lungo la frontiera sud-orientale della Maremma grossetana. Aspramente conteso, tra Medioevo e Rinascimento, dalle potenti famiglie dell’epoca, le avventurose vicende di cui fu protagonista sono ancora oggi mirabilmente testimoniate grazie alla presenza di due imponenti architetture militari. Un invito alla visita di un luogo che – come scriveva alla metà dell’Ottocento il viaggiatore inglese George Dennis – «difficilmente può trovare rivali in Italia» 60

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l centro dei tortuosi valloni incisi dalle acque che vi scorrono all’interno, Sorano – cittadina in provincia di Grosseto – appare incastonata tra due speroni rocciosi, quello imponente sul quale si erge maestosa la Fortezza Orsini e quello piú fragile del terrazzato Masso Leopoldino. Del borgo possediamo la descrizione del Sansovino (Jacopo Tatti, 1486-1570), scultore che si trovò ad assistere alla battaglia combattuta per la sua conquista da Aldobrandino Orsini contro Senesi e Veneziani: «È posto Sorano in luogo piano ed aperto e dalla parte di occidente ha una bellissima veduta, e quasi per un miglio discende per un colle molto ripido all’ingiú; all’incontro del luogo sorge un monte ripido

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parimenti difficile a salirsi, con alcune lunghe vie scavate nel sasso (...) Sotto le radici del monte corre un torrente rapidissimo chiamato Lente, in questo luogo cosí erto e pittoresco si distende dal basso alla cima Sorano ma di modo perché nel mezzo del monte esce in fori un sasso grande che divide la terra in due parti e sul quale è fabbricata una cappella [l’artista di riferisce evidentemente al Masso Leopoldino, non ancora fortificato, e alla chiesetta di S. Caterina, crollata nel 1801]. La rocca posta in piano e sul piú alto loco della città, chiude tutta la terra attorno al suo circuito. Le mura grosse vanno poi dalla rocca al torrente predetto e le fosse vi sono profonde e scavate nel sasso». Questa descrizione risulta di grande interesse, perché offre

un’immagine di come il paese doveva presentarsi prima degli interventi urbanistici operati dagli Orsini, dai Medici e, successivamente, dai granduchi di Toscana, che ne hanno notevolmente modificato l’aspetto: da centro tipicamente medievale, con la rocca e la cinta muraria, a cittadina di aspetto rinascimentale. Altrettanto preziosa è la testimonianza lasciata dal diplomatico ed esploratore inglese George Dennis (1814-1898) in Città e necropoli d’Etruria, scritto durante il suo viaggio in Maremma nel 1843 e pubblicato a Londra nel 1848. Dopo aver visitato Pitigliano, Dennis si reca a Sorano, e nota che non vi si trova una locanda per alloggiare (segue a p. 65)

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Sorano e i suoi tesori M

IL CENTRO STORICO A. Palazzo del Comune B. Acquedotto e Fontane C. Arco del Ferrini D. Chiesa di S. Niccolò E. Palazzetto comitale degli Orsini F. Galleria (Via Cava) G. Mulino sul fiume Lente H. Masso Leopoldino I. Ghetto Ebraico L. Porta dei Merli M. Cortilone N. Sinagoga O. Chiesina del borgo

Qui sotto il fossato difensivo creato a protezione della Fortezza Orsini. G

O F

LA FORTEZZA ORSINI P. Bastione di Levante, o di S. Marco Q. Piazza d’arme R. Fossato difensivo S. Museo comunale T. Palazzo comitale degli Orsini U. Cortili e loggia V. Ingresso ai sotterranei (le mine) Z. Mastio – Ingresso principale W. Bastione di ponente, o di S. Pietro

EMILIA-ROMAGNA

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Carrara Massa Viareggio

Pistoia Lucca

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Pisa

Prato FIRENZE

LIGURE

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La collegiata di S. Nicola. N

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(«e chi mai può visitare una località cosí nascosta?»), ma ha comunque modo di apprezzare i piatti tipici locali, cucinati per lui dalla signora Farfanti, detta «la Livornese», presso la cui casa trova ristoro.

Un paese di pietra

Tralasciando l’identificazione di Sorano con l’antico centro di Sudertum, lo studioso inglese afferma che «l’attrattiva di Sorano (…) poggia quasi esclusivamente sulla bellezza del paesaggio», avendo «poco o nulla da mostrare

di antichità». La sua descrizione è la seguente: «Sorano si trova su una lingua di terra al bordo estremo della pianura etrusca. Attraversate le profonde gole all’intorno, e vi trovate di colpo tra i monti. Da questo versante avrete una formazione vulcanica, sull’altro un deposito alluvionale. L’altitudine difende Sorano dall’atmosfera pestifera che ha spopolato la vicina Sovana [nel 1843 la popolazione di Sovana era di 64 unità a causa della malaria, mentre quella di Pitigliano di 3513 e quella di Sorano di 1083]».

«Il paese è piccolo, con strade ripide, strette e tortuose. Nel centro si innalza una ripida massa di pietra [il Masso Leopoldino], la cui sommità domina uno dei panorami piú romantici di questa regione d’Italia. Il borgo si ammucchia intorno alla base dell’altura, dove il grande vecchio castello feudale [la Fortezza Orsini], con i grigi bastioni, incorona i dirupi in secondo piano, i famosi precipizi e il profondo abisso ai vostri piedi, e le catene dei monti sul davanti, che salgono lentamente per altitudine e imponenza fino alla sublime cresta del monte Amiata spruzzato di neve». Piú avanti, a proposito della vista che si gode dal punto panoramico di San Rocco scrive: «La vista del paese e dei dirupi incoronati dal castello difficilmente può trovare rivali in Italia: un paese di pietra, di rovine, di gole boscose». La Porta dei Merli. Sopra l’arco a bugnato si riconoscono le feritoie per l’alloggio delle catene di un ponte levatoio. XVI sec.

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la necropoli della valle della calesina

L’ultimo dono di Tanaquilla Nel 1950, durante i lavori per realizzare la strada che collega Sorano con l’Elmo, l’archeologo Guglielmo Maetzke (1915-2008) scavò 23 tombe etrusche a ipogeo, in gran parte già depredate, situate in prossimità del costone nord-orientale del «pianetto» di Sorano e delle rive del torrente Calesina. I sepolcri sono costituiti da un breve dromos (corridoio d’ingresso) e da una camera quadrangolare con due banchine ai lati; il soffitto è ad arco, in un solo caso è a doppio spiovente con trave centrale, a imitazione delle case etrusche d’epoca arcaica. Un’altra tipologia è quella a loculo, per deposizioni singole. I materiali rinvenuti furono lasciati ai proprietari del terreno, la famiglia Ricci Busatti, che, nel 2010, li ha donati allo Stato. In una tomba a loculo, fu rinvenuta un’anfora dipinta, ancora contenente le ceneri del defunto; poco distante, fu trovata una ciotola in bucchero, sulla quale si legge: «Mi Thanecvilus helvnas», ossia «Io (sono di) Tanaquilla (moglie) di Helvna». È probabile (o almeno affascinante pensare) che il vaso contenga le ceneri del marito, e la ciotola sia l’ultimo dono di Tanaquilla al suo sposo. La necropoli è databile tra la fine del VII e gli inizi del V secolo a.C.

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In alto, sulle due pagine e qui sopra alcuni dei corredi funerari recuperati nelle tombe etrusche scoperte nel 1950 in prossimità del torrente Calesina. Il piccolo sepolcreto fu in uso tra la fine del VII e gli inizi del V sec. a.C. All’indomani dello scavo, i reperti furono lasciati alla famiglia proprietaria del terreno in cui aveva avuto luogo la scoperta. Successivamente, nel 2010, sono stati donati allo Stato italiano. Nella pagina accanto, al centro e in basso foto scattate nel corso dello scavo delle tombe, condotto nel 1950 dall’archeologo Guglielmo Maetzke.

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Il centro di Sorano non sembra conservare tracce di frequentazione di epoca etrusca (sebbene Dennis lo definisca come sito etrusco, e dia notizia del ritrovamento in una tomba nelle vicinanze di Sorano, in direzione di Sovana, di un bellissimo specchio in bronzo raffigurante il giudizio di Paride, in possesso del marchese Strozzi di Firenze), né romana; alcune tombe riferibili al periodo etrusco sparse intorno al paese, presso San Rocco, andrebbero pertanto ascritte a piccoli nuclei abitati non ben definibili. Anche la fase romana, come accennato, non sembra a oggi attestata, nonostante alcuni studiosi abbiano erroneamente attribuito a quest’epoca i numerosi colombari esistenti in zona.

In epoca medievale Sorano faceva parte della «Terra Guiniccesca», appartenente al conte Ranieri di Bartolomeo. Nel 1210 diviene proprietà degli Aldobrandeschi e con la successiva divisione in due rami della famiglia, viene inclusa nella contea di Sovana-Pitigliano. Agli inizi del XIV secolo, con la morte senza eredi maschi di Margherita Aldobrandeschi (1312), insieme ad altri centri della contea, Sorano passa agli Orsini, trasformandosi in uno dei baluardi nella difesa contro i numerosi attacchi portati da Siena e Orvieto, nell’ambito delle guerre per il controllo di questa parte di Maremma. Sottomessa alla Repubblica senese, dopo i molti conflitti succedutisi nel corso del XV secolo, nel 1555, alla caduta di Siena per mano fiorentina, la contea tornò agli Orsini. Nello stesso periodo viene redatto lo Statuto di Sorano.

Guerre e lotte intestine

Per la sua posizione strategica, la città fu oggetto di attacchi da parte di numerosi eserciti, ma, soprattutto, fu al centro delle dispute interne alla famiglia Orsini, tanto da essere definita da Cosimo I de’ Medici lo «zolfanello delle guerre d’Italia». Le continue lotte intestine portarono gli Orsini all’estinzione e a una profonda crisi della contea che, nel 1604, con la morte di Alessandro di Bertoldo, passò ai Medici; nel 1608 fu acquistata dal granduca di Tosca-

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luoghi toscana na Ferdinando I, passando poi nel 1737, ai Lorena. Nel XVIII secolo, a causa della malaria, questa zona della Maremma, come quella costiera, conobbe un calo demografico e una profonda crisi economica (benché a Sorano e in altri centri vi fosse un’attività legata alla produzione di salnitro necessario per la polvere da sparo). Un nuovo incremento nella popolazione soranese si ebbe con il governo illuminato del granducato di Toscana.

Alla scoperta del borgo

Al paese si accede per la Porta di Sopra, sul lato sud, che conduce alla piazza del Municipio e di qui al centro storico; ma si può anche percorrere l’itinerario passando dalla fortezza, alla quale si accede dalla strada provinciale per San Quirico. La Fortezza Orsini è il monumento principale di Sorano ed è anche uno dei migliori esempi di architettura militare d’epoca rinascimentale, realizzata da Gian Francesco Orsini tra il 1542 e il 1546 e progettata dall’architetto senese

Antonio Maria Lari, inglobando le strutture di un cassero medievale aldobrandesco risalente al XIII secolo. Progettata secondo le esigenze difensive dettate dall’avvento delle prime armi da fuoco, il fortilizio costituí un inespugnabile baluardo a difesa del territorio, al confine tra lo Stato Pontificio e la Repubblica di Siena, punto strategico per un facile sbocco verso il mare. Da un ponte che attraversa un primo ampio fossato, si varca un portale ad arco, inserito in una prima imponente cinta muraria a scarpa cordonata, con mastio centrale, che termina sui lati con due bastioni muniti di cannoniere: a ovest, quello detto di San Pietro, dove è collocato un grande stemma, e, a est, quello di San Marco (in riferimento alle città di Roma e Venezia, cui gli Orsini erano piú legati). Dal mastio, dove, sulla sinistra, si trovano il punto informativo e la biglietteria, da cui partono le visite guidate, si attraversa un primo piazzale con un edificio dei primi del Novecento sulla sinistra, la villa Ricci-Busatti, ora

sede del liceo linguistico. La parte opposta del piazzale è invece aperta, e serviva come piazza d’armi. Il piano superiore del mastio presenta ambienti disposti su due livelli, attualmente utilizzati per mostre d’arte. Scendendo da una rampa sulla sinistra della corte, si accede, accompagnati dalla guida, ai camminamenti sotterranei, lunghi cunicoli in parte scavati nel banco tufaceo e in parte realizzati in blocchi squadrati di tufo, con soffitti voltati, lungo i quali si aprono numerose feritoie per le armi da fuoco. Disposti su piú livelli, questi camminamenti corrono lungo tutto il perimetro delle mura della fortezza e dei due bastioni, e permettevano il rapido spostamento delle truppe di guardia; alcune aperture verticali servivano non solo per l’aerazione, ma anche per la dispersione dei residui di gas delle polveri da sparo . Attraversato un secondo fossato, si raggiunge il nucleo piú antico del complesso, dove è una torre circolare forse appartenente al cassero aldobrandesco. Oltrepassata la torLa poderosa Fortezza Orsini, oggi sede del Museo del Medioevo e del Rinascimento.

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Il complesso rupestre di S. Rocco

C’è vita nella roccia! Uscendo da Sorano, prima del ponte sul fiume Lente, è da segnalare la presenza di alcuni colombari sullo sperone di roccia a sinistra della strada; due di questi si trovano all’altezza del piano stradale, mentre un altro gruppo si trova in posizione molto elevata (se ne vedono le aperture dal punto panoramico di San Rocco), attualmente non accessibile. Si tratta di piccoli ambienti a pianta quadrata, con un’apertura sullo strapiombo e tre pareti su cui sono le nicchie per ospitare i colombi. Passato il ponte sul Lente, a 2 km circa dal paese, da una piccola strada che si incrocia con la Provinciale si raggiunge il complesso rupestre di S. Rocco. Comprende la necropoli, costituita da piccole tombe a camera tagliate nel versante ovest dello sperone tufaceo, riferibile al III e II secolo a.C., dunque al momento successivo alla conquista del territorio da parte dei Romani. Alla fase medievale appartiene invece un piccolo abitato rupestre (anche se le prime notizie risalgono al 1562), privo di edifici e strutture fortificate, costituito da grotte a piú piani disposte sui versanti est e sud dello sperone tufaceo, e da un colombario con le nicchie quadrate scavate nelle pareti. Uno di questi ambienti rupestri, costituito da tre grotte contigue con vasche per la decantazione dell’argilla e un forno, testimonia la produzione di ceramica per uso domestico in un periodo compreso tra il XIV e il XV secolo. Nominata per la prima volta in una visita pastorale del 1576, la chiesa di S. Rocco è costituita da un piccolo edificio a navata unica, con abside semicircolare di tipo romanico, eretto dalla comunità soranese, probabilmente come voto in seguito a una pestilenza, tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo. All’interno si conserva un affresco posto sull’altare maggiore, databile alla fine del XVII o agli inizi del XVIII secolo, la Vergine con il Bambino tra i santi Stefano, Lorenzo e Giovanni Battista, eseguito da un artista ignoto attivo in ambito locale. Proseguendo verso il lato ovest, dopo aver attraversato una stretta sella si raggiunge l’estremo sperone del pianoro tufaceo, dove si trovano altre grotte riferibili all’abitato, e da cui si può ammirare il panorama della valle del Lente e del paese di Sorano. A sinistra della chiesa di S. Rocco, si trova la principale via cava, detta appunto di San Rocco, che, attraverso un suggestivo percorso che costeggia nel punto piú basso il fiume Lente, metteva in collegamento l’insediamento medievale con quello di Vitozza (percorso 5 km). Inizialmente legata alla necropoli etrusca, dal Medioevo e fino al 1940 costituí l’unica

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In alto la chiesa di S. Rocco, eretta «per voto della Comunità» soranese, quasi certamente in occasione di una pestilenza. Qui sopra uno dei numerosi ambienti scavati nel tufo nell’area dell’insediamento rupestre di San Rocco.

strada di collegamento tra Sorano, i Pianetti e Sovana. Lungo il suo percorso, sulle pareti tufacee si possono osservare alcune nicchie che accoglievano immagini sacre, i cosiddetti «scaccia diavoli» a protezione dei viandanti. Interamente scavata nel tufo, la strada presenta al centro una profonda canaletta per lo scolo delle acque. Sul tracciato si apre anche una grotta con simboli cristiani incisi, di epoca medievale. Due diverticoli in prossimità dell’attraversamento del Lente conducono alla vie cave di Case Rocchi e di San Carlo (o San Valentino). Dal punto di vista naturalistico, la conformazione della via cava, che alterna zone umide e ombrose nella parte piú bassa e zone asciutte e calde nella parte alta, ha permesso lo sviluppo di una notevole varietà di piante; qui si possono infatti osservare boschi tipici della macchia mediterranea, in cui sono presenti la farnia, il cerro, il frassino, l’acero, il carpino, l’orniello, il pioppo, il leccio, il salice, il noce, il corniolo, il viburno, il sambuco, oltre a muschi e licheni nelle zone piú umide.

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luoghi toscana In basso uno dei numerosi colombari esistenti nel territorio di Sorano. A lungo interpretati come loculi per urne cinerarie, le cavità sono in realtà riferibili all’allevamento di colombi o piccioni. Nella pagina accanto un tratto della via cava di San Rocco, tracciato d’origine etrusca che, fino al 1940, era la sola strada di collegamento fra Sorano, i Pianetti e Sovana.

re, si accede a un cortile chiuso su tre lati da edifici; in uno di questi, destinato alla residenza privata dei conti, è attualmente allestito il Museo Civico; alla sua sinistra, la cappella privata degli Orsini. L’edificio di fronte è invece in parte occupato da una struttura ricettiva, mentre al centro vi è un piccolo teatro, nel quale si svolgevano gli spettacoli per la corte. Dal cortile, attraverso una

rampa a doppia curva, si può raggiungere il centro storico di Sorano. Dalla Fortezza, si scende in via Finetti, dove si incontra la collegiata di S. Nicola. La chiesa viene nominata nelle decime del 1276 come suffraganea della pieve di S. Nicola di Selvena. L’impianto originario, a una sola aula absidata, realizzato in stile romanico da maestranze senesi, si deve probabilmente all’iniziativa di Margherita Aldobrandeschi di Montfort. Nel 1509 la chiesa acquista il titolo di «collegiata insigne». Nel 1772, in seguito alla traslazione delle spoglie di santa Felicissima da Faleria, compatrona di Sorano – che secondo la tradizione popolare riposano ora nella cripta sotto l’altare maggiore –, l’edificio subisce notevoli ampliamenti. Viene infatti creata la navata sinistra, si allarga quella centrale che ingloba anche il campanile, anch’esso rimaneggiato, e viene realizzata la cappella del Crocifisso. Una lapide ricorda la consacrazione, nel 1779, della nuova chiesa dall’aspetto neoclassico. Il fonte battesimale, che sul bordo conserva incisa la data del 1549, è l’unico arredo piú antico rimasto;

il parco archeologico «città del tufo»

Lo spettacolo dei canyon e dei grandiosi monumenti funerari etruschi Inaugurato nel 1998 su iniziativa del Comune di Sorano, in collaborazione con la Regione Toscana e con la Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana, il Parco Archeologico «Città del Tufo» occupa un’area estesa, fortemente caratterizzata dall’azione erosiva dei torrenti e quindi da un paesaggio singolare e suggestivo, ricco di profondi canyon che si aprono nell’altopiano. Il Parco propone un percorso che realizza in pieno la sintesi tra natura, paesaggio e monumenti della civiltà etrusca e medievale. Oltre a Sorano, comprende la città di Sovana, con i suoi monumenti piú significativi, le vie cave e le necropoli che si sviluppano intorno a esse, con le celebri Tomba Ildebranda, Tomba della Sirena, Tomba Pola, Tomba Pisa e Tomba del Sileno. Qui è visitabile anche il Museo di San Mamiliano. Nelle immediate vicinanze di Sorano,

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in posizione panoramica sopra il fiume Lente, è inoltre l’insediamento rupestre di San Rocco (vedi box a p. 69). La visita si completa con il villaggio rupestre di Vitozza, posto nelle immediate vicinanze della frazione di San Quirico di Sorano, con le sue duecento grotte. DOVE E QUANDO Parco Archeologico«Città del Tufo» Info tel. e fax: 0564 614074; www.leviecave.it; Comune di Sorano: tel. 0564 633023, fax: 0564 633033; CoopZoe: tel. e fax 0761 458609; e-mail: coopzoe@libero.it Note gli orari e le modalità di accesso ai siti e musei possono variare, anche in funzione della stagione: si consiglia quindi di verificarli attraverso il sito web della struttura o prendere contatto con le sue sedi agosto

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il resto delle opere risale infatti ai secoli XVIII e XIX. Tra queste, da segnalare il San Giuseppe con il Bambino, dipinto del pittore mancianese Pietro Aldi fatto eseguire nel 1884 dal dottor Angelo Busatti. Dall’altare, attraverso un cunicolo, si scende al piano inferiore, diviso in due parti, con la cripta di S. Felicissima e un’altra che accoglie sepolture a cubicoli e ambulacri. Accanto alla chiesa di S. Nicola, sorge il Palazzo comitale, residenza dei conti Orsini prima della ristrutturazione della fortezza. È probabile che il nucleo originario si debba agli Aldobrandeschi e che risalga alla seconda metà del XIII secolo. Nel 1551 Nicolò IV promosse alcuni restauri, come ricorda un’iscrizione su un architrave della corte interna. Pur continuando a essere abitato, il palazzo si trovava già nel 1747 in condizioni fatiscenti; nel 1783 viene acquistato da un certo Agostino Selvi per 600 scudi, e da un rilievo dello stesso anno si ricava che del complesso facevano parte anche alcuni locali in via di Santa Monaca, poi venduti alla collegiata di S. Nicola. Nel 1826 viene costruito un edificio

a uso di stalla, che riduce notevolmente la superficie della corte interna; agli inizi del Novecento il palazzo viene diviso in diverse frazioni abitative, viene chiusa la loggia al primo piano e vengono spostate al piano superiore le colonnine.

In posizione dominante

Contrapposto all’imponente Fortezza Orsini, il Masso Leopoldino è forse il luogo che piú caratterizza Sorano, offrendo dalla sua sommità un panorama su tutto il paese e sul paesaggio circostante. Si tratta di un enorme sperone tufaceo di forma irregolarmente allungata, disposto in direzione nord-sud, che ricorda la prora di una nave. Fu utilizzato a partire dal IX secolo in funzione difensiva, con la costruzione di una torre merlata posta sul punto piú stretto, dove era collocata anche la campana del Comune. Con la costruzione della Rocca Aldobrandesca, il Masso perse la sua funzione militare, e vi fu costruita la chiesetta di S. Caterina. Nel XVIII secolo il Masso venne fortificato dai Lorena, con un’opera di regolarizzazione dello sperone tufa-

ceo e la costruzione di un alto muro a scarpa cordonato da un lato, e di un bastione quadrato sul lato sudest, anch’esso con cordonatura. Nei secoli di vita dell’abitato, sotto il Masso furono realizzate numerose cavità, utilizzate dai Soranesi come abitazioni o stalle; questo portò a un indebolimento dello sperone tufaceo, che provocò il 13 febbraio del 1801 una disastrosa frana, che distrusse molte grotteabitazioni, uccidendo anche un gran numero di persone e animali e nel disastro crollò anche la chiesa di S. Caterina. Nel 1820-1822, durante lavori di riorganizzazione urbanistica di Sorano da parte di Ferdinando III, il Masso venne abbassato e rinforzato, con la costruzione di un muraglione e nell’occasione furono anche interrate le grotte. Attualmente sul Masso Leopoldino svetta la caratteristica Torre dell’Orologio. Scendendo a destra, si passa per la cinquecentesca Porta dei Merli, dal portale ad arco bugnato sopra il quale si notano ancora le feritoie per l’alloggio delle catene di un ponte levatoio; sulla porta campeggiano gli stemmi araldici di Cosimo II dei Medici e di Niccolò IV. Scendendo dalla porta, si può arrivare nel fondovalle, dove sono conservati alcuni tratti di antiche vie cave. Proseguendo invece in direzione nord si raggiunge l’estremo limite di Sorano, dominato da un grande edificio realizzato nel 1554 da Niccolò IV Orsini, e utilizzato come granaio, detto «il Cortilone». Da qui si può scendere nella parte dell’abitato che si estende a ridosso della rupe tufacea nel lato ovest, dove si trova un vecchio quartiere abbandonato nel 1929 a causa del disgregarsi della roccia, e dove sorge anche la cappelletta della Madonna del Borgo. Gli autori ringraziano per la gentile collaborazione Lara Arcangeli, direttrice del Parco Archeologico «Città del Tufo», e Claudia Pietrini, presidente della Cooperativa Zoe.

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Quei forestieri diventati

cittadini

di Giuseppe M. Della Fina

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

N

el discorso di chiusura di un Seminario Internazionale di Studi sul tema Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, tenutosi a Bagno a Ripoli (Firenze) nel giugno del 1984, lo storico del Medioevo Paolo Brezzi (1910-1998) affermava: «Noi coltiviamo lo studio della storia perché riteniamo che gli accadimenti umani sono situati lungo un percorso senza fine, formano il tronco e i rami di un albero maestoso multisecolare e sempre vivo, costituiscono ciascuno la premessa di quelli che verranno; di conseguenza ogni avvenimento lascia una traccia e suggerisce un mònito per i singoli come per le istituzioni

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circa i loro modi di vivere e strutturarsi nel tempo che ancora deve venire». Negli ultimi tempi tre studiosi – Laura Andreani, Dugald McLellan e Antonio Santilli –, in maniera indipendente, si sono messi alla ricerca di uno di quei «rami» dell’albero della storia, un ramo secondario, ma ricco di moniti per il nostro presente e per il «tempo che ancora deve venire»: la presenza di maestranze straniere a Orvieto tra Trecento e Quattrocento. Andreani ha esaminato il tema attraverso la lente del cantiere del Duomo; Santilli ha trattato la tematica nell’ambito di un suo studio complessivo sull’intero agosto

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Per far fronte alle crisi demografiche causate da guerre ed epidemie, le autorità di Orvieto adottarono, a piú riprese, provvedimenti volti a favorire l’arrivo e la permanenza di nuovi immigrati. E cosí, fra Trecento e Quattrocento, la città umbra si riempí di genti d’ogni dove: Perugini, Aretini e Pisani, ma anche «Lombardi», Albanesi, Polacchi e... Tedeschi

Quattrocento; McLellan è partito da una lettura attenta del Diario di Ser Tommaso di Silvestro, una testimonianza preziosa scritta da un personaggio coevo agli eventi e giunta sino a noi.

Una realtà inaspettata

Dai tre studi emerge l’immagine diversa di una città importante dell’Italia centrale durante il Trecento e il Quattrocento: una realtà decisamente piú aperta di quello che ci si sarebbe potuti attendere. Un dato per tutti: Dugald McLellan ha calcolato che, nel 1500, gli abitanti della città, compresi quelli residenti nell’im-

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Veduta di Orvieto, città arroccata su una poderosa rupe di tufo, e sulla quale domina la sagoma inconfondibile del magnifico Duomo, intitolato alla Vergine Assunta.

mediato contado, erano 3460 (di cui 3160 al di sopra della rupe) e di essi 670 erano forestieri, il 19% circa, quindi, dell’intera popolazione. Va considerato che la città usciva da decenni molto duri, funestati da scontri tra fazioni avverse e da ricorrenti epidemie di peste. Una, nel 1497, aveva causato piú di 700 morti. Alla crisi demografica, le classi dirigenti locali avevano tentato di fare fronte adottando, in piú occasioni,

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In alto pagina dello Statuto dell’Opera del Duomo del 1421. Orvieto, Archivio dell’Opera del Duomo. A sinistra una tipica via del centro storico di Orvieto.

provvedimenti tali da favorire l’arrivo e la permanenza di forestieri in città. Proprio su queste norme si è soffermato Antonio Santilli, segnalando che esse culminarono in una legge sull’immigrazione approvata in data 7 maggio 1452 e i cui precedenti vanno ricercati subito dopo la peste nera del 1348, che aveva portato a un drammatico calo demografico.

Incentivi per il trasferimento

Nel 1354, il cardinale Egidio di Albornoz, una volta ripreso il controllo della città a nome del pontefice, aveva introdotto una legge che prevedeva l’esenzione o immunità quinquennale dagli oneri reali e personali (come il pagamento della libra, le esercitazioni militari e la custodia diurna e notturna) per i forestieri e gli stranieri che avessero deciso di trasferirsi a Orvieto. Il condottiero perugino Biordo Michelotti, signore della città dal 1395 al 1398, estese l’esenzione sino a otto anni, ma subito dopo Giovannello Tomacelli, fratello del papa Bonifacio IX, la riportò a cinque anni. Una scelta ribadita nel marzo del 1420, ma modificata di nuovo tre anni dopo (16 dicembre 1423) quando si stabilí che l’esenzione poteva

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luoghi orvieto In basso l’orologio «de muricio», ossia del cantiere, conosciuto come «orologio di Maurizio», che dal 1349 scandiva il tempo del lavoro, e il cui automa in bronzo batte ancora oggi le ore.

A destra progetto di modifica della facciata del Duomo. Prima metà del XV sec. Orvieto, Archivio dell’Opera del Duomo. Nella pagina accanto la facciata del Duomo, decorata da sculture e mosaici.

variare dai cinque ai dieci anni, in base al numero dei componenti della famiglia richiedente. Si arrivò quindi alla legge del 1452, già ricordata, piú organica e duratura: era ritenuta vigente ancora nello statuto comunale del 1581. Fu proposta da tal Benedetto Monaldi al Consiglio generale, l’organo preposto ad approvarla, e previde l’esenzione di tutti gli oneri sino a quindici anni per coloro che decidevano di stabilirsi in città, o sino a dieci anni per quelli che preferivano stanziarsi nel contado.

Cittadini «perpetui»

Dopo questa legge, inoltre, divenne piú frequente la concessione della cittadinanza: l’immigrato diventava «perpetuum civem» godendo di tutti i diritti ed essendo sottoposto agli stessi oneri dei cittadini orvietani al termine degli anni di immunità. Piú tardi venne introdotta una nuova clausola, che previde l’obbligo per il forestiero di acquistare beni immobili in Orvieto o nel suo districtus (come già accadeva in altre città, per esempio a Viterbo), per accedere all’esenzione. Va tenuto presente che, al tempo, forestieri venivano considerati anche uomini e donne di città e regioni vicine, ma non mancano personaggi provenienti da realtà decisamente piú lontane, a testimonianza di una mobilità accentuata di persone con competenze e capacità differenti. Santilli ha calcolato che, tra il 7 maggio 1452 e l’agosto 1471, quindi nel ventennio successivo all’approvazione della norma, 17 degli immigrati giunti a Orvieto provenivano da Todi e il suo contado; 34 da Perugia e dintorni; 16 dall’area tedesca (in alcuni casi,

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luoghi orvieto Stade Brema Celle Münster Duisburg Colonia Bonn

o

La presenza lombarda

MARE DEL NORD

Ren

nella documentazione, è indicata anche la città di provenienza: Colonia, 2; Magonza, 1; Francoforte, 1; Norimberga, 1); 9 da Siena, 9 da Firenze, 9 de Sclavonia (di cui 2 da Ragusa, 1 da Zara e 1 da Zagabria); 7 de Lombardia. Se si allarga l’arco cronologico, si possono citare 5 corsi, 3 ungheresi, 2 francesi, 2 spagnoli, 2 polacchi, 1 albanese, 1 greco. Per le aree piú prossime si possono ricordare 6 immigrati da Arezzo, 5 da Montepulciano, 2 rispettivamente da Cortona, Pisa e Prato; sporadica risulta la presenza di persone provenienti dall’Italia meridionale: 2 de Calabria, 1 da Napoli, 1 da Taranto, 1 da Sancto Maulo de Regno neapolitano, e 1 genericamente de Regno.

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Neufchateau

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Bolzano Pusterdal-Pusteria Gran San Bernardo Lione Trento Aosta Treviso Chambery Bassano Ivrea Vercelli Pavia Padova Moncenisio Venezia Mortara Piacenza Po Susa Rovigo Torino Fidenza Cisa Bologna Ravenna Sarzana Luni Firenze Forlì Lucca Alpe di Serra Arezzo Poggibonsi Siena SanQuirico Orvieto MA Bolsena RA DR Viterbo IAT Corsica Sutri ICO Roma

Roda

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Per quanto concerne i «lombardi» va segnalato che con il termine ci si riferiva a persone provenienti da un territorio piú ampio dell’odierna Lombardia e che essi erano occupati prevalentemente nel settore edile essendo perlopiú muratori e scalpellini. Si possono per esempio ricordare i fratelli Orlando e Domenico da Como, ai quali venne commissionata la realizzazione di opere importanti, come il fossato intorno alla Rocca. Sempre a Orlando da Como, «magister Rolandus lombardus», fu affidata nel 1452 la risistemazione di un ponte sul fiume Paglia, danneggiato da una piena. Un altro artigiano lombardo, ricordato nei documenti, è Beltramo di Martino di Varese, il quale, tra il 1450 e il 1453, alternò la sua attività tra Orvieto e Roma. Un altro nucleo consistente di immigrati proveniva de Alamania, denominazione che, nel Basso Medioevo, indicava un’area piú vasta dell’attuale Germania, comprendendo anche le Fiandre e il Brabante. Essi erano occupati soprattutto nella tessitura della lana e del lino. Nel 1439 sono ricordati 14 tessitori tedeschi di lana che chiesero la concessione dell’esenzione; un’altra richiesta simile è rammentata nel 1453, e in questo caso furono altri sette tessitori a chiederla. Tra essi si può ricordare tal Giovanni, Johannis Mactey, abitante nel rione di Sant’Angelo e che, nel 1448, si era sposato con una donna orvietana di nome Perna. Il padre, Valentino Angelutii, detto Valentino «da la Massaia», le aveva dato come dote 25 fiorini. Talvolta gli immigrati tedeschi creavano problemi: si ha infatti notizia di due risse, i cui protagonisti erano sta-

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Sardegna

MAR TIRRENO

Sicilia

La via Teutonica

Chi viaggiava per fede e chi per lavoro La consistente presenza di immigrati tedeschi a Orvieto si spiega anche con il fatto che la città si trovava lungo la via Teutonica, la strada che, dall’Europa centro-settentrionale e dall’area danubiana, conduceva i pellegrini di quelle regioni verso Roma. Insieme ai pellegrini, viaggiavano evidentemente anche le maestranze, attratte da luoghi con grandi cantieri aperti, o dove intravedevano possibilità di lavoro. agosto

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A destra miniatura raffigurante un uomo che fabbrica cordami, dal cosiddetto Libro della Casa dei Dodici Fratelli di Norimberga (un’istituzione caritatevole della città tedesca). 1425 circa. Norimberga. Stadtbibliothek. Nella pagina accanto carta nella quale sono riportati gli itinerari che dal Nord Europa raggiungevano Roma, secondo gli Annales Stadenses, titolo attribuito alla cronaca universale, dalla Creazione al 1256, di cui fu autore il cronista tedesco e frate minore Alberto di Stade. Il percorso piú orientale coincide con la via Teutonica e aveva fra le sue tappe la città di Orvieto.

ti, nell’aprile del 1440, i tessitori Arrigo (Arrici) e Federico Johannis; e, nell’agosto del 1444, Riccio e Gherardo. Per altri motivi viene ricordato il tessitore Nicolò condam Armani de Alemania, che, il 16 febbraio 1452, ottenne un’esenzione perpetua per lui e la moglie in considerazione del fatto che dimorava a Orvieto da trent’anni. Immigrati tedeschi trovarono occupazione anche in altri settori: si ricordano per esempio facchini, famigli e cuochi. Avviato nel 1290, il cantiere del Duomo costituisce un punto di osservazione privilegiato. La presenza di forestieri è notevole sin dai primi anni, e a tal proposito

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si può fare riferimento a uno studio di Lucio Riccetti del 1996: in alcune pergamene di archivio di reimpiego e riferite a pagamenti effettuati negli anni 1297-1300 sono ricordate le provenienze per 53 lavoranti su 255. Di questi, 32/34 sono forestieri e 6 provengono d’Oltralpe: Martinus de Schotia, Iohannes Anglicus, Lambertus Gallicus, Iannoctus Gallicus, Parisius Gallicus e Petrus Pollonus. Tra la metà del Trecento e la metà del Quattrocento, Laura Andreani, esaminando i documenti contabili dell’Opera del Duomo, ha osservato che essi registrano la presenza a Orvieto di 78 stranieri, 18 dei quali pro-

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luoghi orvieto curiosità

L’ironia punita Nel Diario di Ser Tommaso di Silvestro, incentrato sulle vicende comprese tra il 1482 e il 1514, si narra un episodio capitato al maestro Pietro lombardo. L’uomo stava lavorando nella chiesa di S. Giovanni a Orvieto, proprio al di sopra del Crocefisso, quando disse scherzando: «Ormai non se potrà dire che io non sia stato sopra ad domene Dio». Appena fatta l’affermazione, cadde rovinosamente a terra «et fecese un poco male». A commento dell’episodio, l’estensore del Diario, notaio e canonico del Duomo, ricorda il proverbio: «Scriza co’ fante et non scrizar colli sancti».

venienti probabilmente da Zara. Vi sono – solo per segnalare qualche nome – Simon de Alamania, Iohannes de Boemia, Stefanus Teutonicus, Caterina Slava. Quest’ultima viene ricordata per l’acquisto di un capo di biancheria e tre polli: un dato che riporta immediatamente allo svolgimento della vita quotidiana. Per alcuni di essi, Andreani fornisce una sorta di breve biografia ricomposta sulla base dei dati che ha potuto raccogliere: Rainaldino de Vascogna (Guascogna), maestro valentissimo nell’intaglio della pietra, che prese servizio per un salario di undici fiorini mensili; Giacomo di Rolandino, teutonico impegnato inizialmente nelle cave di Valle del Cero (al confine tra Orvieto e Bagnoregio) e di Botontoli (nei pressi di Porano) e poi chiamato a far fronte a necessità diverse quali la riparazione del tetto della cattedrale, la costruzione delle «camere» dei canonici, l’azionamento dei mantici dell’organo, la raccolta di offerte nel contado, sino a divenire il venditore del pane offerto davanti all’altare della Maestà della Tavola

Da leggere Dugald McLellan, Forestieri e stranieri: visitatori, professionisti itineranti e immigrati nell’Orvieto del tardo Quattrocento, in Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, 115 (2018), pp. 57-74

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Antonio Santilli, Orvieto nel Quattrocento, Il Formichiere, Foligno 2019 Laura Andreani, Maestranze straniere nel cantiere della Cattedrale di Orvieto tra Trecento e Quattrocento, Il Formichiere, Foligno 2020

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e il custode della cera dell’altare maggiore. Giacomo di Rolandino lavorò alle dipendenze del’Opera del Duomo sino alla morte, che lo colse nel mese di luglio del 1433. Andreani si è soffermata, infine, sulle modalità di arrivo delle maestranze e ha osservato che, in alcuni casi, gli arrivi erano in gruppo: è il caso dei 18 operai de Sara/Giara (probabilmente Zara), impiegati nell’estrazione del marmo nelle cave di Rocchetta e Castellana tra il 1429 e il 1432; come quello di 10 uomini provenienti dalla Corsica registrati sostanzialmente nello stesso periodo (1429-1438). Al termine della lettura dei tre contributi si ha consapevolezza di essersi avvicinati alla Orvieto del Trecento e del Quattrocento da un’angolazione insolita, ma che riesce a parlare di una comunità e di singoli uomini e donne che – immersi in un periodo turbolento e difficile – cercavano di costruire il loro futuro, che è divenuto il nostro passato.

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La chiesa di S. Giovanni, teatro di un divertente aneddoto riportato nel Diario di Ser Tommaso di Silvestro (vedi box alla pagina precedente).

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di Duccio Balestracci

LA PAROLA ALLE ARMI!

Durante il Medioevo, per dirimere le questioni d’onore era assai comune il ricorso al duello. Seppure regolato da norme ben precise, si trattò tuttavia di un espediente cruento: i contendenti, infatti, miravano alla reciproca eliminazione fisica mediante l’uso di spade, lance e mazze ferrate. E la pratica non tardò a innescare dibattiti, soprattutto fra gli uomini di Chiesa... Miniatura raffigurante Galahad che si batte contro i sette fratelli che avevano rinchiuso le dame nel Castello delle Fanciulle, da un manoscritto comprendente frammenti del Lancelot du Lac. 1380-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


Dossier

I I

due contendenti si fronteggiano: da un lato c’è Galafac, «el grande cinamonio» e dall’altro Guerrino, detto il Meschino. La luce della luna illumina sinistramente la scena, ma per battersi è stata volutamente scelta la notte, perché il calore del sole avrebbe reso impossibile il duello. Non si dicono nulla, non occorre: ciascuno di loro sa che ha un solo compito. Uccidere. Si lanciano l’un contro l’altro, animati da odio feroce; lo scontro è tremendo e le lance vanno in pezzi, ma nessuno dei due ha la meglio. Si affrontano a piedi e snudano le spade: quella di Galafac è «molto grande ed era tòrta come le scimitarre de Turchi» e quando arriva addosso al Meschino «lo fece tutto tordire e mezzo uscí di sé». Il prode cavaliere cristiano vacilla, ma non cade, anzi, con la sua spada ferisce alla gola il nemico. Ma nemmeno Galafac è un pappamolle: mena un fendente che spacca in due lo scudo di Guerrino, e, quando vede che l’avversario è in difficoltà, afferra lo spadone a due mani e comincia a tirare botte da orbi. Guerrino riesce a saltare di lato ed evita cosí di finire affettato; l’impeto di un colpo è talmente forte che la spada di Galafac si conficca nel terreno. Il Meschino tenta di approfittarne e di mozzargli le mani che tengono l’elsa, l’altro si ritrae, ma non riesce a evitare che una piattonata del cristiano gli mandi in pezzi la spada. Galafac perde sangue come una fontana, ma afferra una mazza ferrata a tre palle e comincia a mulinarla: il Meschino prende qualche colpo, e non sono carezze. Galafac è piú robusto, ma il cristiano è piú agile e, soprattutto, ha dalla sua il «vero Dio» che, invocato, non gli nega aiuto. Cosí, quando un movimento lascia scoperta la guardia dell’avversario, Guerrino ne approfitta per menare un fendente all’altezza delle gambe e gliele taglia di netto. Il duello è finito: al Meschino non interessa uccidere Galafac e lo lascia a terra in quelle condizioni.

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Miniatura raffigurante Lancillotto che si batte con Sir Mador per difendere l’onore di Ginevra, sotto gli occhi di Artú e della stessa Ginevra, da un’edizione de La Mort le Roi Artus. 1300-1315 circa. Londra, The British Library.

Sa che l’opera di macelleria sarà debitamente portata a termine di lí a poco dai suoi soldati, i quali, infatti, corrono verso il ferito «e quando l’ebbono morto, gli tagliarono la testa e recarolla nel campo in sun uno pezzo d’aste».

Colpo su colpo

Il cruento duello fra Guerrino e Galafac esistette solo nelle pagine di Andrea da Barberino e nelle fortunate storie che inventò, nei primi anni Venti del Quattrocento, per il suo Meschino di Durazzo, ma lo svolgimento dello scontro è paradigma veritiero del duello fra due cavalieri nel pieno Medioevo. Niente eleganti giochi di spada, né piroette e agili balzi su gradini, muretti o tavoli d’osteria; nessuna raffinatezza estetica, né immagini da film, ma colpi su colpi per annientare l’avversario. Il duello non è certamente stato inventato nel Medioevo: lo scontro a due per risolvere un contrasto è cosa antica quanto il mondo (senza scomodare Achille e Ettore o i gladiatori), tuttavia non c’è dubbio che nell’età di Mezzo la singolar tenzone, che, con i debiti mutamenti, arriva intatta fino alla metà del Novecento, vive la sua età dell’oro e assume alcuni dei suoi elementi caratterizzanti. Si incrociano le spade (o le lance, che è lo stesso), perché si è stati offesi o si ritiene di esserlo stati; per difendere il territorio nei confronti di chi vi entra non autorizzato; per difendere l’onore proprio o di una terza persona; per vendetta; per dimostrare la propria innocenza; per ostentare il proprio valore e la propria forza fisica. La cavalleria è la piú importante legittimazione della singolar tenzone: i cavalieri sono – quasi istituzionalmente – macchine da duello,



Dossier

stesso autore, il Lancillotto. Il «cavaliere della carretta», perdutamente innamorato, vaga sul cavallo senza sentire o vedere niente; assetata, la sua bestia si avvicina a un guado sul cui versante opposto ci sono una damigella e un cavaliere armato di tutto punto, che fa da guardia alla donna e al passaggio. tanto che, quando i motivi non ci sono, li inventano. In Erec e Enide, Chrétien de Troyes fa scatenare un duello fra i cavalieri che devono impadronirsi di uno sparviero: un premio che spetterà a chi dimostrerà, sul filo della spada, di avere la donna piú bella e piú saggia. E quando Erec passa al galoppo sotto la torre di un signore, quest’ultimo si arma e lo affronta subito. Non perché Erec gli abbia fatto qualche torto, ma semplice-

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mente perché ha osato «marcare» indebitamente un areale altrui. In questo caso, peraltro, non ci sono in palio nemmeno i cavalli e le armi dei due contendenti (come, invece, nel duello combattuto in un torneo), perché chi vince non li reclama: semplicemente c’è il comportamento del maschio che difende il suo tenitorio da un altro maschio. Il rapporto maschio-territoriofemmina, del resto, risulta ancora piú chiaro in un altro romanzo dello

Accecato dall’amore

Quando vede avvicinarsi Lancillotto, il cavaliere urla «io sono a guardia di questo guado, e vi faccio divieto di passare», ma Lancillotto, perduto nei suoi tormenti d’amore, non sente una sola parola e si riscuote soltanto quando l’avversario lo assale e lo butta giú di sella in mezzo alle acque. Solo allora, il prode cavaliere torna alla realtà e chiede: «Che cosa ti ho fatto, perché tu mi abbia percosso?». «Ti ho avvertito tre volte di agosto

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A sinistra miniatura raffigurante Achille che uccide Ettore. XIII sec. Digione, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un duello alla lancia in un torneo. XV sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial. In basso Pernesles-Fontaines, Tour Ferrande. Combattimento tra un cavaliere francese e Manfredi, re di Sicilia, particolare del ciclo che narra la conquista della Sicilia da parte di Carlo I d’Angiò. XIII sec.

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Questioni di censo

Solo fra pari Il duello si svolge sempre – o di regola – fra persone di pari grado sociale, perché accettare la sfida di chi appartiene a un livello piú basso della società è disonorevole. Già presente in età tardo-antica e ribadita nel Medioevo (secondo Federico I, per poter sfidare un nobile a duello – anche giudiziario – è indispensabile possedere gli stessi quarti di nobiltà), la regola diventa ferrea nella prima età moderna. Nel 1579, in Inghilterra, Elisabetta I bandisce dalla corte un semplice cavaliere che ha avuto tanta faccia tosta da sfidare nientemeno che il conte di Oxford. Ci vorrà ancora piú di un secolo perché, alla fine del Seicento, la riflessione degli esegeti del duello arrivi a considerazioni diverse, e perché si ammetta che un inferiore può sfidare a duello un superiore (perfino il re) se quest’ultimo ha infranto il contratto non scritto (ma nondimeno rigoroso) che lo lega al primo, dimostrandosi degno di esigere la sua fedeltà e il suo rispetto. Il concetto contrattualistico fra suddito e sovrano (anche un sovrano collettivo, come è lo Stato), che è base del diritto che regola le moderne istituzioni, risale al rapporto vassallatico: dopo molti secoli dalla sua elaborazione, alla fine del Seicento, si arriva a postulare forme di «rimessa in discussione» di un potere indegno, anche attraverso l’uso delle armi.

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Dossier folclore

L’oltraggiosa

sfida di Thor

La cultura del duello non appartiene solo al mondo cavalleresco profano. Il folclore medievale non esita a mettere in scena perfino i santi impegnati in singolar tenzone. In una pantomima presente nella tradizione irlandese, san Patrizio sfida a duello san Giorgio e, prima di confrontarsi con lui, lo sottopone alla trafila degli insulti rituali che precedono ogni scontro (cruento o no), con una serie di versi burleschi. Ma se questa messa in scena mima il ritorno della primavera nei confronti dell’inverno, ancor piú clamoroso è il caso di un’altra sfida folclorica. Nella tradizione popolare dell’Islanda, infatti, una storia racconta che il dio Thor invita a duello Cristo. E aggiunge che Cristo – con un gesto che avrebbe suscitato orrore in qualsiasi cavaliere – non ha il coraggio di accettare il combattimento.

In alto spada in acciaio e argento. XV sec. In basso gruppo in legno policromo, metallo e cuoio raffigurante san Giorgio che sconfigge il drago. XV sec.

Il duello non è un’invenzione del Medioevo, ma nei suoi dieci secoli ha senza dubbio vissuto una vera e propria età dell’oro non passare», risponde l’altro; e Lancillotto: «Che io sia dannato se vi sentii o vi vidi mai». Si potrebbe credere che il malinteso sia chiarito, ma si tratta pur sempre di due cavalieri, uno dei quali ha, comunque, violato il territorio di un altro, per di piú in presenza di una donna, e l’epilogo non può che essere uno solo. Un duello dal quale – secondo la migliore tradizione – un solo maschio deve uscire vincitore, e non importa se c’è o meno una logica dietro. «Di qui non passerete senza che sia battaglia», minaccia anche Blioblïeris quando vede il Bel Cavaliere Sconosciuto nell’omonimo romanzo duecentesco di Renaut de Beaujeu (Guinglain o, appunto, Le Bel Inconnu). E quando lo Sconosciuto domanda qual è la ragione di tanta acrimonia, l’altro risponde con di-

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sarmante candore: «Non c’è scampo, non potete proseguire senza combattere. Questa è l’usanza per attraversare il guado; l’hanno custodita i miei predecessori, e io stesso da piú di sette anni. Ho ferito tanti, e tanti cavalieri di valore ho abbattuto e ucciso». D’altra parte, il duello è il solo strumento per misurare il valore di un cavaliere. Ben lungi dalle lame che si incrociano clandestinamente alle prime luci dell’alba, dietro le mura dei Carmelitani Scalzi o di chi altro (care alle pagine dei romanzieri dell’Ottocento che raccontavano duelli seicenteschi e fuorilegge), il duello medievale piú è pubblico, piú è apprezzato: «La nostra battaglia non sarà furtiva – promette Guiromelan a Galvano nel Perceval – e la vedranno tutti quanti lo vorranno». E aggiunge: «Quando si battono tali valenti uomini come si dice che noi siamo, non ci si batte di nascosto, ma al contrario vi si invitano dame e cavalieri perché si conosca chi è il vinto e tutti lo sappiano. Il vincitore ne riceverà mille volte piú onore che se fosse il solo testimone della vittoria».

Diritto di vendetta

Il diritto a incrociare le spade è strettamente connaturato all’appartenenza di classe. Solo gli aristocratici o, comunque, i personaggi eminenti possono snudare l’arma, perché il gesto si connette direttamente al diritto di esercitare la vendetta privata, privilegio tutto nobiliare in una cultura e una società molto lontane dal concepire la giustizia come prerogativa esclusiva dello Stato. Negare agli aristocratici e a chi viene a essi assimilato il diritto al duello significherebbe, prima di tutto, chiudere una preziosa valvola di sfogo all’esuberanza della nobiltà e rinunciare, rischiosamente, a una forma minore (e tutto sommato accettabile) di trasgressione dell’ordine; in secondo luogo, significherebbe introdurre un pericoloso elemento destabilizzante del concetto stesso di appartenenza a un ordine. Chi – in quanto «bellator» – ha il diritto a

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portare le armi non può vedersene limitare l’uso ai soli fini guerreschi, perché ciò sottintenderebbe l’implicita ammissione che, di fronte a una sfida privata, egli avrebbe remore ad accettare di battersi. E per chi ha il privilegio di cingersi della spada, questa sarebbe la peggiore delle infamie e motivo di indegnità a far parte di un ceto sociale. Non dare soddisfazione a chi sfida è da «codardi» (termine che nasce, non a caso, nel XIII secolo): in Inghilterra coniano addirittura un insultante titolo per chi si macchia di questa vergogna, «penna bianca», perché i galli con il piumaggio bianco sono ritenuti inadeguati al combattimento. Se, come si è visto, il duello gode dell’entusia-

Miniatura raffigurante due coppie di cavalieri che duellano nel corso di una giostra, dal Sir Thomas Holme’s Book of Arms. 1445-1524 circa. Londra, The British Library.

stico favore dell’aristocrazia, molto piú cauto è, invece, l’atteggiamento di altre componenti della società. La Chiesa, in maniera particolare, è ostile a ogni forma di singolar tenzone, compresa quella del duello giudiziario, tanto che, all’indomani del concilio di Trento, alzerà rigide barriere contro giostre, tornei e scontri armati in genere, diffidando le autorità secolari cattoliche dall’offrire qualsiasi appoggio attivo a queste attività. Ma anche giuristi e sovrani avanzeranno piú

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Dossier

Frasetta in latin totaspit apisi dolendis dolum, inum, sim abo. Aped est faccus, officius, od quam

di una perplessità nei confronti delle lame che si incrociano. Negli anni Sessanta del Trecento, per esempio, il giurista Giovanni da Legnano analizza le tipologie di duello e, se storce il naso perfino di fronte a quello che si fa nel corso di un torneo e a quello giudiziario, non nasconde la sua profonda ripulsa per lo scontro che si svolge fra due persone per solo odio personale. Se i primi due sono ugualmente da evitare, ma si possono in qualche modo capire, l’ultimo, al contrario, è il piú abominevole, perché non è giustificato né dallo scopo ludico, né dal desiderio di fare giustizia, ma è frutto solo di cieca ferocia. Per parte loro, Baldo degli Ubaldi

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(nella seconda metà del Trecento) e Raffaele Fulgosio (primo trentennio del Quattrocento) considerano lecito il duello giudiziario – se proprio non ci sono altre vie possibili per dirimere una controversia –, purché concesso dalla pubblica autorità, secondo le consuetudini e la prassi, e una volta garantita l’osservanza di tutte le leggi che lo regolamentano.

Un reato abominevole

Qualsiasi altra forma di tenzone, al contrario, è solo uno scontro criminoso fra privati che destabilizza l’ordine sociale e dev’essere perciò considerato alla stregua dei piú abominevoli reati contro la persona e contro la collettività. I tentati-

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

vi di dissuadere i privati dal brivido emozionante di sguainare la spada si susseguono, anche nelle epoche successive, con risultati piú o meno apprezzabili. Nel 1560, in Francia, nella riunione degli Stati Generali di Orléans, il re Carlo IX dichiara il duello crimine passibile di pena capitale. E il cardinale Richelieu – che proprio in un duello ha perduto il fratello – si sforzerà di reprimere questa pratica, innestando cosí un braccio di ferro con la nobiltà, gelosa del mantenimento del privilegio. Per capire con quali risultati, basta sfogliare qualche pagina di Alexandre Dumas, che raccontava «storie» e non «storia», ma che non scriveva cose inverosimili. agosto

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Quando non ci sono altri mezzi per dimostrare la propria innocenza o per provare la colpevolezza di qualcuno, l’unica via possibile è quella di fare ricorso a Dio, che si degni di indicare Lui da quale parte stia la ragione e da quale il torto. Ordalie, giudizi di Dio, duelli giudiziari sono forme di sostituzione della giustizia ordinaria che attraversano i secoli: dalla cultura dell’India vedica a quella dell’Europa medievale.

I dubbi di Teodorico

Il mondo germanico lascia in eredità al Medioevo un favore nei confronti del duello giudiziario duro a morire, anche se, per la verità, non tutti i re «barbarici» sono cosí entu-

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siasti di questo strumento: Teodorico, ostrogoto impregnato di cultura latina e, comunque, circondato da consiglieri latini di eccellente livello, invitava a diffidare della risoluzione delle contese ricorrendo alle vie di fatto e sosteneva la superiorità dei gradi di giudizio ordinario. In questa convinzione c’era forse stato lo zampino del solito Marco Aurelio Cassiodoro, ma sta di fatto che il rapporto del re goto con il giudizio ordalico risulta assai piú moderno di quello di chi verrà dopo di lui. I Longobardi, infatti, si dimostreranno a lungo fedeli seguaci di questo tipo di scontro, cosí come i Franchi e altri popoli «barbarici». Il primo esempio di duello giu-

Miniature raffiguranti, da sinistra, Lancillotto che lotta contro i campioni della falsa Ginevra e quest’ultima che, insieme a Bertolais, viene messa al rogo, da un’edizione del Lancelot du Lac. 1313-1315. New York, The Pierpont Morgan Library.

diziario di cui si abbia notizia nell’Italia del primo Medioevo è forse quello del 624, raccontato dal franco Fredegario. Gundeberga, figlia del re longobardo e della regina Teodolinda, moglie di Arioaldo, duca di Torino, riceve a Pavia la visita del nobile Adaulfo. Incautamente, Gundeberga gli esprime ammirazione per la sua avvenenza fisica, e Adaulfo – facendo sbrigativamente

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Dossier Leggi e consuetudini

La saggezza di Liutprando Liutprando (re dal 712 al 744) fu, probabilmente, il sovrano longobardo piú aperto e innovativo. Anche l’istituto del duello giudiziario gli piaceva poco e non faceva mistero di preferirgli i tribunali come sede di composizione delle vertenze. Si rendeva conto che non avrebbe potuto contrastare con tutta una consolidata tradizione della sua gente e se ne rammaricava: «Per la

Il primo esempio di duello giudiziario di cui si abbia notizia nell’Italia del primo Medioevo è probabilmente quello del 624, raccontato dal franco Fredegario

due piú due – la apostrofa con esplicite profferte sessuali, ricevendone, però, in risposta uno sdegnato rifiuto. La cosa potrebbe finire lí, ma Adaulfo comincia a pensare alla reazione del marito, qualora la donna decidesse di raccontargli l’accaduto. E allora pensa bene di non aspettare gli eventi e va da Arioaldo e comincia a mettergli la pulce nell’orecchio, raccontandogli il «gossip» che gira a corte: Tasone, duca longobardo ribelle, se l’intende con Gundeberga, la quale progetta di avvele-

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nare il marito per convolare, poi, a nozze con Tasone stesso. Senza farsi tanti scrupoli, Arioaldo prende alla lettera quel che gli dice questo Jago in anticipo di mille anni giusti rispetto al racconto shakespeariano, e segrega la moglie in una torre del castello di Lumello. Dove la disgraziata finirebbe i suoi giorni, se non fosse per la parentela che, buon per lei, la lega ai re merovingi. Quando sono passati ormai tre anni di quell’inferno, proprio un suo parente, Clotario, venuto a co-

In alto il re Rachi (o Rachtis) in una miniatura dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Archivio dell’Abbazia della SS. Trinità. Già collaboratore di Liutprando, Rachi salí al trono alla morte del di lui nipote, Ildeprando. A destra Piacenza, basilica di S. Savino. Particolare di uno dei mosaici pavimentali della cripta raffigurante una lotta corpo a corpo e un duello. XII sec. agosto

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consuetudine della nostra stirpe dei Longobardi non possiamo vietare questa legge», scriveva, ma, almeno, che se ne limitino i danni. Le nostre leggi – ricorda – prevedono che in un duello giudiziario lo sconfitto perda tutto il patrimonio: ebbene, almeno che sia condannato a pagare solo la tariffa della composizione e non altro. E questo – aggiunge saggiamente – perché non siamo sicuri riguardo al giudizio di Dio e abbiamo sentito che molti hanno ingiustamente perso la loro causa in duello, «per pugnam sine iustitia». noscenza del fatto, chiede ad Arioaldo spiegazione del suo comportamento. Mia moglie mi ha infangato nell’onore e ha tramato contro la mia vita, risponde il duca di Torino, gettando nello sconcerto gli interlocutori, che conoscono Gundeberga come donna integerrima e pia. Allora, si alza un Franco, Ansoaldo, il quale propone una soluzione al marito geloso: ordina a chi ha accusato Gundeberga di dimostrare la validità di ciò che ha detto

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e di accettare un giudizio di Dio, tramite duello giudiziario, con un campione dell’accusata.

Gundeberga riabilitata

Cosí viene deciso, e l’infido Adaulfo è costretto a scendere in campo contro Pittone, patrocinatore della donna. Come in ogni «happy end» che si rispetti, Pittone massacra l’avversario e dimostra, cosí, la piena innocenza dell’accusata e (sebbene la cronaca non indugi

In alto la legislazione emanata da Liutprando, in una copia delle Leges Langobardorum. XI sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

in proposito) la dabbenaggine del marito. E siccome l’«happy end» prosegue anche nel «sequel» della vicenda, farà piacere sapere che Gundeberga, una volta morto (e non per suo fedifrago intervento) il credulone Arioaldo, sposerà in seconde nozze re Rotari, per fortuna

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Dossier la difesa della castità

Contro le molestie Non solo le donne sono oggetto di duello giudiziario per dimostrare la loro castità. In qualche caso, anche gli uomini devono difendere la correttezza del proprio operato e dimostrare con la spada di non meritare l’accusa di stupratori o di molestatori sessuali. È quanto prevede una legge di Liutprando, che commina severe pene pecuniarie per chi osa molestare sessualmente la moglie di un altro. Quando, però, non ci sono prove che le molestie ci siano state, ma esiste solo il sospetto da parte del marito, quest’ultimo potrà chiamare l’accusato a discolparsi, mediante un giuramento, oppure, se non gli basta, tramite il duello. Se poi l’accusato, riconosciuto colpevole, non avrà da pagare la prevista pena pecuniaria, il marito potrà vendicarsi punendolo o vendendolo come si fa con uno schiavo, ma non dovrà né ucciderlo, né mutilarlo. della donna e del suo popolo, molto piú assennato del predecessore. I codici delle consuetudini longobarde presentano tutta una casistica di occasioni nelle quali si può ricorrere al duello giudiziario: per dimostrare di non essere debitori verso qualcuno, per esempio, come si legge nell’Editto di Rotari del 643; oppure se si deve comprovare il legittimo possesso di un bene quando non ci sia piú il documento scritto che lo attesta, come prevede una norma delle leggi di Adelchi, principe di Benevento, della fine del IX secolo, poiché non è inverosimile che un pezzo di carta sia andato bruciato o sia stato rubato; come prova sostitutiva per reati

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In alto miniatura raffigurante l’incontro tra due amanti, dal Canzoniere di Montpellier. 1280-1300. Montpellier, Bibliothèque Universitaire Historique de Médecine. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un duello, dal Codice Manesse. 1300-1340. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

contro la persona; per difendere il proprio status di uomo libero. Liutprando, per la verità, è molto meno entusiasta del duello ordalico di quanto non lo siano i suoi predecessori, ma nemmeno lui riesce a sradicare questo uso. E quando l’Europa centro-meridionale conosce l’egemonia prima dei Carolingi e poi degli Ottoni, l’antico giudizio ordalico ritrova tutta la sua vitalità.

Donzelle e cavalieri

La letteratura se ne impadronisce, facendone un elemento praticamente ineludibile di qualsiasi romanzo cavalleresco che si rispetti, le cui pagine, nel pieno e nel tardo Medioevo, sono letteralmente ri-

gurgitanti di donzelle insidiate, calunniate, vilipese e disonorate, che devono dimostrare, grazie a qualche ardito cavaliere senza macchia e senza paura (e possibilmente ben dotato di muscoli), la loro innocenza e la loro virtú. Né i casi del genere si limitano alla finzione letteraria, perché esempi romanzeschi non mancano nemmeno nella vita reale. Nel 1387, racconta Froissart, un signore approfitta dell’assenza del marito di una donna della quale si è invaghito per farle visita e, con la scusa di farsi mostrare il castello, quando arriva in un locale fuori mano, le salta addosso e la violenta. La sfortunata e fin troppo ospitale dama aspetta agosto

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Dossier pazientemente che torni il suo uomo dal viaggio, e, quando questi è finalmente giunto a casa, gli racconta l’accaduto e l’infame stupro subíto. Il marito non esita a chiedere soddisfazione al mascalzone, il quale, se vuole cercare di convincere tutti che è innocente, deve mettere mano alla spada e affrontare il querelante. Anche in questo caso la storia si conclude con l’«happy end»: lo stupratore viene ucciso, e il marito, ancorché ferito gravemente, vede riconosciuta la castità della moglie. In qualche caso, dietro l’ordalia per difendere l’onore di una donna può celarsi perfino l’origine di un culto. Il signore di Monfort, in viaggio in Oriente, racconta Thomas Lirer nella sua Schwaibischer Chronik della fine del Quattrocento, si assume il compito di salvare, tramite duello giudiziario, l’onore dell’imperatrice del Catai, accusata di adulterio. La sua prova ha un esi-

L’ordalia

Quel giudizio «di Dio» assai poco cristiano Usàma ibn Munqidh è siriano; vive nel XII secolo in terre conquistate dai crociati, e a lui, abituato alla tradizione giuridica musulmana, l’idea che i cristiani compongano le loro vertenze giudiziarie massacrandosi fa semplicemente orrore. Un giorno si trova ad assistere a un’ordalia, a Nablus in Palestina. Accusato di aver favorito il saccheggio di un villaggio, un uomo chiede di provare la sua innocenza sfidando a duello l’accusatore. Quest’ultimo ingaggia un «campione», un

muscoloso fabbro, che, però, è tanto pavido e inetto per quanto è robusto. L’accusato-sfidante è anche anziano, ma se la cava benissimo, mettendo ripetutamente in difficoltà l’avversario. Alla fine, quando i due sono ormai sfiniti e coperti di sangue, il fabbro afferra il martello e vibra un colpo all’avversario che è armato solo di bastone. E lo finisce, massacrandolo. «Ecco un saggio della loro giustizia – prorompe nauseato il buon musulmano – e delle loro procedure legali: che Dio li maledica». In alto Gand, Castello dei conti di Fiandra. Teca con vari esemplari di spade utilizzate per le condanne capitali. A sinistra xilografia raffigurante un combattimento con spada a due mani, da un’edizione della Cosmographia Universalis di Sebastian Münster. XVI sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un duello, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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to positivo e, come ringraziamento per la sua impresa, il cavaliere riceve in dono il sudario di Cristo, la Sindone, che, passando da un membro all’altro della famiglia, resterà infine in possesso dei signori Savoia. Il duello giudiziario deve garantire, comunque, condizioni di parità fra le due parti. Quando non ci si batte di persona, lo si fa attraverso «campioni» che abbiano la stessa forza; talvolta, addirittura, i due combattenti non sanno nemmeno per quale delle due parti lo fanno, perché l’abbinamento è segreto, per evitare ogni condizionamento psicologico, e solo il giudice lo svela a combattimento concluso. Comunque, è sempre lo sfidato a scegliere l’arma con la quale battersi o a far

svolgere l’incontro. Il giudizio per duello è sempre prerogativa dei nobili: sia che si battano di persona, sia che scelgano da chi farsi rappresentare, anche se, nelle città borghesi, si introducono progressivamente elementi che tendono a minare questo privilegio.

Nella piazza del mercato

Le Consuetudini milanesi del 1216 prevedono, per esempio, che sia un console a decidere l’ammissibilità al duello giudiziario e a garantirne le procedure; a Valenciennes, nel 1455, sono due borghesi che si sfidano in un’ordalia e si affrontano, armati di bastoni, nella piazza del mercato, davanti al duca di Borgogna, che fa da giudice, e al

folto pubblico che fa il tifo. Per la cronaca, lo sconfitto, riconosciuto colpevole, non se la cava solo con le bastonate prese dall’avversario, perché viene immediatamente arrestato e messo a morte. Il contorno di un duello giudiziario è quanto di piú solenne si possa immaginare. I due contendenti trascorrono la notte della vigilia in veglia d’armi in chiesa; prima dello scontro fanno la comunione; giurano di combattere lealmente. «Conosco le cause, le leggi, i processi e i giudizi – dichiara Lancillotto –, la battaglia diretta a dirimere un affare di tanta importanza non si può fare senza giuramenti». E il suo avversario Melegant conclude: «Che si prestino i giu(segue a p. 101)

Dietro un’ordalia può talvolta celarsi l’origine di un culto, come nel caso del signore di Monfort, la cui vittoria in un duello giudiziario fu compensata con il dono della Sindone

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Dossier savonarola e la scherma

Guai a tirare di spada! Nella Firenze della fine del Quattrocento non era facile trovare qualche cosa che andasse bene a frate Girolamo Savonarola: a parte, beninteso, pregare, digiunare e piangere. Fra le molte cose proibite alla gioventú, perché fonti di peccaminose distrazioni, il rigido frate inseriva le feste, i balli e la frequentazione di rappresentazioni profane. Guai a indossare vesti sgargianti o di foggia estrosa, o azzardarsi a portare capelli lunghi, segno di effeminatezza; guai a leggere libri disonesti e non ne parliamo nemmeno di perversioni come il gioco d’azzardo. Vietato fare musica; rischio immediato di inferno per chi va a perdere tempo ascoltando i cantimbanchi che cianciano di storie spesso licenziose, comunque profane, sulle piazze della città. E fra le attività proibite, il plumbeo castigatore dei costumi inseriva, infine, anche il dilettarsi con la spada in pugno, raccomandando ai giovani Fiorentini «che non vadino a scuole di scherma».

La scherma

Arte nobile e gentile

In alto stampa ottocentesca raffigurante un’ordalia, da una miniatura del XV sec. In alto, sulle due pagine illustrazioni corredate da didascalie in terzine sulle tecniche di combattimento con la spada, da un’edizione del De arte gladiatoria dimicandi, opera scritta da Filippo Vadi fra il 1482 e il 1487. Roma, Biblioteca Nazionale. A sinistra Il duello alla spada, incisione di Jacques Callot, dalla serie Les caprices. 1621-1622. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Con il pieno Medioevo, il duello diviene materia di insegnamento obbligatoria – per cosí dire – nella formazione del giovane aristocratico. A Parigi, alla fine del Duecento, operano rinomati maestri italiani, che insegnano a tirare di spada, e risale all’inizio del Trecento il primo vero trattato di scherma prodotto in ambito tedesco. Il XIV secolo vede validamente avanzare la scuola italiana – soprattutto bolognese –, ma l’eredità tedesca è ancora pesante. Nel 1410, quando il friulano Fiore dei Liberi da Premariacco scrive il suo Flos duellatorum, il piú antico trattato di scherma prodotto in Italia, l’autore premette che in quest’opera ha messo a frutto la sua esperienza di soldato e quanto ha imparato «da molti magistri todeschi e di molti italiani in piú provincie e in molte citadi». Esposte in animate vignette corredate da didascalie in rima, a uso di allievi illetterati che possono cosí mandarle a memoria, le regole presentano una tipologia di duello agosto

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Fra il XV e il XVI secolo, la scuola italiana di scherma si afferma come la piú prestigiosa d’Europa e i trattati scritti dai suoi maestri divengono testi di riferimento imprescindibili

che è ormai lontana anni luce dall’arte massacratoria dei cavalieri «antiqui». Come Fiore, il pisano Filippo Vadi, pisano, autore, fra il 1482 e il 1487, del De atte gladiatoria dimicandi, espone un concetto di scherma che appartiene al mondo della geometria, della musica e dell’estetica: «Quest’arte è tanto nobile et gintile, / ella maestra l’omo nell’andare, / fa l’[o]chio presto, ardito e segnorile», commenta, ancora una volta in rima. Del resto, ribadisce il Vadi (ma il concetto è già in Fiore dei Liberi), la scherma è arte da nobili e non va insegnata ai plebei. Man mano che la spada perde importanza sul campo di battaglia, aumenta invece il suo ruolo nella difesa personale e l’antico combattimento a colpi da macellai dei tanti Lancillotto e Guerrino si trasforma in elegante arte di autodifesa. Si va gradatamente formando, insomma, il concetto di «scherma», ed è un concetto linguisticamente ben connotato. «Scherma» ha infatti la sua radice nella lingua germanica e significa arte

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del «difendersi», «ripararsi»; chi la pratica impara a schivare i colpi non con lo scudo, ma con la propria spada. Il termine inglese (fencing), del resto, ha identico significato: viene da defencing (difesa) e ha la radice in fence, sbarramento. Chi insegna la scherma insegna un’arte di precisione, una scienza. Maestro Filippo di Bartolomeo Dardi, ancora una volta bolognese, della cui scuola si ha notizia dal 1413, è astrologo e matematico, e dal 1434 è incaricato di insegnare Geometria all’Università di Bologna, vincendo il posto proprio con un trattatello (oggi perduto) sulla relazione fra geometria e scherma. Alla sua scuola si forma il meglio dei maestri di scherma fra Quattro e Cinquecento: è suo allievo Guido Antonio di Luca, maestro d’armi di Giovanni delle Bande Nere, e formatore di un altro eccezionale spadaccino, Achille Marozzo, autore dell’Opera Nuova, ristampata in numerose edizioni nel corso del Cinquecento, compendio della scuola italiana di scherma nel Rinascimento.

L’Italia è ormai all’avanguardia; i suoi maestri sono i piú corteggiati dall’aristocrazia europea: Antonio Manciolino, Giovanni dalle Agocchie, Angelo Viggiani, Giacomo di Grassi... Nel 1492, Andrea Alciato è fra i primi a codificare il protocollo e il cerimoniale del duello, e, alla metà del Cinquecento Il duello di Girolamo Muzio diviene la piú indiscussa «bibbia» dei duellatori. Le posizioni si sono ora ribaltate e perfino in Germania il cinquecentesco e importante trattato del Mayer risulta una divulgazione della scherma italiana. Anzi, alcuni sostengono che lo stesso Mayer fosse stato allievo di Achille Marozzo. In Inghilterra i trattati di scherma sono scritti da Italiani oppure ricalcano la lezione italiana; in Francia i maestri locali inveiscono contro il monopolio italiano, ma, a loro volta, agli Italiani si rifanno ampiamente. Un secolo dopo, nel Seicento, proprio in Francia, la famiglia Cavalcabò sarà ancora la prova vivente della sopravvivenza e della vitalità della scuola di schermitori bolognese.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Miniatura raffigurante la morte di Artú, da un’edizione in lingua francese del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio. 1470-1483 circa. Londra, The British Library.

ramenti e siano portate subito le reliquie dei Santi: so bene di essere nel giusto». A lungo, fra i giuramenti da prestare, c’è anche quello – già presente nell’Editto di Rotari – di non portare indosso erbe malefiche, amuleti o incantamenti di alcun genere.

La condanna del papa...

La Chiesa non è tenera nei confronti del duello in genere, e nemmeno per quello giudiziario ha occhi di riguardo. Nell’858, papa Niccolò I esprime tutta la sua condanna verso questa pratica, e se dopo di lui altri pontefici si mostreranno piú possibilisti (Alessandro III – papa fra il 1159 e il 1181 – permetterà addirittura di celebrare le funzioni a un ecclesiastico che ha perduto un pezzo di dito in un duello), non per questo cambierà la sostanza di un atteggiamento di ripulsa. Graziano, nel 1140, recepisce nel suo Decretum la posizione di Niccolò I: il duello giudiziario è un peccato, perché si configura come tentazione di Dio e pretesa di un intervento soprannaturale, e perché, infine, è comunque la vittoria del piú forte che non è necessariamente il piú giusto. Alla fine del XII secolo, Petrus Cantor lo condanna senza appello: chi partecipa al duello giudiziario lo fa confidando in tre cose. La sua migliore abilità nel maneggiare le armi: e allora la prova è ineguale. La sua pretesa innocenza: e allora è un superbo, perché vuole sostituirsi a Dio che, solo, sa chi è innocente e chi non lo è. L’intervento di un miracolo: e allora – come già argomentava Graziano – questo è voler tentare Dio. Il quarto Concilio Lateranense, nel 1215, proibisce agli ecclesiastici di avere una qualsiasi forma di coinvolgimento in questa pratica e, nel 1234, Gregorio IX collocherà l’ordalia subito dopo l’omicidio nella classifica delle nefandezze. Per parte sua, Federico II, nel Liber Augustalis del 1231, restringe a soli due casi la possibilità di ricorrere – quando proprio non ci siano as-

solutamente altre prove possibili – a questa pratica: in caso di omicidio per veneficio o a tradimento, e in caso di lesa maestà. E san Luigi IX di Francia (1214-70), nella sua Ordonnance contre les duels, ripudiava lo scontro armato, in favore delle testimonianze orali e scritte. Anche altri sovrani (Alfonso X di Castiglia – re dal 1252 al 1284 – e Filippo il Bello di Francia nel 1306) cercano di limitare la pratica dell’ordalia, ma non tutti la pensano cosí; nemmeno fra le menti piú aperte e acculturate. Dante Alighieri, per esempio, nel De Monarchia, dichiara, senza tanti dubbi, che «ciò che si acquista attraverso il duello, si acquista di pieno diritto», purché, beninteso, siano state osservate tutte le procedure e purché sia chiara la distinzione fra l’aspetto giudiziario dello scontro e la – comunque inammissibile – vendetta personale privata.

...e lo sdegno del Petrarca

Ma già all’epoca del Sommo Poeta il duello giudiziario comincia a perdere posizioni: l’organizzazione dello scontro è costosissima e i giuristi rivendicano con sempre maggior forza la primazia del diritto, della testimonianza e del ragionamento sulla forza bruta delle armi. Francesco Petrarca scrive parole di fuoco, dopo che a Napoli, a Campo della Carbonara – dove si svolgono i duelli e i tornei –, ha visto un giovane morirgli davanti, infilzato come un tordo nel corso di un’ordalia, mentre i sovrani, Giovanna d’Angiò e Andrea d’Ungheria, facevano un tifo da stadio all’unisono con la plebe napoletana. In Italia il duello giudiziario ha i giorni contati; in Francia, l’ultima data conosciuta per uno scontro di questo genere è il 1547. Da allora in poi parleranno solo gli avvocati, i giudici e i codici e lo scenario per dirimere le controversie sarà solo l’aula del tribunale e non piú il recinto dello scontro, ultimo erede degli scannamenti circensi dell’età classica.

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CALEIDO SCOPIO

I racconti dell’ammiraglio PERSONAGGI • Il 12 ottobre del 1492, Cristoforo

Colombo non sapeva d’avere scoperto l’America, ma, soprattutto, ignorava che la sua impresa sarebbe divenuta il simbolo della fine del Medioevo. Ma quali pensieri affollavano la mente del navigatore genovese e come si svolse il suo celebre viaggio? La risposta, puntuale e dettagliata, è nel suo Giornale di bordo

I

l 12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo scopre l’America e come ha detto lo storico Franco Cardini: «L’arrivo dell’ammiraglio sulle sponde dell’isola di San Salvador è davvero ben scelto come data convenzionale della fine del medioevo e della nascita della Modernità perché ha obiettivamente segnato (…) la fine della cultura fondata sull’auctoritas e l’avvio di un’altra, tipicamente moderna e occidentale, impiantata sull’esperienza». Quella del comandante genovese è tuttavia una personalità contraddittoria, che unisce fede e ferocia: per meglio comprenderla, vale la pena rileggere il suo Giornale di bordo, integrato dai commenti di Arsenio Frugoni e Antonio Musarra. «Partimmo venerdí tre agosto 1492, alle otto, dalla barra di Saltès…» con queste semplici parole l’ammiraglio comincia il diario dell’impresa che cambierà la storia del mondo. Lo compila ogni giorno sulla Santa Maria, sottraendo ore al sonno pur di descrivere tutti gli avvenimenti di quell’eccezionale avventura. Dalle prime annotazioni cogliamo un senso di quiete: il mare è calmo, il vento regolare, la prua

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orientata verso sud-ovest. Trascorsi alcuni giorni, si verificano i primi imprevisti: all’altezza di Gran Canaria salta la barra del timone della Pinta e viene sostituita la velatura della Niña. Giovedí 6 settembre 1492, le tre navi prendono il largo verso l’ignoto mare. La navigazione si dimostra difficile, Colombo evita tre imbarcazioni portoghesi che si vogliono impossessare della sua flotta, poi bonaccia venerdí e sabato fino alle tre di notte, quando le caravelle partono con difficoltà a causa di un ostile mare di prua, che le fa indietreggiare anziché avanzare.

Il pianto dei marinai Da alcune frasi del diario, comprendiamo quali siano le sensazioni che animano l’equipaggio: la brama dell’oro, lo spirito d’avventura e il terrore di venire inghiottiti dall’oceano una volta perse le tracce della terraferma: «la domenica [i marinai] perdettero di vista tutta la terra e temendo di non tornare per lungo tempo a vederla, molti sospirarono e lagrimarono». L’ammiraglio nota che l’equipaggio scruta spesso l’orizzonte con lo

sguardo perso. Solo lui – animato da una grande fede in Dio, ma anche nella sua abilità di provetto navigatore – sa che prima o poi quell’enorme distesa d’acqua finirà, e scrive che allora decide di «annoverare meno leghe di quante in realtà ne percorra, affinché, se il viaggio diventa troppo lungo, non si spaventi e scoraggi la gente». Colombo ha determinato la lunghezza del viaggio, pensa che con l’illusione della minor distanza percorsa riesca a mantenere intatta la fiducia dei suoi uomini e ridurre il rischio di ammutinamento. Scrisse a riguardo lo storico Edgar Quinet nelle sue Rivoluzioni d’Italia (1848-1851): «Egli prosegue diritto, senza deviare come se vedesse con agosto

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Colombo scopre le coste dell’America, olio su tela di Christian Ruben. 1846. Praga, Galleria Nazionale

gli occhi dell’anima la sua meta». E in effetti la rotta seguita è una linea retta sul 28° parallelo.

Una striscia di fuoco I marinai sono distratti, «governano male» e Colombo deve piú volte rimproverarli. Il 14 settembre, quando l’equipaggio della Niña sostiene di aver avvistato un airone, gli equipaggi vengono presi dall’euforia, perché credono che il volatile non si allontani mai piú di venticinque miglia dalla terra, ma Colombo smorza gli entusiasmi, perché sa che il viaggio è ancora lungo. La notte del 16 settembre, gli uomini «videro cader dal cielo una meravigliosa striscia di fuoco», che viene interpretata di cattivo auspicio

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e li deprime ulteriormente. Dopo una breve pioggia, il comandante annota che la temperatura si è fatta piú mite. «Si provava un vero piacere a godere la bellezza delle mattinate e che quasi altro non mancava a renderle incantevoli se non il canto degli usignoli (…) E il clima era mite come d’aprile in Andalusia». Sul pelo dell’acqua appare un’erba verdissima, il giorno successivo i marinai ne pescano dei ciuffi e notano un gambero ancora vivo, «indizio certo di terra perché non se ne trovano mai alla distanza di trenta leghe dalla riva». Anche l’acqua ha un gusto meno salato e l’ammiraglio in persona scorge un volatile bianco: interpretando queste apparizioni come segni divini, si augura «che Dio onnipotente nelle cui mani stanno tutte le

vittorie farà presto trovare terra». Nonostante le apparizioni di tre uccellini che si mettono a cantare sulla prua della nave e di una balena, il comandante continua a segnare meno miglia di quelle effettivamente percorse e mantiene la prua delle navi su quella che ritiene la rotta per le Indie. La sua prudenza si rivela vincente: per alcuni giorni c’è bonaccia e la navigazione è praticamente ferma: questo stallo fa crescere l’agitazione e la sfiducia nell’equipaggio. Domenica 23 settembre «di molto giovamento mi fu il mare grosso e un miracolo simile non si verificò se non nel tempo dei Giudei, quando gli Egiziani si mossero all’inseguimento di Mosè che liberava Israele dalla schiavitú».

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CALEIDO SCOPIO Il 25 settembre a Martin Alonso pare di scorgere terra a sud-ovest. Il capitano si getta a terra ringraziando Dio, anche gli uomini delle altre navi ne sono convinti e indirizzano la prua verso quella che «avevan creduto terra non era che cielo». Lo scoramento dell’equipaggio è grande quando constatano che è solo una nuvola. Da quel momento Colombo è solo nella decisione di riprendere la rotta per le Indie. «Il mare era come un fiume e l’aria dolce e soavissima», ma è calmo, troppo tranquillo, innervosisce ancor di piú l’equipaggio, che vorrebbe bordeggiare a levante, da dove proviene altra erba. Il comandante intuisce il pericolo della situazione e domina i suoi uomini con ordini che non ammettono repliche. La bussola oscilla, «la stella polare è mobile come le altre stelle, e gli aghi segnano sempre la verità», ma razionalmente si fida di quello strumento, la sua spiritualità lo spinge a proseguire. Prima della partenza, infatti, Colombo aveva scritto alcune lettere a Fernando e Isabella – i reali di Spagna che finanziarono la spedizione –, in cui chiedeva che tutto l’oro che avrebbe scoperto fosse utilizzato per la riconquista della Terra Santa. Si identificava nella profezia del XV secolo che annunciava l’arrivo dalla penisola iberica di colui che a Gerusalemme

avrebbe ricostruito la Casa santa di Sion, il luogo del transito di Maria. La basilica, costruita ai tempi delle crociate, era andata poi in rovina.

Il comandante cambia rotta Quando la mattina di domenica 7 ottobre i marinai della Niña sparano un colpo di cannone, credendo di aver avvistato terra, all’ennesima aspettativa tradita, l’esasperazione raggiunge l’acme, gli uomini sono rassegnati alla morte. Colombo decide allora di cambiare rotta, vede un segno divino nella moltitudine di uccelli che si muove verso sud/sudovest e decide di seguirli. Tre giorni dopo cerca di rianimare gli uomini con la prospettiva dei guadagni che potranno procurarsi, supportato dai continui segnali che la terra è vicina: un tronco di spine carico di frutti rossi, un bastone lavorato con attrezzi in ferro. A quel punto, Colombo decide di tornare al suo progetto, di riprendere la sua rotta per le Indie, perché nella notte ha visto una luce come una candela «che si alzava e si abbassava» e la interpreta come un ulteriore segno che la strada è quella giusta. Dopo il Salve regina recitato dai marinai, l’ammiraglio li invita a «far buona guardia sul castello di prua e di far attenzione all’apparir della

terra». tanto è sicuro della fine del viaggio. Il mattino seguente, alle due di notte del 12 ottobre, la terra viene finalmente e davvero avvistata. Allo sbarco, Colombo assume un atteggiamento di benevola superiorità verso i nativi, che conquista donando loro cianfrusaglie di scarso valore, anche se non esita a sguinzagliare il suo cane per ristabilire l’ordine. La circumnavigazione delle isole si dimostra incoraggiante: spesso gli abitanti indossano monili d’oro. Mercoledí 16 gennaio 1493, tre ore prima dell’alba, l’ammiraglio parte da Santo Domingo per tornare in Spagna. Ad Haiti, che battezza Hispaniola, ha perso sugli scogli la Santa Maria e ha lasciato nel forte di La Navidad trentotto uomini, perché gli erano rimaste solo due navi. Dopo un mese di navigazione, il 14 febbraio, la Niña e la Pinta – che erano piuttosto piccole, lunghe circa 22 m – vengono colte da una terribile tempesta: «il vento crebbe e le onde si Nella pagina accanto Madonna dei Navigatori, olio su tela di Alejo Fernandez. 1531. Siviglia, Alcázar. In questa pagina Salamanca. Particolare del monumento a Colombo, opera di Eduardo Barrón. 1893.

Da leggere Cristoforo Colombo, Diario di bordo, in Gli scritti, Einaudi, Torino 1992 Arsenio Frugoni, Dal Giornale di Bordo di Cristoforo Colombo, in Incontri tra Medioevo e Rinascimento, Scholé, Brescia 2019 Antonio Musarra, Processo a Colombo, La Vela, Viareggio 2018

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i ceci nel berretto, il comandante pesca una seconda volta il legume con la croce e stabilisce di recarsi in pellegrinaggio a Santa Clara de Mogueur. Decide poi che se fossero sbarcati sani e salvi, tutti si sarebbero recati in camicia e in processione a pregare in una chiesa consacrata alla Vergine. Escono dalla tempesta miracolosamente illesi, senza perdere alcun marinaio e nessuna delle due caravelle.

L’approdo in Portogallo

fecero spaventose, l’una contro l’altra, impacciavano la nave tanto che non si poteva seguitare la rotta né uscire da esse che si frangevano contro lo scafo». Il medievista Arsenio Frugoni sottolinea che «in realtà l’ammiraglio nella sua intima solitudine ha veramente fede»: riunisce l’equipaggio della Niña e, tutti insieme, fanno un voto alla Madonna: se si fossero salvati da quella terribile burrasca, tre di loro avrebbero fatto un pellegrinaggio mariano. Il comandante ordina che vengano messi in un berretto tanti

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ceci quanti sono gli uomini e con un coltello ne segna uno con la croce. Chi avesse estratto questo legume, si sarebbe recato dalla Madonna di Guadalupe, in Spagna, per sciogliere il primo voto. Tocca proprio al comandante pescare quello con la croce. Il secondo voto è per la Vergine lauretana: «si trova nella marca di Ancona ed è terra del Papa, ed è la casa in cui Nostra signora ha fatto e tutt’ora fa molti miracoli e grandi». Questa volta il voto tocca al marinaio Pedro de Villa e Colombo promette di pagargli le spese di viaggio. Rimessi

Il 4 marzo Colombo approda in Portogallo, presso la foce del Tago e poi a Lisbona dove resta quindici giorni ospite di re Giovanni II. Nel giugno del 1493, il comandante parte da Barcellona, dove era stato ricevuto dai reali di Spagna con tutti gli onori per aver compiuto la straordinaria impresa e, passando da Madrid, si reca a Trujillo per sciogliere il voto alla Vergine di Guadalupe. Al ritorno a Hispaniola, la benevolenza di Colombo verso la popolazione locale muta in brutalità per il massacro dei marinai lasciati a La Navidad. Il motivo della rivolta è da ricercare nelle continue violenze e negli stupri commessi dagli Europei. Le altre traversate transatlantiche portano diversi guai all’ammiraglio: dalle malattie che sterminano gli abitanti, alle accuse per i violenti metodi utilizzati per reprimere le rivolte, tanto che perde molti dei privilegi che gli erano stati concessi dai Re Cattolici. Nel Giornale di bordo cita spesso l’oro, ne ha una vera ossessione, lo considera indispensabile per organizzare la nuova crociata: la nobile missione giustifica ai suoi occhi le violenze al lavoro coatto. Colombo si trasforma in uno schiavista, aprendo cosí la strada agli stermini dei conquistadores che vennero dopo di lui. La sua personalità è contrastante: si dimostra un intrepido avventuriero, un fervente cattolico, ma anche un conquistatore senza scrupoli. Corrado Occhipinti Confalonieri

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Storie, uomini e sapori LO ZAFFERANO

Un giallo senza fine S

acri e costosi, i delicati stimmi essiccati del fiore del Crocus sativus (di cui rappresentano la parte dell’ovario che contiene il polline) sono stati per millenni privilegio di re, imperatori, regine e faraoni. Hanno giocato un importante ruolo farmacologico e cosmetico, si sono trasformati in profumi e tinture, hanno assunto valore di ricchezza, segno di venerabilità e, in molti casi, sono stati impiegati, al pari dell’oro, come valuta preziosa.

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Su una tavoletta assira in caratteri cuneiformi conservata al Museo del Louvre, Sargon il Grande, re dell’impero accadico, dichiara di essere nato sulle rive dell’Eufrate ad Azupiranu, ovvero nella «Città dello Zafferano». Risalente a 4300 anni fa, è questa la piú antica testimonianza letteraria della coltivazione su larga scala dei fiori da cui si ricava lo zafferano. Affreschi minoici scoperti a Creta nel palazzo di Cnosso (1600 a.C.) e ad Akrotiri sull’isola di Santorini (1500 a.C.) descrivono con efficace realismo cromatico e plastico la raccolta rituale dei fiori di croco a cui intendono scimmie dipinte d’azzurro (una delle quali

erroneamente restaurata con sembianze di giovinetto da Arthur Evans, l’archeologo inglese che riportò alla luce il palazzo minoico cretese) e due graziose ragazze visibilmente di alto lignaggio; altri frammenti dello stesso ciclo rappresentano l’offerta rituale dello zafferano da parte di una sacerdotessa e una barca cerimoniale addobbata con fiori di croco.

Un rimedio per molti mali Tra le 876 formule contenute nel piú famoso testo egizio di medicina, il Papiro Ebers, lo zafferano viene indicato come antidolorifico, idoneo a risolvere ostruzioni intestinali, problemi ostetrici e ginecologici. Il fiore del croco compare come «krakom» nel biblico Cantico dei Cantici; lo zafferano entra nella letteratura greca con Ippocrate, Omero, Sofocle e in quella romana con Ovidio e Virgilio. In Oriente, il grande poeta persiano Firdusi (attivo tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo) indica nello zafferano l’elemento indispensabile nei trionfi regali, mentre lo studioso e scrittore contemporaneo Mohammed Yusuf Teng lo ha incluso tra i prodotti piú preziosi del Kashmir, dell’induismo tantrico e della medicina ayurvedica. Leggenda vuole che la regina assira Semiramide facesse coltivare il croco nei giardini babilonesi e che Cleopatra usasse come arma di seduzione un balsamo allo zafferano. Lo scrittore e naturalista latino Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) ci ragguaglia sugli unguentarii ateniesi, che producevano – ed esportavano agosto

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anche a Roma, nonostante le leggi suntuarie – tre profumi a base di zafferano: il Susinum, il Rhodinum e il Crocinum, ai quali si aggiungeva uno speciale «balsamo», destinato esclusivamente al re dei Parti. I crocotarii romani (tintori di tessuti

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gialli), lo adoperavano per tingere le vesti nuziali e le toghe dei magistrati, mentre i ricchi e i nobili – tra cui l’imperatore Marco Aurelio – amavano bagnarsi in acqua profumata di zafferano e farlo cospargere generosamente

In alto Miniatura raffigurante la raccolta dello zafferano, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto il fiore dello zafferano (Crocus sativus).

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CALEIDO SCOPIO sulle pietanze. Il rude pragmatismo nordico di Marcomanni, Franchi, Vandali e Goti – che dette il colpo di grazia all’agonizzante impero romano d’Occidente – spinse le popolazioni rurali all’abbandono di orti, boschi e campagne; tra vigne e uliveti incolti, terreni riarsi o impaludati e boschi che inghiottivano i villaggi, l’Europa dimenticò, per almeno quattro secoli, anche lo zafferano. Se ne ricorda solo sant’Isidoro di Siviglia (560-636) nel suo Etymologiarum sive Originum, sostenendo che la pianta da cui si ricava lo zafferano (Crocus sativus) prende nome dalla città di Corico, alla foce del Calicadno, in Cilicia. Tuttavia, a Costantinopoli, la «seconda Roma», qualcuno poteva ancora permettersi il lusso di godere delle spezie e degli aromi che giungevano ai suoi mercati.

Le passioni di un’imperatrice Ricorda lo storico e filosofo bizantino Michele Psellus che l’imperatrice Zoe (978-1050), figlia di Costantino VIII Porfirogenito, aveva un hobby alquanto singolare per una sovrana che viene descritta: «Affascinata dalle sostanze che giungevano delle Indie, principalmente dai legni aromatici che trattenevano ancora i loro umori naturali, come le piccole olive e le bacche bianche (…) Il suo fervore quotidiano, a cui dedicava gran tempo, era di combinarli per studiarli, farne aromi e inventarne di questi sempre nuovi e diversi». Da frequentatore della corte bizantina, Psellus doveva avere accesso agli appartamenti dell’imperatrice, poiché ci informa che: «la sua abitazione era tanto regale quanto la bottega di un umile profumiere, In alto disegni di un incensiere e dei fiori del Crocus sativus, dall’edizione manoscritta di una traduzione in lingua araba del De materia medica di Dioscoride. 987-990. Leida, Biblioteca Universitaria. A destra gli stimmi del fiore del Crocus sativus, che costituiscono lo zafferano vero e proprio, nella forma con la quale viene comunemente utilizzato in cucina.

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colma di alambicchi e maceratori. Viveva circondata di bracieri e di ancelle che incessantemente tritavano, mescolavano e bollivano». I Libra Coerimonialis, che non possono essere sospettati di mentire, riportano una lunga lista di essenze, spezie e incensi gelosamente custoditi negli armadi del palazzo imperiale e impiegati tanto in profumeria quanto come aromatizzanti per cibi e bevande: zafferano, muschio, aloe, cinnamomo di primo e secondo grado, ambra grigia, benzoino, olibano, mastica, zucchero… Intanto, da sud, erano arrivati gli Arabi, che reintrodussero il croco in Andalusia, Castiglia e nella Mancha all’epoca del califfato di Cordova (929-1031) e quindi in Sicilia, da dove la pianta si diffuse, risalendo lo stivale e ritrovando l’antica dignità commerciale anche presso i mercati del Nord Europa.

Per combattere la peste All’epoca della Morte Nera – la pandemia di peste bubbonica che funestò il XIV secolo – la tradizione medica greco-romana, alessandrina e bizantina considerava lo zafferano uno degli ingredienti chiave per arginare la malattia. L’enorme domanda non poteva essere soddisfatta ricorrendo ai

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floridi, ma ostili, mercati islamici, mentre su quelli siciliani, francesi, spagnoli e austriaci la peste aveva piú che dimezzato il numero dei produttori. Alcuni bulbi di Crocus sativus giunsero in Inghilterra, si dice ben celati dentro il bastone di un pellegrino rientrato dal Giappone e i frati benedettini li misero a dimora nei loro orti monastici per far fronte all’emergenza della malattia, ma con scarsi risultati. Solo piú tardi il suolo calcareo e il clima piú mite dell’Essex permisero una buona produzione di zafferano inglese, al punto di cambiare il nome della cittadina di Cheppinge Walden in Saffron Walden. Nel frattempo, ai mercanti veneziani e genovesi che esercitavano un monopolio di fatto, non restava che approvvigionarsi di zafferano a Rodi, Creta e sulle altre isole cristiane del Mediterraneo, anche a costo di esporsi agli attacchi di predoni e pirati. Le quotazioni degli stimmi essiccati superavano allora quelle dell’oro, ma le difficoltà dell’impresa erano notevoli; le cronache registrano addirittura una «Guerra dello zafferano» durata tre mesi e scaturita dall’attacco di un gruppo di predoni a un carico di oltre seicento libbre di zafferano destinato al mercato di Basilea. Poco piú tardi, Norimberga e Francoforte divennero le piú importanti e sicure piazze di produzione e scambio dell’«Oro Vermiglio», anche grazie ai calmieri sui prezzi e ai severissimi controlli sulle adulterazioni (con cartamo, calendula e curcuma), che imponevano condanne pecuniarie ai sofisticatori, ma anche la reclusione e, nei casi piú gravi, la mutilazione, il rogo o la forca. Risolta a caro prezzo la pestilenza, lo zafferano, dopo secoli di usi

soprattutto rituali, medici, tessili e cosmetici, trovò entusiastica accoglienza nelle cucine rinascimentali. Non tanto e non solo per i suoi pregi organolettici ma, ancora una volta, per il suo colore. Lo testimonia una delle leggende nate attorno all’invenzione del riso allo zafferano coniugando due icone della milanesità: il duomo e il risotto alla milanese.

Una «vendetta» saporita Nel 1574, un assistente del maestro vetrario Valerio di Fiandra che lavorava alle vetrate del Duomo, era solito aggiungere lo zafferano ai colori, per ottenere toni caldi e brillanti. Il giorno delle nozze della figlia del maestro, forse per gelosia, cosparse con un po’ di zafferano il riso al burro destinato agli invitati; la leggenda assicura che, vinta la diffidenza iniziale, tutti apprezzarono il sapore di quel riso, ma piú ancora il suo colore giallo oro, sinonimo di ricchezza e allegria. La colorita (e colorata) leggenda ha però una sua ragion d’essere, poiché i cuochi di corte, di curia e dei palazzi nobiliari avevano la necessità di rendere i loro piatti piú attraenti possibile e spesso di nasconderne la vera natura con l’uso di diversi artifici. Si adeguavano cioè alle strette regole imposte dal Concilio di Trento che stabilivano l’astinenza dalla carne e dalle uova per due giorni la settimana, nelle vigilie e per tutta la quaresima. Quale miglior modo di costruire false uova usando pasta di mandorle o polenta bianca per l’albume e crema allo zafferano per il tuorlo? I cosciotti di manzo si imitavano fabbricandone repliche con impasti di pane e farina, ai quali si restituiva un colore aranciato con succo di rapa rossa e zafferano. E poiché il cattolicesimo ammetteva il consumo di pesce, chi viveva lontano dal mare cercava di rendere piú appetibili, almeno alla vista, le troppo consuete carni di salacche e baccalà. Sergio G. Grasso

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Il prezzo del tradimento LIBRI • Ricompensa «maledetta» per antonomasia,

i trenta denari pagati a Giuda divennero, nel tempo, anche reliquie venerate e assai ricercate

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tudiosa tra le piú autorevoli sulla funzione non soltanto economica della moneta, Lucia Travaini fa emergere in questo libro tutta l’importanza fisica, oltre che simbolica, dei trenta denari di Giuda nel Medioevo europeo: pur essendo le monete del tradimento piú odioso, esse divennero reliquie della Passione, numerose in tutta la cristianità dal Trecento in poi, come illustra in copertina il dettaglio di un reliquiario a Nin in Croazia. L’esistenza di simili monete-reliquie non deve sorprendere e, nel primo capitolo, l’autrice tratta degli usi rituali delle monete, utilizzate quindi non soltanto negli scambi terreni, ma anche in quelli con Dio, come offerte oppure come ex voto. La trasformazione in reliquie dei trenta denari deriva dal testo del Vangelo di Matteo e dal racconto agiografico creato dal XII secolo su quella tragica ricompensa. Fu Giuda a chiedere ai sacerdoti «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?», ed essi stabilirono di pagarlo appunto con trenta monete d’argento. Dopo il tradimento, Giuda si pentí, restituí i denari ai sacerdoti, e s’impiccò. A quel punto, i sacerdoti avevano fra le mani denari sporchi di sangue e, non potendo rimetterli nel tesoro, se ne servirono per acquistare il campo di un vasaio nel quale seppellire gli stranieri. La transazione avrebbe potuto porre fine alla vicenda, ma i trenta denari avevano un destino sacro. Per il loro ruolo nella morte di Cristo, infatti, entrarono a far parte degli

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strumenti-reliquie della Passione, insieme con i frammenti della Croce, i chiodi, la lancia, le spine della corona, la colonna della flagellazione e tutti gli altri che si aggiunsero nel tempo, incluso il gallo che cantò tre volte, riferito a san Pietro.

Contabilizzare la malvagità Nel Quattrocento e agli inizi del Cinquecento tali strumenti, noti come Arma Christi, furono raffigurati in immagini indulgenziali di Cristo in Pietà, o della Messa di San Gregorio, e molto spesso tutte le trenta monete sono raffigurate, cosí da poter essere contate individualmente e ricordare, contabilizzandola, la malvagità dell’azione di Giuda (si veda al riguardo il Capitolo 5 del volume, dedicato a queste iconografie). La sacralità di queste monetereliquie si basava su una ricca tradizione agiografica, attestata dalla fine del XII secolo (Capitolo 4 e Appendice II, a cura di Francesco D’Angelo), che ne ricostruiva le vicende fin da tempi anteriori ad Abramo, quando in realtà le monete metalliche non erano ancora state inventate. Secondo questa tradizione, i trenta denari sarebbero stati coniati dal padre di Abramo e poi usati in tutte le transazioni bibliche, incluso il dono dei Magi al Bambino. La Vergine Maria le perse durante la fuga in Egitto, vennero ritrovate da un pastore, giunsero poi ai sacerdoti e da qui furono consegnate a Giuda, cosí da chiudere il cerchio e compiere il fato che era stato loro assegnato.

Lucia Travaini I Trenta denari di Giuda Storia di reliquie impreviste nell’Europa medievale e moderna Viella, Roma, 350 pp., 16 tavv. col. e ill. b/n 30,00 euro ISBN 9788833133188 www.viella.it Monete cosí predestinate, sempre in numero di 30 e sempre insieme nel corso dei secoli, non potevano perdersi e cosí si giustifica la loro imprevista storia fisica: l’inventario di esemplari documentati, ancora esistenti oppure perduti, porta a un numero molto maggiore di trenta e si può immaginare che ve ne fossero stati centinaia o migliaia. L’autrice offre un inventario con 54 esemplari, e molte chiese ne avevano piú di uno: nel Cinquecento, 2 a Valencia; nel Settecento, 3 a Malta; e, nel 1650, addirittura 9 a Bologna. Molti sono scomparsi, rimossi o distrutti con l’età dei Lumi o della Rivoluzione, ma almeno furono descritti, e altri sono sopravvissuti. agosto

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Lo scaffale Mario Pagano Cassiodoro e la sua famiglia. Il vivarium Nuove ricerche storico-archeologiche Belle Epoque Edizioni, Napoli, 94 pp., ill. col.

15,00 euro ISBN 8894302776

Molto poco finora si conosceva sulla famiglia e sull’entourage di Cassiodoro, quasi nulla della sua grande villa di Scolacium, situata in Calabria all’imbocco dell’istmo lametino, dove, negli anni tragici della guerra gotica, fondò uno straordinario monastero, il Vivarium, rappresentato in splendide miniature e

dove si ritirò al termine della sua lunga vita (470-559 d.C.). Ora Mario Pagano, soprintendente archeologo e docente presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, nonché studioso di Teodorico e della tarda antichità, attraverso il riesame delle fonti documentarie e archeologiche approfondisce la figura di uno dei massimi precursori del monachesimo medievale. E offre un quadro del tutto nuovo e stimolante, a partire dalla cronologia

Gli esemplari dei trenta denari erano conservati in chiese e monasteri anche accanto a importantissime reliquie della Passione, come a Santa Croce in Gerusalemme a Roma con i frammenti della Croce, o a Valencia con il sacro calice. Erano in genere monete greche della zecca di Rodi del IV-II secolo a.C., in un caso un decadrammo di Siracusa montato nel Trecento con iscrizione QVIA PRECIVM SANGVINIS EST. Allora non si conoscevano le monete greche e poco quelle romane, e solo dal Cinquecento la ricerca antiquaria avrebbe cominciato a discutere sulla possibilità o meno che queste monete potessero essere state pagate a Giuda. I Capitoli 8 e 9 danno conto del dibattito in merito. Esemplari dei trenta denari, con altre reliquie, erano parte dell’ambientazione che permetteva ai devoti di

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degli eventi e dall’individuazione dell’origine delle fortune del ramo occidentale della famiglia, soprattutto del padre, che fu uno dei principali generali e collaboratori di Ezio, Ricimero, Odoacre e Teodorico, e del quale viene ora riconosciuto il sarcofago in marmo che si può ammirare

nella cattedrale di Squillace (495 d.C.). Tra le novità, il volume rivela anche una nuova proposta di datazione per la fondazione del monastero vivariense, che dovrebbe essere avvenuta tra gli anni 538-540. Un monastero dotato di molti codici e considerato, già in età tardo-antica, una sorta di università degli studi classici e cristiani, modellato sulla visione del Paradiso avuta sul letto di morte da san Paolino nel 431 d.C. e per il quale lo stesso Cassiodoro scrisse le Institutiones. Pagano avanza

rivivere i momenti della Passione di Cristo, immedesimandosi nelle sue sofferenze. Di tutto ciò fa parte anche il progressivo accento antigiudaico (Capitoli 3 e 4).

Il sarcasmo di un barone Nel mondo cattolico i trenta denari mantennero il ruolo di reliquie anche dopo la controriforma, mentre dal Settecento molti studiosi, protestanti e non, iniziarono a rifiutarli come imposture. Nella Biblioteca Universitaria di Uppsala nel 1774 si conservava non solo uno dei denari di Giuda, ma anche la sua borsa, e quando furono mostrati a un barone inglese in visita, questi li commentò sarcasticamente di fronte al bibliotecario arrossito. La storia dei trenta denari di Giuda divenuti reliquie tocca molti temi di ricerca e di riflessione: il bisogno

nuove ipotesi anche sull’esatta ubicazione ed estensione della sua villa residenziale: partendo dall’analisi del triclinio della casa – le cui tracce sono riconosciute in una delle absidi della trichora della piccola chiesa di S. Martino, sul promontorio di Staletti – offre dati archeologici inediti, emersi grazie a recenti campagne di scavo condotte nell’ambito di un progetto internazionale finalizzato alla conoscenza, alla tutela e alla valorizzazione dei luoghi cassiodorei. Giampiero Galasso

umano di segni divini e di contatto con il sacro, il bisogno di vedere per immaginare e pregare; la storia dell’antigiudaismo tramite la progressiva demonizzazione di Giuda; e, non ultima, la natura della moneta e la sua complessa storia. Perché fu necessario uno scambio in moneta per il disegno di salvezza? La moneta è imprescindibile istituzione umana, necessaria per poter misurare ogni cosa, incluso il prezzo di Cristo. Dopo avere espresso le sue interpretazioni sul materiale raccolto, Lucia Travaini conclude la trattazione con una reliquia che rende ancor piú evidente il ruolo della moneta e dello scambio al fine della salvezza: la pietra su cui i trenta denari sarebbero stati contati a Giuda, posta su quattro colonne che si riteneva fossero la misura fisica di Cristo prima della morte. Francesca Ceci

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Firenze suona bene MUSICA • Con maestria e notevole padronanza

dei propri mezzi, i giovani musicisti del Sollazzo Ensemble fanno rivivere le vivaci atmosfere della città del giglio al tempo dell’Ars Nova

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uale migliore immagine iconica per rappresentare la vita musicale, se non quella della Firenze del XIV secolo? Un secolo in cui la città vive uno dei suoi momenti d’oro dal punto di vista sociale, economico e artistico. La produzione letteraria, come quella delle arti figurative è all’avanguardia e proprio nella Firenze trecentesca ha i suoi natali una schiera di personaggi chiave della storia della musica e qui assurge al ruolo di protagonista assoluto di una delle piú ricche stagioni compositive. Siamo peraltro in piena Ars Nova, definizione che i teorici dell’epoca hanno dato a questo momento

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storico per sottolinearne la forte carica innovativa intrapresa dai compositori, che creano e sviluppano nuovi generi musicali. La raccolta Trecento. Un jardin florentin si sofferma su questo periodo felice della storia musicale e lo fa con una appropriata scelta di brani che mettono in risalto la ricchezza e la varietà stilistica offerta dai grandi nomi del tempo, principalmente attivi a Firenze. Tra questi, non può mancare Francesco Landini – detto anche Francesco degli Organi per via delle sue abilità in questo strumento –, compositore

Firenze 1350, un jardin médiéval florentin Sollazzo Ensemble dir. Anna Danilevskaia Ambronay Éditions (AMY055), 1 CD https://editions.ambronay.org agosto

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tra i piú acclamati e conosciuti dell’epoca, di cui l’antologia offre una versione strumentale di Che cosa è quest’amor e Adiou, adiou, su testo francese. Altro nome noto del panorama fiorentino è Paolo da Firenze, il quale, oltre all’attività compositiva, si è distinto nella carriera ecclesiastica e diplomatica: dalla nomina ad abate nella diocesi aretina (1401), al rettorato dell’ospizio fiorentino di Orbatello (1417), sino all’attività di consigliere della curia vescovile mantenuta fino al 1428. Di Paolo da Firenze, vengono proposti il brano di apertura dell’antologia, dedicato alla sua città, Godi Firenze, e il mottetto sacro Benedicamus domino. Famoso per i suoi madrigali, dallo stile esuberante e riccamente ornamentato, Giovanni da Firenze è stato molto attivo a Verona a servizio della corte scaligera; di lui si ascoltano una caccia, Per larghi prati,

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genere musicale molto in voga nel Trecento, e due madrigali, Quando la stella e Quando amor. Altro grande arsnovista è Andrea da Firenze, organista attivo nella seconda metà del XIV secolo e famoso anche per la costruzione dell’organo della cattedrale fiorentina (1387).

Ricordando Didone L’antologia propone l’ascolto di una ballata – genere che, insieme alla caccia, ha avuto enorme fortuna nel Trecento – dedicato alla Didone abbandonata, Non piú doglia ebbe Dido. A poste messe di Lorenzo da Firenze, musicista e didatta attivo nella seconda metà del secolo, conclude egregiamente la raccolta; brano di assoluta originalità, nonché di raro ascolto, scritto nello stile della «caccia», è contraddistinto da un inusuale canone imitativo a tre voci, il tutto condito da una virtuosistica ornamentazione delle linee vocali e

da giochi onomatopeici che spesso si riscontrano in questo genere. Fondato nel 2014 da ex studenti della Schola Cantorum Basiliensis, il Sollazzo Ensemble è diretto da Anna Danilevskaia (viella e direzione), e vede la partecipazione di quattro cantanti e di una formazione composta da strumenti tipici della tradizione medievale, come l’organetto, il liuto, la viella ad arco e il salterio. Nonostante la giovane età dei componenti del gruppo, il risultato artistico è eccellente e lo dimostrano anche i numerosi riconoscimenti ottenuti dall’ensemble in ambito internazionale. L’interpretazione è di grande livello, a testimonianza della grande padronanza e dedizione a un repertorio tecnicamente complesso quale quello arsonovistico, qui proposto con affascinante naturalezza. Franco Bruni

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