Medioevo n. 281, Giugno 2020

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MEDIOEVO n. 281 GIUGNO 2020

DI LA CA LEG ROPPU GEN SS CC DA O ET TO

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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CASENTINO

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Mens. Anno 24 numero 281 Giugno 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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IN EDICOLA IL 3 GIUGNO 2020



SOMMARIO

Giugno 2020 ANTEPRIMA

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MEDIOEVO INVENTORE Tutto cominciò con un rotolo

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MULTIMEDIALITÀ Disegnare il mondo

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ITINERARI San Patrizio in Val Seriana

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE FOLKLORE

SPAGNA/1 Per una Spagna unita

Cappuccetto Rosso

Le morali della favola

di Domenico Sebastiani

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di Tommaso Indelli

44

Dossier CASENTINO

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La magia del Medioevo di Federico Canaccini

56 COSTUME E SOCIETÀ PRIGIONI E PRIGIONIERI Una vita dietro le sbarre

di Maria Paola Zanoboni

56

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Costruivano alla catalana di Francesco Miraglia

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CALEIDOSCOPIO MUSICA Note da signori

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LIBRI Lo scaffale

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MEDIOEVO n. 281 GIUGNO 2020

DI LA CA LEG ROPPU GEN SS CC DA O ET TO

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20/05/20 17:42

MEDIOEVO Anno XXIV, n. 281 - giugno 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Silvia Camisasca è giornalista. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Tommaso Indelli è assegnista di ricerca in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Francesco Miraglia è architetto. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 75 (e pp. 94/95), 76/77, 78-83, 96/97, 100 (basso), 100/101 – Mondadori Portfolio: p. 69; Album/Fine Art Images: pp. 5, 40/41; Warner Bros Pictures/Album: pp. 28/29; AKG Images: pp. 30/31, 39, 46, 50, 63, 72-73; Album/ Oronoz: pp. 36, 47; Raffaello Bencini/www.bridgemanart. com: p. 38; Erich Lessing/Album: p. 53; Mithra-Index/ Heritage Images: p. 54 (destra); Fine Art Images/Heritage Images: pp. 68/69; The Print Collector/Heritage Images: p. 71 – Cortesia Museo Galileo, Firenze: pp. 6-12 – Guido Merelli: p. 14 – Cortesia degli autori: pp. 15, 16 (basso), 17-19, 104-105, 106 (alto, a destra, e basso), 107, 108-111 – Alessandro Segna: p. 16 (alto) – Bridgeman Images: pp. 30, 32/33, 35, 58-61, 62/63 – Doc. red.: pp. 34, 44/45, 48/49, 54 (sinistra), 64-67, 84-87, 88, 89, 90-93 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 56/57, 102 (basso) – Cortesia Comune di Poppi (Arezzo): pp. 98-99, 102 (alto) – Vignaccia76: p. 100 – MICHI abba: p. 103 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 52, 77, 88/89, 106. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Poppi (Arezzo). Il castello dei conti Guidi.

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Prossimamente spagna

Quando Granada fu strappata agli «infedeli»

tarquinia

Nella città delle torri

dossier

Il grande business delle armi


MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini

Tutto cominciò con un rotolo...

C

on la crisi dell’impero romano d’Occidente e la fine del mondo antico, una delle preoccupazioni principali degli intellettuali fu quella di salvare dall’oblio il grande patrimonio culturale della classicità. Il compito di conservare e riprodurre i volumina (plurale di volumen, termine che designa il rotolo di papiro, cosí chiamati dal verbo volvo, «arrotolo, avvolgo»), passò dalle istituzioni pubbliche alla Chiesa già verso il VI secolo. Papa Agapito sognava di creare in Laterano una biblioteca paragonabile a quella di Alessandria; Cassiodoro esortava i suoi monaci alla copiatura dei testi antichi, ricordando che il copista arreca «tante ferite a Satana, quante sono le parole di Dio che ricopia». Nei primi secoli della cristianità, poi, fa la sua comparsa anche il codex, il libro come noi lo conosciamo ancora oggi: un formato rettangolare, in pergamena (pelle animale, perlopiú ovina), piú resistente e maneggevole dei rotoli di papiro. Il passaggio e le cause della trasformazione sono controversi: forse le brevi parabole cristiane circolavano tra il vulgus in formato di fogli sparsi, facilmente cucibili tra loro. Oltre a ciò, in piena crisi imperiale, la difficoltà di reperire il papiro dall’Egitto agevolò la diffusione della pergamena, inadatta a creare lunghi volumina, ma ottima per i formati squadrati che ancora conosciamo e che, per esempio, chiamiamo in latino, in folio (libri i cui fogli sono piegati una volta sola cosí che ciascuno presenti quattro facciate). Questa espressione, in realtà, si riferisce ai libri realizzati verso il Duecento, quando compare in Occidente la carta, proveniente dal mondo arabo, che l’aveva conosciuta dal lontano Oriente. Il nuovo supporto scrittorio era realizzato da una poltiglia ricavata da stracci di stoffa pestati a lungo: la sua fragilità, rispetto alla coriacea pergamena, sembrava condannarla. Inoltre, la sua fabbricazione era parzialmente avvolta dal mistero, al punto che il suo nome fu associato a quello dell’antico «papiro»: papier, in francese, paper, in inglese. Tuttavia, alla metà del XV secolo, quando la carta è ormai divenuta un supporto d’uso comune, si diffondono nel Centro Europa piccoli caratteri scolpiti con le lettere a rilievo, realizzati in metallo, componibili e ricomponibili in molteplici combinazioni: sono i cosiddetti «caratteri mobili», ideati dall’orafo tedesco Johannes Gutenberg (1394/1399-1468). La combinazione di carta (piú economica e abbordabile della pergamena) e di stampa (che abbassò ulteriormente i prezzi, facilitando la realizzazio-

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L’invenzione della stampa (o Gutenberg al lavoro), olio su tavola di Corneille Seghers. 1837-1869. Anversa, Museum Plantin-Moretus. Johannes Gutenberg (1394/1399-1468), al quale si deve l’invenzione della stampa a caratteri mobili, è in piedi, al centro, e mostra un foglio appena prelevato dal torchio. ne di testi tutti uguali tra loro), agevolò enormemente la diffusione dei libri e della cultura. Si trattò di una vera e propria rivoluzione: al pari di quella operata dagli odierni motori di ricerca sul web, che permettono di avere accesso a un enorme patrimonio di informazioni. Di fatto, dai tempi di Gutenberg al Novecento, la storia della scrittura è rimasta pressoché inalterata: la macchina da scrivere – che possiamo ormai considerare alla stregua di un reperto archeologico! – diffuse quegli stessi caratteri mobili. Mentre oggi si scrive in modo quasi evanescente, servendosi di computer e smartphone, superando definitivamente gli antichi supporti e strumenti scrittori.

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ANTE PRIMA

Disegnare il mondo MULTIMEDIALITÀ • Il Museo

Galileo di Firenze propone l’esplorazione virtuale del mappamondo di Fra Mauro, uno dei piú importanti documenti cartografici della storia, realizzato alla metà del Quattrocento a Venezia

In alto la riproduzione del mappamondo di Fra Mauro eseguita da Alinari nel 1942 e oggi conservata nel Museo Galileo di Firenze.

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l mappamondo di Fra Mauro custodito dalla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia è uno dei piú affascinanti prodotti cartografici del Quattrocento. Realizzato nel monastero camaldolese di S. Michele in Isola, a Venezia, verso il 1450, esso rappresenta un ponte tra le conoscenze geografiche medievali e i progetti commerciali che, pochi decenni piú tardi, portarono alla scoperta del Nuovo Mondo. In epoca fascista, il governo italiano intendeva presentarlo all’Esposizione Universale di Roma del 1942 (che non ebbe luogo a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale, n.d.r.) come esempio eloquente del contributo italico alle grandi esplorazioni geografiche, e ne fece dunque realizzare una riproduzione, oggi conservata al Museo Galileo di Firenze. Il facsimile fu eseguito, a Firenze, dal Laboratorio Alinari che, con la tecnica della collotipia, riuscí a riprodurre perfettamente la ricca qualità cromatica del grande dipinto su pergamena, dove la rappresentazione geografica di mari e continenti è arricchita da una gran quantità di elementi figurativi, A destra, in alto il mappamondo di Fra Mauro. 1450 circa. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. A sinistra il planisfero di Martin Waldseemüller. 1507.

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iscrizioni e schemi cosmografici racchiusi in una splendida cornice dorata. Alla bellezza dell’opera si contrappone, però, un’oggettiva difficoltà di lettura per l’osservatore moderno, disorientato dalla rappresentazione capovolta del mondo e da circa tremila iscrizioni in volgare veneziano che ricoprono, in forma di cartigli, l’intera rappresentazione geografica. Per agevolare la comprensione – di concerto con la Biblioteca Nazionale Marciana, responsabile del recente restauro del mappamondo – il Museo Galileo ha elaborato un sito web che ne consente l’esplorazione multimediale, sul modello dell’analogo sito pubblicato nel 2016 sulla grande mappa del mondo di Martin Waldseemüller: la stessa che,

nel 1507, diede il nome all’America in onore di Amerigo Vespucci (https://mostre.museogalileo. it/waldseemuller). «Sebbene prodotte in tempi e luoghi diversi – il planisfero di Waldseemüller fu stampato in Lorena, a Saint-Diè-desVoges –, queste due monumentali mappe del mondo trovano – spiega Filippo Camerota, vicedirettore del Museo Galileo – un riferimento comune nell’opera di un famoso cosmografo tedesco, attivo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico, Enrico Martello, autore di un planisfero di poco anteriore alla scoperta del Nuovo Mondo, ma fondamentale per la redazione dalla mappa di Waldseemüller». Il planisfero di Martello venne redatto intorno al 1490, quando nel

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ANTE PRIMA

palazzo dei Medici si trovava una copia manoscritta del mappamondo di Fra Mauro, commissionata pochi anni prima da Lorenzo il Magnifico. Martello fu tra i primi cosmografi a rappresentare il profilo costiero completo dell’Africa, a seguito della celebre circumnavigazione del portoghese Bartolomeu Dias del 1488, estendendo lo spazio ecumenico oltre i limiti geografici indicati da Tolomeo, fino all’allora sconosciuta isola di Cipangu, il Giappone di Marco Polo. Circa mezzo secolo prima, proprio Fra Mauro nel suo mappamondo aveva immaginato e prefigurato questo straordinario scenario cosmografico. Con la nuova navigazione multimediale – accessibile all’indirizzo https://mostre.

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museogalileo.it/framauro – il Museo Galileo ci consente di addentrarci nelle modalità di trasmissione del sapere geografico alle soglie dell’età moderna, esplorando una delle opere cartografiche piú avvincenti e raffinate del tempo.

Una cosmografia figurata Il mappamondo di Fra Mauro è una delle piú complete e significative rappresentazioni dell’imago mundi della metà del Quattrocento: una summa figurata delle novità geografiche e delle scoperte «letterarie» disponibili al tempo. Dipinto e istoriato con colori vivacissimi, è inscritto in un cerchio di 2 m circa di diametro. La rappresentazione geografica è arricchita da oltre tremila cartigli,

moltissimi toponimi e centinaia di immagini di città, templi, strade, navi e un bellissimo paradiso terrestre miniato da Leonardo Bellini. Il Paradiso terrestre è un luogo leggendario che la geografia medievale collocava nell’Oriente piú estremo, su un’isola remota situata in direzione del sorgere del sole. Fra Mauro lo pone nello spazio cosmografico, raffigurandolo al di fuori dell’ecumene, insieme ai diagrammi celesti che illustrano le sfere dei pianeti, gli elementi, la teoria delle maree e altri componenti di filosofia naturale. Nel suo insieme, il mappamondo istoriato si presenta come una sorta di trattato figurato di cosmografia. Fra Mauro delinea l’immagine del mondo appena precedente alle giugno

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In alto le rotte marine dal Portogallo alle coste cinesi. A sinistra il Paradiso terrestre dipinto da Leonardo Bellini nell’angolo inferiore sinistro del mappamondo di Fra Mauro.

In basso il mondo secondo Fra Mauro: 1. l’ecumene tolemaica; 2. l’Asia di Marco Polo; 3. le Indie di Niccolò de’ Conti; 4. l’Africa dei monaci etiopi.

navigazioni dei Portoghesi e degli Spagnoli, integrando la Geografia di Tolomeo con i racconti di viaggio di Marco Polo (1254-1324) e Niccolò de’ Conti (1395-1469). L’ecumene antica si espande verso oriente fino al Giappone e, verso sud, fino alle latitudini piú meridionali dell’Africa che, sebbene non completata, lascia intravedere chiaramente la possibilità della sua circumnavigazione. I racconti di viaggio di Marco Polo (1254-1324), raccolti nel celebre Milione, furono scritti dopo il ritorno a Venezia, probabilmente durante il periodo di prigionia a Genova nel 1298, in collaborazione con il poeta Rustichello da Pisa (seconda metà del XIII secolo). Reso pubblico intorno al 1300, il libro di Marco

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ANTE PRIMA A sinistra Cipangu, ovvero il Giappone, nella sua prima rappresentazione cartografica occidentale. Nella pagina accanto i fiumi del mappamondo nell’esplorazione multimediale. Polo e Rustichello da Pisa ebbe un’ampia trasmissione manoscritta plurilingue, divulgando i tratti di una vera e propria geografia economica e politica dell’Asia, raccontata come una fitta e intricata rete di rotte mercantili terrestri, fluviali e marittime, seguendo le quali, il Mediterraneo e l’Europa cristiana si legavano all’Asia piú profonda e lontana. I confini del mondo si espandevano a oriente fino al ricchissimo regno insulare di Cipangu, l’odierno Giappone, che il Milione descriveva per la prima volta. Tra i mercanti veneziani, che contribuirono alla conoscenza della geografia dell’Asia, si distingue anche Niccolò di Giovanni Conti (1395-1469), che nel 1414 intraprese un lungo viaggio in India, Indocina e Borneo. La padronanza dell’arabo e del persiano gli permise di conoscere a fondo i territori meno esplorati da Marco Polo. Tornato a Venezia dopo venticinque anni, il pontefice Eugenio IV (1383-1447) lo costrinse a rendere conto dei suoi viaggi in adempimento della penitenza inflittagli per aver abiurato la religione cristiana. Il resoconto fu dettato al segretario del papa Francesco Poggio Bracciolini (1380-1459), che ne fece il Liber IV del De varietate fortune, reso pubblico nel 1448 e diffuso attraverso numerose copie manoscritte e alcuni volgarizzamenti in lingua toscana e veneziana. Le ricchissime notizie sull’India e sulle moltissime isole dell’Oceano Indiano costituirono, insieme ai racconti di Marco Polo, una preziosa fonte di informazioni per il mappamondo di Fra Mauro. «Oltre ad aver immaginato e definito la possibilità concreta di

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congiungere il Mediterraneo con l’Oceano Indiano, circumnavigando l’Africa in un’unica immensa rotta, Fra Mauro – racconta Angelo Cattaneo, uno dei curatori del sito web – disegnò una straordinaria e dettagliatissima rappresentazione delle regioni interne dell’Africa. La rappresentazione dell’Etiopia, in particolare, rimase insuperata per centinaia d’anni». Fra Mauro si avvalse di carte geografiche che ricevette da alcuni monaci etiopi, probabilmente a Venezia per partecipare al Concilio di Firenze (1439-1440), raccogliendone racconti e testimonianze, sulla base delle quali raffigurò i regni etiopi ben oltre le latitudini ritenute abitabili da Tolomeo. Dopo la morte, Fra Mauro fu presto dimenticato, e per circa tre secoli si credette che il mappamondo del monastero camaldolese di S. Michele in Isola fosse stato disegnato da un ignoto converso, copiando

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una carta del mondo redatta da Marco Polo nel corso del suo lungo viaggio nelle terre d’Oriente. Il nome di Fra Mauro fu riscoperto solo verso la metà del Settecento nel contesto degli studi storici sulla Congregazione camaldolese dell’Ordine di San Benedetto, e da allora fu sottoposto ad attenti studi critici i cui risultati confluiscono nel sito web progettato e costruito dal Museo Galileo di Firenze.

L’esplorazione multimediale Il sito permette di esplorare nei dettagli la ricchissima informazione testuale e grafica del mappamondo, visualizzando i circa 3000 cartigli che descrivono i regni e le province, selezionando mari e fiumi, città e monumenti, strade e itinerari commerciali terrestri e marittimi. Gran parte dei luoghi descritti da Marco Polo sono stati individuati e geolocalizzati sulla mappa di

Google, in modo da poter ricostruire l’itinerario di viaggio di Marco, del padre e dello zio. Allo stesso modo è stato visualizzato l’itinerario di viaggio di Niccolò de’ Conti, cosí come le rotte dei Portoghesi che, poco dopo la redazione del mappamondo, furono in grado di raggiungere le Indie via mare, doppiando il Capo di Buona Speranza e collegandosi a una rotta, segnalata da Fra Mauro, che da quell’estremo punto meridionale le giunche cinesi avevano già tracciato fino alle coste dell’India e del Catai. Il blocco turco del Mediterraneo, imposto con la caduta di Costantinopoli nel 1458, aveva di fatto obbligato le potenze marinare a cercare una via alternativa per l’Oriente, e la mappa di Fra Mauro era sicuramente il documento cartografico piú adatto all’elaborazione di un tale progetto commerciale. Non a caso, il re del Portogallo ne richiese una copia, oggi perduta, che fu inviata a Lisbona prima del 1459. Dal punto di vista iconografico, il mappamondo di Fra Mauro si colloca nella tradizione delle mappaemundi e delle carte portolaniche medievali. In base a una precisa scelta di cui il cosmografo veneziano rende conto in uno dei sui cartigli, il disegno del mondo non segue la tradizione umanistica tolemaica, che stabiliva la posizione dei luoghi per mezzo delle coordinate geografiche di latitudine e longitudine. Fra Mauro inscrive, invece, il mondo conosciuto all’interno di una rosa dei venti, come si usava fare nelle carte nautiche, e disegna regioni, città e particolari orografici compendiando le informazioni dei portolani e i resoconti di viaggio di mercanti e missionari. «Le coordinate dei luoghi – specifica Camerota – sono riferite a rilevamenti eseguiti con la bussola e l’intero mappamondo presenta, pertanto, la stessa rotazione antioraria di circa undici gradi che contraddistingue le carte nautiche:

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ANTE PRIMA rotazione dovuta alla declinazione magnetica dell’ago della bussola la cui direzione differisce di vari gradi da quella del Nord geografico». Le animazioni elaborate per il sito web illustrano efficacemente questi aspetti della cartografia medievale, oggi solitamente materia di studio degli specialisti del settore. Dalla bottega di Fra Mauro deriva anche una bellissima carta marina oggi conservata alla Biblioteca Apostolica Vaticana, che si distingue dalla produzione cartografica nautica del tempo per la ricchezza dei contenuti cosmografici. Non solo i cartigli la accomunano al mappamondo veneziano, ma anche il disegno delle coste del Mediterraneo, che è del tutto coincidente, anche nelle dimensioni. Le due mappe sono perfettamente sovrapponibili, tanto che la scala delle distanze in miglia nautiche tracciata sulla carta marina, secondo l’uso del tempo, è legittimamente trasferibile sul mappamondo, permettendoci di misurare la grandezza del mondo

In alto la carta marina di Fra Mauro (Biblioteca Apostolica Vaticana, Borg. VIII) sovrapposta al mappamondo marciano. In basso la rosa dei venti tracciata sul mappamondo. allora conosciuto. Rapportando le terre rappresentate nel mappamondo alla loro reale estensione geografica, dalle Canarie al Giappone, il mondo rappresentato da Fra Mauro dovrebbe oggi estendersi per circa 160 gradi di longitudine. «Tuttavia – rivela Cattaneo – come la maggior parte dei cosmografi del Rinascimento, Fra Mauro riteneva che l’Eurasia fosse molto piú estesa. Il cosmografo, quindi, compresse le regioni orientali di Tolomeo per includere nella forma circolare del mappamondo, oltre ai 180 gradi di longitudine e i circa 63 gradi di latitudine nord dell’ecumene tolemaica, anche il Cathaio, vale a dire la Cina settentrionale e la Mongolia, e il Giappone con le due isole di Giava, territori ignoti allo scienziato alessandrino e descritti dai moderni». Silvia Camisasca

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La Borsa di Paestum scalda i motori S

ono state annunciate le 5 scoperte archeologiche che si contenderanno l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» 2020, il premio promosso dalla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum e dalla rivista «Archeo», che sarà consegnato il 20 novembre in occasione della XXIII edizione della rassegna. La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico e «Archeo» hanno inteso dare il giusto tributo alle scoperte archeologiche 19 98 20 20 attraverso un Premio annuale assegnato in collaborazione con le testate internazionali, tradizionali media partner della Borsa: Antike Welt (Germania), Archéologia (Francia), as. Archäologie der Schweiz (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia), da quest’anno anche con British Archaeology (Regno Unito), la testata del prestigioso Council for British Archaeology. L’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» – giunto alla sesta edizione e intitolato all’archeologo di Palmira, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale – è l’unico riconoscimento a livello mondiale dedicato al mondo dell’archeologia e in particolare ai suoi protagonisti, gli archeologi, che con sacrificio, dedizione, competenza e ricerca scientifica affrontano quotidianamente il loro compito nella doppia veste di studiosi del passato e di professionisti a servizio del territorio.

Jonathan Adams, responsabile del Black Sea Maritime Archaeology Project, riceve il premio Khaled al-Asaad 2019 per la scoperta nel Mar Nero del piú antico relitto intatto del mondo, alla presenza di Fayrouz, la figlia archeologa di Khaled al-Asaad.

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Il Premio sarà assegnato alla scoperta archeologica prima classificata, secondo le segnalazioni ricevute da ciascuna testata. Inoltre, sarà attribuito uno «Special Award» alla scoperta, tra le cinque candidate, che avrà ricevuto il maggior consenso dal grande pubblico attraverso la pagina Facebook della Borsa (www. facebook.com/borsamediterraneaturismoarcheologico) nel periodo 1 giugno-30 settembre. Le cinque scoperte archeologiche del 2019, candidate alla vittoria della sesta edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», sono: • Cambogia: la città perduta di Mahendraparvata, capitale dell’impero Khmer, nella foresta cambogiana, sulle colline di Phnom Kulen a nord-est di Angkor; • Iraq: nel Kurdistan, presso il sito di Faida, a 50 km da Mosul, dieci rilievi rupestri assiri, raffiguranti gli dèi dell’antica Mesopotamia; • Israele: a Motza a 5 km a nord-ovest di Gerusalemme, una metropoli neolitica di 9000 anni fa; • Italia: a Roma la Domus Aurea svela un nuovo tesoro, la Sala della Sfinge; • Italia: nell’antica città di Vulci, una statua etrusca, raffigurante un leone alato del VI secolo a.C. Il Direttore della Borsa Ugo Picarelli e il Direttore di «Archeo» Andreas M. Steiner hanno condiviso questo cammino in comune, consapevoli che «le civiltà e le culture del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante assumono oggi sempre piú un’importanza legata alla riscoperta delle identità, in una società globale che disperde sempre piú i suoi valori». Il Premio, dunque, si caratterizza per divulgare uno scambio di esperienze, rappresentato dalle scoperte internazionali, anche come buona prassi di dialogo interculturale e cooperazione tra i popoli. Per informazioni sulle scoperte: www. borsaturismoarcheologico.it/premio-khaled-al-asaad


ANTE PRIMA

San Patrizio in Val Seriana

ITINERARI • A Colzate, immersa in un paesaggio

incantevole, sorge la chiesa intitolata al patrono d’Irlanda. Le cui gesta sono celebrate da un ciclo di affreschi che mette in scena temi inconsueti

A

ppoggiato sopra uno sperone di roccia che domina la media Val Seriana (Bergamo), il santuario dedicato a san Patrizio (387-461) di Colzate racchiude una gemma: il sacello del XII secolo. Il culto del patrono d’Irlanda risale al Basso Medioevo, quando i mercanti della stessa Colzate e di Vertova si recano in quella terra lontana per commerciare i panni di lana. E chiamano l’Irlanda Ibernia, per sottolineare che là è sempre inverno. Secondo la storica medievista Chiara Frugoni, nelle due lunette sopra la porta d’ingresso della chiesetta, rivolta verso la Terra Santa, sono raffigurati Chiara di Assisi e Bonaventura da Bagnoregio, autore della Legenda Maior, l’unica biografia ufficiale di Francesco di Assisi dopo il 1266. La loro rappresentazione

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In alto e in basso Colzate (Val Seriana, Bergamo). La chiesa di S. Patrizio, sorta nel XII sec. e appartenuta all’Ordine dei Francescani.

sottolinea che i Minori erano i custodi di questo luogo sacro. Erano Francescani conventuali, sostenitori di una versione piú attenuata della rigida regola di povertà assoluta voluta da Francesco, ma ligi alla Regola approvata finalmente dal papa Onorio III nel 1223. Sulla parete esterna del santuario è riprodotto in pittura un Breve espresso del 1494 di Alessandro VI, ora illeggibile ma con ancora i sigilli cardinalizi, con

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MEDIOEVO


A destra le due lunette sopra la porta d’ingresso della chiesa di S. Patrizio, rivolta verso la Terra Santa, nelle quali compaiono i ritratti di Chiara di Assisi e Bonaventura da Bagnoregio. In basso il pannello sul quale era dipinto il testo (oggi illeggibile) del Breve espresso con cui, nel 1494, papa Alessandro VI proibiva il culto del Purgatorio legato a san Patrizio.

il quale il vicario di Cristo proibisce il culto del Purgatorio legato a san Patrizio. Dopo aver ricevuto da un monaco tedesco un rapporto sfavorevole sulle consuetudini devozionali relative al santuario irlandese del Lago Derg dedicato a san Patrizio, il pontefice interdisse tali pratiche e impose la chiusura della caverna situata sull’isoletta di Station Island in cui il santo aveva trascorso quaranta giorni di grandi rinunce e grandi pene.

Tentazioni d’ogni genere Secondo la leggenda, qui san Patrizio indicò l’ingresso del Regno intermedio, un luogo terribile, dove i demoni fecero ogni sforzo per spaventarlo e farlo desistere dall’intento di convertire gli abitanti dell’isola. Negli anni, il soggiorno di Patrizio in questo luogo e le sofferenze che vi patí resero la caverna assai famosa. Molti personaggi, poi dichiarati santi, vi si recarono con spirito di devozione. Dapprima furono fabbricate le celle per loro, poi venne costruito un

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monastero di canonici regolari di Sant’Agostino, il cui priore custodiva le chiavi dello speco. Il popolo irlandese credeva che in quella grotta Patrizio ottenesse da Dio di distribuire le pene e le ricompense dell’altra vita. Saputo di questo abuso nel culto del santo, che lo faceva apparire come il custode del Purgatorio, Alessandro VI ordinò con

il Breve che la grotta venisse chiusa. La Chiesa s’era cosí riappropriata del culto del Regno intermedio: solo lei poteva sapere dove fosse questo luogo e per quanto tempo le anime dovessero rimanerci. Papa Borgia cercava di arginare la crescente insofferenza della popolazione verso una Chiesa venditrice di indulgenze, distante dal popolo e sempre piú

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ANTE PRIMA Tutte le immagini in queste e nelle pagine che seguono documentano gli affreschi realizzati da Jacopino Scipioni nella chiesa di S. Patrizio a Colzate (Val Seriana, Bergamo). A sinistra il Giudizio Finale che sovrasta l’altare maggiore. In basso San Patrizio incontra il re d’Ibernia e lo avvisa di una congiura.

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corrotta, di cui proprio Alessandro VI fu uno degli esempi peggiori. Negli affreschi sulla vita di san Patrizio, realizzati all’interno del sacello da Jacopino Scipioni nel 1514, non è pertanto casuale la totale assenza di un riferimento al Purgatorio, neppure nella grande rappresentazione del Giudizio Finale che sovrasta il piccolo altare. Gli affreschi devono essere letti dando le spalle all’altare, partendo da sinistra. Ciascun episodio è accompagnato dall’iscrizione sottostante in caratteri gotici che illustra in volgare la scena. Il cartiglio non in latino ma nella lingua di chi osservava i dipinti dimostra il loro alto tasso di alfabetizzazione. Il titolo del primo riquadro, San Patrizio incontra il re d’Ibernia e lo avvisa di una congiura, fa riferimento al primo re d’Irlanda convertito. Si chiamava Loíguire (o Loghaire, si legge Líhri) della famiglia Uí Néill. La sua conversione avviene

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in seguito a quella delle due figlie, Eithne e Fedein nella piana sotto la Rocca di Cashel, quando san Patrizio spiega il mistero della Santissima Trinità attraverso una foglia di trifoglio, divenuto cosí simbolo dell’Irlanda. Nel secondo episodio, San Patrizio battezza il popolo d’Ibernia e il suo popolo in nome di Dio, si ribadisce la conversione degli infedeli. Il messaggio fu particolarmente importante in Val Seriana e nelle valli circostanti, dove, nel XV-XVI secolo, crebbe il numero delle persone attratte dalle teorie definite eretiche dalla Chiesa con il rifiuto del battesimo.

All’altezza di san Francesco La tradizione cristiana possiede grandi santi, i soli capaci di miracoli impossibili, come riportare in vita i defunti. La scena successiva, in cui San Patrizio resuscita un morto citando il nome di Gesú lo pone all’altezza di san Francesco, capace dello stesso prodigio. Il quarto pannello ha un significato piú politico, molto sentito all’inizio del XVI secolo, perché ribadisce il primato del potere spirituale su quello temporale: La predica di San Patrizio al re e ai suoi popoli di aver fede in Cristo. Il ciclo si sposta poi sulla controfacciata. A sinistra troviamo: San Patrizio esorta il re d’Ibernia. Senza volerlo, il patrono irlandese buca con il bastone pastorale il piede di re Loíguire, ci sputa sopra e riesce a guarirlo immediatamente. L’episodio sintetizza i messaggi precedenti: la supremazia della Chiesa, rappresentata da Patrizio, e i suoi strepitosi miracoli. Le scene successive hanno invece una finalità didattica per i fedeli che, terminata la messa, tornano a casa. Il posizionamento degli affreschi sulla parete di uscita non è casuale: spiega cosa Patrizio possa fare per loro, se ogni giorno si affidano a lui senza remore. Il piú sorprendente appare il riquadro centrale: San Patrizio e la pecora rubata. Il santo concede

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In alto San Patrizio battezza il popolo d’Ibernia e il suo popolo in nome di Dio.

In basso San Patrizio resuscita un morto citando il nome di Gesú.

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ANTE PRIMA

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Reliquie ed ex voto Durante i restauri degli affreschi della chiesetta, negli anni Ottanta del Novecento, venne spostata la grande pietra della mensa sull’altare. Venne alla luce un vano di cui da secoli si ignorava l’esistenza e che conteneva una piccola urna in pietra lavorata. Al suo interno, i ricercatori scoprirono alcune reliquie: frammenti di ossa e di stoffe, ritenute di san Patrizio e portate qui dai mercanti di Colzate e di Vertova. Un ex voto in pietra arenaria, invece, è collocato all’esterno del santuario e rappresenta un’antica immagine del santo irlandese (vedi foto a destra).

Sulle due pagine, da sinistra, in senso orario La predica di San Patrizio al re e ai suoi popoli di aver fede in Cristo; San Patrizio libera i suoi devoti da morsi di cani e l’Irlanda dalle serpi, dal morbo; Un angelo chiama San Patrizio alla missione di predicare in Ibernia.

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la grazia a una contadina a cui è stata rubata una pecora: comanda all’animale di belare nel corpo del ladrone e cosí la donna scopre chi l’aveva sottratta. Il pannello a seguire fa riferimento a grazie che il santo concede: San Patrizio libera i suoi devoti da morsi di cani e l’Irlanda dalle serpi, dal morbo. La gente colpita da

morso di vipera, serpente, cane, lupo, oppure malati di epidemie invocano Gesú e vengono guariti e liberati per i meriti di Patrizio, vescovo di tutta la Scozia e di tutta l’Ibernia, opportunamente pregato. Questo episodio è un riferimento alla tradizione del santo che liberò l’Irlanda dalle serpi facendole finire a mare. Piú in alto, in un oculo ricavato nel timpano, Un angelo chiama San Patrizio alla missione di predicare in Ibernia: con quest’ultima immagine, i committenti ribadiscono l’importanza della predicazione per contrastare gli eretici in modo che i fedeli, uscendo dalla funzione religiosa, avessero presente il messaggio: bisognava ascoltare solo la voce ufficiale della Chiesa. La leggenda di san Patrizio e l’antro del Purgatorio andavano decisamente dimenticati. Corrado Occhipinti Confalonieri DA LEGGERE

Chiara Frugoni, Senza Misericordia, Einaudi, Torino 2016

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

In previsione degli eventi per il settimo centenario della scomparsa di Dante, che cadrà l’anno prossimo, Rovigo ricorda la quercia secolare morta nel 2013 che la leggenda vuole abbia permesso di orientarsi nel Delta del Po al sommo poeta, di ritorno da un viaggio a Venezia. L’ingresso del rinascimentale Palazzo Roncale ospita un frammento di radice dell’albero, una scultura naturale alta circa tre

PADOVA «A NOSTRA IMMAGINE». SCULTURA IN TERRACOTTA A PADOVA NEL RINASCIMENTO DA DONATELLO A RICCIO Museo Diocesano fino al 2 giugno

Secoli, dispersioni, furti, indifferenza, vandalismi hanno quasi completamente distrutto o disperso un patrimonio d’arte unico al mondo: le sculture in terracotta rinascimentali del territorio padovano. Ma qualcosa di prezioso e significativo è rimasto e il Museo Diocesano di Padova, insieme all’Ufficio beni culturali, al termine di una intensa, partecipata attività di recupero, studi, ricerche e restauri – sostenuti anche dalla campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi «Mi sta a cuore» – sono riusciti a riunire nelle Gallerie del Palazzo vescovile di Padova, una ventina di terrecotte rinascimentali del territorio, orgogliosa testimonianza delle migliaia che popolavano chiese, sacelli, capitelli, conventi e grandi abbazie di una Diocesi che spazia tra le province di Padova, Vicenza, Treviso, Belluno e Venezia. La diffusione tanto capillare della scultura in terracotta proprio in questo territorio va individuata nella presenza prolungata e molto attiva, a Padova, a ridosso della basilica di S. Antonio, della bottega di Donatello e, dopo di lui, di Bartolomeo Bellano, Giovanni De Fondulis e Andrea Riccio. Questi artisti creavano capolavori in pietra, marmo, bronzo, ma anche nella piú umile (e meno costosa) terracotta. Opere preziose ed espressive, e per questo molto ambite e richieste. In queste fucine venivano alla luce grandi

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scene di gruppo, come i Compianti, ma anche piccole ma raffinate Madonne con il Bambino o immagini di Santi per devozione familiare, di dimensioni ridotte ma spesso di grande qualità. E la mostra, quasi per campione, accoglie esempi emozionanti di queste variegate produzioni artistiche distribuite nel territorio, non meno pregiate di altre sculture

in terracotta che saranno prestate per l’occasione da alcuni Musei nazionali e internazionali. info tel. 049 652855 o 049 8761924; www.museodiocesanopadova.it ROVIGO VISIONI DELL’INFERNO Palazzo Roncale fino al 28 giugno

metri, che introduce il visitatore alle sale con le immagini della farnia e del territorio. La «Rovra», come viene chiamata in polesano, con un tronco che poteva essere abbracciato da sei adulti, segnava il paesaggio del Po dall’alto dei suoi 26 m; colpita da un fulmine nel 1976, sopravvisse altri 37 anni. Secondo la vulgata, lo giugno

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MOSTRE • La Riscoperta di un Capolavoro Bologna – Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni

in corso (data di chiusura in via di definizione) info tel. 0544 473717; https://genusbononiae.it/

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n viaggio di ritorno travagliato, che ai tre secoli di attesa ha sommato altro tempo, se possibile ancor piú interminabile nella sua incertezza: ma finalmente il capolavoro ritrovato è pronto a rivelarsi: Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni di Bologna ospita la grande mostra che riporta in città, a 500 anni dalla sua realizzazione e a 300 dalla sua dispersione, le tavole del Polittico Griffoni dei ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che proprio nella città felsinea, con la maestosa pala d’altare realizzata tra il 1470 e il 1472 per l’omonima cappella nella basilica di S. Petronio, diedero avvio al loro straordinario sodalizio artistico. Un lavoro di oltre due anni e il coinvolgimento di 9 Musei internazionali proprietari delle singole tavole, la metà dei quali ubicati fuori dai confini nazionali – National Gallery di Londra, Pinacoteca di Brera di Milano, Louvre di Parigi, National Gallery of Art di Washington, Collezione Cagnola di Gazzada (Varese), Musei Vaticani, Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, Collezione Vittorio Cini di Venezia – danno vita oggi a quello che è un evento eccezionale per la storia dell’arte, che ha il merito, tra le altre cose, di ridefinire la centralità della città di Bologna nel panorama rinascimentale italiano. La mostra si compone di due sezioni: il Piano Nobile di Palazzo Fava ospiterà «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna» a cura di Mauro Natale in collaborazione con Cecilia Cavalca: le 16 tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei prestatori saranno visibili assieme alla ricostruzione del Polittico, una vera e propria rimaterializzazione della pala d’altare cosí come dovette apparire ai Bolognesi di fine Quattrocento. Si tratta di una perfetta riproduzione dell’originale realizzata da Factum Foundation di Adam Lowe. La superba pala d’altare dedicata a san Vincenzo Ferrer fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni all’interno della basilica di S. Petronio a Bologna. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese Francesco del Cossa, allora all’apice della sua straordinaria carriera artistica, iniziata intorno al 1456 e stroncata dalla peste nel 1478. I contatti tra l’artista e il capoluogo emiliano, attivi per quasi un ventennio, si tradussero nella realizzazione di alcuni capolavori come l’Annunciazione di Dresda, la Madonna del Baraccano e la Pala dei Mercanti. Il Polittico Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Del Cossa e De’ Roberti lavorò alla cornice il maestro

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d’ascia Agostino de Marchi da Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, Pompeo Aldrovandi, monsignore e poi cardinale, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso dell’Ottocento i dipinti entrarono nel giro del mercato antiquario e del collezionismo, giungendo, infine, ai nove musei che oggi custodiscono le opere, la metà dei quali hanno sede fuori dai confini nazionali. Il secondo piano pertanto ospiterà «La Materialità dell’Aura: Nuove Tecnologie per la Tutela», a cura di Adam Lowe, Guendalina Damone e del team della Fondazione, sezione nella quale verrà mostrato, attraverso video, immagini e dimostrazioni con gli strumenti di scannerizzazione 3D progettati dalla stessa fondazione, l’operato di Factum e l’importanza che assumono le tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del polittico.

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AGENDA DEL MESE

scrittore si sarebbe smarrito nella fitta vegetazione che rivestiva l’argine del Po di Goro, nei pressi di San Basilio, dove i monaci di Pomposa gestivano un hospitium; per riprendere il cammino sarebbe salito sulla maestosa quercia, menzionata in un atto notarile del 1548. Al piano superiore di Palazzo Roncale è allestita un’altra rassegna, dedicata all’Inferno dantesco, illustrato da tre artisti di secoli diversi. La visione ottocentesca della prima cantica è affidata al francese Gustave Dorè, presente con il corpus completo di 75 tavole, mentre il XX secolo e il III millennio sono documentati

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rispettivamente dalle immagini dell’americano Robert Rauschenberg, protagonista della Pop art, e dai lavori della contemporanea tedesca Brigitte Brand. info www.palazzoroverella.com TORINO ANDREA MANTEGNA. RIVIVERE L’ANTICO, COSTRUIRE IL MODERNO Palazzo Madama, Corte Medievale e Piano Nobile fino al 20 luglio (prorogata)

Torino rende omaggio ad Andrea Mantegna, uno dei piú importanti artisti del Rinascimento italiano, con una ricca rassegna, allestita nelle sale monumentali di

Palazzo Madama. La mostra presenta il percorso artistico del grande pittore, dai prodigiosi esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista di corte dei Gonzaga, articolato in sei sezioni che evidenziano momenti particolari della sua carriera e significativi aspetti dei suoi interessi e della sua personalità artistica, illustrando al tempo stesso alcuni temi meno indagati come il rapporto di Mantegna con l’architettura e con i letterati. Viene cosí proposta un’ampia lettura della figura dell’artista, che definí il suo originalissimo linguaggio formativo sulla base della profonda e diretta conoscenza delle opere padovane di Donatello, della familiarità con i lavori di Jacopo Bellini e dei suoi figli (in particolare del geniale Giovanni), delle novità fiorentine e fiamminghe, nonché dello studio della scultura antica. Un’attenzione specifica è dedicata al suo ruolo di artista di corte a Mantova e alle modalità con cui Mantegna definí la fitta rete di relazioni e amicizie con scrittori e studiosi, che lo resero un riconosciuto e importante interlocutore nel panorama culturale, capace di dare forma ai valori morali ed estetici degli umanisti. Il percorso della mostra è preceduto e integrato, nella Corte Medievale di Palazzo Madama, da un apparato di proiezioni multimediali: ai visitatori viene proposta un’esperienza immersiva nella vita, nei luoghi e nelle opere di Mantegna, cosí da rendere accessibili anche i capolavori che, per la loro natura o per il delicato stato di conservazione, non possono essere presenti in mostra, dalla Cappella Ovetari di

Padova alla celeberrima Camera degli Sposi, dalla sua casa a Mantova al grande ciclo all’antica dei Trionfi di Cesare. Il Piano Nobile di Palazzo Madama accoglie, quindi, l’esposizione delle opere, a partire dal grande affresco staccato proveniente dalla Cappella Ovetari, parzialmente sopravvissuto al bombardamento della seconda guerra mondiale ed esposto per la prima volta dopo un lungo e complesso restauro e dalla lunetta con Sant’Antonio e San Bernardino da Siena proveniente dal Museo Antoniano di Padova. Il percorso espositivo non è solo monografico, ma presenta capolavori dei maggiori protagonisti del Rinascimento nell’Italia settentrionale che furono in rapporto con Mantegna, tra cui opere di Donatello, Antonello da Messina, Pisanello, Paolo Uccello, Giovanni Bellini, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico e infine il Correggio. Accanto a dipinti, disegni e stampe di Mantegna, sono esposte opere fondamentali dei suoi contemporanei, cosí come sculture antiche e moderne, dettagli architettonici, bronzetti, medaglie, lettere autografe e preziosi volumi antichi a stampa e miniati. info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it ROMA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro del Pio Sodalizio dei Piceni fino al 26 luglio (prorogata)

Il Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro, sede giugno

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della Fondazione Pio Sodalizio dei Piceni, attiva nell’Urbe fin dal 1600, accoglie 36 opere d’arte – databili fra il XV e il XVIII secolo – scelte tra quelle restaurate a seguito del sisma del 2016. Si tratta della seconda tappa di un’esposizione itinerante che ha preso il via proprio nella zona del cratere, ad Ascoli Piceno presso il Forte Malatesta, che ora continua a Roma e che si concluderà a Senigallia, sulla riviera adriatica. Della selezione fanno parte manufatti dall’alto valore devozionale e/o storico-

MOSTRE • Tesori ritrovati. Il banchetto da Bisanzio a Ravenna Classe (Ravenna) – Museo Classis Ravenna

fino al 20 settembre info tel. 0544 473717; www.classisravenna.it; www.ravennantica.it

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ceti dirigenti della tarda antichità hanno molti modi per autorappresentarsi. Uno dei principali è commissionare oggetti preziosi ad artigiani specializzati. Un settore di grande prestigio è quello dell’argenteria: coppe, boccali, posate e grandi piatti sono tra gli oggetti piú richiesti dalle aristocrazie. Spesso questi oggetti recano delle raffigurazioni di miti antichi o scene agresti e di banchetto. Il senso di queste rappresentazioni si giustifica nei modelli della loro committenza. Importanti personaggi vogliono comunicare il loro status symbol, le loro radici culturali. In molti casi si tratta di prodotti di alta qualità realizzati nei piú importanti centri culturali dell’impero. Il percorso espositivo inizia da due grandi piatti realizzati in argento dorato di epoca tardo-antica provenienti dal Museo Archeologico di Cesena. La sequenza narrativa della mostra prende avvio dalla documentazione del loro ritrovamento e stabilisce connessioni con analoghi grandi missoria in argento che, per qualità e modalità di realizzazione, appaiono in relazione con quelli di Cesena. Inoltre partendo dalla rappresentazione del banchetto, incorniciata al centro di uno dei grandi piatti di Cesena, si sviluppa un racconto sulla produzione di suppellettili da mensa tardo antiche e sulle rappresentazioni figurative di banchetto circolanti tra le aristocrazie del tempo, derivate da modelli prestigiosi, funzionali anche a precise esigenze di affermazione e esaltazione sociale. Queste suppellettili, infatti, erano commissionate per essere donate durante alcune cerimonie o per celebrare incarichi e nomine. Ai tempi dell’impero romano, inoltre, era molto importante anche il «peso» del vasellame da cui si desumeva la ricchezza del proprietario. La mostra, che si inserisce perfettamente nel percorso espositivo del Classis Ravenna, punto culturale di riferimento per chiunque voglia conoscere la storia della città, tre volte capitale, dalle origini all’anno Mille, approfondisce un aspetto della vita e della cerimonialità tardo antica alle quali il Museo dedica molta attenzione. Unitamente alla basilica di S. Apollinare in Classe, definita una dei piú grandi esempi di basilica paleocristiana e dotata di meravigliosi mosaici e all’Antico Porto di Classe, considerato uno dei principali scali portuali del mondo romano e bizantino, unico per suggestione, Classis Ravenna costituisce il Parco Archeologico di Classe.

artistico, fra i quali figurano crocifissi lignei e vesperbild di ambito tedesco, che ancora oggi si trovavano all’interno delle chiese come oggetti di culto da parte dei fedeli. Vi sono quindi nomi importanti, come Jacobello del Fiore, con la serie delle Scene della vita di Santa Lucia provenienti dal Palazzo dei Priori di Fermo, Vittore Crivelli con la Madonna orante, il Bambino e angeli musicanti di Sarnano, Cola dell’Amatrice, di cui spicca la Natività con i santi Gerolamo, Francesco, Antonio da Padova e Giacomo della Marca dalla

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AGENDA DEL MESE sacrestia della chiesa di S. Francesco ad Ascoli Piceno. E ancora, da Roma, Giovanni Baglione e Giovanni Serodine, che dalla Svizzera seguí nella capitale l’esempio di Caravaggio. Tutti autori di indubbia fama che nelle Marche sono nati o che vi hanno soggiornato e che hanno contribuito a modificare la geografia della storia dell’arte. Gli interventi di restauro sono stati eseguiti con innovative analisi diagnostiche, che non soltanto hanno consentito di porre rimedio ai danni subiti dalle opere, ma hanno permesso di effettuare nuove attribuzioni e di acquisire nuove conoscenze relative alla tecnica pittorica e ai materiali usati dai pittori, accrescendo le conoscenze che si avevano su questo patrimonio e aprendo la strada a molti studi scientifici. info tel. 06 99572979; e-mail: info@artifexarte.it; www.artifexarte.it ROMA RAFFAELLO Scuderie del Quirinale fino al 30 agosto (dal 2 giugno)

Oltre cento opere di mano di Raffaello Sanzio sono riunite per la prima volta per la mostra che costituisce l’apice delle celebrazioni mondiali per i 500 anni dalla sua scomparsa. Il progetto espositivo trova ispirazione, in particolare, nel fondamentale periodo romano di Raffaello, che lo consacrò quale artista di grandezza ineguagliabile e leggendaria, e racconta con ricchezza di dettagli tutto il complesso e articolato percorso creativo. Ne fanno parte creazioni amatissime e famose in tutto il mondo, quali, solo per fare qualche esempio, la Madonna

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comprensione dei modelli di riferimento nel contesto figurativo della Bologna altomedievale. Il nucleo principale della mostra, allestita nella Sala del Lapidario, si compone delle testimonianze piú rappresentative della produzione plastica superstite nella città: tre croci intagliate di proporzioni monumentali appartenenti alla variante iconografica del Christus Triumphans che vince la morte, per la prima volta eccezionalmente riunite insieme. La comparazione ravvicinata dei manufatti offre in visione tangenze e analogie, sul piano della sintassi formale e tecnica, che rendono plausibile l’ipotesi di un’inedita del Granduca dalle Gallerie degli Uffizi, la Santa Cecilia dalla Pinacoteca di Bologna, la Madonna Alba dalla National Gallery di Washington, il Ritratto di Baldassarre Castiglione e l’Autoritratto con amico dal Louvre, la Madonna della Rosa dal Prado, la celebre Velata, anch’essa dagli Uffizi. info tel. 02 92897722; e-mail: info@scuderiequirinale.it; www.scuderiequirinale.it BOLOGNA IMAGO SPLENDIDA. CAPOLAVORI DI SCULTURA LIGNEA A BOLOGNA DAL ROMANICO AL DUECENTO Museo Civico Medievale fino al 6 settembre (prorogata)

Può dirsi un fenomeno di recente affermazione il rinnovato interesse verso la scultura lignea italiana, ai cui aspetti materiali e tecnici è a lungo mancato, nella storiografia artistica, un pieno riconoscimento di dignità critica. In un quadro di riferimento segnato, in particolare per il patrimonio

artistico prodotto nel XII e XIII secolo, da una rarefazione delle opere causata dalla deperibilità del materiale e dalla progressiva trasformazione delle immagini al variare dei canoni estetici, «Imago splendida» segna un importante momento di ricognizione. La mostra approfondisce l’affascinante e ancora poco studiata produzione scultorea lignea a Bologna tra XII e XIII secolo, restituendone una rilettura aggiornata a quasi vent’anni dall’esposizione «Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna», una cui sezione rappresentava lo spazio del sacro con opere inerenti l’iconografia sacra bolognese. Grazie alla collaborazione della Curia Arcivescovile di Bologna e della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, e con il patrocinio di Alma Mater StudiorumDipartimento delle Arti, il progetto è l’esito espositivo di una sedimentata ricerca filologica e documentaria, che fissa una nuova tappa verso la

attribuzione a un’unica bottega, credibilmente di area alpina sudtirolese – il cosiddetto Maestro del Crocefisso Cini – in una fase temporale compresa tra il 1270 e il 1280. info tel. 051 2193916 oppure 2193930: e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo giugno

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

INTRODUZIONE ALLA

PITTURA MEDIEVALE A

firmare il nuovo Dossier di «Medioevo» è Furio Cappelli, il quale, proprio nelle pagine iniziali, sottolinea come da sempre si tenda «ad associare l’idea della pittura medievale all’immagine sacra, sia nel mondo cristiano d’Occidente che in quello d’Oriente. Un collegamento suggerito dal fatto che, nonostante sia sempre rimasta viva una produzione destinata ad ambienti profani o comunque non attinenti al culto religioso o alla vita monastica, le sopravvivenze piú estese e significative dell’arte figurativa si collocano nelle chiese». Il fenomeno è innegabile, ma, pagina dopo pagina, si scopre quanto l’universo pittorico dell’età di Mezzo sia, in realtà, ben piú ampio e variegato. Un mondo che Cappelli svela ai lettori, forte della sua autorevolezza di storico dell’arte, che gli permette di offrire un quadro esauriente e ricco di notizie.

Il volto della Vergine nell’affresco raffigurante l’apparizione della Madonna alla storpia Remingarda. XII sec. Ausonia (Frosinone), santuario di S. Maria del Piano.

DE I L M CO ED LOR IO I EV O

LO/MI. L. 46/2004, art. 1, c.1, . - D.L. 353/2003 conv.

Sfilano, nei vari capitoli, personalità delle quali non conosciamo – né mai conosceremo – il nome, ma anche personaggi che hanno tracciato le vie maestre della produzione artistica, da Duccio di Buoninsegna a Pietro Cavallini, da Cimabue a Giotto, fautore, quest’ultimo, di un’autentica rivoluzione stilistica. Il ricco apparato iconografico documenta tutte le piú significative realizzazioni succedutesi nell’arco del millennio medievale, concentrandosi soprattutto sui monumenti conservati in Italia, ma non solo. Si compone, cosí, una sorta di museo ideale, reso ancor piú ricco dalla presenza, oltre che di pitture su tavola e affreschi, del ricco repertorio di opere quali miniature, mosaici, teli ricamati o vetrate istoriate.

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MEDIOEVO DOSSIER

MEDDosIOsiEer VO

GLI ARGOMENTI

• NASCITA DELL’ICONOGRAFIA Una questione d’immagine • L’ARTE BIZANTINA La lezione venuta da Oriente

INTRODUZIONE ALLA

PITTURA MEDIEVALE ODIO UNA STORIA DI AMORE E ● L’EREDITÀ ORIENTALE GIOTTO ● LA RIVOLUZIONE DI E DIPINTA ● LA PIÚ ANTICA CROC LAVORI CAPO DEI ● ALLA SCOPERTA

• I MATERIALI E LE TECNICHE Per dare forma alle idee Rivista Bimestrale N°38 Maggio/Giugno 2020

MEDIEVALE INTRODUZIONE ALLA PITTURA

di Furio Cappelli

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2020 IN EDICOLA IL 15 MAGGIO

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• GLI AMBIENTI E I CONTESTI Grandi maestri e artisti senza nome



folklore capuccetto rosso

Le morali della favola

di Domenico Sebastiani

Una bambina di cinque anni, vestita di una tunica di lana rossa, una mattina di Pentecoste si incammina «dimentica di sé e del pericolo». Una cucciolata di lupi, invece di sbranarla, le accarezza la testa... Storici, antropologi e psicanalisti si sono prodigati per interpretare la celebre vicenda immortalata da Charles Perrault e dai fratelli Grimm. La cui prima formulazione scritta è forse dovuta allo zelo educativo di un ecclesiastico vissuto intorno all’Anno Mille...

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ors’anche per la sua brevità, Cappuccetto Rosso è una delle favole piú diffuse nel folklore europeo, tanto che Jack David Zipes, uno dei maggiori studiosi del genere fiabesco, ha registrato ben trentotto varianti del motivo che ne è alla base. Le versioni scritte piú note a noi giunte sono due: quella di Charles Perrault del 1697, Le Petit Chaperon Rouge, contenuta nella raccolta di fiabe Contes de ma mère l’Oye, e Rotkäppchen, dei fratelli Grimm, inserita nell’antologia Kinder- und Hausmärchen del 1812, sotto forma di due versioni leggermente diverse, apprese rispettivamente da Jeanette e Marie Hassenpflug. Le due Cappuccetto Rosso sono molto simili, tranne che per il finale. La prima parla di una bambina alla quale la mamma, che le ha regalato un cappuccio rosso (da cui il nome della protagonista), chiede di andare a portare una focaccia e un panetto di burro alla nonna, che vive in un altro villaggio. Durante il tragitto nel bosco la ragazzina incontra il lupo e cade nel suo tranello; la bestia riesce a farsi dire dove si trova la casa, per cui la precede e, entrata falsificando la propria voce, mangia in un sol boccone la vecchietta e ne prende il posto dentro il letto. Quando arriva Cappuccetto Rosso, il lupo prima la invita a spogliarsi e a

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Una scena del film Cappuccetto Rosso sangue (Red Riding Hood, 2011), molto liberamente ispirato alla favola tramandata da Perrault e dai fratelli Grimm, con Amanda Seyfried nei panni della protagonista.

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folklore capuccetto rosso A sinistra la pagina iniziale di Cappuccetto Rosso nella raccolta Contes de ma mère l’Oye di Charles Perrault, pubblicata per la prima volta nel 1697, a Parigi. A destra litografia francese dei primi del Novecento raffigurante uno dei momenti salienti della fiaba di Cappuccetto Rosso: l’incontro fra la bambina e il lupo che ha preso il posto della nonna, cercando di assumerne le sembianze.

mettersi a letto con lui, successivamente – dopo la nota sequela di domande e risposte – la divora. La versione di Perrault ha quindi un finale tragico e si conclude con un ammonimento alle ragazzine, neppur troppo celato, di natura sessuale: «La storia di Cappuccetto Rosso fa vedere ai giovinetti e alle giovinette, e segnatamente alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce: perché dei lupi ce n’è dappertutto e di diverse specie, e i piú pericolosi sono appunto quelli che hanno faccia di persone garbate e piene di complimenti e di belle maniere». La chiosa metaforica è ben chiara, i lupi sono gli stessi uomini che,

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sotto un aspetto garbato e gentile, vogliono attentare alla virtú delle ragazze. I fratelli Grimm, che scrivono oltre un secolo dopo Perrault, optano invece per un lieto fine, con il taglialegna (in un primo tempo si trattava di un cacciatore), che apre la pancia del lupo malvagio, salvando quindi sia la bimba che la nonna. Entrambe, quindi, dopo essere state divorate, fuoriescono dal ventre del lupo sane e salve; la bambina, anzi, riempie poi di pietre la pancia dell’animale, che muore nel tentativo di alzarsi e fuggire. In un’aggiunta successiva Cappuccetto Rosso incontra un secondo lupo ma, appresa ormai giugno

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la lezione, riesce a ingannarlo e, con la collaborazione della nonna, a farlo affogare in un grosso trogolo pieno d’acqua. I Grimm, quindi, a detta di molti autori, hanno cercato di ingentilire la fiaba, eliminando il finale cruento di Perrault, e prevedendo una sorta di resurrezione di nonna e nipotina.

Un’eco di antichi riti?

Ma il finale, con l’estrazione della bambina e della nonna dalla pancia della bestia da parte di un attore estraneo, viene interpretato anche come la diretta derivazione della storia da antichi riti iniziatici. A

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tale proposito il riferimento è la teoria del linguista e antropologo Vladimir Propp, il quale, ne Le radici storiche dei racconti di fate (1928), spiega come nelle civiltà arcaiche i giovanetti potessero essere ammessi alla società degli adulti all’esito di riti iniziatici. In essi i giovani, in età pubere, venivano inghiottiti in modo simulato da parte di animali favolosi, e, dopo essere rimasti per un certo tempo nel ventre del mostro, venivano sputati o vomitati. In questo modo «rinascevano» a una nuova vita ed erano pronti a intraprendere un sentiero autonomo: è ciò che avviene in molti racconti popolari con la sosta in una caverna, un bosco,

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folklore capuccetto rosso nella casa dell’orco o nel ventre di un animale. Può essere quello di una balena, come in Pinocchio, o di un lupo feroce, come appunto in Cappuccetto Rosso. D’altra parte, altri autori hanno evidenziato che tale motivo del divoramento e successivo salvataggio delle vittime mediante gastrotomia sia molto simile alla trama di un’altra fiaba dei Grimm, Il lupo e i sette capretti, che si trova disseminata in molte varianti, persino in Medio Oriente. In effetti, quando si parla di fiabe e di folk tales in genere – cioè di racconti popolari –, è sempre difficile spiegare la circolazione e diffusione di determinati motivi e, ancor piú, la loro origine. Trattandosi infatti di racconti tramandati oralmente di generazione in generazione, le fiabe hanno percorso lunghi itinerari, per riemergere nel momento in cui qualcuno si è preso il compito di metterle per iscritto. Nel frattempo, esse si sono stratificate e adattate ai cambiamenti sociali. Se una parte degli studiosi in materia sono propensi a un’origine piuttosto recente di tali racconti, prevale l’opinione secondo cui si tratta invece di motivi antichissimi, talvolta di veri e propri «relitti narrativi», dei quali è anche andato perduto il significato originario. Essi hanno cominciato a venire alla luce dal Medioevo in poi, quando i filtri ideologici e religiosi, allentando le loro maglie, hanno posto fine all’«esclusione del folklore», per usare un’espressione del filologo romanzo Alberto Varvaro.

Cappuccetto Rosso, olio su tela di Fleury François Richard. 1820 circa. Parigi, Museo del Louvre.

Tutto comincia con Egberto

Per Cappuccetto Rosso, però, abbiamo una singolarità. Se già autori come il citato Zipes si sono espressi per la sua riconduzione a tradizioni orali medievali presenti in Francia, Tirolo e Italia settentrionale, è ormai condivisa dai piú l’opinione di Jan M. Ziolkowski secondo la quale il nucleo della Cappuccetto Rosso moderna sia da ricondurre all’XI secolo, piú precisamente a un racconto di Egberto di Liegi. Questi era un ecclesiastico, maestro della cattedrale di Liegi, che, nel 1020 circa, attorno ai cinquant’anni d’età, scrisse il poema Fecunda ratis (la Nave dell’abbondanza), una raccolta di racconti morali, nella quale sono mescolati tradizione popolare, testi biblici e spunti di antiche favole di Fedro. Egberto, infatti, intendeva fornire ai suoi discepoli, perlopiú bambini, uno strumento per l’apprendimento del Trivio (percorso di studi imperniato su dialettica, grammatica a retorica). All’interno di quest’opera troviamo la storiella De puella a lupellis servata (La fanciulla salvata dai lupacchiotti), che, come precisa lo stesso Egberto, non è tratta da testi scritti, ma dalla tradizione orale (vedi box a p. 34). Egli afferma infatti di averla sentita dai contadini, e che occorre prestarvi fede, ma potrebbe trattarsi benissimo di

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un espediente letterario, o del contenuto di una predica pronunciata in chiesa da qualche ecclesiastico e ripresa dal nostro ai suoi fini didascalici. In poche parole, la storiella narra di una bambina di cinque anni, alla quale il padrino regala una tunica rossa in occasione del battesimo che si celebra nel giorno della Pentecoste. La piccola viene rapita e portata da un lupo nella foresta per essere data in pasto ai suoi lupacchiotti, ma questi non la sbranano, limitandosi a leccare, mordicchiare e accarezzare la parte della tunica che le copre il capo (e quindi un cappuccio). La storia si chiude con una sorta di morale, nel punto in cui dice che Dio ammansisce gli animi crudeli. Come si può notare, quindi, la trama di Egberto è molto differente dalle celebri versioni dell’epoca moderna, cosa che ha fatto storcere il naso ad alcuni autori. Il folclorista Paul Delarue (1889-1956), infatti, ha ritenuto che non vi sia alcun legame tra il racconto medievale e la versione perraultiana e che il cappuccio in questa risulti un elemento del tutto irrilevante. Non si può invece fare a meno di notare come siano presenti tutti gli elementi basilari delle versioni canoniche: troviamo infatti la bambina col cappuccetto rosso che si perde, non rendendosi piú conto della dimensione spaziale o temporale, nonché il lupo, che la rapisce e la porta nel fitto bosco.

Il mistero del copricapo

Sulla fiaba di Cappuccetto Rosso sono stati versati fiumi d’inchiostro e avanzate le piú svariate teorie, sia per interpretare l’essenza della storia, sia per decifrare l’esistenza o meno di un significato simbolico della mantella/cappuccio di colore rosso. Vi è stato chi, come Hyacinthe Husson, sul finire del XIX secolo, ha avanzato una teoria mitologica secondo la quale l’adolescente con la fronte incoronata dal chiarore della luce mattutina rappresenterebbe l’aurora che, incamminandosi verso la nonna (ossia le aurore che le hanno precedute), viene intercettata dal sole divoratore, rappresentato dal lupo. Pierre Saintyves (1870-1935), invece, basandosi sul copricapo rosso della bambina – che in realtà sarebbe una corona di rose –, riteneva che la stessa fosse una «reginetta di maggio», personificazione del mese in cui esplode la primavera, mentre il lupo, che la divora, quella dell’inverno. In epoche piú recenti Marc Soriano (1918-1994) e il già citato Delarue, con piglio positivistico, hanno bocciato tali tesi, ritenendo che la fiaba sarebbe solo un racconto di avvertimento e di messa in guardia per tenere buoni i bambini e che, anzi, il lupo sarebbe un vero lupo in carne e ossa, e nulla piú. Va anche segnalata l’ipotesi secondo la quale la fiaba andrebbe letta come una proibizione all’esercizio

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folklore capuccetto rosso La versione di Egberto

Sola, nel bosco, incurante del pericolo... Ecco il breve testo del De puella a lupellis servata, riportato da Egberto di Liegi nella raccolta Fecunda ratis (1020 circa): «Quel che riporto, me lo hanno riferito i contadini: e bisogna crederci, piú che stupirsi. / Un uomo tenne una piccola bambina sui fonti battesimali / E le diede una tunica tessuta di lana rossa / Questo battesimo ebbe luogo alla Pentecoste / All’alba, la bambina, di cinque anni d’età, / Cammina e vagabonda, dimentica del pericolo e persino di lei stessa. / Un lupo la prese e guadagnò il bosco selvaggio e profondo / La portò come preda ai suoi cuccioli e gliela diede in pasto. / Quelli si avventarono su di lei, ma, non riuscendo a sbranarla / Abbandonarono ogni impulso ferino e iniziarono ad accarezzarle la testa: / “Non potete strappare quella mantella, topini” – disse la piccola bambina – / “Che mi è stata data dal padrino al mio battesimo”. / Dio, che è il loro creatore, ammansisce gli animi crudeli». della prostituzione, dal momento che la mantella rossa era effettivamente un segno distintivo di tale mestiere nella Francia del XVII secolo. E, in tempi recentissimi, alcune versioni di Cappuccetto Rosso raccolte in EmiliaRomagna sono state interpretate come il relitto di arcaici riti di iniziazione, da connettersi con l’uso di vegetali dotati di qualità psicotrope come l’Amanita muscaria, fungo noto per avere anche il cappello di colore rosso. Insomma, chi piú ne ha piú ne metta.

Un conflitto millenario

Altrettanto ricche sono state le interpretazioni in chiave psicanalitica. Erich Fromm (1900-1980), che di Cappuccetto Rosso conosceva la versione dei fratelli Grimm, vedeva nella fiaba l’espressione del millenario conflitto uomo-donna, che già oppose il patriarcato al matriarcato, e una sorta di rappresaglia del mondo femminile ormai sconfitto: il lupo, che a causa della sua stessa avidità vuole mangiare sia la nonna che Cappuccetto Rosso, rappresenterebbe il maschio violento e rapace, che, nell’atto sessuale, addirittura divora il partner, in una sorta di cannibalica reintroiezione. Allo stesso tempo, la voracità del lupo indicherebbe il bisogno maschile di rivaleggiare con la capacità generativa della donna, che viene punito dalla grottesca gravidanza, a

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In alto il testo del De puella a lupellis servata in un’edizione manoscritta della raccolta Fecunda ratis di Egberto di Liegi. Nella pagina accanto Capuccetto Rosso, litografia a colori da un dipinto originale di John Everett Millais (1864). 1868.

cui la stessa Cappuccetto Rosso lo condanna, ponendogli le pietre (simbolo di sterilità) nel ventre. L’interpretazione piú accreditata è quella proposta da Bruno Bettelheim (1903-1990) nel suo celebre Il mondo incantato: lo studioso rilegge la fiaba in chiave freudiana, spiegando come Cappuccetto Rosso sia una bambina già alle prese con problemi di pubertà per i quali non è ancora pronta emotivamente, perché non ha risolto i suoi conflitti edipici. A testimonianza di ciò, il suo nome rappresenterebbe il contrasto tra le piccole dimensioni del mantello e il colore rosso, che simboleggia tutte le emozioni violente, comprese quelle sessuali. Cappuccetto Rosso risulta quindi una ragazzina sessualmente attratta dal lupo seduttore, e il finire a letto con lui (sia nella versione di Perrault, ove il lupo si trova semplicemente sotto le coperte, sia nella versione dei fratelli Grimm, in cui si è vestito da nonna) equivale a un vero e proprio rapporto sessuale. Al contempo, la figura paterna si divide in modo opposto tra il lupo stesso – che rievoca i desideri edipici giugno

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folklore capuccetto rosso tradizioni popolari

Gli aghi e gli spilli Il folclorista francese Paul Delarue (1889-1956) ha raccolto in molte zone della Francia e in alcune dell’Italia numerose varianti popolari alle canoniche storie di Cappuccetto Rosso di Perrault o dei fratelli Grimm. Di solito, in tali versioni, la bambina non finisce mangiata, ma riesce a sottrarsi alle grinfie del lupo con uno stratagemma. A questa raccolta di «versioni dimenticate», l’etologa Yvonne Verdier (1941-1989) si è rivolta per analizzare due particolari che appaiono di grande rilievo e che sembrano conferire alla fiaba un significato totalmente diverso rispetto alle versioni classiche. Il primo è riferito alla domanda, apparentemente senza senso (una sorta di gioco per bambini, come lo definiscono alcuni autori), che il lupo rivolge a Cappuccetto Rosso al momento dell’incontro: «Quale strada prendi, quella degli spilli o quella degli aghi?». In realtà, afferma Verdier, ciò rimanda ai valori delle società contadine francesi del XIX secolo, ma probabilmente affonda le radici in una mitologia molto antica. Verso l’età di quindici anni, le ragazzine (in età quindi pubere o prepubere) venivano mandate durante l’inverno Miniatura raffigurante modiste e tagliatrici di stoffe, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

della bambina – e il cacciatore/taglialegna nella sua funzione protettiva e salvatrice. A prescindere dalle interpretazioni fin qui riportate, e che naturalmente possono cambiare in relazione alle epoche storiche e alle varie edizioni moderne della fiaba, è opportuno riportare l’attenzione sull’indumento che caratterizza il titolo della famosa fiaba, e a ciò che il suo colore poteva rappresentare, tenendo però in considerazione la genesi prima del racconto

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che, come abbiamo sopra spiegato, è da far risalire attorno all’anno Mille.

Con il vestito migliore

A tal proposito, Michel Pastoureau, medievista e antropologo francese, nonché tra i maggiori studiosi del simbolismo dei colori, si è interrogato a piú riprese sul perché del rosso del cappuccio indossato dalla protagonista della fiaba. A suo avviso numerose potrebbero essere le risposte che, senza contraddirsi o annullarsi, andrebbero invece a completarsi e ad arricchirsi a vicenda. Il rosso, innanzitutto, potrebbe caratterizzare il racconto in generale, annunciando il finale drammatico, dal mogiugno

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a fare apprendistato presso una sarta. Ciò non serviva soltanto per far loro imparare un mestiere, ma anche per ingentilirsi, abituarsi a stare in società, agghindarsi, essere iniziate alle feste da ballo e ai primi corteggiamenti dei ragazzi. Questo è quindi il simbolismo a cui rinviano gli spilli. Gli aghi invece, dalla grande cruna, hanno un’evidente allusione femminile al rapporto sessuale, e rimandano all’idea di una donna ormai adulta e matura. L’altro particolare di grande importanza di tali racconti è la sconcertante presenza di un pasto cannibalesco. Il lupo, infatti, appena arriva a casa della nonna, la mangia, ma non del tutto; ripone parte del corpo nella madia della cucina e raccoglie il sangue in una bottiglia, come se fosse vino. Nel momento in cui la bimbetta sopraggiunge, il lupo la invita a mangiare i resti della nonna, ovvero è la stessa Cappuccetto che si dimostra affamata. Per cui, dopo aver provveduto a tirar fuori le pentole, inizia a cucinare le parti del corpo della nonna, fraintendendo alcune voci (a volte di un gatto, altre volte di un uccellino o della nonna stessa), che la avvertono circa la reale consistenza del cibo che sta approntando. Consumato tale pasto cannibalico, il lupo invita Cappuccetto

Rosso a togliersi gli abiti e a gettarli sul fuoco, perché non le serviranno piú, e a coricarsi insieme a lui. Cappuccetto ubbidisce ma, dopo aver osservato il corpo cosí peloso della presunta nonna, con la scusa di fare un bisogno esce dalla casa e, spezzando un filo o una fune con cui il lupo aveva tentato di legarla, fugge e si salva. In alcune versioni il lupo rincorre la bambina, ma finisce per annegare in un fiume. Secondo alcuni autori, il banchetto cannibalico sarebbe un particolare crudele e primitivo, perciò eliminato da Perrault nella versione della sua fiaba. Ad avviso invece di Yvonne Verdier, a prescindere da quali siano state le reali intenzioni di Perrault, la macabra scena di queste versioni popolari sembra ripartire tra il lupo e la bambina compiti specifici: il primo svolge le funzioni tipicamente maschili di caccia, uccisione della preda e conservazione della stessa, la seconda svolge invece il ruolo femminile della cottura del cibo. Il pasto, pertanto, potrebbe essere visto come un rituale in cui la donna anziana viene sacrificata dal lupo per la bambina. Cappuccetto Rosso «incorpora» in questo modo la nonna e, dal momento che ne beve il sangue e spesso

mento che è il colore del sangue e della violenza. Potrebbero poi sussistere ragioni di carattere storico, come l’antica usanza di far indossare ai bambini, nei paesi di campagna, abiti di colore rosso per meglio sorvegliarli. Potrebbe altresí essere caratteristica dei giorni di festa, in quanto tinta piú gioiosa e appropriata alla ricorrenza. In questo caso Cappuccetto Rosso si sarebbe vestita, per andare a trovare la nonna, con il vestito migliore che possedeva, ossia una mantella con cappuccio rosso. Ma si potrebbe anche ipotizzare che si tratti di un rosso che protegge, di un rosso magico, che allontana le forze del male (vedi box alle pp. 38-39). Funzione questa, nel vestiario, attestata fin dall’antichità e che lo acco-

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mangia parti del corpo specifiche come le mammelle, ciò indicherebbe l’acquisizione da parte della ragazzina della possibilità di procreare. Il pasto macabro viene messo in relazione con il destino femminile scandito nelle tre tappe della pubertà (bambina), della maternità (la madre) e della menopausa (la nonna). In un certo senso la fiaba parla simbolicamente delle trasformazioni biologiche femminili che portano all’eliminazione delle vecchie da parte delle giovani, mentre sono ancora in vita. Sotto questo aspetto, il vero mostro sarebbe Cappuccetto Rosso e «il lupo seduttore le svela il proprio destino femminile, la nonna, la donna anziana, deve essere uccisa perché questo destino si compia». In Italia, una fiaba simile a queste versioni evidenziate dalla Verdier è contenuta nella raccolta di Italo Calvino, ed è conosciuta come La finta nonna: in questo caso il ruolo del lupo viene interpretato da un’orchessa, il cui corpo è coperto di pelo, che divora la nonna e poi invita la bambina a mangiare i denti e le orecchie della stessa. La ragazzina, però, non si lascia ingannare e, accorgendosi del particolare della coda, capisce che non può trattarsi della propria nonna ma di una malefica Orca.

muna ad altri caratteri magici rivestiti spesso nella mitologia, nella letteratura medievale e nei racconti orali. Si può pensare, per fare un esempio, ai berretti dei nani, degli gnomi, degli elfi, dei geni dei boschi o del mondo sotterraneo, ovvero alla mitica Tarnkappe delle antiche leggende germaniche, una sorta di mantello o cappello rosso che rendeva invisibile o invulnerabile colui che lo indossava. Nel caso di Cappuccetto Rosso, però, la Tarnkappe avrebbe perso i suoi poteri sovrannaturali, dal momento che – almeno nelle storie piú recenti – colei che la indossa finisce per essere sbranata dal lupo. Altra ipotesi da prendere in considerazione, secondo Pastoureau, è quella che si fonda, da un punto di

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Credenze e superstizioni

Rosso, il colore che scaccia le malattie A proposito alla genesi medievale della fiaba di Cappuccetto Rosso, Chiara Frugoni ci rammenta come il colore rosso fosse usato, fin dai primi giorni di vita di un bambino, come segno distintivo della sua appartenenza sociale. Mentre i neonati di una famiglia povera erano infatti avvolti in fasce di

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canapa o comunque scure, i neonati di famiglia aristocratica venivano avvolti in fasce di colore bianco e rosso, o completamente rosse, come si può notare in una miniatura che orna un manoscritto quattrocentesco de Il libro delle proprietà delle cose di Bartolomeo Anglico (oggi conservato presso la Bibliothèque nationale de

France, a Parigi), ove una nutrice ha appena finito di avvolgere un piccolo in delle fasce di tale colore. Si pensava, inoltre, che il rosso avesse proprietĂ protettive e apotropaiche, e che giovasse alla debole salute dei bimbi contro le emorragie, la rosolia e il morbillo. Il chirurgo Henri de Mondeville giugno

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Nella pagina accanto Madonna col Bambino benedicente e due angeli, meglio nota come Madonna di Senigallia, olio e tempera su tavola di Piero della Francesca. 1474-1478. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. Al collo del Bambino figura una vistosa collana di perle rosse con un pendente in corallo. A destra tavola a colori realizzata per un’edizione di Cappuccetto Rosso inclusa in una raccolta di fiabe pubblicata in Inghilterra nel 1913. Londra, British Library.

vista semiologico, sull’importanza della triade di colori primari rosso/bianco/nero nei racconti popolari, nelle favole e nelle fiabe. Nel caso in questione, una bimba vestita di rosso porta un panetto di burro bianco alla nonna/lupo di colore nero. Secondo Pastoureau, la teoria psicoanalitica di Bettelheim è opinabile. Essa sarebbe infatti anacronistica, proprio alla luce del significato storico del colore rosso: «Da quando il rosso è diventato il colore del desiderio sessuale? E prima di Freud aveva senso domandarselo? È lecito dubitarne. Certo, il rosso è da molto tempo il colore della lussuria e della prostituzione, ma per la psicoanalisi non è affatto di questo che si parla nella fiaba, bensí dei primi turbamenti amorosi o addirittura carnali. Ora, nel Medioevo, quando compaiono le versioni piú antiche della fiaba, e ancora alla fine del XVII secolo, quando Perrault scrive la sua, non è al rosso che vengono associati i primi slanci del cuore e dei sensi, ma al verde, colore simbolo dei nuovi amori. Se in questo caso le teorie psicoanalitiche fossero fondate (…) invece di un Cappuccetto Rosso avremmo un Cappuccetto Verde».

(1280-1320), per esempio, raccomandava di avvolgere i bambini in stoffe di colore rosso (in base al principio per cui il simile genera il simile), e ricordava che le donne del popolo davano ai figli affetti dalla malattia decotti «rossi», a base di lenticchie e zafferano. Lo si può constatare, per esempio, in una miniatura che raffigura Matthäus Schwarz (1497-1574, il quale da adulto diventerà un importante funzionario della banca Fugger, e che compone da anziano un Libro dei costumi, in forma di autobiografia, facendolo illustrare da celebri pittori del suo tempo) a tre anni, costretto a letto perché malato di morbillo e con il viso cosparso di macchie, che indossa un abito tutto rosso, protetto da un grembiule bianco.

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Cosí come, ancora oggi, in ossequio a un’antica superstizione, un rametto di corallo viene usato per scacciare il male e le malattie, allo stesso modo nel Medioevo rametti venivano appesi al collo dei bambini; già in età classica, Ovidio, nelle Metamorfosi, ne ricollegava la funzione apotropaica al sangue fuoriuscito dalla testa recisa di Medusa, in quanto il corallo – in pratica sangue solidificato – risultava protettore di tutte le malattie collegate al sangue e anche del malocchio, dal momento che Medusa pietrificava con lo sguardo. Nella Naturalis Historia, Plinio il Vecchio ricorda come il corallo fosse utilizzato a fini terapeutici: veniva ingerito tritato e mescolato

con sostanze liquide, per la cura del sonno, contro la febbre o con funzione astringente e disinfiammante. Dal punto di vista iconografico, troviamo molti dipinti medievali e rinascimentali in cui bambini presentano al collo rametti di corallo. Un esempio ci proviene da Luca di Tommè, che in una Madonna con il Bambino (Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi; 1360-1380) lo dipinge addirittura al collo del Bambino, accanto a una croce. Ma l’esempio piú insigne è, probabilmente, la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, ove il Bambino, nell’atto di benedire tiene in mano una rosa bianca, simbolo della purezza della Vergine, mentre al collo reca appunto una collana di perle rosse con un corallo (vedi foto alla pagina precedente).

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folklore capuccetto rosso il bosco

C’è tutto un mondo fra gli alberi Un topos importante, all’interno della fiaba analizzata in queste pagine, è l’immagine del bosco misterioso che Cappuccetto Rosso deve attraversare per giungere a casa della nonna. Nel bosco, ad avviso del linguista e antropologo Vladimir J. Propp, il protagonista incontra spesso la figura del donatore, nei pressi dell’izba (abitazione rurale russa), nei campi o lungo il cammino. Ma il bosco è anche il luogo in cui ci si perde, nel quale si smarriscono i punti di riferimento sia fisici che morali, dove può avvenire il tradimento da parte di persone fidate, e dove si possono fare brutti incontri. Ad avviso dello studioso Emil Mazzoleni, il motivo del bosco, che si incontra cosí frequentemente nelle fiabe, non è da ricondursi a un elemento arcaico che affonda le radici nell’epoca primitiva, come evoca Propp in Morfologia della Fiaba, ma all’età medievale, ove la foresta – sulla scorta degli insegnamenti di Jacques Le Goff e Marc Bloch – diviene luogo di ritiro e penitenza, ma anche di ospitalità, e dove vive una folta schiera di categorie sociali: cacciatori, carbonai, fabbri, cercatori di miele e di cere, fabbricatori di ceneri che venivano impiegate nell’industria del vetro o del sapone. La casa della nonna di Cappuccetto Rosso, cosí come la capanna della Baba Jaga russa (creatura leggendaria, presente soprattutto in molte fiabe russe, solitamente come vecchia strega, n.d.r.), va dunque ricollegata ideologicamente a quelle abitazioni che nel Medioevo venivano edificate in prossimità dei boschi, in quanto gli abitanti potevano dalla foresta trarre il necessario per sostentarsi (legno per scaldarsi, selvaggina per alimentarsi, miele per illuminare, ecc.). Pastoureau, del resto, accenna anche a una spiegazione erudita, che riporta al Medioevo cristiano. Se infatti torniamo alla prima attestazione storica del racconto (quella medievale di Egberto di Liegi), come è stato illustrato da Ziolkowski e ribadito da Riccardo Rao, possiamo notare che si parla di una «tunica rossa», donata dal padrino alla bambina il giorno del battesimo. Secondo le prescrizioni liturgiche dell’epoca infatti, descritte da Amalario di Metz (autore del IX secolo), l’abito rosso battesimale arrivava a coprire il capo del catecumeno, e quindi risultava a tutti gli effetti un cappuccio rosso. Ora, se è vero che il racconto nasce in ambienti ecclesiastici e con intenti pedagogici, il significato da attribuire al cappuccio di colore rosso risulta molto distante dalle interpretazioni moderne, in particolar modo da quelle psicanalitiche. All’epoca in cui scrive-

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Cappuccetto Rosso, olio su tela di Yuli Yulevich (Julius) von Klever. 1887. Novgorod, NGOMZ (Museo-riserva di Stato). L’artista immagina il momento in cui il bosco sta per essere teatro dell’incontro fra la bambina e il lupo.

va Egberto, il rosso non andava infatti collegato alla sessualità o al peccato, ma era un segno di distinzione sociale e al contempo di protezione, soprattutto contro le malattie. Ma, soprattutto, il rosso era il colore della Pentecoste e dello Spirito Santo, e il bambino che veniva battezzato in quel giorno riceveva un abito speciale, appunto di tale colore. Con una sorta di cristianizzazione di antichi elementi folclorici coevi o preesistenti, ossia quelli concernenti il valore apotropaico del colore, alla tunica e al cappuccio rosso viene infuso il potere salvifico del primo sacramento ricevuto dai fedeli contro il male e il peccato, rappresentato simbolicamente dalla figura del lupo; il quale, nel cristianesimo, ha una connotazione demoniaca. Se poi pensiamo che gli aneddoti e le storie della Fecunda ratis di Egberto avevano un valore didattico nei confronti dei suoi giovani allievi, probabilmente la storia De puella a lupellis servata appare come un discorso sull’importanza del battesimo, che protegge dai pericoli del corpo e dell’anima, e nei lupacchiotti potremmo riconoscere i giovani la cui indole violenta viene placata dall’educazione cristiana.

Da leggere Jan M. Ziolkowski, A Fairy Tale from before before Fairy Tales: Egbert of Liège’s «De puella a lupellis servata» and the Medieval Background of «Little Red Riding Hood», Speculum, Vol. 67, No. 3 (1992), pp. 549-575 Chiara Frugoni, Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini, il Mulino, Bologna 2017 Riccardo Rao, Il tempo dei lupi, UTET, Torino 2018 Michel Pastoureau, Rosso. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Milano 2016 Stefano Calabrese, Daniela Feltracco, Cappuccetto Rosso: una fiaba vera, Meltemi Editore, Roma 2008 Yvonne Verdier, L’ago e la spilla. Le versioni dimenticate di Cappuccetto rosso, EDB, Bologna 2015 Susanna Barsotti, Bambine nel bosco. Cappuccetto e il lupo fra passato e presente, ETS, Pisa 2016 Emil Mazzoleni, Il diritto nella fiaba popolare europea, Franco Angeli, Milano 2016 Tommaso Braccini, Lupus in fabula, Carocci, Roma 2018 Gian Maria Vannoni, Etnobotanica totemica: Cappuccetto Rosso e amanita muscaria, Quaderni di semantica, n.s. 2 (2016); pp. 219-227 Vladimir J. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1966

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storia spagna/1

Per una

Spagna unita di Tommaso Indelli

Passati alla storia come i «re cattolici», Ferdinando e Isabella di Castiglia non furono soltanto strenui paladini della religione. Fra il XV e il XVI secolo, ebbero anche un ruolo politico decisivo nelle sorti della penisola iberica: esercitando, congiuntamente, un potere ferreo, al quale contribuí un fitto gioco di alleanze dinastiche

I I

l 19 ottobre del 1469, a Valladolid, Ferdinando (1452-1516) e Isabella (1451-1504), eredi al trono d’Aragona e di Castiglia e León, si sposarono, creando le premesse per l’unificazione della Spagna, obiettivo al quale consacrarono le proprie esistenze, anche all’indomani dell’incoronazione. Nel gennaio del 1492, i «re cattolici» conquistarono Granada, capitale dell’ultimo emirato islamico in terra spagnola, mettendo la parola «fine» alla Reconquista e, nello stesso anno, grazie al loro sostegno politico e finanziario, il genovese Cristoforo Colombo († 1506) attraversò l’Atlantico e scoprí le Americhe, ponendo le basi della nascita di uno dei piú grandi imperi coloniali del mondo. Nel 1492 e nel 1502, due successivi editti, l’uno indirizzato contro i marrani, l’altro contro i moriscos, imposero ai sudditi appartenenti alle minoranze etnoculturali ebraica e musulmana, da tempo presenti in terra spagnola, di accettare il battesimo, pena l’espulsione.

Il contesto storico

Nel 1512, alcuni anni dopo la morte di Isabella, Ferdinando continuò a perseguire l’obiettivo di un regno unitario, occupò la Navarra – esautorando la dinastia d’Albret – e la incorporò nei suoi domini. Alla sua morte, nel 1516, l’intera penisola iberica, escluso il Portogallo, era ormai un’unica compagine statale, sotto la guida di un solo monarca. Rispetto a tali vicende, la cui importanza storica è assoluta, è poco conosciuto il lungo e arduo percorso di inganni, violenze e guerre che fece da sfondo alle nozze di Valladolid, senza le quali, molto probabilmente, il destino della Spagna sarebbe stato molto diverso. Quali furono, dunque, gli eventi che fecero da sfondo al matrimonio tra Ferdinando e Isabella e le vere ragioni politiche che le determinarono?

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Madonna dei Re Cattolici, tecnica mista su tavola forse dipinta da Fray Pedro de Salamanca. 1497 circa. Madrid, Museo del Prado. La Vergine e il Bambino ricevono l’omaggio di Ferdinando e Isabella – rappresentati con tratti piú giovanili di quelli che dovevano avere all’epoca del quadro –, alle cui spalle si riconoscono, rispettivamente, san Tommaso d’Aquino e san Domenico. Gli altri personaggi sono, da sinistra: l’inquisitore Tomás de Torquemada, il principe Giovanni, una infanta – forse Isabella – e un Domenicano, che potrebbe essere Pedro de Arbués.


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storia spagna/1 La casa di Castiglia =

Alfonso X 1252-1284

Ferdinando = Bianca di Francia de la Cerda Ferdinando

Beatrice m. Alfonso III di Portogallo

Alfonso de la Cerda

Violante d’Aragona Sancho IV = Maria de Molina

1284-1295

Ferdinando IV = Costanza di 1295-1312 Portogallo

Blanca

Alfonso XI = Maria di Portogallo

1312-1350

Beatrice = Alfonso IV di Portogallo Pietro re del Portogallo

(illegittimo)

Giovanna = Enrico II di Trastámara 1369-1379 de Peñafiel

Pietro il Crudele = Maria de Padilla 1350-1369

Eleonora = (1) Giovanni I (2) = Beatrice di 1379-1390 d’Aragona Portogallo

Enrico III = Caterina figlia di Giovanni di Gand

Isabella I

1474-1504

=

Filippa m. Giovanni I di Portogallo

Caterina m. Enrico III

1412-1416

Maria = (1) Giovanni II (2) = Isabella di 1406-1454 d’Aragona Portogallo

Enrico IV

Isabella m. Edmondo di York

Ferdinando I = Eleonora re d’Aragona d’Albuquerque

1390-1406

1454-1474

Costanza m. Giovanni di Gand

Alfonso V re di Aragona 1416-1458

Giovanni II (2) = Giovanna re di Aragona Enríquez

Ferdinando II il Cattolico re di Aragona 1479-1516

1458-1479

Segovia, Alcazar, Sala del trono. Particolare di una vetrata policroma raffigurante lo stemma di Enrico IV di Castiglia. XX sec.

Giovanna = Filippo d’Asburgo Carlo I imperatore (ramo spagnolo degli Asburgo)

Ferdinando I imperatore (ramo austriaco degli Asburgo)

Ferdinando era il figlio delle seconde nozze del re d’Aragona, Giovanni II (1458-1479), con la castigliana Giovanna Enríquez († 1468), mentre Isabella discendeva dal secondo matrimonio del re di Castiglia e León, Giovanni II (1406-1454), con Isabella del Portogallo († 1496; vedi box a p. 36). Entrambi figli di secondo letto, né Ferdinando, né Isabella avevano i titoli per aspira-

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Disegno a penna colorato raffigurante Enrico IV di Castiglia, detto l’Impotente, dall’autobiografia di Georg von Ehingen. 14551500. Stoccarda, Württembergische Landesbibliothek.

re alla corona, ma un singolare gioco di circostanze ne agevolò l’ascesa al potere. Nel caso di Ferdinando, fu determinante, nel 1461, la morte del fratellastro Carlo di Viana, figlio di primo letto di Giovanni II d’Aragona e Bianca di Navarra († 1441) e, quindi, candidato naturale alla successione. Alla sua morte, Catalogna e Navarra – che facevano parte della corona aragonese –

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insorsero e dichiararono decaduto Giovanni II, contro il quale iniziarono una guerra che si protrasse fino al 1472, quando la Navarra tornò indipendente. In quei frangenti, la Catalogna arrivò addirittura a offrire il trono a Giovanni d’Angiò († 1470), uno dei piú importanti principi di Francia, che accettò e si trasferí in Spagna per combattere al fianco degli insorti.

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storia spagna/1 In Castiglia, la situazione era ancora piú complessa, perché nel 1454, dopo la morte del re Giovanni II, i figli di secondo letto – Isabella e Alfonso – furono relegati ai margini della vita politica dal nuovo sovrano, il fratellastro Enrico IV (1454-1474), che era il legittimo erede di Castiglia e León, in quanto nato dal primo matrimonio di Giovanni II con Maria d’Aragona († 1445). Alla morte di Giovanni II, Isabella d’Aviz – madre di Isabella e Alfonso – cadde in una forte depressione e fu confinata da Enrico nel castello di Arévalo, lontano dalla corte, cosí che i principi, privi della protezione materna, vissero, a lungo, politicamente emarginati. Questa condizione mutò solo quando una parte sempre piú ampia della nobiltà castigliana cominciò a guardare a loro – e soprattutto ad Alfonso – per detronizzare Enrico, considerato un sovrano incapace.

E, finalmente, l’erede!

Il regno di Castiglia era sull’orlo della bancarotta e del caos amministrativo, ed Enrico collezionava solo sconfitte nella guerra contro i Mori di Granada, umiliando, cosí, lo spirito guerriero della nobiltà del regno. Sul re, inoltre, gravavano sospetti d’impotenza sessuale – non a caso fu soprannominato l’Impotente – per la mancanza di una discendenza biologica che avrebbe assicurato stabilità alla dinastia. Enrico non aveva avuto figli dalla prima moglie, Bianca (II) di Navarra († 1464), e cosí, nel 1453, ottenne dal papa l’annullamento del matrimonio, al quale, nel 1455, seguirono le nuove nozze con la principessa portoghese Giovanna d’Aviz. Da questa unione, nel 1462, nacque finalmente una bambina a cui fu dato il nome di Giovanna. Mentre il Paese era sull’orlo del caos, a corte iniziarono a circolare voci sull’illegittimità di Giovanna, che, secondo alcuni, non sarebbe stata figlia del re, bensí di Giovanna d’Aviz e Beltrán de la Cueva († 1492), un amico di Enrico che, dal 1457, rivestiva la carica di maggiordomo di palazzo e, dal 1461, era anche membro del consiglio reale. Nel 1463, il re lo insigní del titolo di conte di Ledesma e, l’anno dopo, della carica di gran maestro dell’ordine di Santiago. Sposato con la marchesa di Santillana, Beltrán era molto invidiato e osteggiato dai nobili, di cui intendeva limitare le prerogative, nell’ottica di una maggiore centralizzazione amministrativa del regno di Castiglia, e quindi è possibile che le voci sul suo conto – e su quello della regina – fossero false e che la piccola Giovanna – da allora soprannominata la Beltraneja – fosse veramente la figlia di Enrico. L’avversione per la regina portoghese e per sua figlia che, se illegittima, non avrebbe ereditato il trono, spinsero una parte dell’aristocrazia e del clero castigliano, guidati da Juan Fernández Pacheco († 1474) – marchese di Villena e primo ministro di Enrico IV – a disconoscere persino la legittimità del sovrano. Nel

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L’espulsione degli Ebrei dalla Spagna, litografia a colori di Solomon Alexander Hart (1806-1881). Collezione privata. Il 31 marzo del 1492, i re cattolici Isabella I di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona firmarono a Granada il decreto di espulsione degli Ebrei dalla Spagna, indicando come motivazione il danno che causavano a convertiti e cristiani, anche alla luce dell’inefficacia delle precedenti misure adottate, quali l’isolamento in determinati quartieri e l’istituzione del tribunale dell’Inquisizione.

1465, nel corso della cosiddetta «farsa d’Ávila», Enrico venne deposto e fu acclamato re il fratellastro Alfonso, il quale assunse il nome di Alfonso XII. La farsa d’Ávila fu cosí denominata perché, nella città castigliana di Ávila, alla presenza del popolo, l’aristocrazia inscenò una vera e propria farsa teatrale, nel corso della quale un fantoccio, che impersonava Enrico IV, venne deriso, percosso e buttato giú dal trono e la corona fu posta giugno

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sul capo di Alfonso. Conseguenza di tali azioni fu la guerra e, nell’agosto del 1467, gli eserciti di Alfonso XII ed Enrico IV si scontrarono a Olmedo, in una battaglia sanguinosa e dall’esito incerto, ma che spinse entrambi a proclamarsi vincitori. Enrico IV non entrò solennemente in città e ciò spinse l’opinione pubblica ad attribuire la vittoria ad Alfonso, ma il re, pur di porre fine al conflitto, diseredò la figlia Giovanna – che fu

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dichiarata illegittima – e riconobbe come principe delle Asturie ed erede il fratellastro. Nel 1468, la morte improvvisa di Alfonso, avvenuta al termine di un banchetto, gettò gravi sospetti di avvelenamento su Enrico che, per evitare una nuova guerra, si affrettò a riconoscere il titolo di principessa delle Asturie alla sorellastra Isabella e a sottoscrivere – con lei e la sua fazione – il trattato di Los Toros de Guisan-

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storia spagna/1

Miniatura raffigurante Giovanna di Castiglia, detta la Pazza (al centro), con i genitori, Ferdinando e Isabella, dal Cancionero de Pedro Marcuello. 1482-1502. Chantilly. MusĂŠe CondĂŠ.

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I «Patti di Cervera»

Gli obblighi del re consorte Il 7 gennaio del 1469, Ferdinando e i suoi consiglieri, in vista del matrimonio con Isabella di Castiglia, sottoscrissero gli «Accordi di Cervera», in base ai quali il futuro sposo si impegnò ad adempiere specifici doveri nell’interesse dei sudditi castigliani. Ferdinando si obbligò a non violare leggi e consuetudini in vigore in Castiglia, a non alienare i beni del patrimonio della corona e a non conferire, in Castiglia, uffici e prebende di alcun tipo a nobili e funzionari aragonesi. Inoltre, secondo i patti, mentre in Aragona Ferdinando sarebbe rimasto l’unico re, in

Castiglia, una volta ottenuta la corona come consorte di Isabella, avrebbe esercitato l’autorità congiuntamente alla moglie e le ordinanze regie avrebbero avuto firma e sigillo di entrambi. Inoltre, in base agli accordi, Ferdinando si riservò il controllo esclusivo dell’esercito castigliano, mentre Isabella, in caso d’impedimento temporaneo o di assenza del marito, avrebbe potuto amministrare la Castiglia da sola. Nel 1479, alla morte del padre, Ferdinando divenne re d’Aragona e associò Isabella, con pieni diritti, anche nel governo del nuovo regno.

do. L’accordo – che prese nome dalla località in cui fu firmato – prevedeva il riconoscimento di Isabella quale erede al trono di Castiglia e León, riservando a Enrico la scelta del suo sposo, data l’importanza politica di tale matrimonio. Scartato come pretendente Carlo, duca di Guienna († 1472) e fratello del re di Francia, Enrico impose alla sorella le nozze col re del Portogallo, Alfonso V l’Africano (1438-1481), che era fratello di sua moglie, Giovanna d’Aviz, nonché suo cognato. Con quell’unione, Enrico intendeva stabilire legami piú saldi col regno portoghese, ma non aveva fatto i conti con la determinazione di Isabella, che si rifiutò di sposare Alfonso. Cosí, su iniziativa dei consiglieri della principessa – e all’insaputa di Enrico – fu scelto un pretendente diverso: Ferdinando, erede al trono d’Aragona, giovane di bell’aspetto e buona fama. Le nozze con Ferdinando furono decise anche per un motivo politico, in vista di un’unione piú stretta tra la Castiglia e l’Aragona, considerata un alleato piú affidabile del Portogallo. La principessa delle Asturie – a cui il futuro marito piacque subito – acconsentí alle nozze e cosí, il 19 ottobre del 1469, sfidando la volontà di Enrico, Ferdinando e Isabella si sposarono a Valladolid, alla presenza dell’arcivescovo di Toledo. Si deve ricordare che i due giovani – dati i continui

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intrecci matrimoniali tra i dinasti d’Aragona e di Castiglia – erano cugini e fu quindi necessario richiedere al papa una bolla che consentisse di legittimare le nozze. Dato che non si poteva attendere troppo, la bolla fu falsificata dai consiglieri di Isabella, a sua insaputa, e rivelata alla principessa – donna molto religiosa – solo a matrimonio avvenuto. Ferdinando d’Aragona, prima di contrarre le nozze, fu anche obbligato a sottoscrivere con Isabella e la sua fazione un «trattato di garanzia» (vedi box in questa pagina).

Quel viaggio sotto mentite spoglie

Intanto, il viaggio intrapreso dal principe e dal suo seguito per raggiungere Valladolid – il luogo convenuto per lo sposalizio – fu una vera avventura: l’aragonese, infatti, dovette travestirsi da servo e, con un piccolo seguito, viaggiare in incognito per evitare gli sgherri di Enrico che presidiavano il confine tra Aragona e Castiglia e avevano l’ordine di imprigionarlo. Quando Enrico venne a conoscenza del matrimonio andò su tutte le furie, diseredò la sorella – considerando nullo il trattato di Los Toros de Guisando – e dichiarò la legittimità della figlia Giovanna, che fu designata principessa delle Asturie. E fu la guerra, ma il nuovo conflitto durò poco, perché, davanti al rifiuto delle cortes di approvare il matrimonio tra la Beltraneja e Carlo, duca di Guienna – che avrebbe determinato la subordinazione della Castiglia alla Francia – Enrico fu costretto a riappacificarsi con gli sposi, che furono chiamati a corte e riconosciuti eredi al trono. Il re, inoltre, si disse disponibile a rappacificarsi con la sorella e il consorte, a patto che, una volta incoronati, si fossero preoccupati di trovare alla piccola Giovanna un marito adeguato e di eguale rango. Alla riappacificazione contribuirono la mediazione diplomatica svolta dal cardinale valenzano Rodrigo Borgia († 1503), futuro papa Alessandro VI (1492-1503), e i sospetti che, nel frattempo, erano maturati nella mente di Enrico, riguardo la reale paternità della piccola Giovanna. Proprio in quel periodo, infatti, la moglie del re castigliano partorí due gemelli, Pietro e Andrea, frutto di una relazione adulterina con il nobiluomo castigliano Pedro de Fonseca († 1475). I gemelli vennero molto probabilmente concepiti durante la permanenza della regina nel castello di Coca, presso Segovia, di proprietà dei Fonseca, partigiani di Enrico IV. Il re accusò Giovanna d’Aviz di adulterio e la ripudiò, rimandandola dal fratello in Portogallo, ma, alla fine del 1474, morí improvvisamente e, nonostante le voci che li accusavano di avvelenamento, Isabella e Ferdinando furono incoronati re di Castiglia e León. Intanto, Giovanna d’Aviz, moglie ripudiata di Enrico, persuase suo fratello, il re del Portogallo Alfonso V, a sposare la nipote Giovanna, in modo da poter rivendicare, in nome della moglie, il trono di Castiglia. Il ma-

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storia spagna/1 la spagna nel quattrocento

Una fase di diffuse turbolenze n León

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Intorno alla metà del XV secolo, i regni di Portogallo, Aragona e Castiglia – ai quali era unito, dal 1230, il León – avevano raggiunto una certa stabilità politicoistituzionale, dopo guerre reciproche e conflitti interni. In Portogallo, regnava la dinastia degli Aviz, fondata nel 1385 da Giovanni I il Grande (1385-1433), figlio illegittimo di Pietro I il Giustiziere (1357-1367). Nel 1383, alla morte di Ferdinando il Bello (1367-1383), il re di Castiglia, Giovanni I (1379-1390) – marito della figlia Beatrice († 1410 circa) – occupò il Portogallo, rivendicandone la corona. La nobiltà portoghese insorse per difendere l’indipendenza del Paese e designò re del Portogallo il fratellastro di Ferdinando, Giovanni d’Aviz, che, nel 1385, ad Aljubarrota, sconfisse Giovanni e venne incoronato. Anche la Castiglia era reduce da ripetute guerre intestine, seguite alla morte di Alfonso XI il Giustiziere (1312-1350), quando il figlio, Pietro I il Crudele, fece giustiziare l’amante del padre, Eleonora di Guzmán († 1351), provocando la reazione di Enrico di Trastámara (1369-1379), figlio di Eleonora, che si proclamò re di Castiglia. Iniziò, cosí, una lunga guerra civile, finché, nel 1369, grazie all’appoggio della Francia, Trastámara sconfisse Pietro a Montiel, lo fece prigioniero e poi lo uccise, riunificando il Paese. Al pari degli altri regni iberici, anche l’Aragona visse una fase di caos istituzionale. Nel 1410, alla morte senza eredi del re, Martino I il Vecchio (1395-1410), si estinse la dinastia, d’origine «catalana», che si era insediata al governo nel XII secolo, in seguito alle nozze della regina Petronilla (1137-1174) con il conte di Barcellona, Raimondo Berengario IV (1131-1162). Le cortes, ovvero i parlamenti di Catalogna, Aragona e Valenza – le tre compagini di cui si componeva la corona d’Aragona – assunsero i pieni poteri e si arrogarono il compito di designare il sovrano. Nel 1412, a Caspe, un collegio composto dai membri di tre

Granada

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La formazione del Regno di Castiglia (secc. XI-XV) Contea originaria di Castiglia (circa 1030) Regno di Castiglia alla morte di Fernando I (1065)

Reconquista dei Re castigliani dal 1284 al 1481

Reconquista di Alfonso VII e Alfonso VIII (1126-1214)

Reconquista dei Re Cattolici dal 1482 al 1492

Reconquista di Fernando III e Alfonso X (1217-1284)

Regno di Castiglia alla fine della Reconquista

delegazioni nominate dalle cortes, raggiunse un compromesso politico sul nome del nuovo re. Fu allora acclamato re d’Aragona Ferdinando I d’Antequera (1412-1416), figlio di Eleonora d’Aragona († 1382), sorella di Martino e prima moglie di Giovanni I, re di Castiglia. Rispetto a tali vicende, rimaneva in disparte il piccolo regno iberico della Navarra, collocato a ridosso dei Pirenei, che non ebbe un ruolo politico determinante e, a partire dal Quattrocento, iniziò a gravitare nell’orbita aragonese.

La lotta per le successioni ebbe importanti ripercussioni anche al di fuori delle frontiere iberiche 52

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Granada, Cappella Reale. Pannello in legno policromo raffigurante la corte dei re cattolici (composta da Ferdinando d’Aragona e Isabella la Cattolica) alla resa di Granada alla Castiglia nel 1492.

trimonio venne celebrato nel 1475, nonostante la mancanza di una bolla pontificia che dispensasse gli sposi dall’osservanza degli obblighi canonici. In quello stesso anno, morta improvvisamente Giovanna d’Aviz, Alfonso rimase l’unico tutore dei diritti della nipote e invase la Castiglia, affidando il comando dell’esercito al principe Giovanni († 1495), il figlio avuto dalla prima consorte, Isabella di Coimbra († 1455). Iniziò, cosí, una nuova guerra per la successione al trono castigliano. Grazie all’aiuto di una parte della nobiltà castigliana ostile a Isabella – il marchese di Cadice, il duca di Medina Sonia, Diego López Pacheco († 1529), figlio di Juan Pacheco –, Giovanni di Portogallo occupò la Castiglia occidentale e le città di Toledo, Burgos, Siviglia, Madrid, León e Toro, dove furono insediate Giovanna e la sua corte. La guerra di successione in Castiglia assunse, cosí, anche i caratteri di una guerra civile, perché parte della nobiltà del regno si schierò col Portogallo, probabilmen-

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te perché auspicava, sotto il governo della Beltraneja, di accrescere il suo potere e acquisire altri territori a spese della corona. Occorre anche ricordare che Beltrán de la Cueva – presunto padre di Giovanna – si schierò dalla parte di Isabella, di cui fu un servitore fedele fino alla morte e non prese mai le parti della sua presunta figlia.

Un conflitto internazionale

La guerra di successione castigliana, inoltre, non fu solo un conflitto regionale, limitato alla penisola iberica, ma coinvolse anche potenze straniere, come l’impero germanico e la Francia, di cui Castiglia e Portogallo si procurarono l’alleanza. La Castiglia si alleò con l’impero e il ducato di Borgogna – che causarono non pochi problemi alla Francia lungo i suoi confini orientali – mentre la Francia si alleò con il Portogallo, nella speranza di conquistare le contee di Rossiglione e di Cerdagna, che erano possessi dell’Aragona collocati sul versante fran-

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storia spagna/1 In basso saliera in avorio di produzione africana, dal regno del Benin (nel Centro-Sud dell’odierna Nigeria). 1525-1600 circa. Londra, The British Museum. Il manufatto è un oggetto di pregio ed è uno dei primi esempi noti di souvenir «turistico» realizzato dagli indigeni per gli stranieri: gli Occidentali sono ritratti con lunghi capelli, barbe e nasi adunchi. La lavorazione dell’avorio era permessa a solo beneficio della corte di Benin City, ma il sovrano allora in carica autorizzò la fabbricazione di simili manufatti anche per i visitatori europei.

L’impero portoghese

Nuovi e piú ampi orizzonti Fin dagli inizi del XV secolo, gli Aviz furono molto attivi nell’espansione commerciale e militare del regno portoghese, in direzione delle isole dell’Atlantico e lungo le coste dell’Africa occidentale. Tale politica era dettata dallo spirito d’avventura dei sovrani, nonché dalla ricerca di nuove popolazioni da evangelizzare, di schiavi e, probabilmente, di un passaggio marittimo che consentisse al Portogallo di circumnavigare il continente africano e di penetrare nell’Oceano Indiano, per raggiungere l’Oriente e le favolose terre delle spezie. L’organizzazione delle esplorazioni e delle conquiste si deve al principe Enrico il Navigatore d’Aviz († 1460), figlio di Giovanni I il Grande. Enrico si stabilí a Sagres, nell’Algarve, dove istituí una scuola di studi geografici e cartografici e arruolò abili navigatori provenienti da ogni parte d’Europa, tra cui i portoghesi Gil Eanes

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Nella pagina accanto, a destra la penisola iberica e le altre terre dell’Europa occidentale in un atlante del cartografo Joan Martines, attivo nella seconda metà del XVI sec.

cese dei Pirenei. Tuttavia la Francia non riuscí a inviare alcun esercito in Spagna in aiuto del suo alleato, perché il regno di Navarra – che era sotto il protettorato aragonese – non permise il passaggio delle truppe. La guerra, inoltre, fu combattuta anche nell’Atlantico, dove i Castigliani subirono molte sconfitte, nel tentativo di impossessarsi delle basi territoriali e commerciali dell’impero portoghese (vedi box in queste pagine). Nel marzo del 1476, presso la città castigliana di Toro, fu combattuta una sanguinosa battaglia tra l’esercito di Giovanna e quello di Isabella, che era al comando del marito Ferdinando. L’esito della battaglia fu incerto, ma le gravi perdite subite dai Portoghesi e il fatto che le città castigliane occupate si consegnarono a Isabella, spinsero il nemico a ritirarsi. Ferdinando, intanto, si divideva tra l’impegno in Castiglia, al fianco della moglie, e quello in Aragona, al fianco del padre Giovanni II, presso il quale veniva continuamente convocato, a causa della ribellione che ancora covava in Catalogna. Nel gennaio del 1479, Giovanni II d’Aragona morí e suo figlio Ferdinando divenne re: da quel momento, poté usufruire anche delle risorse finanziarie del nuovo regno per sostenere la lotta di Isabella. A partire dal 1479, i regni di Aragona e Castiglia, pur conservando le proprie cortes e i propri distinti ordinamenti, furono finalmente uniti nelle persone dei loro comuni sovrani. In Castiglia, in seguito a tali cambiamenti, la situazione politica e militare iniziò a volgere a favore di Isabella e, nel febbraio del 1479, i

e Diégo Caô († 1486), il genovese Antoniotto Usodimare († 1461) e il veneziano Alvise ca’ Da Mosto († 1483). Nel 1415 venne occupata Ceuta, in Marocco, e, tra il 1420 e il 1425, fu la volta degli arcipelaghi delle isole Madera e Azzorre, quest’ultime definitivamente conquistate nel 1435. Nel 1434, doppiato capo Bojador, lungo le coste occidentali dell’Africa, il Portogallo iniziò l’esplorazione del continente e la fondazione dei primi empori per il commercio con le popolazioni indigene. Nel 1445 furono raggiunte le isole di Capo Verde, nel 1450 il Gambia, nel 1455 il Senegal e nel 1460 – alla morte del principe Enrico – la Sierra Leone. Nel 1488 il navigatore portoghese, Bartolomeo Diaz († 1500), raggiunse il capo di Buona Speranza, ma non riuscí a doppiarlo a causa delle cattive condizioni atmosferiche. Nel 1497, Vasco da Gama († 1524) riuscí finalmente nell’impresa e, nel maggio del 1498, sbarcò a Calicut, in India, aprendo al Portogallo le rotte dei commerci orientali.

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Da leggere Ernesto Belenguer, Ferdinando e Isabella. I Re Cattolici nella politica europea del Rinascimento, Salerno Editrice, Roma 1999 Jean Dumont, La regina diffamata. La verità su Isabella la Cattolica, SEI, Torino 2003 John H. Elliott, La Spagna imperiale, 1469-1716, il Mulino, Bologna 2006 Edgarda Ferri, Giovanna la Pazza, Mondadori, Milano 1998

Portoghesi furono battuti presso Albuera. Spossati dalla stanchezza, i contendenti cercarono la pace, che fu firmata il 4 settembre del 1479, ad Alcáçovas.

Il riconoscimento ufficiale

Il trattato pose fine alle ostilità e riconobbe Ferdinando e Isabella come sovrani di Castiglia, costringendo Alfonso V a ritirare l’esercito dalla Castiglia. Inoltre, al Portogallo fu imposta la rinuncia alle Baleari – che appartenevano alla corona d’Aragona – e alle Canarie, su cui i d’Aviz accampavano diritti, benché le isole, nel 1402, fossero state occupate in nome della Castiglia dai navigatori francesi Gadifer de la Salle († 1415) e Jean de Béthentcourt († 1425). Da parte sua, la Castiglia rinunciò ai territori dell’impero portoghese, cioè agli arcipelaghi delle isole Madera, Azzorre, Capo Verde, a Ceuta, in Marocco, e agli avamposti commerciali collocati lungo la costa occidentale dell’Africa a sud di Capo Bojador. Il trattato di pace stabilí che Isabella († 1498), primogenita dei «re cattolici», andasse in sposa ad Alfonso d’Aviz, nipote di Alfonso V l’Africano. Le nozze furono celebrate solo nel 1490, ma furono di breve durata, perché un anno piú tardi il principe morí per una caduta da cavallo. Il matrimonio tra Alfonso V e la Beltraneja venne annullato e Giovanna fu promessa in sposa a Giovanni († 1497), primogenito di Ferdinando e Isabella, in osservanza all’impegno contratto, a suo tempo, con Enrico IV. Poiché Giovanni era ancora troppo piccolo, le nozze furono rinviate all’età adulta, ma, di fronte al fermo rifiuto della Beltraneja, quest’ipotesi fu subito accantonata. Allora Giovanna preferí farsi monaca nel convento di Santa Clara a Coimbra e morí a Lisbona nel 1530, mentre Alfonso V, caduto in depressione, abdicò a favore del figlio, Giovanni II il Perfetto (1481-1495), e si ritirò in monastero, dove morí nel 1481. Con queste premesse, il lungo e prospero regno de los Reyes Católicos poteva avere inizio.

LE PROSSIME PUNTATE ● La fine di Granada ● Nascita di una potenza imperiale

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costume e societĂ prigioni e prigionieri

Mantova, Palazzo Te, Camera dei Venti. Prigionieri, affresco realizzato su disegno di Giulio Romano. 1527-1528.

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Una vita dietro le sbarre

di Maria Paola Zanoboni

Maltrattamenti, carenze igieniche e sanitarie, sovraffollamento: nell’età di Mezzo le condizioni dei detenuti erano a dir poco disumane. Dal centralissimo carcere della Malastalla a Milano ai Piombi di Venezia, ecco come le autorità cittadine procedevano alla rieducazione delle anime attraverso il castigo del corpo MEDIOEVO

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costume e società prigioni e prigionieri

F F

u Cesare Beccaria, nella sua opera Dei delitti e delle pene (1764) a teorizzare per la prima volta il concetto di carcere non come luogo di punizione, o come mezzo per ottenere mediante la tortura confessioni forzate e lontane dal vero, ma piuttosto come spazio di redenzione e reintegrazione sociale. Del tutto diversa è l’idea delle carceri che fino a tempi recenti si riteneva caratterizzasse il Medioevo, epoca in cui la prigione non sarebbe stata concepita neppure come luogo di punizione, ma soltanto di custodia dei soggetti deviati, o dei debitori insolventi, costretti alla detenzione fino a quando non avessero soddisfatto i creditori. La storiografia piú recente tende invece a rimarcare sia la precoce funzione punitiva della prigione medievale, sia quella di riabilitazione sociale rivolta alla trasformazione dell’anima prima che alla repressione del corpo. A tale scopo, a partire dal tardo Duecento, le autorità cittadine investirono risorse economiche e politiche nella costruzione di nuove strutture carcerarie, nell’addestramento di personale destinato alla custodia dei detenuti, nella creazione di uffici di supervisione, nella produzione di scritture amministrative, nonché nella gestione finanziaria di strutture nuove e complesse. Nel momento in cui un’antica tradizione legale che rifiutava l’incarcerazione punitiva cedette il passo a una riorganizzazione dello spazio urbano basata su nuovi atteggiamenti verso la marginalità sociale, le prigioni emersero come elementi costitutivi del paesaggio cittadino, e la loro fondazione coincise col desiderio delle autorità di garantire la sicurezza, l’efficienza dei tribunali e il regolare svolgimento degli affari. Per gran parte del Medioevo vi fu una certa riluttanza a costruire edifici espressamente concepiti come carceri, preferendo prendere in affitto temporaneamente palazzi, sot-

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terranei o cantine. Solo alla fine del Duecento si cominciarono a concepire prigioni piú grandi, destinate a riunire le piccole strutture sparse per la città, collocandole preferibilmente nel centro urbano. Sulla scia di una tendenza riscontrabile alla fine del XIII secolo in tutte le regioni urbanizzate d’Europa – dall’Italia centro-settentrionale, alla Valle del Reno, ai Paesi Bassi – andava infatti affermandosi un nuovo concetto della marginalità, e nuovi meccanismi per mantenere l’ordine sociale. Meccanismi basati su un controllo diretto da parte dell’autorità pub-

blica cittadina, che, di conseguenza, anziché eliminarli fisicamente o allontanarli, tendeva a inglobare negli edifici del potere, o a tenere in ogni caso in posizioni facilmente controllabili, gli individui potenzialmente pericolosi, o comunque perturbatori dell’ordine pubblico.

Spazi promiscui

A Milano, nella centralissima zona corrispondente all’attuale via Orefici, fu costruito il carcere della Malastalla, destinato precipuamente ai debitori insolventi, oltre che agli omicidi e ai malati di mente. Menzionato per

Miniatura raffigurante due uomini rinchiusi in una prigione, uno dei quali messo alla gogna, dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

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la prima volta in un documento del 1272, venne ampliato nel 1375 da Bernabò Visconti, e ancora tre secoli dopo, nel 1624, sotto la dominazione spagnola. La sua soppressione risale al 1787, quando i locali vennero adattati ad abitazioni popolari. A differenza delle prigioni di altre importanti città, i detenuti della Malastalla non erano ospitati in sezioni diverse, ma uomini, donne, vecchi e ragazzi, sani e malati di mente, indipendentemente dal reato commesso, erano rinchiusi tutti negli stessi spazi. Solo i delinquenti piú gravi venivano segregati in celle di isolamento.

A Firenze, nel 1297, il carcere delle Stinche (ovvero «le creste») era sorto non lontano dall’Arno, a nord-ovest di Santa Croce, allo scopo di riunire le piccole prigioni sparse per la città. Rimase in funzione per oltre cinque secoli, fino al 1835, quando il granduca Pietro Leopoldo ne ordinò la vendita, in seguito alla quale venne distrutto per far posto a un edificio residenziale, poi trasformato nell’odierno Teatro Verdi. Quello delle Stinche fu pro-

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In alto miniatura raffigurante il conforto ai condannati, dal Rituale dei confratelli della Misericordia di Genova. XV sec. Genova, Biblioteca Universitaria.

babilmente il primo istituto carcerario onnicomprensivo e appositamente costruito realizzato in Italia, se non il primo in Europa. Suddiviso in sezioni, con separazione tra donne e uomini, tra adolescenti e adulti, tra magnati e popolani, tra reclusi per debiti e ladri od omicidi,

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costume e società prigioni e prigionieri

era dotato anche di un’infermeria e di un complesso separato per i malati mentali. Veniva dipinto come uno degli edifici piú tetri di Firenze, un isolato scuro con mura altissime prive di finestre, prospiciente l’attuale via Ghibellina.

Il piú triste dei ponti

Nello stesso periodo, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, a Venezia un’ala di Palazzo Ducale venne adibita a carcere cittadi-

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no, anch’esso suddiviso in sezioni a seconda dei detenuti ospitati, e con un’ala destinata alle donne, fino a quel momento rinchiuse nei conventi. La prigione veneziana venne poi ampliata nel 1540 e nel 1591. Nel 1563, a causa del sovraffollamento e di un incendio che aveva devastato parte del Palazzo, il governo veneziano fece costruire un nuovo edificio, completamente indipendente, collegato a Palazzo Ducale dal famigerato

Ponte dei Sospiri. La nuova prigione, inaugurata nel 1610, rimase in funzione fino al XX secolo. Nel 1327, a Siena, le autorità cittadine acquistarono i terreni sui quali tre anni dopo prese forma la nuova struttura carceraria, divenuta un’estensione laterale del Palazzo Pubblico, e destinata a riunire i tanti luoghi di detenzione ricavati nelle torri aristocratiche. Il nuovo complesso era progettato per dare la possibilità al magistrato di distingiugno

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Il carcere fiorentino delle Stinche fu il primo istituto di pena onnicomprensivo e costruito appositamente per quello scopo sovraffollamento e amnistie

Spazi cronicamente inadeguati

guere tra diverse categorie di prigionieri, fornendo ai reclusi trattamenti adeguati e migliorandone le condizioni di vita. Tutte innovazioni necessarie, dato l’aumento del numero dei prigionieri e della durata della loro detenzione. Ancora in pieno centro cittadino, in mezzo alla Piazza Maggiore, venne costruita, tra la metà del Duecento e la metà del Trecento, la serie di strutture carcerarie che costituivano le prigioni di Bologna, a partire dal

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Miniatura con la distribuzione del cibo ai detenuti, dal volgarizzamento dell’Esposizione del Pater Noster curato da Zucchero Bencivenni. Fine del XIII-inizi del XIV sec. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

La piaga del sovraffollamento affliggeva tragicamente le carceri medievali come quelle attuali. Il 17 febbraio 1327, a Siena, un gruppo di cittadini si rivolse al Consiglio Generale della città, lamentando la situazione delle prigioni e la morte di oltre 60 persone per le terribili condizioni di detenzione e l’abbandono, e auspicando la costruzione di una nuova struttura, dotata di spazi tali da consentire di dividere coloro che avevano perpetrato i reati piú gravi da chi si era macchiato di colpe minori, e dai detenuti per debiti. Ugualmente a Milano, nel 1592, lo storico Paolo Morigia descriveva le prigioni della città come assai umide e malsane, per cui molti, se non vi morivano, ne uscivano storpi e infermi per tutta la vita, e appoggiava perciò la costruzione di un nuovo istituto di pena piú comodo e salubre per i poveri reclusi, deliberata dalle autorità cittadine a causa dell’aumento insostenibile del numero dei prigionieri della Malastalla. Amnistie periodiche per i reati lievi, concesse in occasione delle festività piú solenni, permettevano di sfoltire temporaneamente le celle, sovraffollate e maleodoranti: nel 1573, a Milano, le carceri del capitano di Giustizia erano in condizioni tali che se non si fosse provveduto al piú presto – come faceva notare il loro custode in una petizione al Senato – la maggior parte dei prigionieri sarebbe morta o sarebbe stata costretta a fuggire. In uno spazio di circa 40 metri quadrati erano rinchiuse una quarantina di persone (molte delle quali ammalate) in condizioni igieniche pessime (aerazione insufficiente, somministrazione di acqua fetida, escrementi e urine a cielo aperto). In seguito a questa situazione, e per intervento dell’arcivescovo Carlo Borromeo, nel 1578 ebbe inizio a Milano la costruzione di nuove carceri. Per ovviare, almeno in parte alla situazione di sovraffollamento, a Firenze e a Venezia, durante il Trecento era prevista una sorta di libertà provvisoria, dietro versamento di una cospicua cauzione, cosa non facile per soggetti che non potevano piú lavorare ed erano costretti anche in prigione a mantenersi da soli.

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costume e società prigioni e prigionieri Pistoia, Ospedale del Ceppo. Visitare i carcerati, uno dei pannelli del fregio in terracotta dipinta e invetriata realizzato da Santi di Buglioni che illustra le Sette Opere di Misericordia. 1526-1528.

Palazzo di Re Enzo. Quest’ultimo, venne innalzato alla metà del XIII secolo per la detenzione del figlio di Manfredi (fatto prigioniero nel 1249) e fu progressivamente contornato da altri edifici destinati alla carcerazione dei rei di colpe gravi, dei condannati per debiti, delle donne. Anche queste strutture rimasero in funzione fino al XIX secolo.

L’organizzazione interna

I Fiorentini crearono una struttura di fatto unica in tutto il continente europeo anche dal punto di vista organizzativo e amministrativo. Già negli anni Venti del Trecento, le Stinche erano dotate di personale fisso salariato, pagato direttamente dal comune, e costituito da 3 o 4 sovrintendenti, da un drappello di guardie (da 3 a 6), da un ciambellano, uno scrivano, uno o due frati laici (i «pinzocheri») che si occupavano delle necessità dei prigionieri, alcuni inservienti, un cappellano, un acquaiolo, un medico, un addetto alla rimozione dei corpi dei deceduti. Altri ufficiali legati alla gestione della prigione erano i supervisori (sindaci, poi «buonomini»), che avevano anche compiti di controllo sulla distribuzione delle elemosine. L’assunzione di custodi,

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cappellani e medici denota una crescente attenzione verso le necessità dei prigionieri. Il medico delle Stinche, residente all’interno della prigione, fungeva anche da medico dei poveri del comune, e per il medesimo compenso di 50 lire all’anno svolgeva entrambe le funzioni, consentendo cosí alle finanze pubbliche un certo risparmio. Nonostante la posizione non prestigiosa e lo stipendio poco allettante, i medici tendevano a rimanere a disposizione del carcere per periodi piuttosto lunghi (intorno ai 5 anni), dimostrando probabilmente anche notevoli capacità professionali, come lasciano intuire i bassi indici di mortalità registrati tra i detenuti. Mentre i sovrintendenti, lo scrivano e il ciambellano restavano in carica per un periodo di 6 o 12 mesi, il personale minore della prigione aveva incarichi fissi, con un salario mensile che spesso, però, tardava a essere pagato, ed era comunque piuttosto esiguo. Per cercare di ovviare a questa situazione e arginare i conseguenti fenomeni di corruzione che ne derivavano, erano le stesse autorità cittadine a conferire ai dipendenti del carcere piú capaci e meritevoli incarichi

supplementari il cui reddito poteva superare abbondantemente quello percepito per la mansione principale al quale erano adibiti.

Il sistema dell’appalto

A Siena, invece, il carcere veniva gestito mediante appalto: le autorità cittadine ne mettevano periodicamente all’asta la gestione, che veniva aggiudicata in genere a società e consorzi fra privati, i quali, vinta la gara, dovevano versare all’erario, oltre all’importo pattuito, anche una forte cauzione nel caso in cui qualche prigioniero fosse fuggito. Agli appaltatori spettava l’ingaggio dei secondini, di uno scrivano e di due frati, incaricati sia del conforto dei detenuti, sia del controllo della moralità. Questa forma di gestione indiretta non riscosse però successo, dal momento che da un carcere non si potevano ricavare introiti particolari. Gli eventuali profitti si sarebbero potuti trarre soltanto dalla presenza di un buon numero di reclusi benestanti, disposti a versare somme accessorie per il miglioramento delle proprie condizioni in carcere, cosa che di solito non avveniva. Anche a Siena, perciò, questo modello di gestione venne applicato saltuariagiugno

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A destra Venezia. Il carcere dei Piombi, il cui nome deriva dalla copertura del tetto, composta da lastre di piombo. Le sue celle erano riservate ai prigionieri del Consiglio dei Dieci, accusati di misfatti perlopiú politici, o comunque per pene non lunghe o reati non gravi o per detenuti in attesa di giudizio.

mente e solo nel caso di gravi problemi finanziari.

I «Signori di Notte»

A Venezia, dalla fine del Duecento, la responsabilità della prigione venne affidata alla magistratura dei «Signori di Notte», i quali avevano il compito di recarsi settimanalmente in visita ai detenuti, di versare i salari alle guardie carcerarie, e, dal 1343, furono incaricati anche della nomina di un notaio deputato espressamente a conferire legalità alle pratiche della prigione. Alla metà del Trecento, dunque, già sussistevano numerosi elementi organizzativi dell’amministrazione carceraria veneziana, tra cui un corpus di leggi e regolamenti che andava progressivamente accrescendosi, un nucleo minimo di personale stabile, strutture apposite e procedure di supervisione periodica. Anche in questo caso, come a

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costume e società prigioni e prigionieri Firenze, costituí una novità significativa, in particolare, il ricorso a personale salariato, retribuito esclusivamente e direttamente dal comune con compensi decorosi, seppure non elevati, fatto che aveva lo scopo, mai pienamente raggiunto, di ridurre il fenomeno della corruzione delle guardie carcerarie. Tali salari non bastavano in ogni caso a mantenere una famiglia, per cui i secondini chiedevano spesso licenza di svolgere attività supplementari e commerci di vario genere per integrare il reddito. Le mance, spartite ogni sabato sera tra grida e liti furibonde, rimpinguavano le scarse paghe. La vita dei secondini veneziani non era comunque facile: pubblicamente disprezzati, costretti a condividere per tutta la giornata l’esistenza dei carcerati, e a volte persino a risiedere con tutta la famiglia all’interno della prigione, rischiavano continuamente di essere aggrediti dai criminali piú prepotenti, al punto che, nel 1448, il Consiglio dei Dieci minacciò gravi provvedimenti contro i detenuti che avessero offeso o percosso, come spesso accadeva, i guardiani. A differenza di Firenze, nel carcere veneziano non venne creata un’infermeria fino all’epidemia di tifo del 1563: ci si limitava a rilasciare i soggetti malati, a isolarli dagli altri, oppure a cercare di mantenerli in condizioni di vita migliore. Presto, però, gli abusi connessi a tale pratica convinsero i magistrati a dichiarare che il tempo trascorso in queste particolari condizioni non poteva essere computato nella durata della condanna. L’assistenza medica disponibile era in ogni caso alquanto scarsa, tanto che spesso si concedevano particolari permessi di visita ai parenti dei detenuti perché potessero curare i loro congiunti. A Milano, invece, esisteva fin dal 1389 almeno un medico nominato dal comune per curare gli infermi della Malastalla e degli altri istituti carcerari cittadini. Il personale di

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custodia era in gran parte mantenuto con gli incerti proventi delle multe, ed essendo mal retribuito, si rifaceva estorcendo balzelli ai reclusi. Precaria era anche la situazione del direttore delle carceri che doveva depositare presso l’erario una somma molto elevata a garanzia della buona custodia dei detenuti, dei quali rispondeva con la propria persona e il proprio patrimonio.

Un’altra versione della visita ai carcerati, una delle Opere di Misericordia, affrescata in una delle lunette dell’oratorio dei Buonomini di S. Martino, a Firenze. XV sec.

La piaga degli abusi

Le fughe comportavano aspre punizioni, sia corporali che pecuniarie, per le guardie carcerarie, alle quali venivano inflitti tratti di corda e comminate ingenti multe, per cui, per impedire le evasioni, direttore e carcerieri ricorrevano a ogni mezzo e a ogni tipo di abuso. Un fatto a sua volta aspramente biasimato dagli Statuti di Milano del 1396, che proibivano ai secondini di tormentare i prigionieri piú di quanto consentito, di trattenerli in ceppi se non erano omicidi, di impedire loro la passeggiata nel cortile della prigione, o di tenerli rinchiusi in celle malsane. In ogni caso, visite settimanali di funzionari del podestà, e visite mensili del suo vicario, cercavano di controllare la situazione e di evitare gli illeciti. Sempre a tale scopo, la duchessa Bianca Maria, moglie di Francesco Sforza, istituí nel 1466 il «consorzio dei carcerati», formato da un gruppo di facoltosi cittadini ai quali veniva demandato il compito di sorvegliare la situazione dei prigionieri, distribuire elemosine, alleviare le sofferenze, e, soprattutto, evitare gli abusi commessi dai gestori e dalle guardie carcerarie a danno dei reclusi, compresa la facoltà di effettuare una revisione dei processi e di valutare eventuali carcerazioni ingiuste. Nell’atto di costituzione del consorzio, al quale concedeva la piú ampia autonomia, la duchessa si diceva consapevole e dispiaciuta per gli abusi continui, e decretava

che i custodi, gli appaltatori e tutti coloro che gestivano il carcere dovessero obbedire agli esponenti del consorzio stesso, in modo che cessassero corruzioni, estorsioni, rapine e qualsiasi tipo di comportamento lesivo dei reclusi. Ciononostante, gli appaltatori e il personale della Malastalla continuavano a contravvenire apergiugno

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tamente agli ordini ducali. Tra gli abusi piú frequenti c’era lo sfruttamento dei detenuti da parte delle guardie, che chiedevano loro somme esorbitanti per il cibo, imponevano balzelli di ogni tipo, e li lasciavano languire in carcere a lungo senza alcuna autorizzazione, prima che venissero istruiti i processi, cosa che portava al sovraffollamento

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della prigione, con conseguenti malattie ed epidemie.

Torture ed estorsioni

Un documento del 1575 illustra ampiamente gli abusi commessi dai custodi della Malastalla, che ogni giorno trovavano nuove e crudeli invenzioni con cui infierire sugli infelici reclusi nel tentativo di

estorcere loro del denaro. Mettevano l’uno in malsane e lugubri celle sotterranee, legavano l’altro con mille catene al collo, ai piedi e alle mani, tanto che a volte erano appesantiti da oltre 100 libbre di ferro. Tutto questo senza alcun ordine dei giudici, ma soltanto nella speranza di ottenere denaro. Dato poi che il guardiano capo gestiva in loco un’o-

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costume e società prigioni e prigionieri I prigionieri di guerra

Una preziosa «merce di scambio» Miniatura raffigurante la battaglia di Montaperti, dalla Cronaca di Niccolò di Giovanni Ventura. XIII sec. Siena, Biblioteca Comunale. Lo scontro, combattuto nel 1260, vide prevalere le forze di Siena su quelle di Firenze e i vincitori fecero circa 20 000 prigionieri.

steria, non tollerava che i carcerati acquistassero il cibo da altri, e non raramente aveva fatto rompere i contenitori di cibo e bevande portati dai familiari dei detenuti, ingiu-

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Un caso a parte era quello dei prigionieri di guerra, considerati, se ricchi o importanti, come un mezzo per ottenere il piú alto riscatto possibile, o come merce di scambio, e lasciati languire nel piú squallido abbandono se poveri. Nella Toscana duecentesca, durante le lotte tra guelfi e ghibellini, si costituivano talora veri e propri «consorzi» per sfruttare i prigionieri di particolare importanza politica o economica: abbandonati cosí a ogni possibile vessazione, questi sfortunati soggetti erano costretti a rilasciare obbligazioni di debito oppure a consegnare ostaggi e pegni. I prigionieri di guerra potevano anche essere venduti perché altri cittadini li utilizzassero come merce di scambio, e rappresentavano dunque uno dei frutti piú appetibili delle campagne militari, una fonte irrinunciabile di vantaggio economico e strategico nei confronti dell’avversario, nonché un mezzo di autofinanziamento della guerra stessa. I personaggi nobili o di un certo spicco erano in genere tenuti in condizioni di prigionia relativamente onorevoli, ma talvolta proprio il loro rango li trasformava invece nel bersaglio di ritorsioni esemplari e crudeli: a Parma, nel 1331, per esercitare pressione sul legato pontificio Bertrando dal Poggetto, il cognato del re Roberto di Napoli venne rinchiuso in una gabbia di ferro fissata alla torre di abitazione del podestà. Talora, anche se raramente, veniva loro concesso l’indulto, come in occasione

riandoli e malmenandoli. Proprio per porre fine a situazioni di questo tipo, il contratto di appalto della Malastalla, risalente al 1575, vietava severamente di tormentare i pri-

gionieri per estorcere loro denaro, pena la perdita della concessione sulla gestione del carcere. Eppure questo luogo di pena, rispetto alle altre prigioni milagiugno

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della Pasqua del 1290, quando le autorità di Firenze rilasciarono un buon numero di Aretini fatti prigionieri a Campaldino. Anche i prigionieri di guerra erano in genere costretti a mantenersi da soli, per cui si caricavano di pesanti debiti, che dovevano poi riscattare col proprio lavoro quando fossero stati liberati. Appare perciò eccezionale il provvedimento del governo senese che, nel 1235, per intervento del papa, concesse loro il mantenimento senza gravarli di balzelli. Dopo la battaglia di Montaperti (1260), vinta dai ghibellini senesi contro i guelfi fiorentini, «ventimila uomini dell’esercito fiorentino e alleato – ci informa lo storico Robert Davidsohn – vennero portati a Siena prigionieri (…) Le tre carceri di Siena, per quanto stretti vi si chiudessero i disgraziati, non eran neanche lontanamente sufficienti; per tenerli in custodia si dovettero affittare due palazzi, dieci case, trentadue torri e un sotterraneo e vennero impiegati 472 guardiani per impedire l’evasione dei prigionieri. (…) In catene, durante dieci anni di prigionia, ottomila prigionieri, quasi la metà, perirono di stenti». Le condizioni dei Fiorentini catturati dai Senesi a Montaperti erano cosí crudeli che anche papa Clemente IV intervenne a loro favore, esortando a trattarli meglio, ma invano. Tale era l’odio nei loro confronti, che il comune di Siena arrivò a pagare giullari e cantori per comporre canzoni satiriche contro i malcapitati.

bile all’Ospedale Maggiore e altrettanto necessario: «In esso i mendicanti trovano rifugio; in esso vengono rifocillati con le elemosine; in esso sono redenti dai sacerdoti; in esso vengono difesi i loro diritti, e dalla sua funzione traggono vantaggio i creditori e tutta la cittadinanza». Niente di tutto questo si verificava invece nelle altre carceri, con grave danno per i creditori e per i cittadini. Come accennato, l’organico degli istituti carcerari comprendeva in genere anche un notaio, il cui ruolo era piuttosto rilevante e indispensabile. Poiché gli ufficiali preposti alle prigioni mutavano ogni semestre, le registrazioni notarili consentivano infatti una piú facile transizione da un’amministrazione all’altra.

Il «fascicolo personale»

nesi svolgeva un ruolo percepito dai contemporanei come nettamente piú importante, come viene espresso chiaramente in una petizione per la sua ricostruzione dopo

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l’incendio che lo aveva devastato nel 1478. La sua funzione principale – sottolineavano gli autori della petizione – era infatti quella di ricovero per i poveri, equipara-

Si trattava essenzialmente di due tipi di registrazioni: quelle relative alle entrate e alle uscite del carcere, e quelle concernenti il traffico dei prigionieri, particolarmente preziose per gli storici attuali, in quanto contenevano informazioni sulla data e sui motivi dell’arresto, il nome dell’ufficiale o della persona che lo aveva materialmente eseguito, l’ammontare dei debiti del prigioniero, la sua occupazione, la condizione sociale, il luogo di origine e l’attuale residenza. Si tratta, in pratica, dei «fascicoli personali» di ciascun detenuto, ai quali venivano aggiunte le vicende successive della carcerazione (pagamenti completi o parziali da lui effettuati, cancellazione di debiti, ecc.), fino al suo rilascio, con relativa motivazione, o alla morte, con le circostanze in cui era avvenuta. In base a queste informazioni veniva deliberato quali prigionieri lasciare liberi in occasione di particolari festività. Anche l’altra incombenza del notaio – quella di controllare le spese e le entrate della prigione – era rilevante ai fini dell’eventuale riacquisto della libertà: i carcerati, infatti, erano soggetti ad am-

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i tentativi di evasione

Fughe clamorose e repressioni violente La sorveglianza dei detenuti spettava al direttore del carcere, il quale, oltre a dover versare una cospicua cauzione al momento della nomina, era ritenuto personalmente responsabile sia di eventuali fughe, sia di rilasci ingiustificati. A Cremona in particolare, tra Cinque e Seicento, vigevano disposizioni severissime: in caso di fuga di un prigioniero, il direttore del carcere prendeva il suo posto fino alla cattura o all’espiazione della condanna; se poi il fuggitivo era detenuto per debiti, l’onere di soddisfare il creditore passava automaticamente al direttore dell’istituto di pena. Ciononostante, proprio a Cremona, tra il XV e il XVII secolo, i tentativi di fuga furono

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continui: la piú memorabile fu quella del 1629, quando il carcere rimase vuoto per l’evasione in gruppo di tutti i reclusi, guidati dal direttore del carcere in persona. Tentativi del genere, spesso repressi in modo sanguinoso, non mancarono neppure a Milano, dove, nel 1477, molti prigionieri, disperati per le condizioni in cui venivano tenuti – sfamati con un tozzo di pane e un boccale d’acqua al giorno, e costretti a dormire sul pavimento, senza neppure un po’ di paglia su cui adagiarsi –, cominciarono a divellere assi e a scavare nel pavimento della loro cella, sperando di trovare il modo di uscire. Il tentativo fu però subito scoperto dal custode della giugno

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A sinistra una delle scene che compongono le Storie del beato Ranieri Rasini dipinte sulla predella del polittico realizzato dal Sassetta (al secolo Stefano di Giovanni) per la chiesa di S. Francesco a Sansepolcro. 1437-1444. Parigi, Museo del Louvre. Il particolare raffigura il beato che libera i poveri da una prigione di Firenze.

prigione, che fece intervenire le guardie del Capitano di Giustizia. Nello scompiglio che ne seguí, molti reclusi vennero massacrati, altri messi in catene. E un tentativo di evasione fu ritenuto anche la causa dell’incendio che, nel 1478, distrusse in parte il carcere della Malastalla, provocando danni anche a molti edifici circostanti. Ciò diede un buon motivo alla corporazione degli orefici, nel cui quartiere la prigione era incautamente situata, per protestare, chiedendo che la struttura carceraria non fosse mai piú ricostruita in quella zona. Ma la mancanza di fondi costrinse a ripristinare in qualche modo quanto era rimasto dell’antica prigione.

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In alto Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove (o della Pace). Allegoria ed Effetti del Buon Governo, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Particolare raffigurante le personificazioni della Magnanimità, della Temperanza e della Giustizia.

mende e tasse, il cui pagamento costituiva un presupposto indispensabile alla scarcerazione, e la registrazione notarile ne sanciva appunto giuridicamente l’effettuazione, combattendo la tendenza all’estorsione o alla collusione tra sovrintendenti e creditori. Il notaio registrava anche le spese sostenute per i rifornimenti, le riparazioni e i salari, cosí da permettere all’amministrazione comunale di verificare che le somme destinate al carcere fossero spese correttamente e che gli impiegati e i fornitori di servizi ricevessero compensi adeguatamente tassati. Il funzionario poteva inoltre essere incaricato

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costume e società prigioni e prigionieri di rogare petizioni dei prigionieri, liste di carcerati, inventari della prigione, registri di detenuti che lasciavano temporaneamente la prigione per occuparsi di affari personali.

Difesa d’ufficio

A Venezia, dove dalla metà del Trecento si registra una maggiore attenzione per le condizioni e le esigenze dei carcerati, con provvedimenti governativi in questo senso, venne creato, verso la metà del secolo successivo, l’«avvocato dei poveri prigionieri», una figura presente già in molti altri centri della Penisola, ma che nella città lagunare assumeva un ruolo particolare, non limitandosi soltanto alla difesa d’ufficio dei detenuti poveri, ma costituendo un vero e proprio ufficio pubblico permanente di patrocinio delle loro necessità. Aveva infatti l’obbligo di lavorare soltanto per i carcerati, di far loro visita due volte alla settimana (e una sua eventuale assenza poteva essere denunciata dai reclusi stessi), seguire le vicende giudiziarie di ciascuno, aveva libero accesso alla prigione e godeva della precedenza su chiunque quando si presentava alle magistrature cittadine. Potevano accedere a questa carica soltanto i nobili, di almeno 35 anni di età, e che ottenevano il mandato per due anni, con uno stipendio di 120 ducati annui [cioè circa 480 lire dell’epoca: un lavoratore dipendente prendeva nello stesso periodo mediamente 5/6 lire mensili] e col divieto di accettare altro denaro per le sue prestazioni. Di notevole importanza era anche la figura del custode della prigione, sul quale gravava l’intera responsabilità dell’istituto, compresa quella relativa a eventuali fughe. Su di lui sono particolarmente dettagliate le notizie relative a Cremona, nel primo Seicento: veniva nominato per un biennio, scegliendolo in una rosa di candidati dotati di requisiti di onorabilità e onestà. Le

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domande venivano vagliate attentamente, in quanto non era raro che si presentassero individui di dubbia fama e integrità morale, spinti dal miraggio di guadagni disonesti che l’incarico poteva favorire se svolto fuori dalla legalità. Come accennato, non era raro, infatti, che si sfruttassero i detenuti chiedendo loro, per vitto e alloggio, somme maggiori del dovuto, balzelli per concedergli di parlare con i familiari, mentre un altro business non indifferente era rappresentato dalla vendita agli «ospiti» della prigione di vino proveniente da commerci poco ortodossi. Tra i vantaggi c’era anche quello di poter disporre dell’alloggio, situato presso l’ingresso del carcere. Naturalmente anche i pericoli che questa mansione comportava non erano indifferenti, tanto che alcuni rinunciavano all’incarico per non rischiare la vita. Il passaggio di consegne tra il custode cessante e quello subentrante avveniva mediante la consegna dei locali in cui erano rinchiusi i detenuti, a cui seguiva quella dei detenuti stessi, tutti debitamente registrati nel protocollo redatto dal notaio. Al sostentamento dei detenuti, di cui i governi cittadini non si assumevano l’onere, provvedevano solitamente confraternite religiose o laiche, grazie a lasciti di persone abbienti, o mediante questue autorizzate dalle autorità cittadine, come avveniva a Milano per il consorzio della Malastalla, istituito nel 1466 col patrocinio della duchessa Bianca Maria Visconti, e incaricato anche di verificare gli atti processuali e di porre rimedio a eventuali ingiustizie. I «protettori dei carcerati» della Malastalla potevano parlare con qualsiasi detenuto e far rilasciare, previa fideiussione, chi fosse in prigione per debiti. In ogni caso, le questue, i lasciti e la somma che il comune di Milano già nel Trecento destinava al carcere non erano sufficienti al mantenimento dei reclusi che si vedevano

perciò costretti a versare un importo giornaliero piuttosto alto per vitto e alloggio, oltre ad altri balzelli di vario tipo. Talvolta, poi, il Tribunale di Provvisione inviava loro assaggi di molteplici generi di salsicce che si sottoponevano, per verificarne la qualità, all’esame del Giudice delle Vettovaglie, e altrettanto avveniva per il pane sequestrato ai fornai perché di cattiva qualità o di peso non regolamentare. Allo stesso scopo, fin dal Trecento, i frati del convento milanese della Colombetta giravano per la città ogni sabato questuando presso i macellai per raccogliere carne che la domenica distribuivano cotta ai carcerati, insieme a pane e vino. Nel 1483, quando per una terribile carestia i detenuti morivano di fame, il duca decretò che i creditori dovessero versare una somma giornaliera per il mantenimento in carcere dei propri debitori insolventi se erano malati e non in grado di lavorare.

Le ragioni dei reclusi

Un secolo dopo, nel 1585, a fronte dei continui abusi che si verificavano per via della pigione giornaliera, il Senato di Milano diede ragione ai carcerati della Malastalla che protestarono chiedendo di non dover piú versare l’intera tassa quando si facevano portare dall’esterno il vitto e il letto. Per gli stessi motivi, il contratto di appalto delle carceri del Podestà (1594/95) proibiva di riscuotere dai detenuti piú del giusto prezzo per il cibo erogato loro, per il giaciglio e per le candele, vietando al tempo stesso di chiedere un tributo a quelli che vivevano a proprie spese, facendosi rifornire dai parenti di tutto il necessario. I carcerati dovevano versare un canone per «risiedere» in prigione anche a Firenze, dove l’attività di procacciamento dei fondi per il loro sostentamento era regolata dalla Signoria, che nominava un certo numero di «buonomini» incaricati giugno

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I reparti femminili

Tre porte e tre chiavi contro abusi e violenze Reparti carcerari femminili vennero creati molto prima di quanto generalmente si crede. La prima fu Bologna, dove tali strutture furono realizzate già nel 1328 per un motivo ben preciso: le religiose, alle quali prima di tale data venivano affidate le detenute, rifiutavano di ospitarle, dal momento che si trattava di donne colpevoli per la massima parte di prostituzione, che continuavano ad attirare protettori e clienti, mettendo gravemente a repentaglio la sicurezza dei monasteri. A Venezia, invece, i reparti femminili risalgono solo al 1360, e a Firenze alla prima metà del Trecento. Si trattava di sezioni separate dal resto dell’istituto di pena, dotate di personale apposito, e particolarmente ben protette: nel carcere fiorentino, le donne recluse erano imprigionate dietro tre porte, le cui chiavi venivano distribuite a tre differenti funzionari. Si cercava in tal modo di evitare abusi ed episodi di violenza.

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Miniatura raffigurante una giovane donna che, spiata da un carceriere, offre il seno alla madre detenuta, per sfamarla, da un’edizione del De mulieribus claris del Boccaccio. 1488-1496. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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costume e società prigioni e prigionieri della supervisione sulla questua a favore dei detenuti fatta dai frati laici addetti al carcere, mentre l’amministrazione pubblica si limitava a fornire ogni giorno un tozzo di pane a ciascuno. Nello stesso modo agiva la confraternita di Orsanmichele, che distribuiva cibo ai prigionieri, finanziava il rilascio di alcuni di loro e offriva supporto materiale alle famiglie.

12 soldi alla settimana

A Bologna, le spese, già alte, che i detenuti dovevano sopportare per la carcerazione, vennero raddoppiate nel 1335, in quanto gli introiti servivano anche a pagare le guardie. Oltre alle spese d’ingresso e alle tasse giornaliere, ogni detenuto versava 12 denari ogni 8 giorni per «luce, acqua, bagno e altre necessità», altri 6 denari per il notaio, e altrettanti per gli aiutanti dei custodi, mentre i pasti della prigione (pranzo e cena) costavano 18 denari al giorno, anche se non erano obbligatori. In sintesi, escludendo il cibo e le spese legali, la semplice permanenza in prigione, tra il 1335 e il 1376, comportava una spesa di 12 soldi settimanali, corrispondente al salario settimanale di un lavoratore a giornata. Spese che gravavano per la massima parte sulla famiglia del detenuto, trasformando spesso la detenzione in un disastro economico e nell’origine di ogni sorta di problemi. Date queste premesse, in molte carceri era concesso ai reclusi di lavorare, svolgendo attività compatibili con la loro situazione, o praticando piccoli commerci attraverso le sbarre della prigione. A Venezia i detenuti condannati per colpe lievi erano rinchiusi in stanzoni con grandi finestre prospicienti la strada, attraverso le quali potevano parlare con i passanti, chiedere l’elemosina, o vendere loro piccoli oggetti. In tal modo provvedevano almeno in parte al proprio mantenimento che nella città lagunare, a differenza di

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quanto accadeva altrove, veniva finanziato soprattutto dal comune. Anche a Lucca, nel XV secolo, i sovrintendenti della prigione furono incoraggiati a permettere agli artigiani di continuare a svolgere la loro attività in carcere, cosí come a Firenze si consentiva ai detenuti di lavorare, come documentato, tra l’altro, dal poeta Francesco Berni (1497-1535): «Chi cuce pelle, chi lavora fusa, chi stecchi, e chi mille altre belle

cose». Proprio alle Stinche venne realizzato nel 1456 un codice miniato del De viris illustribus del Petrarca, tuttora esistente e conservato presso la Biblioteca Nazionale. Se artigiani e lavoratori a giornata, una volta incarcerati, da fonte di sostegno per la famiglia si trasformavano sostanzialmente in un peso economico, decisamente migliore doveva essere la condizione dei mercanti, che potevano molto giugno

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A destra Venezia, Palazzo Ducale. Una delle cosiddette «Bocche di Leone», in uso ai tempi della Repubblica. Si trattava di una sorta di cassette delle lettere destinate a raccogliere denunce anonime, in questo caso quelle per presunti reati commessi nella gestione degli affari di Stato. Nella pagina accanto un corridoio delle antiche carceri veneziane, sul quale si affacciano le varie celle. Il primo nucleo dell’istituto di pena fu realizzato sfruttando un’ala di Palazzo Ducale. In seguito, a causa del sovraffollamento e di un incendio che aveva parzialmente distrutto l’edificio, il governo della Serenissima fece costruire un nuovo edificio, completamente indipendente, collegato a Palazzo Ducale dal famigerato Ponte dei Sospiri.

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piú facilmente continuare a gestire i propri affari anche dalla prigione, rivolgendosi a soci o a parenti (oltre a poter godere di un miglior trattamento, perché in grado di pagare di piú all’istituto detentivo). Persino il ricco mercante pratese Francesco Datini si rassegnò con una certa tranquillità all’idea di rimanere per qualche tempo in carcere, informando la moglie che si sarebbe trovato in buona compagnia, dal momento che con lui ci sarebbero stati molti altri uomini d’affari.

Il potere dei soldi

Da leggere Guy Geltner, La prigione medievale, Viella, Roma 2012 Pietro Iacopo Fraticelli, Delle antiche carceri di Firenze denominate Le stinche, Formigli, Firenze 1834 Serafino Biffi, Sulle antiche carceri di Milano e del Ducato milanese e sui sodalizj che vi assistevano i prigionieri ed i condannati a morte, Rebeschini, Milano 1886 [rist. 1972] Agostino Cavalcabò, La vita nelle antiche carceri del Comune di Cremona, in Cremona: rivista mensile illustrata della città e provincia, 1-2, gen-feb 1941; pp. 9-20 Marina Gazzini, Storie di vita e di malavita. Criminali, poveri e altri miserabili nelle carceri di Milano alla fine del medioevo, Firenze University Press, Firenze 2017 Robert Davidsohn, Storia di Firenze, vol. II: Lotte Sveve e vol. V: Impulsi interni, influssi esterni e cultura politica, Sansoni, Firenze 1956 e 1962 Giovanni Scarabello, Carcerati e carceri a Venezia nell’età moderna, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1979 Giovanni Scarabello, Carcerati e carceri a Venezia dal XII al XVIII secolo, Supernova, Venezia 2009 Andrea Barlucchi, Quando il carcerato pagava la pigione, in «Medioevo», n. 110, marzo 2006; pp. 74-81 Laura Bertoni, Il prezzo della libertà. La gestione dei prigionieri di guerra a Pavia (1250-1251), in Società e Storia, n. 113, 2006; pp. 443-468

Ciononostante, tutti quelli che potevano e avevano le risorse economiche necessarie, cercavano di evitare l’arresto, fuggendo e negoziando la pena da lontano. Cosí fece nel 1467/68 il banchiere mediceo Pigello Portinari, quando, in procinto d’essere incarcerato per problemi dovuti alla vendita di una proprietà su cui gravava un’ipoteca non dichiarata, si rifugiò nella natía Firenze dove aveva la famiglia e la maggior parte dei suoi beni. Chi poteva, cercava anche di migliorare le proprie condizioni all’interno del carcere, versando quote aggiuntive per una sistemazione piú comoda e un vitto migliore, scopo che si poteva raggiungere o perché espressamente previsto dal regolamento del carcere (come a Firenze e a Cremona), oppure attraverso accordi individuali con i sovrintendenti della prigione, o, ancora, mediante un’intesa informale con le guardie. In molti casi, come a Firenze, dove l’istituto dell’«agevolatura» era ufficialmente ammesso e previsto, finivano per ricrearsi le stesse gerarchie sociali vigenti nel mondo esterno: chi pagava aveva diritto persino alla sistemazione in un’ala separata del carcere. Malgrado gli sforzi legislativi, erano dunque il benessere, lo status sociale e la rete di relazioni, anziché la gravità della colpa, a determinare il trattamento dei reclusi.

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di Federico Canaccini

Eremi, castelli e borghi calati in un paesaggio culturale di straordinaria suggestione: ecco lo sfondo, soave e sereno, per un viaggio alla scoperta di una storia drammatica e il piú delle volte sanguinosa...

CASENTINO

La facciata del castello dei conti Guidi a Poppi (Arezzo). Centro fra i piú importanti del Casentino, il borgo fu, tra l’altro, testimone della battaglia di Campaldino, combattuta l’11 giugno 1289 nella piana sottostante.

La magia del Medioevo


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C C

hi intraprende per la prima volta la strada che da Arezzo conduce in Casentino può provare la sensazione di lasciarsi alle spalle la città e, in parte, la civiltà, per essere risucchiato in un mondo fatto di foreste, pievi romaniche e castelli turriti. E nei boschi casentinesi si possono ancora incontrare le fate tra gli alberi, nelle pievi i monaci, nei castelli i cavalieri e, forse, persino qualche fantasma. Poche altre zone della Toscana riescono, come il Casentino, a trasmettere quella magia del Medioevo, ancora largamente intatta nel paesaggio, nella memoria e in molte tradizioni. E persino nei proverbi o nella lingua quotidiana, ricca piú che altrove di longobardismi. Varie sono le ipotesi sull’etimologia del nome della valle: potrebbe derivare dalla sua angusta conformazione, clausum (chiuso), oppure connesso ad alcuni gruppi di Liguri (ricordati dallo storico Polibio come Casuentini), che, assieme agli Umbri, avrebbero popolato le pendici dei colli casentinesi, oppure ancora, anche se in maniera piú forzata, alla grande tradizione pastorale e a uno dei prodotti tuttora tipici di questa zona, vale a dire il caseum, il «cacio». Risalendo le anse dell’Arno, che nasce sul monte Falterona, si incontrano gli avanzi del Ponte alla Chiassa, un antico passaggio romanico, a schiena d’asino, distrutto durante l’ultimo conflitto mondiale, di cui rimane il pilone centrale in mezzo al letto del fiume, unico brandello che ha resistito, imperterrito, sia alle cariche esplosive che alle molteplici alluvioni. Proseguendo nel cammino, appare sulla destra la potente torre quadrata di Capolona, recentemente restaurata, tutta coronata a beccatelli e merli. Dall’altro lato della valle occhieggiano le torri di Bibbiano e di Belfiore, citate in un diploma di Federico Barbarossa e ormai dirute, cosí come la non lontana abbazia di Santa Trinita in Alpe, mentre della potente abbazia di Capolona resta

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Il santuario della Verna. Nell’estate del 1224 san Francesco d’Assisi si ritirò qui e, durante la permanenza, il Signore gli apparve sotto forma di Serafino crocifisso, lasciandogli in dono i sigilli della sua passione, cioè le stimmate.

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Rufina

SR65

Pietrapazza Camaldoli

Vallucciole

Sieci

Consuma

Badia Prataglia

Firenze

Partina

E35

Bibbiena

Reggello

Chitignano

La Panca

Abbazia di Santa Trinita in Alpe

Torre di Belfiore Bibbiano Capolona

Meleto

Laterina Rendola Capannole

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La Verna

Poppi

Vallombrosa

Subbiano Antria

Arezzo

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Dossier solo il ricordo. A Subbiano si può ancora ammirare una massiccia torre quadrata che si affaccia sull’Arno, là dove, poco piú a sud, l’ansa del fiume «disdegnosa torce il muso» (Divina Commedia, Purgatorio, XIV, 48), come scrisse Dante, evitando Arezzo e risalendo il Valdarno ai piedi del Pratomagno, per giungere sino a Firenze e poi sfociare a Pisa. Superato lo stretto passo detto del «Groppino», un luogo che rende, da qui in poi, la valle una conca chiusa da tutti i lati, ha inizio il Casentino propriamente detto, delimitato a est dalle montagne di Camaldoli e La Verna, a ovest dal massiccio del Pratomagno, a nord dalle punte del Falterona e del Monte Falco. In questa conca si intrecciano storie, vere e fantastiche, dando vita a un luogo davvero magico.

Il «crudo sasso»

Giunti a Bibbiena, di cui ancora si intuisce la struttura muraria e la severa, antica potenza dei vescovi che la dominarono nei secoli del Basso Medioevo, si può imboccare la via che conduce al «crudo sasso,

infra Tevere e Arno» della Verna, là dove Francesco d’Assisi «da Cristo prese l’ultimo sigillo». È questo uno dei luoghi piú suggestivi della vallata, incastonato sull’unica, aspra vetta che increspa il dolce skyline casentinese: popolato da lupi e briganti, il monte della Verna sarebbe stato donato dal conte Orlando Cattani da Chiusi al santo di Assisi nel 1213 (ma le fonti non ci aiutano molto in questa ipotesi), perché potesse disporre di un luogo adatto alla preghiera, alle meditazioni e al suo desiderio di mistica solitudine. I due si sarebbero incontrati nel maniero di San Leo e Francesco tornò piú volte sul monte casentinese tra il 1214 e il 1224. Nell’agosto del 1224, in questo sito, ancora selvaggio, fatto di anfratti e speroni rocciosi, Francesco avrebbe ricevuto le Stimmate. L’evento ebbe un’eco vastissima e il luogo in cui avvenne il miracolo divenne meta di un fitto pellegrinaggio che perdura tutt’oggi: una lapide in caratteri gotici ricorda l’erezione della Cappella delle Stimmate a opera del conte Simone dei

conti Guidi nel 1260. Il gran numero di pellegrini e turisti attenua il senso di spiritualità e misticismo che permea il luogo: ma la salita a piedi fino al Monte Penna, o una sosta al Sasso Spicco, magari in una giornata nebbiosa o dopo una bella nevicata, rendono sicuramente giustizia alla scelta fatta dall’Assisiate.

Santi e foreste

«Qui è Romoaldo, qui son li frati miei che dentro ai chiostri, fermar li piedi e tennero cor saldo» (Divina Commedia, Paradiso XXII, 49-51). L’altro polo del misticismo religioso della valle casentinese è senza dubbio l’Eremo di Camaldoli, immerso nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi. Qui Romualdo († 1027), originario di Ravenna, stabilí, verso la fine del X secolo, la piú importante fondazione monastica di una nuova congregazione che proprio da questo luogo, Camaldoli, trasse il suo nome. Dalla Vita di Romualdo, composta da Pier Damiani, ricaviamo il ritratto di un uomo dal carattere intransigente, «piú attento a rivolgere gli occhi al cielo e a obbedire in tutto a A sinistra un’altra veduta del santuario della Verna. Nella pagina accanto Bibbiena. La torre in piazza Tarlati, un tempo facente parte della fortezza dei vescovi aretini e poi trasformata in orologio e torre campanaria.

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Bibbiena

Il dominio dei vescovi d’Arezzo La città di Bibbiena, un tempo residenza dei vescovi di Arezzo e avamposto fortificato in Casentino, mostra oggi una quanto mai pallida idea della forza di cui un tempo era dotata: munita di doppia cinta muraria, di numerose torri e di una fortezza con quattro potenti torri angolari, subí molti assedi e distruzioni (celebre quello successivo alla disfatta di Campaldino). L’ultima fatale distruzione avvenne nel 1509. In quell’anno, infatti, per volontà della Repubblica fiorentina, ormai unica potenza della zona, le mura e la rocca furono distrutte fino alle fondamenta. Furono abbattute tre porte su quattro: Porta Ghibellina, Porta delle Campane e Porta sant’Agnolo. Restano a testimonianza della antica cinta muraria, che misurava 760 m circa di perimetro, la cosiddetta Porta de’ Fabbri e alcuni tratti murari nella zona della Pieve e in altri settori. Dell’antica fortezza dei vescovi aretini, rimangono gli scarsi resti di una torre e la torre in piazza Tarlati, trasformata in orologio e torre campanaria. Ma il centro della cittadina conserva tuttora la struttura urbanistica medievale, divisa in due aree: quella piú alta, e quella detta del Fondaccio, il primo sobborgo nato attorno all’antico nucleo per il quale, nel 1327, il podestà emanò una ordinanza per far «ricoprire con tegole tutti quei tetti che ancora sono ricoperti con paglia e fango». Dominio dei vescovi d’Arezzo, la cittadina fu sempre in antitesi con l’altra potenza della valle, i conti Guidi che, nel borgo di Poppi stabilirono una delle loro principali sedi.

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Dossier A sinistra un tipico paesaggio della valle del Casentino, solcata da numerosi corsi d’acqua che, come in questo caso, danno vita a spettacolari cascate. Nella pagina accanto uno scorcio del Sacro Eremo e del monastero di Camaldoli. In questa pagina, in basso la suggestiva immagine autunnale di una foresta nei pressi di Camaldoli.

Dio che a preoccuparsi di dispiacere agli uomini», al punto da causare persino scontento tra i monaci del suo monastero: litigano per averlo come abate e poi finiscono persino per diffamarlo. Romualdo è stato accostato dal suo biografo a san Benedetto, il fondatore del monachesimo occidentale. Tuttavia, rispetto alla Regola benedettina, quella di Romualdo fece registrare un’evoluzione, giacché ai classici spazi e momenti

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di vita monastica, egli aggiunse l’ascesi eremitica, nel «deserto» che l’Europa poteva offrire: se in Oriente il monachesimo si sviluppò nel deserto, di sabbia o di pietre che fosse, in Occidente l’allontanamento dal mondo secolare si poté effettuare ritirandosi nelle grandi foreste che l’Europa dei secoli medievali ancora offriva. Romualdo s’inerpicò dunque sull’Appennino tosco-romagnolo, «in loco qui Campus Malduli dicitur»,

e vi fondò cinque celle e una chiesetta. Ma le foreste casentinesi non attirarono soltanto lui. Pochi chilometri piú a nord, in un luogo detto Vallombrosa («valle piovosa», da ymber, «pioggia»), nel 1036, un monaco benedettino di nome Giovanni Gualberto si ritirò nella foresta, allora chiamata «Acquabella», dopo aver litigato sia con il suo abate che con il suo vescovo: una ventina d’anni piú tardi, sorse la prima chiesa in muratura giugno

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di quello che sarebbe divenuto un altro importante polo riformista, quello dei Vallombrosani. Queste foreste attirarono però anche uomini che venivano da lontano. Due monaci tedeschi, Peter ed Eriprand, scesi al seguito dell’imperatore Ottone I, decisero per esempio di stabilirsi sulle pendici del Pratomagno e fondare, dopo alterne vicende, un monastero e una chiesa dedicata alla Santissima Trinità attorno al 960:

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si tratta di un luogo ricco di suggestione e magia, oggi diruto, circondato da centinaia di castagni, e ancora carico di quel misticismo che, attorno all’Anno Mille, dovette convincere i due religiosi tedeschi a fermarsi proprio qui.

Poteri rivali

I Camaldolesi assunsero ben presto un ruolo importante nella angusta valle del Casentino, insinuandosi tra i due antagonisti che sino ad

allora avevano primeggiato: i conti Guidi e i vescovi di Arezzo. Le loro rendite, provenienti da vigneti, frutteti, mulini posti a fondovalle, furono contese spesso tra i due poteri. Appena eletto vescovo di Arezzo, l’intraprendente Guglielmo Ubertini – che, come vedremo, ebbe un ruolo di prim’ordine nell’episodio militare medievale piú famoso della vallata casentinese, la battaglia di Campaldino (vedi alle pp. 84-93) – inviò a Camaldoli i suoi sgherri («satellites

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

eius»), i quali presero a malmenare i monaci, rubando calici e vesti preziose dal monastero («percusserunt monachos et abstulerunt calices et vestimenta»). Dovette intervenire il papa per convincere il prelato a restituire i beni estorti con la forza e a chiedere perdono ai Camaldolesi bastonati. Tornando a valle e discendendo verso il piccolo borgo di Partina, s’incontra la torre di Serravalle, un

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fortilizio che, come dice il nome, era posto di guardia tra la vallata del Casentino e la Romagna, separate dal tortuoso ma suggestivo Passo dei Mandrioli. La torre di Serravalle domina la conca formata dal fiume Archiano, che si getta dopo Bibbiena nell’Arno e che Dante cita nel V canto del Purgatorio, quando rievoca lo scontro avvenuto ai piedi di Poppi nel 1289.

Superato il borgo di Partina, volgendo a destra, si giunge al cuore della vallata, là dove sorge, come un unico blocco di pietra, il castelloresidenza dei conti Guidi, il maniero di Poppi, posto in cima a un colle, a dominare l’intera valle. Giorgio Vasari (1511-1574) definiva «Pupium, Agri Clusentini Caput» e lo faceva nel Cinquecento, all’epoca in cui Poppi era ormai divenuta sede vicariale di giugno

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Un’altra veduta del borgo di Poppi, ripresa dal castello dei conti Guidi, di cui fu uno dei principali possedimenti, per poi divenire sede della Repubblica fiorentina, dopo che quest’ultima aveva acquisito il controllo della zona.

erano alleati in un ultimo, disperato tentativo di resistenza: dopo secoli di dominio in Casentino, i conti furono costretti ad abbandonare i loro beni e il maestoso fortilizio.

A ciascuno la sua rocca

Firenze da almeno un secolo, cioè da quando, nel 1440, la Repubblica fiorentina aveva eletto il castello di Poppi a residenza degli uomini inviati ad amministrare la nuova valle appena conquistata. L’episodio che portò a questa trasformazione fu la vittoria dei Fiorentini nella battaglia di Anghiari, combattuta contro le truppe del duca di Milano, con cui i conti Guidi si

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Il poggio di Poppi aveva iniziato a essere oggetto di fortificazioni, prima lignee e solo successivamente (anche se in quest’area in modo assai precoce) in muratura, durante il generale fenomeno di incastellamento che interessò l’area fra il X e l’XI secolo. Presero a costruire «castra», «casalia», «turres» o «castella» enti ecclesiastici ed enti laici, signori privati e rappresentanti regi o imperiali, vescovi e abati. La valle, ben presto, pullulò di decine di fortificazioni, trasformando in modo definitivo il paesaggio. Tra i numerosi fortilizi, spiccano, soprattutto nell’Alto Casentino, quelli dei conti Guidi, che ben presto estesero il proprio controllo sui castelli di Porciano, Stia, Romena e Poppi, quest’ultimo attestato col nome di Poppli per la prima volta nel 1150, e definito castrum nel 1169. Il primo complesso edificato sul poggio di Poppi comprendeva probabilmente un palazzo, una cisterna e la cosiddetta «Torre dei Diavoli», ancora oggi visibile, rivolta verso quella che, attorno al Mille, era la via principale della valle e che corre alla destra del corso dell’Arno, toccando le pievi edificate lungo il fiume, come quella di Buiano, posta a metà strada tra Poppi e Bibbiena. In realtà, il ramo dei conti Guidi che trovò dimora presso Poppi aveva sede, e annesso titolo, nel maniero, oggi distrutto, di Battifolle. Nei decenni centrali del XIII secolo la famiglia concentrò inve-

ce i propri interessi e i propri sforzi nell’ampliamento del castello di Poppi che, nel frattempo, era stato edificato dal lato opposto del pianoro su cui sorgeva la Torre dei Diavoli. Dopo la vittoria ghibellina presso Montaperti (1260), il conte Guido Novello divenne podestà di Firenze e, assieme al fratello Simone, iniziò ad ampliare le mura del borgo e del maniero. Mentre Guido Novello era impegnato nelle campagne militari contro i guelfi asserragliatisi in Lucca, il conte Simone dirigeva i lavori in Casentino, curando la parte di sinistra, andando cosí a completare la corte che si era formata nel corso del tempo. Il castello fu dunque circondato da un nuovo circuito murario e dotato di un ponte levatoio che oggi appare murato: una munizione avrebbe completato questo ingresso solo nel XV secolo. Furono ampliate anche le mura del borgo che, alla luce della fortuna della famiglia comitale, si andava arricchendo come meta di mercati e scambi. All’interno del castello, invece, gli ambienti furono sistemati allo scopo di creare un vero e proprio «palatium», dotato di tutto il necessario per una vita di corte: stalle, depositi, stanze residenziali, un salone per le feste, una cappella di famiglia, un gran cortile e alcune cisterne, scale, ballatoi, una prigione e una sala d’arme. In pratica, negli anni Sessanta del Duecento, venne raddoppiata la zona residenziale e, per concludere l’opera, fu alzata la torre, coronata da una meravigliosa edicola sporgente, sostenuta da mensole e beccatelli in pietra forte e arenaria. La torre apparirebbe ancora ai nostri occhi simile a quella di Palazzo Vecchio se, nell’Ottocento, non fosse stata colpita da un fulmine e irrimediabilmente compromessa. La sistemazione a torre campanaria che vediamo oggi permette comunque di godere, dalla sua cima, di una vista impareggiabile.

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CAMPALDINO, 11 GIUGNO 1289

Firenze, chiesa della SS. Annunziata. Particolare del monumento sepolcrale di Guglielmo di Durfort, balio di Amerigo di Narbona, che, nelle file guelfe, trovò la morte nella battaglia di Campaldino a causa di un colpo di balestra.

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alla vetta della torre del castello di Poppi, si può ammirare la piana sottostante, teatro della sanguinosa battaglia di Campaldino, combattuta l’11 di giugno del 1289 tra le schiere guelfe capitanate da Firenze e quelle ghibelline con in testa Arezzo. È il capitolo piú famoso del Medioevo casentinese, che ha un suo tragico e piú recente avatar negli scontri combattutti durante la seconda guerra mondiale, là dove correva la Linea Gotica e dove ebbe anche luogo l’eccidio nazifascista di Vallucciole, primo di una lunga serie. Il casus belli di Campaldino scoppiò nel 1287, ad Arezzo. Come scrisse Dino Compagni nella sua Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, «il Popolo si levò e feciono uno della città di Lucca che si chiamava Priore, il quale condusse il Popolo molto prosperevolmente e i nobili costrignea a ubidire».

Trame e sospetti

Tuttavia, l’esperienza popolare durò appena qualche mese: in quello stesso anno, infatti, i Magnati di entrambe le fazioni si allearono, accecarono il Priore e, come narra invece Giovanni Villani, lo «presono e misono in una cisterna, e quivi si morí». Ma poi i ghibellini, sospettando che i guelfi stessero congiurando contro di loro con l’appoggio di Firenze, li espulsero con l’aiuto di Buonconte da Montefeltro e di Guglielmo Pazzo. Con questo pretesto – l’aiuto da prestare ai guelfi aretini – Firenze trovò il modo per dichiarare guerra ad Arezzo. O meglio, a una parte di Arezzo, quella ghibellina, rappresentata da grandi casate nobiliari, che controllavano le vie di comunicazione del Valdarno, del Casentino e della Chiana. Su queste vicende, in realtà, dobbiamo muoverci con molta cau-

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Dossier tela, giacché tutte le fonti in nostro possesso sono redatte da guelfi fiorentini: tanto per cominciare, il Priore che nelle cronache sarebbe stato accecato e ucciso nel 1289, è ancora attivo a Lucca vent’anni dopo. Scorrendo la Cronaca di Dino Compagni, che visse quegli anni convulsi, leggiamo che «i Guelfi d’Arezo, stimolati dalla Parte guelfa di Firenze di cercare di pigliare la signoria, ma o che fare non lo

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sapessono, o non potessono, i Ghibellini se ne advidono, e cacciaronli fuori». C’è dunque un previo accordo con una intelligence guelfa fiorentina. In ciascuno dei casi essi avrebbero avuto la possibilità di manipolare gli eventi: se i guelfi aretini avessero infatti preso il potere, i ghibellini espulsi avrebbero certo iniziato a far loro guerra, e l’intervento degli alleati fiorentini sarebbe stato ben

giustificato. Se i ghibellini avessero cacciato i guelfi (come accadde), sarebbero intervenuti per aiutarli a rientrare in città. Ma il popolo fiorentino, scrive sempre Compagni, non aveva alcuna intenzione di muovere guerra: «I Guelfi fiorentini e potenti avean gran voglia andare a oste ad Arezo; ma a molti popolani, non parea; sí perché diceano la impresa non esser giusta, e per sdegno aveano con loro degli ufici». (segue a p. 91)

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dante in casentino

Canzoni, lettere e ricordi Dante Alighieri si trovò a frequentare a piú riprese il Casentino, e in particolare il territorio di Poppi. La prima volta fu in occasione della battaglia di Campaldino, dove, scriveva in una lettera oggi perduta, ebbe «temenza molta e alla fine allegrezza grandissima»: il giovane Alighieri, appena ventiquattrenne, si trovò impegnato quale cavaliere nella prima schiera. E dovette certamente rischiare la vita se, come attestano alcuni documenti d’archivio, cavalieri a lui vicini persero il cavallo in battaglia. Prima esperienza quanto mai drammatica, dunque. Ma le altre non furono da meno, anche se in maniera diversa. Bandito da Firenze, con l’accusa di baratteria dai suoi avversari politici, in testa Corso Donati, accanto al quale aveva combattuto nel 1289, il poeta trascorse parte del proprio esilio in Casentino, ora a Porciano, ora a Romena, ora a Poppi. Dante aveva attraversato la vallata già nel 1303, quando arrivò a Forlí ospite di Scarpetta degli Ordelaffi. Nel 1307 tornò in Casentino e soggiornò presso Poppi, da dove inviò l’ultima delle sue canzoni (Amor da che conviene) a Moroello Malaspina, allegando una lettera dichiarativa, la cosiddetta Epistola IV. Si conoscono poi altre sue missive spedite dalla valle in cui nasce l’Arno. Tra queste spiccano per fama quella ai Fiorentini «sceleratissimi» e quella all’imperatore Enrico VII, in procinto di scendere in Italia. A queste due celebri lettere, si devono infine affiancare tre bigliettini scritti dall’Alighieri per conto della moglie del conte di Poppi, la contessa Gherardesca. Il ricordo della permanenza del poeta in terra casentinese affiora in continuazione nelle pagine della Commedia, dove si incontrano «i ruscelletti» del Casentino, «l’Archian rubesto», l’Arno che nasce in Falterona, il castello di Romena, la Verna, Camaldoli e molti altri luoghi e personaggi. Il castello dei conti Guidi a Poppi, e, sulla sinistra, il busto di Dante Alighieri collocato all’ingresso della fortezza.

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A sinistra riproduzione in scala di Guglielmino degli Ubertini, vescovo di Arezzo, e di Guidarello d’Orvieto, che porta l’insegna imperiale. Fedele all’insegnamento dato da Gesú a san Pietro nel Giardino degli Ulivi, il presule è armato solo di mazza, in quanto i clerici potevano utilizzare solo armi da botta.

FIRENZE Particolare di una veduta della città del giglio, stampata a Norimberga nel 1493. La battaglia di Campaldino fu il culmine di un conflitto che si trascinava da anni tra i Fiorentini, di parte guelfa, e la città di Arezzo, schieratasi con i ghibellini.

Nave a Rovezzano

FIRENZE

Il GuGhi Museum

Badia a Ripoli

Guelfi e ghibellini: una rivalità da museo Il castello di Poppi ospita un grande plastico della battaglia di Campaldino. Costruito per la prima volta in occasione del «settecentenario», è stato via via restaurato e aggiornato. Mostra gli eserciti all’inizio delle ostilità, con i 12 paladini ghibellini al galoppo. Sul terreno sono schierate piú di 4000 figurine in stagno e piombo, che ritraggono i personaggi e le città che parteciparono alla famosa battaglia. Grazie ad alcuni pannelli si possono seguire le varie fasi dello scontro e identificare sul campo i protagonisti piú famosi: Dante e Buonconte, il vescovo Ubertini e Corso Donati. Ma l’amministrazione comunale di Poppi lavora a un nuovo, grande progetto: l’allestimento del GuGhi Museum, sempre all’interno del castello. Sarà il primo museo dedicato alla storia della lotta tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini che nel Basso Medioevo insanguinò l’Italia e, in particolare, la Toscana, quasi «terra d’elezione» dello storico conflitto. L’allestimento permanente del GuGhi Museum renderà particolarmente accattivante e fruibile tutto il piano nobile del castello con esposizioni multimediali, pannellistica

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e riproduzioni utili a divulgare la storia dei guelfi e dei ghibellini in modo semplice, ma storicamente rigoroso. Il percorso espositivo si snoda dalle origini all’intricato rapporto con i poteri universali del Medioevo, il papato e l’impero (nella prima sala) fino alla guerra nell’età medievale e alle battaglie campali con la presenza di riproduzioni di armi e macchine di assedio (seconda sala). Una terza sala ospiterà il racconto visivo dell’evento direttamente legato a Poppi, ovvero la battaglia di Campaldino con la partecipazione del soldato Dante Alighieri, insieme a un approfondimento sulla figura di Buonconte da Montefeltro. Un percorso dettagliato, che sarà completato con illustrazione delle scienze e gli strumenti al servizio della storia (archeologia e paleografia) e il racconto della nascita e dello sviluppo del mito di Campaldino dal 1289 ai nostri giorni nell’arte, nella letteratura e anche nella vita quotidiana. Per il 2021 l’offerta museale sarà arricchita da un’importante mostra temporanea: documenti originali «danteschi» dell’Archivio di Stato di Siena, con preziose testimonianze legate ai personaggi citati da Dante nella Divina Commedia. giugno

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Nella pagina accanto, in basso riproduzione in scala di uno dei discendenti di Farinata degli Uberti che combatterono a Campaldino.

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Pontassieve

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Borgo alla Collina Poppi

Bibbiena Arcena Rassina

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CAMPALDINO La piana di Campaldino con gli eserciti schierati, in un dipinto di Luca Ferrotti. La battaglia si combatté l’11 giugno 1289: i guelfi fiorentini erano capitanati da Amerigo di Narbona, mentre al comando dei ghibellini aretini era Buonconte da Montefeltro. Lo scontro fu vinto da Firenze, grazie a una carica decisiva, guidata da Corso Donati.

Porta San Clemente

Ponte alla Chiassa

AREZZO

Cartina del territorio in cui è compresa la piana di Campaldino. Le località contrassegnate dal colore rosso indicano le tappe dell’esercito guelfo nella marcia di avvicinamento al sito dello scontro; quelle in blu le tappe dei ghibellini (nelle due ipotesi elaborate dagli studiosi).

AREZZO Una veduta della città in un dipinto del pittore e miniatore Bartolomeo della Gatta (1448-1502). Arezzo, Museo Statale di Arte Medievale e Moderna. L’espulsione dei rappresentanti della parte guelfa, sospettati di possibili alleanze con i Fiorentini per rovesciare il governo ghibellino, fu una delle cause della guerra tra i due capoluoghi toscani.

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Dossier Le fasi della battaglia

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1. Prima fase - Carica dei feditori ghibellini 2. Seconda fase - Arretramento del centro fiorentino 3. Terza fase - La tenaglia si chiude

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Fiorentini e guelfi

1. Corno destro: pavesari, balestrieri, arcieri e fanti a lancia lunga 2. Feditori fiorentini 3. Corno sinistro: pavesari, balestrieri, arcieri e fanti a lancia lunga 4. Fanteria 5. Schiera grossa di cavalleria 6. Fanteria 7. Salmerie e fanterie

8. Cavalleria di riserva 9-10. Riserva di Corso Donati, cavalleria e fanteria

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Aretini e ghibellini

A. Arcieri e balestrieri B. Feditori aretini C. Arcieri e balestrieri D. Grosso di cavalleria E. Fanteria F-G. Riserva di Guido Novello, cavalleria e fanteria.

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♦ H. Guglielmo

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♦ L. Dante Alighieri;

di Durfort (colori sconosciuti);

♦ I. Gherardo Ventraia Tornaquinci;

♦ M. Maghinardo

♦ J. Vieri

♦ N. Barone

de’ Cerchi; ♦ K. Donati;

Pagani da Susinana; de’ Mangiadori da San Miniato; ♦ O. Cecco Angiolieri

Ghibellini P

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R

♦ P. Ubertini; ♦ Q. Fieschi

(Liguria); ♦ R. Pazzi di Valdarno; ♦ S. Montefeltro;

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♦ T. Tarlati; ♦ U. Ordelaffi

(Romagna); ♦ V. Lamberti (fuoriusciti fiorentini); ♦ W. Scolari (fuoriusciti fiorentini);

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♦ X. Guido

di Bagno; Guidi di Romena; ♦ Z. Guido Novello;

♦ Y. Conti

A destra riproduzione in scala di Vieri de’ Cerchi, un ricco mercante che combatté anch’egli nelle prime file dello schieramento fiorentino.

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Alla fine, vuoi per un pretesto, vuoi per un altro (vi era anche una questione relativa a un castello conteso tra il vescovo d’Arezzo e il comune di Siena), «per la detta cagione si cominciò la guerra tra’ Fiorentini e gli Aretini». Dal 1287 al 1289, tra Arezzo e Firenze la guerra si tradusse in una serie continua di incursioni portate anche da sparuti gruppi di cavalieri. Poi, nel 1288, per la prima volta, i due eserciti si fronteggiarono in Valdarno, luogo deputato per gli scontri tra le due città. Da un lato la Lega Guelfa, una coalizione che raccoglieva le principali città toscane e altri alleati, come Bologna. Dall’altro gli Aretini e i loro alleati ghibellini, rappresentati in gran parte da nobili che dominavano nel contado, in Romagna e dai fuoriusciti fiorentini che avevano riparato ad Arezzo. Ma la battaglia non vi fu: probabilmente entrambe le parti considerarono troppo rischioso attaccare e cosí, voltate le insegne, tornarono chi a Firenze e chi ad Arezzo. Il pericolo che poteva venire dall’impegnare cosí tanta popolazione in una battaglia era talmente

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Dossier San Gimignano, Palazzo Comunale. Particolare degli affreschi raffiguranti la battaglia di Campaldino. 1292.

grave che, pur di evitare lo scontro, Firenze fece anche ricorso alla diplomazia. Il ricco mercante Vieri de’ Cerchi sarebbe stato inviato a Bibbiena in missione segreta per contrattare col vescovo Ubertini la resa di Arezzo e la vendita di molti dei suoi castelli. La missione sarebbe forse andata a buon fine, ma il piano venne alla luce e il vescovo rischiò il linciaggio. Fu il nipote, Guglielmo Pazzo, a salvarlo da una fine quasi certa. All’anziano prelato restava solo la via della guerra.

Mossa a sorpresa

Partiti il 2 giugno da Badia a Ripoli, dove avevano portato le insegne di guerra, i guelfi lasciarono intendere che avrebbero seguito la via del Valdarno, ma poi, inaspettatamente, superarono il fiume e si inerpicarono per la Consuma, tentando di cogliere di sorpresa il nemico. Si trattava di un esercito di 12 000 uomini, nelle cui file erano confluite tutte le città guelfe di Toscana, a cui si aggiunsero i rinforzi da Bologna, da Maghinardo Pagani da Susinana, nonché i fuoriusciti guelfi di Arezzo. Il vescovo Ubertini e i ghibellini radunarono tutti i propri alleati, riuscendo a raccogliere circa 8000 uomini, e schierarono truppe pro-

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venienti, oltre che da Arezzo, dalle valli circostanti, dalla Marca, dalla Romagna e poi da Orvieto, Amelia, dal Montefeltro e anche da Firenze, con numerosi fuoriusciti, espulsi ormai da quasi trent’anni: tra questi, alcuni figli e nipoti di Farinata degli Uberti. Scendendo attraverso i monti i primi, e risalendo la valle dell’Arno i secondi, i due eserciti rivali si trovarono l’uno contro l’altro il 10 giugno ai piedi di Poppi, nel luogo detto appunto Campaldino. All’alba del giorno successivo, un afoso sabato dedicato all’apostolo Barnaba, gli eserciti iniziarono a disporsi per la battaglia. I ghibellini, perlopiú membri di nobili famiglie di antico casato, si schierarono nel modo a loro consueto: erano molto legati alla tradizione cavalleresca, poco avvezzi alle trasformazioni sociali che invece andavano travolgendo Firenze, piú aperta ai commerci e agli influssi esterni. Davanti alla prima schiera di cavalleria, brillavano le armature di dodici cavalieri che si facevano chiamare paladini: non credo sia azzardato scorgere in quella sfrontatezza di sfidare un nemico superiore per numero la tipica alterigia di cavalieri i cui modi possiamo definire ancora feudali. Recentemente,

gli storici Niccolò Capponi e Kelly DeVries hanno proposto una nuova interpretazione di questa mossa militare, scorgendovi il tentativo di attirare in una trappola l’esercito guelfo. Tuttavia, di questa pur affascinante teoria non vi è traccia nelle fonti a noi note. Una seconda schiera di uomini a cavallo seguiva i paladini e, grazie alla carica dei due corpi di cavalleria, i comandanti speravano di sfondare le linee guelfe. Lo schieramento ghibellino era completato dalla fanteria, accompagnata da due deboli ali di arcieri e di balestrieri. Il conte di Poppi era stato lasciato di riserva presso la chiesa di Certomondo: sarebbe dovuto intervenire, con i suoi 150 cavalieri, in caso di pericolo. Ancora Capponi e DeVries hanno definito questo schieramento «nascosto nel chiostro» di Certomondo, ma di un simile stratagemma – che richiama quello attuato a Tagliacozzo da Carlo d’Angiò – nessun cronista dell’epoca fa cenno. Il vescovo Ubertini invece, si trovava probabilmente al centro dello schieramento, accompagnato dal vicario imperiale, Percivalle Fieschi, e dal vessillifero, l’orvietano Guiderello di Alessandro (adde) Filippeschi.

Alla maniera romana

Di contro, i guelfi avevano organizzato le loro truppe in modo «moderno», sebbene la loro disposizione richiamasse una tattica già sperimentata dai Romani. Avevano infatti schierato, ai lati dell’esercito, due poderose ali di pavesari, cioè di uomini protetti da un pavese: uno scudo alto un metro e mezzo circa, dietro al quale si asserragliavano combattenti armati di tutto punto. Al centro dello schieramento, invece, la disposizione dei guelfi era quella consueta: la prima schiera era composta da feditori, cavalieri giugno

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pronti alla carica, tra i quali figurava anche il giovane Dante Alighieri. Seguiva poi la numerosa cavalleria, al centro della quale sventolavano i vessilli di Firenze, di Carlo II d’Angiò: qui trovarono posto il comandante Amerigo di Narbona e il suo balio Guglielmo da Durfort. Dietro, venivano i fanti e tutte le salmerie: migliaia di muli che avevano accompagnato l’esercito nella lunga marcia da Firenze, e che ora venivano sistemati come un muro che doveva frenare la carica nemica. Anche i guelfi decisero di lasciare parte delle truppe come riserva: si trattava dei contingenti inviati da Lucca e Pistoia, il cui comando era affidato al loro podestà, Corso Donati. Al grido di «S. Donato Cavaliere!», patrono della città e vescovo martire, i cavalieri ghibellini, con in testa i paladini, caricarono gradatamente, seguiti dai fanti, in modo che «tra una lancia e l’altra, non passasse il vento». I guelfi risposero con il proprio grido di guerra, «Narbona Cavaliere!»: si affidavano al loro capitano d’Oltralpe e si prepararono a ricevere la carica di quasi 600 cavalieri. L’urto fu violento e, come scrive Giovanni Villani, la prima schiera «rinculò buona pezza». Una volta rotte le lunghe lance, i cavalieri furono impegnati in un durissimo scontro corpo a corpo. La giornata era afosa, piena di nuvole, e «la polvere», sollevata dai cavalli, riferisce Dino Compagni che era presente, «tantissima». Amerigo fu ferito al volto, il suo balio, Guglielmo, colpito a morte. In principio sembrò che la carica ghibellina avesse avuto successo, tanto era penetrata a fondo nello schieramento nemico. Ma in realtà le salmerie avevano retto bene e la spinta degli Aretini andava esaurendosi. A quel punto i guelfi attuarono la micidiale manovra sperimentata secoli prima dalle legioni romane: le due ali di pavesari iniziarono a serrarsi come una tenaglia sulle truppe ghibelline, che si trovarono chiuse

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La colonna innalzata a Campaldino nel 1921, nel sesto centenario della morte di Dante Alighieri, a ricordo della battaglia combattuta nel 1289.

in una morsa. Corso Donati, che sarebbe dovuto intervenire solo in caso di pericolo, si gettò anzitempo nella mischia insieme ai suoi, facendo sbandare ulteriormente i ghibellini su di un fianco e probabilmente separandone la cavalleria dalla fanteria. L’unico che avrebbe forse potuto liberare da quella tenaglia i ghibellini, era il conte Guido, ma, vista la mala parata, preferí ritirarsi, senza dare colpo di spada.

La disfatta finale

Per i ghibellini la battaglia era ormai perduta, ma alcuni di loro tentarono comunque il tutto per tutto: si buttarono, ad altissimo rischio, sotto i ventri dei cavalli e sbudellarono gli animali con i loro coltellacci. L’obiettivo era quello di frenare, per quanto potevano, la carica dei cavalieri, cosí come era avvenuto nella battaglia di Benevento (1266), quando gli Angioini avevano iniziato a tagliare i tendini dei cavalli nemici. Nella morsa mortale rimasero intrappolati tutti i comandanti ghibellini che si erano impegnati sin dal principio nella battaglia: Buonconte, Guglielmo dei Pazzi e suo zio, il vescovo Ubertini, col quale il nipote aveva voluto scambiare le insegne per salvargli la vita. Invano. Era anche questo divenuto un gesto usuale nelle battaglie: cosí aveva fatto Manfredi a Benevento e cosí Carlo d’Angiò a Tagliacozzo. Morirono piú di 1700 ghibellini e oltre 2000 furono catturati e rinchiusi nelle prigioni di Firenze, le cosiddette «burelle». Le armi del vescovo furono portate in trionfo a Firenze, e appese a testa in giú nel Battistero, come quelle di un nemico sleale: vi rimasero sino a quando non le fece togliere il granduca Cosimo III (1642-1723).

Alla fine della battaglia, mentre i guelfi inseguivano i fuggiaschi per farli prigionieri in modo da ottenere un cospicuo riscatto, un terribile temporale si abbatté sulle teste dei combattenti. Unico testimone del nubifragio fu Dante, che lo descrisse nel V canto del Purgatorio: gli altri cronisti non fecero menzione dell’evento. Solo allora, sotto lo scrosciare gagliardo di un temporale estivo, in un cielo plumbeo e in uno scenario da tregenda, venne suonata la fine della battaglia.

Da leggere Niccolò Capponi, Kelly DeVries, La battaglia di Campaldino, 1289. Dante, Firenze e la contesa tra i Comuni, LEG Edizioni, Gorizia Federico Canaccini (a cura di), La lunga storia di una stirpe comitale. I conti Guidi tra Romagna e Toscana, Atti del Convegno di studi (Modigliana-Poppi, 28-31 agosto 2003), Olschki, Firenze 2009 Marco Bicchierai, Ai confini della repubblica di Firenze: Poppi dalla signoria dei conti Guidi al vicariato del Casentino (1360-1480), Olschki, Firenze 2005 Emma Perodi, Le Novelle della Nonna, Fruska, Bibbiena 2019 (4a ristampa; ed. or. 1897)

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Dossier L’EPOPEA DEI CONTI GUIDI

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axima progenies tuscanorum»: cosí Dante Alighieri definisce la famiglia comitale guidinga quando, nel 1304, scrive ai conti Guido e Oberto, in occasione della morte del padre, il conte Alessandro da Romena. E quando in Toscana si parlava di «conti» tout court, non c’era bisogno di altre specificazioni: erano solo i conti Guidi a poter essere chiamati tali. Erano discendenti di Tegrimo, un cavaliere vissuto nel X secolo, forse di origini longobarde, che sarebbe calato in Italia al seguito dell’imperatore Ottone I di Sassonia (951-52). Villani scrisse infatti «che anticamente furono d’Alamagna grandi baroni i quali passarono con Otto primo

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imperadore il quale diede loro il contado di Modigliana in Romagna e di là rimasono». In realtà, alcuni documenti provano che Tegrimo risiedeva a Pistoia già trent’anni prima della discesa di Ottone e che, nel 924, si recò a Modigliana per impalmare Ingeldrada, figlia del duca Martino, ereditando, solo allora, il titolo. L’altro evento cardine della storia guidinga fu la decisione del conte Guido Guerra III di suddividere il patrimonio tra i cinque figli maschi avuti da Gualdrada di Bellincione di Uberto dei Ravegnani. Cinque figli famosi, proprio perché con loro prese avvio, da un lato, la divisione del comitato – fino ad allora trasmesso praticamente integro di padre in fi(segue a p. 99)

Un’altra veduta del magnifico castello dei conti Guidi a Poppi.

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Dossier Fantasmi casentinesi

Matelda e il cavaliere Come ogni castello che si rispetti, anche Poppi ha i suoi fantasmi, il piú famoso dei quali è certamente quello della contessa Matelda, la cui vicenda ha ispirato anche un dramma teatrale. La leggenda nera del Casentino vuole che la bella contessa, moglie di un Guidi, costretta a sposare il conte – piú anziano di lei, brutto e spesso assente –, si circondasse di amanti focosi i quali poi, per evitare troppi pettegolezzi, venivano fatti sparire in trabocchetti mortali. Scoperta l’orrenda pratica, la folla inferocita, approfittando dell’assenza del conte, catturò Matelda e la murò viva nella stanza di una torre, dalle cui finestre il suo fantasma talvolta ancora farebbe capolino. Altri fantasmi, ma questa volta completi di armatura, sarebbero stati invece avvistati sulla piana di Campaldino, dove si combatté nel 1289: li segnalava persino Dylan Dog, mitico personaggio dei fumetti creato da Tiziano Sclavi nel suo Almanacco dell’Orrore. È invece frutto della fantasia letteraria di Emma Perodi (18501918) il fantasma del cavaliere di Narbona, che si aggira sulla piana dopo la battaglia e che anima una delle Novelle della Nonna, una serie di fiabe popolate da nani, maghi, conti, cavalieri, principesse e orchi. Un amalgama fantastico che ha come sfondo la vallata casentinese, cornice ideale per racconti a metà fra la storia e il fantasy, talvolta con qualche venatura dark.

Poppi. Uno scorcio degli interni del castello dei conti Guidi. La fortezza ospita un grande plastico della battaglia di Campaldino e alcuni dei suoi ambienti sono destinati ad accogliere il GuGhi Museum (vedi box a p. 88), primo museo dedicato alla storia della rivalità fra guelfi e ghibellini.

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Dossier la biblioteca rilliana

Pagine antiche e preziose Nel castello di Poppi è conservata anche una ricchissima biblioteca, donata nel 1825 dal cavaliere fiorentino Fabrizio Rilli-Orsini, un anno prima della sua morte. Una donazione composta da 9000 volumi e oltre 200 manoscritti. Quando lasciò al Comune questo grande patrimonio, il conte aggiunse una clausola: quella di tenere aperta al pubblico la biblioteca almeno tre giorni alla settimana. Oggi, nel castello, trova posto anche la biblioteca moderna, aperta tutti i giorni. Nel corso del tempo il fondo si è accresciuto, soprattutto grazie alle donazioni e acquisizioni di Camaldoli e del convento dei Cappuccini e ora ammonta a oltre 25 000 volumi, tra i quali spiccano 600 incunaboli (libri stampati con la tecnica a caratteri mobili nel periodo sino all’anno 1500 incluso) restaurati di recente, una collezione di oltre 150 Bibbie e piú di 800 manoscritti, tra cui si può ammirare una delle prime versioni della Divina Commedia.

A destra la Biblioteca Rilliana, frutto del lascito del cavaliere fiorentino Fabrizio Rilli-Orsini.

A sinistra la cappella del castello di Poppi impreziosita da affreschi attribuiti a Taddeo Gaddi, con Storie della Vergine, di San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista. Prima metà del XIV sec.

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glio primogenito –, dall’altro perché innescarono una proliferazione di conti, spesso ostili fra loro e su posizioni politiche opposte, cosa che portò in breve alla dissoluzione del casato. I cinque figli si chiamavano Tegrimo, Guido, Marcovaldo, Aghinolfo e Ruggero. Alla morte di quest’ultimo, nel 1225, sorse una lite per l’eredità della sua porzione, che aveva stabilito venisse divisa solamente tra i due fratelli maggiori, Guido e Tegrimo. Fu allora che Aghinolfo e Marcovaldo rivendicarono i loro diritti. Nel 1230, un lodo arbitrale del Podestà di Firenze sembrava aver messo un freno alle liti familiari. In

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realtà, la situazione era quanto mai complessa, poiché a ciascuno dei quattro fratelli superstiti erano toccati castelli (o addirittura porzioni di castelli) in tutte le vallate, cioè in Romagna, in Casentino, nel Valdarno superiore e in Val di Sieve. Cosí ciascuno, anziché comandare su una porzione dell’antico dominio, si ritrovava a esercitare il proprio potere su un territorio a macchia di leopardo e sul quale insistevano anche gli altri fratelli.

Una convivenza difficile

Convivere in un contesto simile, nel quale, peraltro, le lotte di fazione esacerbavano il clima, fu

praticamente impossibile. I castelli principali, da cui presero nome i vari rami della grande famiglia, furono però quelli di Poppi, Romena, Porciano nel Casentino, di Bagno e Montegranelli nella valle del Savio e di Dovadola e Modigliana nella valle del Montone. Il territorio dei conti Guidi si estendeva praticamente indiviso da Pistoia a Empoli, giungendo sugli Appennini e valicandoli fino ai territori romagnoli di Modigliana. Ma nel corso del XIII secolo si andò progressivamente frammentando. Nel Duecento, nel pieno del conflitto tra guelfi e ghibellini, piú di un (segue a p. 103)

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Dossier Romena

Il castello della fontana dannata

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A pochi chilometri da Poppi sorgeva un’altra fortezza dei conti Guidi, il castello di Romena. Citato sin dall’XI secolo, il maniero passò quasi subito dai marchesi di Spoleto ai Guidi, che ne fecero uno dei piú potenti fortilizi del loro dominio. Nel 1220 il castello venne ereditato, assieme ad altri possedimenti, dal conte Aghinolfo che associò il titolo al proprio nome: da allora lui e i suoi discendenti si chiamarono i conti Guidi da Romena. L’abbandono precoce nel Quattrocento, l’incuria dei secoli seguenti e i bombardamenti del Novecento hanno lasciato un pallido ricordo dell’antico splendore: ma gli attuali proprietari hanno reso visitabile i maestosi ruderi, creando un percorso e offrendo ai visitatori la possibilità di godere di uno dei piú bei panorami sulla valle. A Romena lavorava il falsario Mastro Adamo, condannato da Dante nel XXX canto dell’Inferno a scontare le sue pene insieme agli idropici, tormentati dalla sete, dal ventre gonfio e il viso magrissimo. Adamo, per conto dei Guidi, falsificò dei fiorini d’oro: ai piedi del castello c’è ancora la Fonte Branda citata dall’Alighieri, che il falsario ricorda mentre giace conficcato nella ghiaccia infernale. Proseguendo a piedi da Fonte Branda, si raggiunge una delle piú belle pievi romaniche della Toscana: S. Pietro a Romena, ricca di capitelli decorati con motivi vegetali, animali e con alcuni episodi relativi alla vita di Pietro, come la pesca miracolosa e la consegna delle chiavi. Un capitello reca la data di costruzione, 1152, e la drammatica scritta «tempore famis», che ricorda le difficoltà che i casentinesi dovevano affrontare, probabilmente piú di altri, isolati come erano in una valle cosí angusta e dal clima particolarmente rigido.

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In questa pagina il castello di Romena, che fu uno dei piú potenti fortilizi guidinghi e, nel 1220, fu ereditato da Aghinolfo, il quale associò il titolo al proprio nome: da allora lui e i suoi discendenti si chiamarono perciò conti Guidi da Romena. Nella pagina accanto una veduta esterna e l’interno della pieve di Romena.

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Dossier terra di castelli e abbazie

Per la difesa e per la preghiera La stagione medievale ha segnato l’intero territorio di Poppi con i fortilizi deputati al controllo delle valli solcate dai fiumi che si gettano in Arno. È il caso della fortezza di Fronzola, contesa nei secoli tra Guidi e Tarlati e che doveva essere assai potente, se ne rimane memoria nel detto casentinese secondo il quale «quando Fronzola fronzolava, Poppi e Bibbiena tremava». Recentemente oggetto di restauro è invece il piccolo castello di Riosecco, a guardia dell’incontro tra l’Archiano e l’Arno. Altri castelli erano il castrum de Lerna, citato già nel 1095 e legato al monastero di Camaldoli, e quello di Ragginopoli, oggi ridotto a rudere. Vi erano fortificazioni, o curticelle, oggi scomparse anche nei borghi di Moggiona e Quota. Ai castelli si affiancavano edifici pievani e abbaziali: a Buiano sorgeva la pieve battesimale dedicata a santa Maria, oggi ridotta a un terzo delle sue grandiose dimensioni originali. Strumi, ciuffo di case ai piedi di Poppi, fu invece sede della abbazia di S. Fedele, eretta alla fine del X secolo e poi dotata di una fortificazione: due secoli piú tardi, l’abate e i suoi monaci si erano ormai trasferiti nel borgo di Poppi. Perla del territorio comunale è infine Badia Prataglia, sede abbaziale la cui fondazione risalirebbe alla fine del X secolo: nel 1002 se ne trova infatti menzione in un

diploma di Ottone III. La cripta della chiesa abbaziale, oggi dedicata alla Santissima Annunziata e a san Bartolomeo, è a tre navate, con archi a tutto sesto e splendide volte a crociera, sorrette da capitelli di foggia diversa, alcuni dei quali con palmette e foglie d’acanto.


San Torello

Se il gallo canta tre volte... A Poppi si venera san Torello, «che fa trovar il marito bello». In realtà, l’eremita Torello da Poppi, conteso nel corso del XV secolo da Vallombrosani e Francescani, è solo «beato», cosí come confermò papa Benedetto XIV. Nato ai primi del Duecento, trascorse (come spesso si legge nei testi agiografici) una giovinezza piuttosto sregolata. Poi, verso i vent’anni, un segno ne provoca la conversione: mentre giocava con gli amici, un gallo prese a volare. Si posò quindi sulla sua spalla e cantò per tre volte. Già nelle credenze pagane, il canto del gallo aveva il potere di allontanare la potenza delle tenebre. E anche dopo l’avvento del cristianesimo, in alcuni rimase la certezza che quel canto servisse a spaventare i demoni della notte. In età tardo-antica, erano due i momenti della preghiera: il Gallicinium al mattino e il Lucernarium alla sera; «l’ora del gallo» e «l’ora della lampada», l’ora della luce e quella delle tenebre. Nel passaggio dal buio alla luce, il canto del gallo venne subito interpretato come la voce di Cristo giudice, che, alla fine dei tempi, annuncerà finalmente la resurrezione dei morti. Colpito da questo segnale divino, il giovane Torello manifestò il desiderio di trascorrere il resto della propria vita da eremita. Con l’aiuto dell’abate vallombrosano di S. Fedele, Domenico Rinaldo, trovò sistemazione in un luogo poco distante da Poppi, ad Avellaneto, dove per oltre cinquant’anni visse di digiuno, penitenza e contemplazione. Nel 1282, ormai vecchio, morí a Poppi dopo aver compiuto alcuni miracoli. Le sue ossa furono rinvenute nel 1507 e, un secolo piú tardi, venne realizzato il busto reliquiario che conserva ancora il cranio del beato. In alto, a destra il beato Torello da Poppi, in un olio su tela di Giuseppe Marchetti (1721-1801). Forlimpopoli (FC), Raccolta Comunale d’Arte. Nella pagina accanto, in alto l’abbazia di S. Fedele, costruita alla fine del X sec. ai piedi di Poppi, vista dalla torre del castello dei conti Guidi. Nella pagina accanto, in basso Badia Prataglia. La cripta della chiesa abbaziale, oggi dedicata alla Santissima Annunziata e a san Bartolomeo.

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conte si trovò su posizioni politiche diverse: a Campaldino, per esempio, si affrontarono il conte Guido Novello di Poppi, ghibellino, e il cugino, Guido Guerra, che era invece fedele alla causa guelfa fiorentina. Dopo alcuni successi politici in grandi città come Firenze, Pistoia, Arezzo, Forlí, ma anche Bologna e Ravenna, i Guidi si ritirarono progressivamente, arroccandosi nelle loro fortezze, sempre piú lontane dai traffici dei centri principali. In qualche caso rivestirono ancora compiti di podestà o capitano, ma la grande famiglia era oramai de-

stinata a soccombere al crescente potere di Firenze. Nel 1440, presso il castello di Poppi, fu scritto l’ultimo capitolo di questa plurisecolare e nobile stirpe. Il conte Francesco, circondato dalle truppe fiorentine che avevano posto il loro campo sul Colle detto dell’Ascensione, dovette cedere alla richiesta di abbandonare il maniero di famiglia. Dopo avere firmato la cessione nel Salone delle Feste, l’ultimo conte di Poppi abbandonò definitivamente la fortezza e il Casentino e il castello di Poppi divenne sede della Repubblica fiorentina.

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medioevo nascosto campania

Costruivano alla catalana di Francesco Miraglia

Genero del re d’Aragona Alfonso V, Marino Marzano volle farsi costruire un grande palazzo nel cuore di Carinola, cittadina del Casertano dal passato illustre. E, per farlo, scelse di seguire le mode della terra d’origine della sua consorte, dando vita a un complesso riportato all’eleganza originaria grazie a un recente restauro 104

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alazzo Marzano, di matrice catalana, con la caratteristica loggia su due livelli e la corte, è una delle architetture piú interessanti di Carinola (Caserta), una piccola realtà della Campania settentrionale posta nel territorio dell’antico ager Falernus. Un centro d’origine altomedievale, ma grandemente caratterizzata da imprese costruttive riferibili alla dominazione aragonese. Il quadrante settentrionale del suo centro storico è infatti ricco di strutture storicizzate, riferibili appunto all’esperienza costruttiva catalana. Una simile diffusione – che comprende anche una ragguardevole teoria di portali e cornici di finestre – fa di questo territorio un utile contesto di studio per analizzare l’architettura del primo Quattrocento e studiarne differenze e assonanze rispetto a quella immediatamente anteriore, riconducibile alla cultura angioina, alla quale è spesso affiancata in termini stratigrafici. Dagli anni Trenta del Novecento il palazzo è proprietà del Comune di Carinola: citato dalle fonti storiche come abitazione, era in origine probabilmente piú esteso, sino a occupare un’intera insula. Per quanto riguarda il suo sviluppo in pianta, è interessante rilevare come, in letteratura e nei documenti di archivio che informano sugli interventi di restauro, esso sia stato purtroppo preso in considerazione sempre limitatamente alla matrice quattrocentesca, senza allargare lo sguardo anche a un’altra struttura, piú recente (riferibile al XVIII-XIX secolo), posta sul lato ovest e un tempo collegata al primigenio corpo di fabbrica, che rende il palazzo un interessante palinsesto architettonico, dal carattere plurisecolare. Quest’ultimo edificio, che presenta anch’esso un’interessante loggia articolata su due livelli, è proprietà privata; non piú abitato, versa purtroppo in preoccupanti condizioni di conservazione, peggiorate a causa di recenti crolli.

Certezza sulle origini

L’essersi concentrati esclusivamente sulla fabbrica del XV secolo ha generato da quasi un secolo un reiterato equivoco, che ha impedito di effettuare indagini accurate sui rimanenti ambienti del palazzo, considerati privi di interesse e ormai in gran parte trasformati o crollati. In ogni caso, sull’origine del palazzo Marzano non sembra oggi sussistere piú alcun dubbio, almeno per quanto riguarda il contesto storico-costruttivo: quello dell’architettura catalana in Campania. Alcuni ne ascrivono la realizzazione ad artefici del rango di Guillermo Sagrera, uno dei piú importanti architetti catalani, noto – tra le altre cose – per la suggestiva volta stellare del Castel Nuovo di Napoli; molto probabilmente, si tratterebbe di pur dotati epigoni del maestro maiorchino, i quali, mutuandone gli insegnamenti, ne hanno perpetuato in chiave locale le buone prassi, non mancando, però, di istruire le maestranze

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Salvo diversa indicazione, tutte le immagini che corredano

l’articolo si riferiscono al palazzo Marzano di Carinola.

Nella pagina accanto scorcio della corte catalana, con la caratteristica loggia alla quale si accede tramite la scala monumentale posta sulla destra. Si noti, al culmine della prima rampa, la volta

a crociera costolonata che sormonta il pianerottolo. In alto il portale d’ingresso del palazzo Petrucci-Novelli, che fu proprietà di Antonello Petrucci, segretario di re Alfonso V d’Aragona, detto il Magnanimo.

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medioevo nascosto campania MOLISE LAZIO

PUGLIA

Roccamonfina

Carinola Caserta

Benevento CAMPANIA

Napoli

Avellino

Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri

Amalfi

Salerno

BASILICATA Eboli

Mar Tirreno Palinuro

In basso il portale ad arco inflesso bicuspidato è uno degli elementi maggiormente peculiari della tradizione architettonica catalana della Campania settentrionale.

autoctone, creando cosí un utile contesto di rinnovamento delle tecniche costruttive del territorio campano. La presenza a Carinola di artefici di provenienza catalana fu certamente favorita da Marino Marzano – genero di Alfonso V d’Aragona – e lasciò tracce consistenti anche in centri vicini, come Sessa Aurunca e Pontelatone, infeudati dalla sua potente famiglia. La realizzazione di edifici come palazzo Marzano e altre strutture coeve nelle vicinanze, in un’area fortemente caratterizzata da imprese costruttive prima angioine e in seguito aragonesi, coincise con l’unione tra lo stesso Marino Marzano ed Eleonora d’Aragona, figlia naturale del Magnanimo.

Contrasti insanabili

Il matrimonio fu seguito da cruente vicende, che videro Marino Marzano scagliarsi contro il cognato Ferrante: avendo la peggio, subí la perdita dei beni e addirittura la morte. I contrasti, latenti, erano esplosi in seguito alla morte di re Alfonso (1458) e alla conseguente ascesa al trono del figlio naturale, il suddetto Ferrante, mal vista dal potente feudatario, che temeva di perdere i vantaggi acquisiti a corte. In letteratura è fissato proprio al 1458 il limite estremo dei lavori condotti dalle maestranze catalane su palazzo Marzano, suggerendo che lo stesso fosse rimasto incompiuto e che il suo ampliamento fosse avvenuto in un periodo successivo alla dominazione aragonese. Questi drammatici eventi, ai quali seguí la sostanziale scomparsa della potente famiglia Marzano dopo le vicende di Marino, non fecero comunque perdere al sito il carattere acquisito, che perdurò – seppure non piú attraverso la realizzazione di raffinate membrature (in primis le

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Sulle due pagine il palazzo Marzano nell’inquadramento planimetrico (nella pagina accanto) e nella mappa catastale.

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medioevo nascosto campania A sinistra l’ambiente del piano terra era in passato collegato alla struttura attigua; da tempo è stato murato per dividere la proprietà pubblica da quella privata. La presenza dell’arco a tutto sesto in tufo grigio locale testimonia l’esistenza di un vano passante. In basso il paramento, liberato dall’intonaco e lasciato facciavista in seguito al recente restauro del palazzo, mostra l’apparecchio murario originario, risalente alla prima metà del XV sec., composto da ricorsi orizzontali periodici di materiale tufaceo autoctono spaccato.

finestre a bilanciere e i portali a sesto ribassato inquadrati in cornici rettangolari) – con il rafforzamento e l’evoluzione locale delle prassi costruttive di matrice catalana. La tipologia della casa a corte ricorre diffusamente nel patrimonio edilizio di Carinola – e non solo – in diverse configurazioni, offrendo testimonianze sia negli episodi piú rilevanti – come palazzo Marzano o il vicino palazzo Petrucci (che appartenne al segretario di re Alfonso, Antonello Petrucci, tra i cospiratori della «Congiura dei Baroni», con un destino non molto dissimile da quello del Marzano) –, sia in quelli ancora meno noti ma altrettanto interessanti sotto il profilo tipologico e formale. Nella sua configurazione non aulica, la corte era generalmente condivisa da diversi nuclei familiari e sfruttava l’orientamento, la massa termica delle strutture e la disposizione delle aperture: il tutto finalizzato a creare condizioni di abitabilità accettabili e occasioni di condivisione dei servizi. Si basava sostanzialmente su uno schema planimetrico minimo, che comprendeva l’androne e una scala posta su di un lato per l’accesso al piano superiore, quest’ultimo preceduto solitamente da

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Lo spazio dell’androne, dopo il recente restauro, mostra il nuovo solaio in legno, in sostituzione del vecchio e inadeguato orizzontamento in ferro e tavelloni. Si scorge, sulla destra, l’ingresso murato ad un ulteriore ambiente del palazzo, oggi di proprietà privata.

una loggia; nei casi compositi, lo spazio della corte era arricchito dalla presenza del giardino.

Una documentazione preziosa

Tornando a palazzo Marzano, appare utile considerare come le superstiti porzioni riferibili alle strutture quattrocentesche, realizzate con pietre di tufo grigio campano – in gran parte trasformate – offrano utili informazioni sulla loro composizione strutturale, in particolare attraverso la consultazione di alcune fotografie che ne ritraggono l’assetto negli anni Settanta del Novecento, in un periodo in cui versava quasi allo stato di rudere. L’edificio presenta una pianta pressoché quadrangolare, leggermente irregolare, chiusa su due lati da altre strutture, con il corpo di fabbrica (introdotto dalla loggia) articolato intorno alla corte, di modesta superficie (40 mq circa). La suddetta loggia culmina, in asse all’ingresso, in una scala a «L», coperta con volte a crociera in corrispondenza della prima rampa, seguite da una volta a botte rampante nella seconda. Molto interessante è la crociera, costolonata, che sovrasta il

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pianerottolo tra i due livelli. Denso di interesse è anche il corrimano in pietra di tufo, finemente modanato, in piccola parte ricostruito durante i lavori di restauro degli anni Trenta del Novecento, che videro impegnato nella tutela del palazzo, oltre all’architetto Oreste Siviero (che si occupò anche di altri interventi nel territorio della Terra Laboris), il noto soprintendente Gino Chierici. Nel corso dei suddetti lavori venne inoltre rimossa una seconda scala, una superfetazione realizzata sul tratto parallelo a quella originaria, con lo scopo di disimpegnare le varie proprietà in cui il palazzo era stato arbitrariamente suddiviso da chi lo abitava. Il piano terra ospita un piccolo vano, da diversi decenni destinato ai servizi igienici, e un ambiente aperto su due lati, che introduce alla corte, scandito da un arco a sesto ribassato e coperto da un’ampia volta a crociera. Al di là di esso, attraverso un passaggio – murato – si accedeva ad altri spazi, oggi di proprietà privata. Un ulteriore ambiente dell’originario palazzo è presente sul lato sinistro dell’androne: non è piú accessibile, perché anch’esso di proprietà privata, tanto da avere l’ingresso murato.

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medioevo nascosto campania A sinistra scorcio della scala, in corrispondenza della seconda rampa: è possibile apprezzare, in gran parte, gli originari gradini. A destra particolare della loggia: si notino le eleganti modanature ricavate attraverso l’accurata lavorazione del tufo grigio locale e il possente pilastro polistile, finemente intagliato, sormontato da capitelli che evocano motivi vegetali.

Il secondo livello ospita, invece, un piccolo ambiente, coperto con un solaio ligneo di recente fattura, nonché l’affaccio alla corte, coperto anch’esso con un solaio ligneo a falda inclinata, introdotto da un arco a sesto ribassato, che reca accurate modanature. Il caratteristico portale ad arco inflesso bicuspidato, contenente sulla sommità gli stemmi araldici della famiglia Marzano, segna il confine tra gli ambienti di proprietà pubblica e le altre porzioni di fabbrica, di proprietà privata. Sebbene con funzione secondaria, un ulteriore collegamento verticale tra i due livelli è assicurato da una scala spiraliforme in pietra, introdotta da un piccolo, ma raffinato portale. Tornando al piano terra, si possono notare sensibili assonanze del primo livello del loggiato, soprattutto nel-

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le arcate a sesto ribassato, con quello del palazzo Orsini di Nola, attuale sede del tribunale. Ulteriori analogie, soprattutto per quanto riguarda i capitelli che impreziosiscono la scala, sono rinvenibili nel portico del santuario dei Lattani, nella vicina Roccamonfina, realtà anch’essa densa di episodi architettonici di matrice catalana.

Eleganti motivi floreali

La seconda rampa della scala, che maggiormente colpisce l’attenzione dei visitatori – i quali possono apprezzarne compiutamente l’articolazione –, poggia su un ampio setto murario, seguito da un’arcata a tutto sesto. Al centro di questa si trova un pilastro polistile di dimensioni ragguardevoli, che scandisce lo sviluppo delle volte sovrastanti, suddividendole in giugno

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due campate; sul lato della corte, la suddetta rampa mostra un arco a sesto ribassato, per terminare con un arco rampante, che la raccorda al secondo livello del palazzo. I capitelli del pilastro mostrano, in linea con le altre raffigurazioni presenti, eleganti motivi floreali finemente intagliati. Degno di nota era anche l’originario portale catalano che impreziosiva l’ingresso alla struttura, andato distrutto e rifatto à l’identique: molto simile a quello ancora esistente nel vicino palazzo Petrucci, culminava con un arco a sesto ribassato inquadrato in una cornice rettangolare e recava lo stemma della famiglia Marzano. Il palazzo, non descritto nell’apprezzo tardo-seicentesco del feudo di Carinola – un documento che riporta preziose informazioni sulla consistenza edilizia della cit-

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tà –, perché non rientrante tra i beni oggetto di vendita, ha conservato pressoché immutata, limitatamente alla corte quattrocentesca, la struttura originaria attraverso i secoli, ma, a partire dal Novecento, ha subíto diversi danni, causati da distruzioni belliche e da una funesta serie di eventi naturali. Sin dai primi anni del secolo scorso, infatti, esso è stato oggetto di interventi di restauro, non del tutto risolutivi e spesso confinati a singole porzioni della struttura. Solo con i recenti lavori di conservazione della materia, condotti dal 2017 al 2019, è stato riconsegnato alla collettività completamente fruibile, dopo decenni di colpevole abbandono e, soprattutto, di mancato utilizzo; cosa che, certamente piú dei danni, ne ha lentamente cagionato il degrado.

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CALEIDO SCOPIO

Note da signori MUSICA • Quali erano i generi prediletti da re, principi

e duchi? Possiamo scoprirlo grazie all’ultima incisione dell’Anonima Frottolisti, dedicata ai maestri piú brillanti e apprezzati nell’Italia e nell’Europa del Quattrocento

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sibita in tutte le sue sfaccettature, la musica di corte è al centro della nuova proposta dell’Anonima Frottolisti, un ensemble che da decenni si è specializzato nel repertorio medievale e del primo Rinascimento. Al pari delle botteghe artistiche dove andarono formandosi i piú grandi pittori, scultori e architetti dell’epoca, le corti del Quattrocento sono state anch’esse straordinari centri di produzione e diffusione culturale; luoghi privilegiati in cui si sono diffuse le tendenze artistiche del momento, grazie a un proficuo

scambio tra letterati e musicisti, che nella magnanimità dei loro mecenati – duchi, marchesi, signori – hanno trovato un appoggio e un supporto a una produzione artistica destinata al raffinato pubblico della corte. D’altronde, le corti quattrocentesche – basti pensare a quella gonzaghesca di Mantova, a quella estense di Ferrara o a quella dei Montefeltro di Urbino – sono state crocevia di artisti di altissimo calibro che nelle cappelle musicali di palazzo trovavano uno sbocco prestigioso e ambíto. Già dal secolo precedente – e il fenomeno s’intensificò nel successivo – si erano

Di corte in corte Umanesimo in musica Anonima Frottolisti Tactus (TC 400007) www.tactus.it andate costituendo formazioni vocali-strumentali stabili presso le principali corti d’Europa, le cosiddette cappelle musicali, attive durante le cerimonie liturgiche che si tenevano appunto nelle cappelle palatine, ovvero durante le feste e le cerimonie laiche. Molteplici sono dunque i contesti in cui l’elemento sonoro ha partecipato alla vita di corte, gli stessi che questa antologia ci propone, distribuendo i 25 brani scelti in cinque sezioni.

Suoni potenti e trionfali Alla prima, Del Potere, appartengono emblematicamente composizioni legate alla celebrazione pubblica, spesso caratterizzati da fanfare da eseguirsi all’aperto, costituite da strumenti a fiato (tromboni, bombarde e percussioni), la cui potenza sonora diviene simbolo stesso del potere del signore (Alla battaglia), a cui si accompagnano anche brani vocali atti a celebrare le virtú di una città: è il caso di Né piú bella di queste, che Heinrich Isaac compose per la Firenze medicea. La seconda sezione, Dell’Amore, è dedicata a uno dei temi piú celebrati

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Lo scaffale Élizabeth Crouzet-Pavan, Jean-Claude Maire Vigueur Decapitate Tre donne nell’Italia del Rinascimento Einaudi, Torino, 238 pp.

32,00 euro ISBN 978-88-06-24256-5 www.einaudi.it

Fra il 1395 e il 1425, per ordine dei rispettivi mariti, tre nobildonne vengono decapitate: Beatrice di Tenda, moglie di Filippo Maria Visconti, duca di Milano; Parisina Malatesta, coniugata con Niccolò III d’Este, marchese di Ferrara; Agnese Visconti, sposa di Francesco I Gonzaga, signore di Mantova. L’accusa è per tutte di

infedeltà coniugale, ma la terribile pena appare sproporzionata al reato: nessuno Statuto comunale prevede la condanna a morte dell’adultera. Per indagare sulle reali motivazioni di questo crimine, il saggio parte dalla ricerca di tratti simili nella personalità di queste figure femminili, che però appaiono molto diverse fra loro. L’attenzione degli storici si sposta allora sul ruolo politico e sociale delle tre dame e qui c’è un punto in comune: il loro potere. Tutte possono gestire le disponibilità economiche della signoria per attività ben definite, quali

musicalmente parlando. Qui prevale anche il tono piú intimistico, caratterizzato dall’utilizzo di voci e cordofoni (liuto, arpa, clavicembalo). Insieme a brani anonimi, spiccano quelli di autori celebri, come Marchetto Cara, attivo alla corte di Mantova, con lo splendido Chi me darà piú pace, o come Señora de hermosura dello spagnolo Juan Del Encina e l’affascinante Io son quel doloroso e tristo amante di Andrea Antico, tutti compositori di corte attivi tra XV e XVI secolo. Nella terza sezione, Della Festa, il brio e il tono festoso delle musiche proposte ci avvicinano a elementi stilistici della musica popolare, rielaborati in un contesto aulico. Basti pensare alla Piva di Joan Ambrosio Dalza, caratterizzata dall’uso della ghironda. Altre

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l’amministrazione dei palazzi, la beneficienza e le spese di rappresentanza. I mariti, in caso di assenza, preferiscono delegare a loro i poteri, anziché a fratelli e zii, per ribadire la discendenza dinastica della signoria ed evitare colpi di Stato. I ruoli dei coniugi

in questi matrimoni appaiono ben definiti come in un’impresa di successo. Sappiamo però che Beatrice interviene col giovane marito dandogli molti suggerimenti su come gestire il potere; Agnese riprende anche in pubblico Francesco per l’alleanza che ha suggellato con Gian Galeazzo Visconti, l’assassino di suo padre Bernabò; Parisina appare indifferente al maturo Niccolò, rifugiandosi a leggere Tristano nel suo camerino. L’aura che avvolge le tre dame dà loro l’ebrezza di una voglia di libertà, che sfocia in un desiderio d’amore

partiture toccano toni piú goliardici, come l’anonimo Baco, baco, santo Idio, o Chi la castra, la porcella, anche questo di Marchetto Cara.

Dal ballo alla fede La penultima sezione, Della Danza, offre un assaggio di un’altra delle grandi espressioni artistiche legate alla corte e sulla quale si redigono i primi trattati proprio nel XV secolo. Tra questi, Domenico da Piacenza, coreuta attivo presso gli Estensi di Ferrara, del quale vengono proposte due danze, Gioioso e Giloxia. La sezione conclusiva, Della Fede, non poteva non essere dedicata al contesto liturgico, che occupa un ruolo altrettanto importante nella vita di corte. Qui ascoltiamo un Kyrie di Guillaume Du Fay, che nel XV secolo prestò servizio presso la

che quei matrimoni di facciata non possono soddisfare. Per questo motivo li tradiscono. I mariti preferiscono affrontare il pubblico ludibrio, prendendo la decisione di condannarle a morte per la rottura di quel «contratto» e ribadire, con la pena capitale, il proprio potere, mettendo cosí in salvo la signoria. La capillare ricerca svolta dagli autori del volume, anche in assenza di fonti dirette, permette una ricostruzione verosimile dei fatti e lo stile quasi da indagine risulta coinvolgente per il lettore. Corrado Occhipinti Confalonieri

corte papale, presso i Malatesta e infine alla corte dei Savoia. Vi sono quindi pezzi di Antoine Brumel, altro celebre contrappuntista fiammingo, e di Marchetto Cara, del quale viene proposto un Salve Regina. L’Anonima Frottolisti, la cui direzione artistica è affidata a Massimiliano Dragoni e Luca Piccioni, affronta con grande maestria e competenze filologiche il poliedrico universo della musica del XV secolo, offrendo soluzioni vocali-strumentali brillanti, che ricreano al meglio i contesti musicali evocati. Davvero riuscite le rielaborazioni di alcuni brani, cosí come l’interpretazione dei 12 componenti, tra strumentisti e cantanti, perfettamente calati nelle sonorità di questo repertorio. Franco Bruni

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